GREORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO – 2° Corso di esercizi spirituali (2)

IL MAGISTERO IMPEDITO

2° corso di ESERCIZI SPIRITUALI (2)

Nostra conversatio in cœlis est

[G. SIRI: Esercizi spirituali, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1962] –

2. Il fine della vita

Facciamo la meditazione sul fine perché è la meditazione fondamentale degli Esercizi Spirituali. Vi accorgerete che il primo passo per far sì che conversatio nostra in cœlis sit è quello di portare l’idea del fine della nostra vita ad agitare tutte le nostre azioni. È il primo passo, e bisogna farlo bene. Ecco quindi la trama della meditazione e il raccordo di essa al tema generale degli Esercizi Spirituali. Il fine della nostra vita è Dio. Noi dobbiamo ritornare a Lui e portare con noi tutto quanto Egli ci ha dato; ma dobbiamo riportare tutto con il reddito che Egli giustamente ci richiede. Dobbiamo ritornare a Dio. Che il tempo scorra, ve ne siete accorti. È vero che fino ai 20 anni scorre come l’acqua di certi fiumi che non si sa se vadano avanti o indietro. Scorre a un altro modo dopo i 20 anni; allora il fiume, sì, è ancora in pianura, ma a guardare l’acqua, ci si accorge che cammina. Scorre a un altro modo dopo i 30, e allora si ha l’impressione dell’acqua allorché incontra i piloni dei ponti. L’avete mai notato? Fa i baffi l’acqua, allora. E così anche lo scorrere del tempo nella vita degli uomini: a un certo momento entra in cateratta, salta. Che noi dobbiamo ritornare a Dio, lo sappiamo tutti, e l’argomento non ha bisogno di essere troppo rimenato; ma dobbiamo tornare a Dio con tutto quello che Egli ci ha dato. Ci ha dato la vita e, nella vita, ci ha dato il tempo, che è l’articolazione della vita. Il che vuol dire che il tempo bisogna riportarglielo tutto. Non c’è una frazione di tempo che noi possiamo legittimamente abbandonare giù per le scarpate delle strade, siano esse poco o molto rilevate. Ci ha dato l’intelligenza che dobbiamo far funzionare a un certo modo. Ci ha dato la volontà, facoltà motiva. Insomma, dobbiamo tornare a Dio con tutto; non possiamo ritornare a Dio disarticolati, monchi, con una gamba sola, con un occhio solo. Materialmente potrebbe anche essere così, ma spiritualmente non possiamo ritornare a Dio diversi da come Lui ci ha fatti. Ma non basta riportargli quello che Lui ci ha dato. Dobbiamo riportarlo a Lui col reddito, ossia coi frutti. Voi sapete che frutto è qualunque atto buono, qualunque atto che non sia cattivo, perché per gli uomini svegli non si danno atti praticamente indifferenti. Ecco che cosa vuol dire fine. È questo il primo punto della nostra meditazione. Bisognava richiamare questi elementi senza dei quali non si poteva costruire un discorso. Ora avviciniamoci bene a quello che c’è di profondo nel raccordo con il tema generale. Il fine agisce tanto quanto è presente. – Ecco il secondo punto della meditazione. Il fine è l’ultima cosa che si raggiunge, d’accordo, ma la contemplazione di esso è quella dalla quale si deve partire. Se non si parte da quella, allora si vagola, manca la costruzione, manca il legamento delle pietre nell’edificio, manca l’architettura, manca la bellezza. E manca la gioia. Dio ci ha forniti di un dispositivo che ci avverte automaticamente di quando noi siamo veramente a posto. E il dispositivo è il funzionare in noi della gioia, pacata e costante anche nel dolore. La gioia pacata e costante che non è il divertimento, che non è la varietà, che non è il sussulto clamoroso che copre altri disturbi. No, quando essa c’è, è segno che siamo per la strada giusta. La gioia serena, pacata, costante, imperturbabile è un cielo che si stende sopra di noi. Ebbene tutto questo può esserci a un patto: che il fine sia presente. Quando il fine della nostra vita — Dio, il nostro ritorno a Lui, la pace eterna, la vera vita — è reso presente, allora c’è uno stimolo per tutte le azioni, c’è un talismano con il quale si cambia volto a tutto ciò che in questo mondo è brutto, col quale si riduce a espressione splendida tutto quanto in questo mondo è deforme. E allora tutto diventa piacevole, non perché si debbano cercare le cose piacevoli, siamo sulla via della croce, ma di fatto è così e ringraziamone Iddio. – Ma credete voi, ed eccoci al secondo punto, che la presenza del fine consista semplicemente e puramente nel fatto di averlo in testa? Credete che basti dire: Io dovrò ritornare a Dio, devo riportare a Dio tutto quello che mi ha dato, per di più debbo riportargli il reddito, come Lui stesso ha detto nella parabola dei talenti? Vi credete che sia solo questo? Eh, no! Qui arriviamo a qualcosa di un po’ più difficile. Perché la presenza del fine sia quella che deve essere nell’anima nostra, bisogna avere un’idea della sua trascendenza. Quando si parla di Dio e delle cose divine, le nostre idee sono puramente e semplicemente analogiche. L’analogia è il concetto più grande che sia a nostra disposizione per intendere e, dove si può, capire la teologia. Le nostre idee sono analogiche. Cosa vuol dire questo? Vuol dire che le nostre rappresentazioni delle cose di Dio in parte sono aderenti a quello che rappresentano e in parte no. Per la parte in cui non sono aderenti, le nostre idee, che sono tutte analogiche, non è che siano false, le possiamo rendere vere, ma sono inadeguate. Le capacità nostre, finite, limitate come sono, non riescono a estendersi tanto quanto le cose eterne. Rimangono lì, senza vita e senza fiato, non possono andare oltre! Notate che tutte le rappresentazioni che noi ci facciamo delle cose divine sono soggette alla legge dell’analogia. Come facciamo allora a far sì che le nostre idee analogiche rimangano vere, cioè che per quella parte in cui non si adeguano all’oggetto che rappresentano evitino di essere false? Ricordando che tutto quello che è bello e buono è in Dio, e che tutto quello che è difetto non è in Dio, e sapendo che tutto quello che noi rappresentiamo di Dio va riportato all’infinito; sapendolo, anche se questa operazione non può essere eseguita, perché la operazione dell’infinito noi non possiamo eseguirla. Ma sappiamo che esiste, e la affermiamo, e allora le nostre idee intorno a Dio diventano vere. Rimangono analogiche, ma sono vere! E allora si può soffiare dentro ai nostri desideri e ingigantirli e prendere tutte quelle cose che sono velleità e dare loro la caratteristica delle volontà. Si può prendere tutto quello che fu desiderio di tutti i tempi e di ogni luogo e di ogni anima che visse sulla terra, e dire che tutto va al di là, perché le rappresentazioni nostre sono soltanto analogiche. E quello che io avrò, e quello che troverò in Dio va al di là della mia stessa capacità di pensare. E questa capacità di pensare non la esaurirò mai, perché tutti gli elementi che mi verranno in mente saranno semplicemente simbolici, cioè pedane di lancio per gettarmi verso l’infinito. Il fine deve essere presente così: come se accanto alla tua affermazione sì levasse un’ombra che dicesse: ma tu non vedi, tu non sai. Ecco che cosa significa la presenza del fine nella nostra vita. – E veniamo al terzo punto della meditazione. Dobbiamo finalizzare la nostra vita. Vi accorgerete più tardi che cosa significhi finalizzare; quale impegno costituisca, quale luce ci dia questa parola quando venga bene analizzata, come ci presenti straordinariamente chiaro il prospetto della nostra vita, di quello che la nostra vita deve essere. Cosa vuol dire finalizzare la vita? Vuol dire usare tutti quegli espedienti tattici, quell’arte che è un complesso di regole, perché il fine della nostra vita sia sempre presente e porti come un tocco d’arte a tutte le cose banali che noi facciamo ogni giorno. Come si fa a sensibilizzare la nostra vita nel fine? Voi direte: anzitutto pensare molto al fine della nostra vita. Voi certamente non penserete che ciò consista nel dire dalla mattina alla sera a noi stessi: Ehi, attento al fine! Di questo passo non si vivrebbe più. È chiaro che la finalizzazione deve avvenire in altra forma, più umana, più fattibile, che non porti con sé il problema di salire a ogni istante un gradino più alto della nostra statura. E allora da che cosa è data la finalizzazione della nostra vita? È data da questo: tappezzare i muri nostri di quel che riguarda Iddio. Vedete, entrando, io guardavo la facciata della vostra chiesa e leggevo alcune lapidi: « Et Verbum caro factum est…. et habitavit in nobis » ; « I Magi trovarono Gesù con Maria sua Madre e l’adorarono ». Che dappertutto, come avete fatto qui, ci siano immagini sacre, ci siano parole sacre: accettatele, abbracciatele; sono strumenti di finalizzazione della vita. La preghiera dell’offerta, che certamente voi fate al mattino e alla sera, è strumento di finalizzazione della vita. La preghiera, tutta la preghiera è strumento di finalizzazione. Ma c’è un punto: la ricerca dell’intenzione attuale. Voi sapete che cos’è l’intenzione: l’intenzione è la ragione per cui si fa una cosa, è il motivo della cosa. Allora lo sforzo per finalizzare la nostra esistenza è quello di vivere a occhi aperti, cioè di acquistare l’abitudine di sapere perché si fa questo, perché si fa quest’altro, anche nelle cose più banali. Bisogna che noi tendiamo a eliminare le azioni incolori, cioè quelle delle quali non si vede perché si fanno. Perché ora sto scambiando quattro parole con questa persona? Perché debbo essere cortese. Perché continuo a parlare? Perché ne ho bisogno; mi accorgo che se non parlo un po’, si rabbuia qualche cosa nella mia vita. Questo vuol dire concretare la intenzione. Si comprende allora l’opera di purificazione, di rettitudine dell’intenzione. Si arriva a finalizzare veramente la vita. La rettitudine dell’intenzione si verifica quando si vuole il fine naturale di ciò che si compie e non se ne vuole uno che sia innaturale, disonesto o contorto. Allora si finalizza veramente la nostra esistenza. Lo vedete allora il quadro della vita? Entrarvi sempre con la testa, con la intelligenza, non con la testa fra le nuvole. Ricordate, ho premesso che conversatio in cœlis non significa vagare per aria e finire nella luna, ma è invece l’unico modo per tenere i piedi sulla terra. Ve ne state accorgendo, no, che cosa vuol dire finalizzare la nostra vita, e cioè rendere presente ad essa l’ultimo fine sicché spiritualmente sempre ci si trasferisca là, a quel livello, e si raggiunga quell’altezza? Vuol dire vivere ogni momento impiegando tutto il tempo con la coscienza di quello che si fa, con la visione della strada che si deve percorrere, piccola o grande che sia — non parlo soltanto delle grandi strade maestre, parlo anche dei viottoli — con la visione del valore che hanno le più piccole azioni accanto alle più grandi. Ora io celebrerò la S. Messa e voi vi assisterete; dopo andremo a fare colazione. Anche quella bisogna finalizzare e, finalizzandola, diventa una divina liturgia. Ho notato che vi siete messi a cantare prima di mangiare. Bene, anche gli antichi monaci facevano così e cantavano, come cantano ancora, una lunga preghiera in modo che anche il prendere cibo sia una cosa bella, e mentre è una comunione con le creature che si prestano a noi per diventare qualcosa di noi, sia anche una comunione con le ragioni più alte che presiedono alle creature. Una sorta di comunione nell’ordine, perché anche la cosa più materiale che noi possiamo fare, come è quella di mangiare, sia una cosa bella e sia pure questa nella rettitudine e nell’ordine. – Perché, quando avviciniamo persone che sono sante, abbiamo l’impressione che tutto sia nell’ordine, che tutto sia bello, che tutto sia come il velluto, pur sentendo sotto il velluto un’anima di ferro? Noi abbiamo quell’impressione perché queste anime hanno finalizzato tutta la loro vita, non hanno lasciato che qualche cosa scioperasse, che divagasse, che prendesse direzioni senza criterio, senza ordine e legamento alcuno. È la bellezza della vita, questa! Finalizzarla! Anche perché, finalizzandola, si sa dove si va. E tutto diviene grande, così, tutto. Perché dove arriva la luce, arriva Iddio che l’ha creata; dove giungono le creature, giunge Iddio che le ha create; dove arriva l’energia, il movimento, arriva Iddio che l’ha creato. Non ci sono cose piccole, cose che siano in sé stesse, ontologicamente parlando, brutte. Ora finalizziamo bene quello che stiamo per fare, la S. Messa. Tornerà Gesù Cristo, e tornerà nella forma più vicina, più accessibile a noi, più grande e più amorevole, che è quella del SS. Sacramento, presente sull’altare. Ma ricordiamoci che in altra forma, certo minore, Cristo ritorna dovunque e sempre se la nostra conversazione è nei cieli.