CONOSCERE SAN PAOLO (37)

LIBRO QUARTO

CAPO II.

La morte redentrice.

I. SACRIFICIO DELLA CROCE.

1. SACRIFICIO VERO. — 2. SACRIFICIO CHE REALIZZA LE FIGURE ANTICHE. — 3. SACRIFICIO VOLONTARIO.

[F. Pratt: La teologia di San Paolo – Parte SECONDA,  S.E.I. Ed. – Torino, 1927 – impr.]

1. Il sacrificio, rito religioso nel quale si distrugge un oggetto sensibile in onore della divinità, differisce dalle offerte immateriali — preghiere, voti, astinenze volontarie — e dalle semplici offerte di ordine materiale — doni in denaro e in natura, monumenti votivi, erezione di templi e di oratori, consacrazione di persone — insomma differisce da tutte le offerte destinate a perpetuare le cerimonie liturgiche ed a mantenere il servizio permanente della divinità. Non occorre specificare di più, con far entrare nella definizione del sacrificio la maniera di offrirlo e lo scopo immediato che si propongono gli adoratori, o il modo di operazione, reale o supposto, del rito sacro; poiché una definizione troppo esplicita ha il doppio inconveniente di non convenire a qualunque sacrificio e di poggiare sopra teorie contestabili. Il sacrificio è una preghiera in azione. Con esso l’uomo si propone sempre di piacere alla divinità e di rendersela propizia; ma i mezzi che s’impiegano, variano all’infinito secondo le concezioni grossolane, ingenue, elevate o sublimi che il fedele si fa delle sue divinità e secondo i sentimenti di gratitudine, di omaggio, di rispetto, d’impetrazione, di pentimento o di obbedienza che vuole esprimere. Quando la materia del sacrificio è un essere vivente, la morte di questo è una condizione ordinaria: di qui le due specie di sacrifici, i sacrifici cruenti e i sacrifici incruenti. Cosi nell’un caso come nell’altro, la distruzione parziale della vittima basta al simbolismo, e la distruzione totale non è richiesta che per certi sacrifici speciali. Dopo che una porzione dell’oggetto sacrificato è stata consumata col fuoco, sparsa in libazione o distrutta in altra maniera qualunque, il resto serve generalmente al banchetto sacro, complemento naturale del sacrificio, oppure è riservato all’uso esclusivo dei sacerdoti che sono i rappresentanti titolati della divinità. – Che la morte del Cristo sia per San Paolo un sacrificio è cosa tanto evidente, che non si capisce come si sia potuta negare senza una teoria preconcetta e senza un partito preso dommatico. Prima di venire alle testimonianze formali, è bene che si passino in rivista i testi, meno espliciti, se considerati isolatamente, ma la cui impressione complessiva tende irresistibilmente a evocare l’idea di sacrificio e di sacrificio cruento.

Tutti gli effetti della redenzione sono riferiti al sangue del Cristo.

Noi abbiamo la redenzione per mezzo del suo sangue (Ephes. I, 7) … Dio ha pacificato per mezzo del sangue della sua croce quello che è in terra e quello che è in cielo (Col. I, 20)… Voi (Gentili) che una volta eravate lontani, siete stati avvicinati nel sangue del Cristo (Ephes. II, 13)… Giustificati ora nel suo sangue, quanto più per mezzo di lui saremo salvi dall’ira (Rom. V, 9). Bere il calice consacrato è comunicare col sangue del Cristo (I Cor. X, 16), e chi si comunica indegnamente profana il sangue del Cristo, perché il calice consacrato contiene il sangue che suggella la nuova alleanza (I Cor. XI, 27).

Quando gli effetti della redenzione non sono attribuiti direttamente al suo sangue, sono attribuiti alla morte violenta del Cristo: « Il Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture (I Cor. XV, 3)… Egli è morto per tutti, affinché coloro che vivono non vivano più per se stessi ma per colui che è morto ed è risuscitato per loro (II Cor. V, 15)… Quando eravamo ancora peccatori, il Cristo morì per noi. Se, essendo nemici, noi fummo riconciliati con Dio con la morte di suo Figlio, quanto più, essendo riconciliati, saremo salvi nella sua vita (Rom. V, 8-10)! Ora Egli ci ha riconciliati nel suo corpo di carne, con la morte, per costituirci santi, senza macchia e senza rimprovero (Col. I, 22)… Gesù Cristo è morto per noi affinché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo con lui (I Tess. V, 10) ». Gesù Cristo « diede se stesso come redenzione per tutti » (I Tim. II, 6); noi siamo « stati riscattati col prezzo » del suo sangue (I Cor. VI, 20; VII, 23); « Egli ci ha riscattati dalla maledizione della Legge diventando per noi maledizione (Gal. III, 13); sul legno della croce; se la giustizia, frutto della redenzione, ci venisse da altra parte, « il Cristo sarebbe morto invano (Gal. II, 21) ». Tutto questo converge verso una medesima idea di sacrificio cruento.

2. La dottrina apostolica del Cristo vittima era, per i contemporanei di san Paolo, una strana novità. Gli Ebrei conoscevano bensì il valore delle prove accettate con rassegnazione, l’efficacia delle preghiere del giusto, la reversibilità dei meriti e dei demeriti, ma non ammisero mai, se non con estrema ripugnanza, l’idea di un Messia sofferente, e per lo meno non attribuirono mai a tali patimenti nessun valore espiatorio. I dolori del Messia (Marc. XIII, ; Matth. XXIV) non sono i patimenti personali del Messia, ma le calamità della terra e le commozioni cosmiche che devono precedere la sua venuta; sono in certo modo i dolori di parto del mondo che sta per produrre il Messia. Alla questione: gli Ebrei di allora credevano che il Messia fosse destinato a soffrire, e che i suoi patimenti avessero l’effetto di espiare i peccati degli uomini? — bisogna rispondere risolutamente che no. – Né il Targum né il Talmud di Gerusalemme non fanno la più piccola allusione ad un Messia sofferente. Assai curioso è il Targum di Jonathan sul capo LIII d’Isaia riconosciuto come messianico: « Tutto ciò che si dice dei patimenti del servo è violentemente stornato dal senso naturale e applicato al popolo (Condamin, Le Livre d’Isaie, 1905) ». Se il Talmud di Babilonia, compilazione del quinto secolo, fa tre volte menzione dei patimenti del Messia, si tratta dei patimenti che il Messia sostiene prima di cominciare il suo compito di Salvatore. Baymond Martin credeva di aver trovato un testo in cui si tratta di un Messia sofferente (Pugio fidei, fol. 675); ma è assai probabile che il dotto domenicano si servisse di un esemplare interpolato da mano cristiana, perché il suo famoso passo non si trova più in nessun manoscritto. Non si ha neppure nessun fondamento per sostenere che gli Ebrei avessero sdoppiato il loro Messia primitivamente unico, per attribuire al Messia figlio di Giuseppe i patimenti espiatori, mentre avrebbero riservato al Messia figlio di Giuda la gloria ed i trionfi. « Il Messia figlio di Giuseppe non è un Messia sofferente, ma è un Messia ucciso (Lagrange: Le Messianisme chez les Juifs, 1909) ». – In san Paolo invece l’immolazione di Gesù Cristo è espressamente assimilata al sacrificio dell’agnello pasquale, al sacrificio che suggella la nuova alleanza, al sacrificio del gran giorno dell’espiazione e ad un altro sacrificio che forse è l’olocausto, ma che non è possibile determinare con certezza.

Agnello pasquale. — San Paolo scrive ai Corinzi: « Non sapete che un poco di lievito fa levare tutta la pasta? Allontanate il lievito antico per essere una pasta nuova, come siete azimi; poiché il Cristo, nostra pasqua, è stato immolato (I Cor. V, 7). » Due circostanze davano a tali raccomandazioni maggiore attualità e opportunità. Si era verso la Pasqua, e, in quella circostanza, i Cristiani della gentilità celebravano la solennità commemorativa della loro salvezza, non già alla maniera degli Ebrei, con l’astenersi dal pane lievitato, ma in una maniera spirituale, facendo se stessi azimi, cioè puri da ogni corruzione morale. Ora la presenza di un incestuoso in mezzo ai Cristiani di Corinto era una macchia per tutta la Chiesa. L’Apostolo ordina l’espulsione dello scandaloso: « Scacciate da voi il perverso »; poiché egli finirebbe col corrompervi, come un pugno di lievito basta a far fermentare una massa di pasta fresca. Se per se stessa questa esortazione conviene a tutti i tempi, essa fa un’impressione ben maggiore nel giorno anniversario del sacrificio della croce: « Il nostro agnello pasquale, il Cristo, è stato immolato; perciò facciamo festa non col vecchio lievito, lievito della malizia, ma con gli azimi della purezza ». Quello che è la Pasqua per gli Ebrei, è per noi il Cristo immolato; è il sacrificio della nostra liberazione, è il banchetto sacro che mette termine alla nostra schiavitù; così i tipi hanno avuto il loro compimento, le ombre sono svanite, e noi siamo oramai nella regione delle realtà spirituali.

Sacrificio della nuova alleanza. — Il Cristo, vero agnello pasquale, è la vittima che suggella la nuova alleanza. Nel momento di conchiudere l’antica alleanza, Mosè offrì olocausti e vittime di pace, sparse ai piedi dell’altare una parte del sangue e col rimanente asperse il popolo dicendo: « Ecco il sangue dell’alleanza che Jehovah ha concluso con voi ». Imbevuti del racconto dall’Esodo, i testimoni dell’ultima Cena non si poterono ingannare quando intesero Gesù che diceva loro, nel presentare il calice eucaristico: « Questo calice è il sangue della nuova alleanza », oppure: Questo calice è la nuova alleanza (conchiusa) nel mio sangue (I Cor. XI, 25) ». Sia che alludesse direttamente al sacrificio dell’altare, sia che alludesse a quello del Calvario, per la questione presente poco importa; poiché in fondo il sacrificio è il medesimo, e le parole del Salvatore non avrebbero senso, se il sangue dell’eucaristia non fosse il medesimo sangue della croce. Ora questo sangue divino ha la virtù di sigillare l’alleanza predetta da Geremia, come il sangue delle vittime offerte da Mosè sigillò l’alleanza del Sinai: con questa doppia differenza, che esso purifica le anime toccando i corpi e che produce le disposizioni sante invece di confermarle solamente.

Sacrifizio di espiazione o di propiziazione. — Il sacrificio per il peccato era il più caratteristico e il più comune del rituale mosaico. L’Epistola agli Ebrei ne sviluppa la tipologia. A questa categoria di sacrifici si riferiscono sovente due passi di san Paolo, i quali appartengono ad un ordine d’idee affatto diverso (II Cor. V, 21); in cambio però l’Epistola ai Romani paragona la morte di Gesù al sacrificio dell’Espiazione, che era per eccellenza il sacrificio per il peccato: « Dio ha esposto il Cristo Gesù come propiziazione, per mezzo della fede, nel suo sangue (Rom. III, 25) ». Qualunque sia il senso preciso di ἱλαστήριον (= ilasterion), vittima di propiziazione, strumento di propiziazione, oppure propiziatorio — da questo testo risulta invincibilmente che il sacrificio della croce è per i Cristiani, e in modo più eccellente, quello che era per gli Ebrei il giorno solenne del Kippourim, il sacrificio annuale dell’espiazione o della propiziazione: « È impossibile, dice Sanday, nel suo Commentario, eliminare da questo passo la doppia idea di un sacrificio e di un sacrificio di propiziazione ». Anche Godet scrive: « L’idea del sacrificio, se non si trova nella stessa parola, risulta dall’espressione per mezzo del mio sangue: infatti un mezzo di propiziazione nel quale c’entra il sangue, che altro è, se non un sacrificio! ». – La voce discorde di teologi eterodossi, desiderosi di eludere un testo che li incomoda, non è più molto ascoltata.

Sacrifizio in generale. — « Il Cristo vi ha amati e si è dato per noi come oblazione e come vittima (immolata) a Dio, in odore di soavità (Ephes. V, 2) ». Qui si vede un’allusione chiara alla parola del Salmista: « Tu non hai gradito la vittima e l’offerta… né hai domandato l’olocausto e il sacrificio ». Ma se è certo che Paolo parla del Cristo che si offre in sacrificio, la natura del sacrificio non è qui indicata.

Delle quattro parole del passo citato — la vittima (pacifica), l’oblazione, l’olocausto, il sacrificio per il peccato — che corrispondono alle quattro specie principali del sacrificio mosaico, l’Apostolo ritiene soltanto le due prime che, in realtà, comprendono le altre due. È dunque probabile che, avendo in vista l’idea generale del sacrificio di cui Gesù Cristo è il perfetto antitipo, voglia intendere per « vittima » (θυσία = tusia) l’immolazione cruenta del Calvario, e per « oblazione » (προσφορά = prosfora) l’offerta spontanea ed amorevole che il Cristo fa di se stesso a suo Padre. Qui dunque si troverebbero riunite le due nozioni di sacerdote e di vittima e, come nell’Epistola agli Ebrei, riunite nella persona di Gesù (Hebr. IX, 22-26).

3. Certi teologi credono di aver fatto abbastanza quando hanno dimostrato che la morte del Cristo è un vero sacrificio che realizza il senso tipico dei sacrifici dell’antica Legge, e si affrettano a conchiudere che l’immolazione della croce opera alla maniera delle vittime del rituale ebraico, benché in modo più eccellente, in quanto che l’antitipo ecclissa la figura, e la realtà scancella i simboli. Qui vi è un difetto di logica e di metodo. Sul Calvario Gesù Cristo non è solamente vittima ma è anche sacrificatore, ed è tale per volere di suo Padre. Queste tre cose — l’immolazione passiva del Cristo, l’oblazione che fa di se stesso e l’ordine di Dio — formano un atto unico del quale si possono bensì distinguere gli elementi, ma senza avere il diritto di separarli. Vediamo in che modo san Paolo presenta questi due nuovi aspetti del dramma della redenzione. Gesù Cristo si abbandonò volontariamente alla morte; vi si abbandonò per salvarci; vi si abbandonò per amore: così si riassume la sua parte attiva nella tragedia del Calvario. San Paolo non si stanca di ripeterlo: « Il Cristo vi ha amati e si è dato per noi, oblazione e ostia (gradita) a Dio, in odore di soavità (Ephes. V, 2) ». — Il Cristo ha amato la Chiesa e si è dato per lei, per santificarla (Ephes. V, 25). — Io vivo nella fede del Figlio di Dio, il quale mi ha amato ed ha dato se stesso per me (Gal. II, 20). — Gesù Cristo ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci al secolo presente dominato dal male, secondo la volontà di Dio nostro Padre (Gal. I, 4). — Il mediatore tra Dio e gli uomini, il Cristo Gesù uomo, ha dato se stesso (come) redenzione per tutti (I Tim. II, 6) ». Questi testi non hanno bisogno di commento. Paolo incorona l’opera ricordandoci la manifestazione gloriosa « del nostro gran Dio e Salvatore, il Cristo Gesù, il quale ha dato se stesso per noi, per liberarci da ogni iniquità (Tit. II, 13) ». In questo insegnamento tratto a bella posta da tutti i gruppi di lettere, bisogna rilevare due cose: anzitutto se Gesù Cristo si offre per noi in sacrificio per salvarci, è perché Egli solo ha la capacità di farlo, poiché Egli è il mediatore unico tra Dio e gli uomini; in secondo luogo Egli lo fa per disposizione e con la sanzione di suo Padre che gliene ha dato il mandato formale. Quest’ultima considerazione ci porta alla seconda serie di testi nei quali appare l’iniziativa divina. Col fatto stesso che Dio mandava suo Piglio a salvare il mondo, lo istituiva suo plenipotenziario. Gesù Cristo non aveva più che da consultare la volontà di suo Padre e conformarvisi. Per questo l’offerta che Egli fa di se stesso, per ordine di Dio, ha il valore di un atto di obbedienza, atto meritorio che da una parte annulla e ripara la disobbedienza di Adamo (Rom. V, 19), dall’altra vale al suo autore una ricompensa: il Cristo Gesù « si abbassò col farsi obbediente fino alla morte e fino alla morte di croce; perciò Dio lo ha esaltato (Filip. II, 8-9) ». In virtù dell’ordine divino ricevuto ed eseguito dal Figlio, l’Apostolo può dire indifferentemente o che il Cristo si offre come vittima per la nostra salvezza, o che il Padre suo lo dà per noi alla morte: « Egli non risparmiò suo proprio Figlio ma lo diede per tutti noi. — Dio fa risplendere il suo amore per noi in questo, che quando ancora eravamo peccatori, il Cristo morì per noi (Rom. VIII, 32; V, 8) ». L’idea dominante di questi passi è che l’ordine intimato dal Padre e l’obbedienza del Figlio sono, da parte del Figlio e del Padre, una uguale e somma manifestazione di amore. Occorre appena ricordare che san Giovanni segue molto da vicino la dottrina di san Paolo (Giov. III, 16). – Il redattore dell’Epistola agli Ebrei le si avvicina più ancora per il pensiero, se non per l’espressione. La pittura del sacerdote vittima, consacrato dal Padre, corrisponde esattamente e in ciascuna linea al quadro che abbiamo tracciato più sopra, seguendo il Dottore dei Gentili. Il nome di sacerdote qui manca, è vero, ma l’atto sacerdotale non vi è meno chiaramente descritto. Da tutte e due le parti vi è una vittima la quale non è altri che Gesù Cristo; è la vittima stessa che si offre, si abbandona, si dà; e il Padre interviene non soltanto per accettare l’offerta ma per comandarla. Da tutte e due le parti l’oblazione costituisce un atto di obbedienza, e di obbedienza amorevole; da tutte e due le parti il sacrificio ha lo scopo e l’effetto di espiare, di scancellare, di distruggere il peccato, di rendere Dio propizio, di aprire agli uomini l’entrata del cielo. Ciò posto, la menzione del sacerdote, nell’Epistola agli Ebrei, non ha più che un’importanza secondaria, un’importanza più sotto l’aspetto della terminologia speciale, che non per la sostanza stessa della dottrina. – La morte redentrice è da parte del Cristo un atto di obbedienza; e questo atto è meritorio in rapporto con l’umanità che ne viene salvata, in rapporto col Padre che rende propizio, in rapporto col Figlio che a quello deve la sua esaltazione. Perciò si conchiude direttamente e per via di analisi, che tale atto era libero, poiché senza la libertà non si concepisce il merito; così pure che esso rispondeva ad un precetto divino, poiché non vi può essere obbedienza dove non vi è un comando. San Giovanni afferma espressamente queste due conclusioni, ma neppure lui non c’insegna il mezzo di conciliarle con l’impeccabilità di Gesù Cristo. Questa è una questione puramente scolastica la cui soluzione non si deve cercare negli autori ispirati. Dico puramente scolastica, perché essa dipende da cinque o sei problemi discussi dalla Scuola e che la rivelazione da sola non può risolvere. – Da che cosa deriva l’impeccabilità di Gesù Cristo? Deriva dalla visione beatifica o dall’unione ipostatica? E in questo secondo caso, deriva essa dal fatto stesso dell’unione, oppure da una provvidenza speciale dovuta all’Uomo-Dio? Suppone forse la libertà, non già il potere di fare l’atto cattivo, il che è evidentemente una imperfezione, ma il potere di sospendere l’atto buono o indifferente, e questo in sensu composito, come si dice, di tutte le condizioni richieste per agire? La libertà che hanno i beati del cielo, di scegliere tra diversi beni — eccetto quello essenziale della beatitudine — basterebbe a rendere meritori i loro atti, se Dio, con una disposizione positiva, non avesse fissato con la morte il termine del merito? In quale misura Gesù era ad un tempo viator e comprehensor? E in quali limiti gli effetti naturali della visione beatifica erano in Lui neutralizzati per lasciargli compiere la parte sua di redentore? L’ordine divino al quale Egli si sottomise morendo, era un precetto propriamente detto, oppure la manifestazione di un semplice desiderio? E se era un precetto, era esso assoluto o condizionale, subordinato all’accettazione del Verbo incarnato, oppure anteriore a qualunque accettazione? E finalmente riguardava esso il fatto medesimo della morte, oppure le circostanze della passione? Per parte nostra noi crediamo che il Cristo non solamente fu senza peccato, ma assolutamente impeccabile, e questo in virtù dell’unione ipostatica; che l’ordine di morire fu un vero precetto, dal momento in cui il Verbo fatto carne ebbe accettata la morte per la nostra salvezza; che tale accettazione del Cristo fu veramente libera e perciò meritoria; che essa bastava a costituire il Cristo obbediente fino alla morte, ancorché non gli fosse più stato possibile il ritrattarla; ma noi ci guardiamo bene dall’attribuire a san Paolo tutte queste deduzioni teologiche.

CONOSCERE LO SPIRITO SANTO (XVII)

IL TRATTATO DELLO SPIRITO SANTO 

Mons. J. J. Gaume:  

[vers. Ital. A. Carraresi, vol. I, Tip. Ed. Ciardi, Firenze, 1887; impr.]

CAPITOLO XVI.

(fine del precedente.)

La potenza dei demoni regolata dalla sapienza divina — Essi puniscono e tentano — Puniscono: prove, l’Egitto, Saul, Acabbo — Celebre confessione del demonio — Tentano: prove. Giobbe, il Nostro Signore, san Paolo, i Padri del deserto, tutti gli uomini — Perché  tutti non resistono ad essi — Imprudenza e castigo di quelli che si pongono in relazione col demonio — Egli tenta per odio al Verbo incarnato.

Abbiamo detto della potenza dei demoni. Iddio seguendo i consigli della sua infinita sapienza la mantiene in giusti limiti. [S. Aug. Enarr, in ps. c. 12]. Da ciò resulta che i principi della Città del male non possono nuocere all’uomo ed alle creature in tutta la misura del loro odio. [S. Th., III p.7 q. XXXIX, art. 1, ad 3]. Non solamente Iddio ristringe la loro potenza ma la dirige; imperocché, come tutto ciò che esiste, questa potenza deve, al modo suo, contribuire alla gloria del Creatore. Su questo punto essenziale nel governo della Città del bene, noi ricordiamo l’esatto insegnamento della teologia cattolica: « Gli Angeli buoni, dice san Tommaso, fanno conoscere ai demoni molte cose risguardanti i divini segreti. Queste rivelazioni hanno luogo tutte le volte che Dio esige dai demoni certe cose, sia per castigare i malvagi, ossia per esercitare i buoni. Cosi nell’ordine sociale, gli assessori del giudice notificano agli esecutori la sentenza chegli ha recata. Affinché dunque non vi sia nulla d’inutile nell’ordine generale, neppure nei demoni, Iddio gli ha fatti concorrere alla sua gloria, dando loro la missione di punire il delitto, ovvero lasciando loro la libertà di tentare la virtù. » [I p., q. CIX, art. 4, ad 1]. E altrove: « Gli angeli cattivi assalgono l’uomo in due modi. Il primo, eccitandolo a peccare: in questo senso essi non sono mandati da Dio ma qualche volta, secondo i consigli della sua giustizia, Iddio gli lascia fare. Il secondo, castigandolo e provandolo: in questo senso sono essi mandati da Dio. [Id., q. LXIV, art. 4. Corp.]. Fa d’uopo notare, che a cagione del suo odio inveterato contro il Verbo, il demonio è naturalmente tentatore dell’uomo: quest’è il suo uffizio. Di più bisogna osservare Ch’egli tenta anche quando è mandato per punire. Infatti, altra è la sua intenzione nel punire, altra quella di Dio che lo manda. Egli punisce per odio e per gelosia; mentre Dio lo manda per vendicare i diritti della sua giustizia. [Viguier, p. 91]. Occorre infine notare che questa delegazione o permissione divina, nulla aggiunge alla naturale potenza dei demoni: essa non fa altro che aizzarla e determinarne L’uso. Per intromissione dei buoni Angeli, Iddio indica loro i luoghi e le persone alle quali debbono far sentire la loro terribile presenza; il genere ed il limite dei castighi e delle prove di cui sono i ministri. Chi oserebbe alzarsi contro questa condotta della Sapienza infinita? Dio non è egli libero di fare, per mezzo di chi vuole e come vuole, rendere al malvagio, secondo le sue opere, e guadagnare al giusto la corona che Egli gli riserba? Di questa duplice funzione di punire e di provare, data ai cattivi angeli, le prove abbondano nella Scrittura e nella storia della Chiesa. Eccone alcune.

Funzione di castigare. — È per mezzo del demonio che furono colpiti di morte i primogeniti degli Egizi, in punizione della caparbietà di questo popolo e del suo re di resistere agli ordini di Dio. Oh abisso della giustizia divina! I demoni avevano, con i loro prestigi, potentemente contribuito all’ostinazione dell’Egitto, e gli stessi demoni vengono incaricati di punirli! Fors’anche questi spiriti maligni avevano il presentimento di ciò che doveva avvenire. Tant’è vero, che in tutto ciò che essi fanno, non hanno che uno scopo, il male dell’uomo. [Viguier, p. 92]. – Nel primo libro dei Re si legge: « Uno spirito maligno venuto dalla parte del Signore tormentava Saul. Questo spirito, mandato da Dio, s’impadroniva di Saul, e Saul profetizzava. » [I Reg., XVI, 14; XVIII, 10]. Secondo i commentatori, lo spirito maligno di cui si trattava, era un demone mandato da Dio per punire Saul. « Il primo re d’Israele, dice Teodoreto, essendosi volontariamente sottratto all’impero dello Spirito Santo, fu dato in preda alla tirannia di un demone.3 » [In hunc loc. q. XXXVIII]. – San Gregorio aggiunge: « Lo stesso spirito è chiamato a un tempo spirito del Signore e spirito maligno: del Signore, per notare rinvestitura di una giusta potenza: maligno, a cagione del desiderio di una ingiusta tirannia. » [Moral, lib. II, c. VI]. Questo sacro testo ha ciò di prezioso che non prova soltanto la delegazione divina data al demonio, ma altresì che ne determina l’uso. Saul non perde né l’udito, né la parola, né la salute, come certi ossessi del Vangelo: altra è la punizione regolata dal Giudice Supremo. Usurpando le funzioni sacerdotali, questo principe aveva voluto diventare il veggente d’Israele, e soffre delle violenti agitazioni, vede dei fantasmi, cade nell’eccesso del furore; e in questo stato, il quale manifesta sempre la presenza dello spirito del disordine, egli proferisce degli oracoli incoerenti [Theodor., ubi supra]. – Apprendiamo dallo stesso libro, che uno spirito della menzogna è mandato dai Signore per ingannare Acabbo re d’Israele, in punizione della sua ipocrisia: [III Reg., c. ultim.]; per dirla in brevi parole; l’ultimo dei sacri libri annunziando ciò che deve accadere alla fine dei tempi, ci mostra quattro demoni incaricati di punire la terra, il mare e i loro abitanti; ricevendo però, secondo gli interpreti, la loro missione da Dio mediante il ministero degli Angeli buoni. [Apoc., VIII, et Corn. a Lap. in hunc loc.]. – Nei secoli intermedi tra l’Antico Testamento e la consumazione del mondo, la missione di punire delegata al demonio non è stata mai sospesa. Come prova tra mille, citiamo soltanto un fatto celebre nella storia. Noi diciamo celebre, poiché ha dato luogo a quattro concili. A tempo di Carlomagno facevasi una solenne traslazione delle reliquie dei santi martiri Pietro e Marcellino. Numerosi miracoli si operavano sul loro passaggio; ma ve ne fu uno che meravigliò più di tutti gli altri. Una giovine ossessa fu condotta a uno dei sacerdoti perché l’esorcizzasse. Il sacerdote le parlò latino: qual fu la meraviglia della moltitudine, allorché si udì la giovine rispondere nella stessa lingua! Il sacerdote rimasto stupito egli stesso le domandò: « Dove hai tu imparato il latino? di qual paese sei tu? chi è la tua famiglia? » Il demonio rispose per bocca della giovine: « Io sono uno dei satelliti di satana, e sono stato per lungo tempo portinaio dell’inferno. Ma da qualche anno in qua abbiamo ricevuto ordine io e undici miei compagni di devastare il regno dei Franchi. Siamo noi che abbiamo fatto mancare le raccolte di grano e di vino, e attaccate tutte le altre produzioni della terra che servono di nutrimento all’uomo. Siamo noi che abbiamo fatto morire i bestiami con diversi generi di epidemie, e gli stessi uomini con la peste e con altre malattie contagiose. In breve, siamo stati noi che abbiamo fatto cadere sopra di essi tutte le calamità e tutti i mali, di cui soffrono da parecchi anni. » – « Perché, gli domandò il sacerdote, vi è stata data una simile potestà? » Il demonio rispose: «A cagione della malizia di questo popolo e delle iniquità di ogni genere di quelli che lo governano. Essi amano i doni e non la giustizia; essi temono l’uomo più di Dio. Essi opprimono i poveri, rimangono sordi alle grida delle vedove e degli orfani e vendono la giustizia. Oltre a questi delitti particolari ai superiori, havvene una infinità d’altri che sono comuni a tutti; lo spergiuro, la ubriachezza, l’adulterio e l’omicidio. Ecco perché noi abbiamo ricevuto ordine di render loro secondo le loro opere. » — Esci, gli disse il sacerdote minacciandolo, esci da questa creatura. — « Io ne uscirò, rispose, non in forza dei tuoi ordini, ma in forza della potenza dei martiri che non mi permettono di rimanervi più a lungo. » A queste parole egli gettò con violenza la giovine per terra, e ve la tenne per qualche tempo come addormentata. Appena che egli si fu ritirato, l’ossessa uscendo come da un sonno letargo,- per la potestà del Nostro Signore, e per i meriti dei beati martiri, si alzò sana e salva alla presenza di tutti gli spettatori. Una volta che si fu partito il demonio, non le fu più possibile parlare in latino; il che mostrò chiaramente che non era lei medesima che parlasse quella lingua, ma il demonio che la parlava per bocca sua. [Labbe, Collect., concil., t. VII, col. 1668]. – La fama di questo avvenimento, compiuto alla presenza di una moltitudine di testimoni, si sparse da per tutto, né tardò molto a giungere alle orecchie dell’imperatore. Carlo Magno era un grand’uomo, ma non a modo dei pigmei dei nostri dì, i quali usurpano questo titolo. Carlo Magno era un grand’uomo, perché era un gran Cristiano. Come tale ei credeva, con la Chiesa e con tutto quanto il genere umano, ai demoni ed alla loro potenza sull’uomo e sulle creature. Alla vista del prodigio e dei flagelli che desolavano l’impero, non disse come i piccoli grand’uomini d’oggidì : « Levate i bruci, fognate, insolfate e basta. » Carlo Magno, fatto comporre un antidoto col veleno stesso del serpente, convoca i Vescovi. D’accordo con essi egli ordina in tutto l’impero tre giorni di digiuno e di pubbliche preghiere. Poiché non bastasse guarire il male, ma bisogna prevenirne il ritorno, il magno Imperatore fa radunare quattro concili in diversi punti delle Gallie, allo scopo di provvedere alla correzione degli abusi ed alla riforma dei costumi. Questi concili furono tenuti a Parigi, a Magonza, a Lione ed a Tolosa: sapienti regolamenti furono in essi stabiliti, e dopo questa fognatura cattolica i flagelli cessarono e ritornò l’abbondanza.1 [Labbe, Collect. concil., t. VII, col. 1668].

Funzione di prova. — Tutti conoscono la storia di Giobbe. Questa storia scritta sotto l’ispirazione di Dio medesimo, è la prova eternamente perentoria della potenza data al demonio per provare il giusto. Giobbe, grande fra tutti i principi dell’Oriente, padre di una bella e numerosa famiglia, pacifico possessore di immense ricchezze, patriarca della fede d’Abramo, eccita la gelosia di satana. Il re della Città del male domanda il permesso di sottoporlo alla tentazione. Iddio che conosceva l’anima del suo servo, ne accorda il permesso. Egli sapeva che questo puro oro gettato nel crogiuolo del dolore, ne uscirebbe più lucido; che il trionfo della debolezza umana aiutata dalla grazia diverrebbe la confusione di satana, l’ammirazione dei secoli ed il modello di tutte le vittime dell’avversità. Come la missione dipunire, così questa del provare è determinata dalla sapienza divina: il sacro testo ce ne fornisce ancora la prova. « Il Signore dice a satana: Tutto ciò che Giobbe possiede ti è dato; ma tu non distenderai la mano sopra la sua persona. » [Job. I, 12]. Noi vediamo difatti, in questo primo assalto, tutte le possessioni di Giobbe crudelmente colpite e cosi interamente distrutte, che il sant’uomo può pronunziare con verità la parola di sublime rassegnazione, che da quattro mila anni in qua è ripetuta da tutti gli echi del mondo: « Io sono uscito dal seno di mia madre e nudo vi rientrerò. Il Signore mi aveva dato, il Signore mi ha tolto: come è piaciuto al Signore così è stato fatto: che il nome del Signore sia benedetto. » [Id 21]. Giobbe è spogliato di tutto; ma gli resta la salute. Malgrado la potenza del suo odio, il demonio non ha potuto far cadere un capello dal capo della sua vittima. Furibondo nel vedere che la sua malizia non fa che dare alla virtù di Giobbe uno splendore che lo confonde, satana ritorna a fare nuove prove: chiede a Dio il permesso di colpire Giobbe nella sua carne. Appena ottenutolo, il patriarca vien ricoperto da capo a piedi di un’ulcera della peggiore specie. Con la stessa rassegnazione ch’egli ricevette la perdita dei suoi beni, cosi accoglie Giobbe la perdita della sua salute. A fine di inacerbirlo e di strappargli se non delle bestemmie, almeno un rammarico, satana si serve contro l’eroico patriarca dell’ultimo degli esseri cari, che gli rimane. La moglie di Giobbe, complice dello spirito malvagio, gli dice: « Maledici quegli che ti colpisce. » Giobbe risponde benedicendolo. [Job., II, 7-10]. Fatto ciò, la prova è finita: satana resta confuso, e il giusto trionfa. Divenuto l’ammirazione degli Angeli e degli uomini, Giobbe non ha da attendere altro che le divine benedizioni, come ricompensa della sua vittoria. Senza parlare della tentazione di Nostro Signore nel deserto, troviamo nel Nuovo Testamento una simile missione data al demonio riguardo a san Paolo. Udiamo il grande apostolo: « E affinché la grandezza delle rivelazioni non mi levi in altura mi è stato dato lo stimolo della mia carne, un angelo di satana che mi schiaffeggi. Sopra di che tre volte pregai il Signore che da me fosse tolto. E dissemi: A te basta la mia grazia, perché nell’infermità la virtù si fa perfetta. » [II Cor., XII, 7, 8]. Notiamolo bene: san Paolo non dice: « Un angelo di satana mi schiaffeggia, ma dice: un angelo di satana mi è stato dato, datus est mihi, per schiaffeggiarmi. » Quest’angelo, aggiungono i commentatori, non è altro che un demonio, al quale Dio permise di tentare la castità del grande Apostolo, come aveva permesso allo stesso satana di tentare la pazienza di Giobbe. [Corn. a Lap. ibid.]. Ma perché san Paolo nomina schiaffi e non semplicemente tentazioni gli assalti che gli fa subire l’angelo di satana? Eccolo: in quanto ai Santi le tentazioni della carne producono l’effetto di uno schiaffo applicato sulla guancia. Esse non gli feriscono, ma fanno loro salire sul volto il rossore e sentire dei salutari dolori di umiliazione. Quanto più è grande la santità tanto più l’umiltà dev’essere profonda: quanto magnus es humilias in omnibus. Che cosa di più conforme ai savi consigli di Dio sopra i suoi eletti che Paolo, elevato al terzo cielo, fosse di continuo richiamato al sentimento della sua debolezza e del suo nulla per mezzo del demonio il più adatto ad umiliarlo! « Questo consigliere, dice san Girolamo, fu dato a Paolo per reprimere in lui l’orgoglio; a similitudine di quelli che trionfavano, ai quali in sul carro stava dietro uno schiavo incaricato di ripetergli di continuo: Ricordati che tu sei uomo. » Ep., xxv, ad Paulam, de obitu Blœsillœ].Paolo ha compreso la paterna intenzione del suo divino Maestro. Come atleta generoso, egli cinge le sue reni al combattimento, e assicurato che la prova tornerà a vergogna del suo nemico esclama: « Ebbene, volentieri mi glorierò negli oltraggi, nelle mie umiliazioni, nelle mie infermità: e quanto più la lotta sarà viva, tanto più grande sarà lo splendore della forza divina che combatte in me. » [II Cor., XII, 9]. Infatti l’Oriente e l’Occidente, Gerusalemme, Atene, Roma vedono passare l’instancabile atleta. Malgrado il suo importuno consigliere, procede di vittoria in vittoria sino al giorno in cui, il demonio per sempre confuso, Paolo intuona l’inno della liberazione e dell’eterno trionfo: « Ho combàttuto nel buon arringo, ho terminata la mia corsa, ho conservata la fede, del resto è serbata a me la corona della giustizia. » [II Tm., IV, 7]. – La Storia della Chiesa offre mille splendidi esempi della medesima delegazione o permissione divina data ai demoni. Per non ne citare che un solo, che vi ha egli di più famoso di quello delle tentazioni di sant’Antonio e dei Padri del deserto? Volete voi veder brillare di tutto il suo splendore una di queste belle armonie, che riscontrasi ad ogni istante nei consigli di Dio? fa d’uopo riferirsi alle circostanze di queste lotte formidabili. Eravamo a mezzo al terzo secolo. La guerra contro la Chiesa stava per diventare la mischia più spaventosa; diciamo meglio, la più orribile carneficina che il mondo avesse ancor visto. Da un capo all’altro dell’impero, risuonava il grido tremendo: I Cristiani al leone, Christianos ad leonem! e migliaia di giovanetti, vergini timide, deboli donne andavano a scendere negli anfiteatri ed a lottare corpo a corpo con le fiere e con i ministri di satana, più feroci delle bestie. A un dato momento Iddio fa partire per le sante montagne della Tebaide novelli Mosè. « Tutti quanti consacrati al servizio di Dio, dice Origene, e prosciolti dalle cure della vita, sono incaricati di combattere pei loro fratelli, mediante la preghiera, il digiuno, la castità, e mediante la pratica sublime di tutte le virtù. » [HomiL, XXIV in Num.]. Non sarà mai missione meglio adempiuta. Dal fondo della loro solitudine, Paolo, Antonio, Pacomio ed i loro numerosi discepoli alzarono verso il cielo le loro mani supplichevoli, e la voce della virtù, disarmando Diocleziano e Massimiano, otterrà la vittoria ai martiri, e Costantino alla Chiesa. satana vede ciò che si prepara e rugge. Iddio gli permette di scatenarsi contro gli intercessori, la cui potente preghiera va a scuotere i suoi altari e distruggere il suo impero. La lotta sarà una lotta a tutto sangue: all’oggetto di rendere più splendida la gloria del trionfo e la vergogna della sconfitta, essa avrà luogo nella stessa fortezza del demonio e contro i suoi più terribili satelliti. Qual’era questa fortezza ? Erano i deserti dell’alto Egitto, specie di galera, dove la giustizia di Dio teneva rilegati i più terribili di questi spiriti maligni. Questa non è solamente una vana supposizione, ma un fatto. Non leggiamo noi nella storia di Tobia che l’Arcangelo Raffaello, avendo preso il demonio che tormentava Sara, lo confinò nei deserti dell’alto Egitto dove l’incatenó?2 [Tob., VIII,[. Iddio, padrone sovrano di tutte le creature, non può Egli prescrivere ai demoni certi confini al loro potere, tanto in rapporto ai tempi ed ai luoghi quanto in rapporto alle persone ed alle cose? Il Nostro Signore nel Vangelo fa allusione alle stesse solitudini. Parlando di un demonio cacciato dall’anima, dice che se ne va in paesi aridi e senz’acqua, dove egli recluta sette altri demoni più maligni di lui. [Luc., XI, 24]. Quali sono questi paesi infamati? Gli interpreti più dotti rispondono senza esitare: « Sono gli orridi deserti situati nella parte orientale dell’Egitto, tante vaste solitudini ricoperte di ardenti sabbie, dove non piove mai, dove il Nilo cessa d’essere navigabile, dove lo spaventevole rumore delle cateratte riempie l’anima di spavento, e dove formicolano i serpenti e le bestie velenose.  » [Hier. in Ezech., c. xxx; Com. A Lap., in Tob. VIII, 3; Serarius, quoestiuncul., ad lib. Tob.; Scriptur. Sacr., cursus complet, t. XII, 647, etc.]. È là, in quei luoghi orridi, di cui Satana faceva come la sua cittadella, che la divina Sapienza condusse i Paoli, gli Antoni, i Pacomi, i Pafnuzi ed i loro valorosi compagni. É su quel campo di battaglia che avranno da sostenere contro i demoni frequenti e giganteschi combattimenti. La storia gli ha descritti, e la vera filosofia ne dà la ragione. Queste lotte accanite di lucifero contro gli eroi della Tebaide, simili a quelle che intraprese contro Giobbe e contro il grande Apostolo, tornarono a sua vergogna ed a gloria dei Santi. Ascoltiamo lo storico illustre e l’amico di sant’Antonio: «Guardatelo, esclama sant’Atanasio, quel fiero dragone sospeso all’amo della croce; trascinato da un capestro come una bestia da soma: con un monile al collo e le labbra forate da un anello come uno schiavo fuggitivo! Lo vedete, così orgoglioso, sotto ai nudi piedi di Antodio come un passero che non ardisce fare un movimento né sostenere il suo sguardo! 3 » [Vit. S. Ant.]. – La potenza di provare, che i demoni manifestano qualche volta con assalti straordinari, come quelli che si leggono, è abituale presso di loro. Notte e giorno dalla caduta originale in poi, e su tutti i punti del mondo, essi resercitano rispetto a ciascun figliuolo di Adamo. [S. Th., I p. q. CXIV, art. 1, ad 1]. Ne risulta che il Re della Città del male a cui obbediscono, è la cagione indiretta di tutti i delitti; imperocché è desso che spingendo il primo uomo al peccato, ci ha resi eredi dell’inclinazione a tutte le iniquità. [S. Th. I p. q. CXIX, art. 3, c.]. Aggiungasi che il peccato al quale ci porta con maggior furore e che gli cagiona la più grande gioia, a motivo della sua aderenza, è il peccato dell’impurità. Pur nonostante, la Sapienza di Dio determina l’esercizio di questa terribile potenza, e la sua bontà ne circoscrive i limiti. Essi sono tali ai quali possiamo resister sempre. « Iddio è fedele, dice san Paolo; egli non permetterà mai che siate tentati al di là delle vostre forze; egli vi farà pure trar profitto dalla tentazione, a fine di assicurare la vostra perseveranza. 4 [I Cor. X, 13].  Per rendere più palpabile la consolante verità insegnata dall’Apostolo, sant’Efrem adopera parecchi paragoni: « Se i mulattieri, dice egli, hanno abbastanza buon senso ed equità di non caricare le loro bestie da soma di pesi che non possono portare; con più ragione Iddio non permetterà che l’uomo sia in balia a tentazioni superiori alle sue forze. » E altresi: « Se il vasellaio conosce il grado di cottura che occorre ai suoi vasi in modo che non gli lasci nel forno se non il tempo necessario per dare ad ognuno quella solidità e bellezza che gli si conviene; a maggior ragione Iddio non ci lascerà nel fuoco della tentazione che quel tempo necessario per purificarci ed abbellirci. Ottenuto che sia l’effetto, cessa la tentazione. [Tractatus de patientia]. Disgraziatamente non tutti fanno uso della grazia di resistenza che è loro data. Essendo deboli, sono presuntuosi, e perciò essi soccombono ai colpi del nemico; e ad una sconfitta tosto ne precede una seconda. satana gli inebria del suo veleno, paralizza le sue forze, e sconvolge talmente il loro senso morale, che vengono ad amare le loro catene. Invece di spaventarli, il tiranno che s’impossessa di loro, non è altro che un essere immaginario, o un possente agente la cui intimità può in molti incontri procurare seri vantaggi. Per questo l’uomo aumenta a suo riguardo l’impero dei demoni, e questa potenza data volontariamente, è la più temibile, di tutte. Per rispetto alla libertà dell’uomo Iddio permette che succeda cosi, salvo a chieder conto all’uomo dell’uso della sua libertà. Di qui nascono le pratiche occulte mediante le quali l’uomo si pone in relazione diretta e immediata con gli spiriti delle tenebre. Noi nomineremo fra le altre i patti espliciti o impliciti, il potere di gettare dei malefìci e fare apparire il demonio, ottenerne i responsi e dei prestigi, o i mezzi di soddisfare le passioni. Come abbiamo visto, tutte queste cose sono antiche quanto il mondo e cosi volgari presso i popoli infedeli, quanto il culto medesimo degl’idoli. Sebbene siano meno generali tra i Cristiani, pure esse esistono sotto forme sempre antiche e sempre nuove. Per negarle bisognerebbe stracciare la storia. [Vedi la descrizione particolare della maggior parte delle pratiche demoniache nella costit. di Sisto V. Cœli et terrœ creator, etc., 1586 ; Ferraris, art. Superstitio.]. – Di qui ancora le leggi, giustamente severe, portate contro quelli che si danno a simili pratiche. Noi leggiamo nel Levitico: « Che l’uomo o la donna in cui sarà uno spirito pitonico o di divinazione, sia posto a morte senza misericordia » [XX, 27]. E nel Deuteronomio : « Che nessuno si trovi in Israello che purifichi il suo figliuolo o la sua figliuola facendogli passare per il fuoco, ovvero chi «consulti gli indovini e che dia retta ai sogni ed agli auguri, che non vi sia né fattucchiere né incantatore, nè consultore di serpenti e di maghi, né alcuno che domandi la verità ai morti. » [XVIII, 10, 11, 12].Le antiche legislazioni cristiane non sono meno rigorose. La degradazione, l’infamia, la prigione temporaria o perpetua, le pene corporali, la morte e la scomunica maggiore sono i castighi che esse infliggono agli addetti del demonio. [Vedi Ferraris ubi sopra.]. Agli occhi di ogni uomo imparziale, l’enormità del delitto in sé medesimo e nelle sue conseguenze tanto religiose che sociali, come l’esempio del medesimo Iddio, giustificano altamente i nostri avi. Che la nostra epoca neghi le pratiche demoniache e abolisca le pene che le proibiscono, ciò prova semplicemente la sua stupidità e l’influenza troppo reale che il demonio ha ripreso nel mondo. Ancor qui, se noi riepiloghiamo le operazioni dei principi della Città del male, vediamo che i loro artifizi infiniti, come i loro implacabili furori, tendono allo stesso scopo, cioè alla distruzione del Verbo incarnato, in sé medesimo e nell’uomo, fratello suo. Verità spaventosa e preziosa nel tempo stesso: spaventosa, perché ci rivela la natura e l’enormità incomprensibile dell’odio satanico; preziosa, perché ci colpisce di un timore salutare, e, riconducendo il male all’unità, ci mostra il vero punto del combattimento, e ci dà l’idea più alta di noi stessi.