CONOSCERE SAN PAOLO (15)

CONOSCERE SAN PAOLO (15)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

L’Epistola ai Romani (5)

TERZA SEZIONE.

Lo scandalo della riprovazione degli Ebrei

I. DIO FEDELE E GIUSTO NEL RESPINGERE GLI EBREI.

1. DIO LIBERO NELLA SUA ELEZIONE. — 2. DIO PADRONE DELLE SUE MISERICORDIE. — 3. L’ESEGESI DEI PADRI .

  1. Al momento in cui lo sviluppo dommatico sembra esaurito, e quando non si aspetta più altro che la conclusione morale, un’obbiezione angosciosa, implacabile, sorge dinanzi all’Apostolo il quale non può fare a meno di affrontarla. Ora si è avverato che la gran massa degli Ebrei, respingendo gli inviti del Cristo, rendendo vani gli sforzi dei Dodici e dello stesso Paolo, resterà fuori della Chiesa alla quale affluiscono i Gentili da tutte le parti. Triste contrasto ed enigma inesplicabile! Non è forse il rovesciamento di tutte le profezie e una smentita data dai fatti alle promesse divine? Cento volte Jehovah si era proclamato il liberatore e il salvatore del suo popolo; il Messia doveva essere prima di tutto il redentore degli Ebrei; Sion era stata predestinata ad essere il centro della teocrazia messianica e come tratto di unione delle nazioni infedeli. Ora non soltanto i Gentili entrano nella Chiesa senza passare dalla Sinagoga, ma vi entrano quasi soli, mentre gli Ebrei, i cui diritti sembravano preponderanti, se non esclusivi, se ne trovano sbanditi. – Questo è il problema il cui esame occupa tre capitoli (IX – XI) di una oscurità proverbiale. La difficoltà dipende principalmente da due cause: l’abitudine ben nota di San Paolo, d’isolare i diversi aspetti di una questione, di mantenervi per qualche tempo, di scrutarne i nascondigli più tenebrosi, senza curarsi dei possibili malintesi, delle probabili interpretazioni sbagliate; poi la molteplicità straordinaria di citazioni bibliche che ogni momento spezzano il filo del ragionamento, gettano nella mente del lettore delle idee parzialmente estranee alla tesi e formano un agglomeramento eterogeneo di testi dei quali è impossibile analizzare il senso letterale prima di fissarne l’applicazione particolare. Non vi è forse in tutta la Scrittura una pagina in cui sarebbe più pericoloso il perdere di vista il pensiero principale, esagerando il valore dei particolari. – Vediamo anzitutto qual è il punto preciso della questione. Non è: « Perché quell’uomo è predestinato alla gloria, e quell’altro è votato alla dannazione? » e neppure: « Perché, in pratica, quell’uomo è salvato, e quell’altro è riprovato? » e neppure: « Perché quell’uomo, a preferenza di quell’altro, è chiamato alla fede? ». L’oggetto di Paolo è concreto, e il suo scopo è affatto pratico: egli vuole togliere lo scandalo cagionato dall’infedeltà degli Ebrei e rispondere a questa domanda: « Perché il popolo di Dio, erede nato delle benedizioni e delle promesse messianiche, ha ripudiato il Vangelo, unico mezzo di salute? ». Daremo un’idea generale della risposta dicendo che, dei tre capitoli dedicati alla questione, il primo rivendica la giustizia e la fedeltà di Dio, senza entrare nel vivo del problema, il secondo ne spiega il perché da parte dell’uomo, il terzo ne espone la ragione provvidenziale. – Paolo non contesta nessuna delle prerogative degli Ebrei (Rom. IX, 4-5): Israeliti, essi portano il nome di uno dei più grandi favoriti di Jehovah; essi godono dell’adozione divina e sono, collettivamente e come nazione, fìgli di Dio; a loro fu manifestata la, gloria (la shekinah), quello splendore soprannaturale da cui venivano alle volte circondati l’arca e il tempio; a loro appartengono le alleanze conchiuse in circostanze solenni tra Dio e il popolo; a loro appartiene la Thora, stabilita dagli angeli e promulgata da Mosè in mezzo ai fulmini del Sinai; a loro il culto legittimo, il solo degno di Dio e a Lui gradito; a loro le promesse messianiche non interrotte da Abramo fino all’ultimo dei profeti; a loro i patriarchi, l’egida e l’orgoglio d’Israele; finalmente e soprattutto a loro appartiene il Cristo, nato dalla stirpe di Abramo e del sangue di Davide secondo la carne, Egli che è nel tempo stesso il Dio re dei secoli. Questi nove privilegi, così gloriosi per le memorie che destano, così strazianti per i contrasti che suggeriscono, cadono l’uno dopo l’altro come il grido di un dolore sempre più vivo dal cuore straziato dell’Apostolo il quale vorrebbe essere anatema per i suoi fratelli e pagare la loro salvezza con la sua vita e con la sua felicità (ivi, IX, 3). E questa lunga enumerazione, così sapientemente graduata e di un effetto così vivo, rende più intenso l’interesse della questione e più sconcertante il paradosso della riprovazione degli Ebrei. I Gentili che non sono nulla per Dio, e per i quali Dio non è nulla, sono chiamati alla fede, mentre la nazione santa, la stirpe sacerdotale, la casa di Jehovah ne è esclusa! Gli eredi naturali sono diseredati, i figli legittimi sono soppiantati da intrusi, le promesse sembrano dimenticate, i patti violati. Come conciliare tutto questo con la fedeltà e con la giustizia divina? – Parliamo prima della fedeltà. Le pretese degli Ebrei poggiano sopra un malinteso. Se invocano il nome di Abramo come un  palladio che li deve mettere al riparo da ogni male, se considerano il sangue d’Israele come una specie di sacramento che li deve salvare ex opere operato, senza tener conto delle disposizioni personali, il loro errore è completo e inescusabile: sarebbe un non voler riconoscere il senso e il valore delle promesse divine. Vi è l’Israele secondo la carne e l’Israele di Dio: al primo non è dovuto nulla, al secondo appartiene la promessa. Così pure vi è la posterità carnale di Abramo, e vi è la sua posterità spirituale, e solo quest’ultima è erede delle benedizioni: « Non tutti quelli che portano il nome d’Israele, sono Israele, né tutti quelli che discendono da Abramo, sono figli di Abramo (IX, 6-7) ». La storia sacra ci dà la prova evidente di questo doppio fatto. Tra tutti i figli di Abramo, Isacco solo, il figlio del miracolo, il figlio della promessa, eredita le benedizioni promesse alla stirpe di Abramo: Ismaele e il figlio di Cethura non ne partecipano. – La quahtà di fìgb di Abramo non è dunque nulla per se stessa, ed è un abuso il prevalersene contro Dio il quale rimane sempre il padrone dei suoi doni e dei suoi benefizi. Lo stesso avviene precisamente anche per Isacco: una nuova scelta viene fatta tra i suoi figli, e qui risplende ancora di più la libertà di Dio. Le stesse circostanze esterne accompagnano la concezione e la nascita dei due gemelli; la sola differenza sarebbe a favore di Esaù che vede la luce per il primo. Intanto la scelta di Dio, indipendente da qualunque diritto acquisito e da qualunque considerazione umana, cade su Giacobbe. “Prima che fossero nati, prima che avessero fatto qualsiasi cosa di bene o di male, affinché il proponimento di Dio che è secondo l’elezione sussistesse, (proponimento derivante) non dalle opere ma da Colui che chiama, fu detto alla loro madre: « Il maggiore servirà il minore », come pure è stato scritto: « Ho amato Giacobbe ed ho odiato Esaù ».” (IX, 11-13) Poiché l’Apostolo appoggia d suo ragionamento su testi scritturali, bisogna credere che egli li prenda nel loro senso vero. Risaliamo dunque ai due passi citati. A Rebecca fu detto: Vi sono nel tuo seno due nazioni, “E due popoli usciranno dal tuo ventre; Uno dei popoli dominerà l’altro E il maggiore servirà al minore” (Gen. XXV, 25). Né nel testo della Genesi né in quello di Malachia, fusi insieme in una citazione composta, non si tratta di Esaù e di Giacobbe come individui; essi appariscono come capi di razza e sono identificati, secondo l’usanza biblica, con la loro discendenza che forma con loro una persona morale. Esaù personalmente non fu mai servo di Giacobbe; ma lo fu soltanto come padre degli Idumei e nella persona dei suoi figli. Nel testo di Malachia si tratta ancora più chiaramente di popoli e non di individui: “Io vi ho amati, dice il Signore. Voi dite: Come ci avete amati? — Esaù non è forse d fratello di Giacobbe? dice il Signore. Eppure io ho amato Giacobbe ed ho odiato Esaù ed ho votato le sue montagne alla devastazione e la sua eredità alle fiere del deserto. Se Edom viene a dire: « Noi siamo perduti, ma rialzeremo le nostre rovine », essi costruiranno, dice il Signore, ed io distruggerò; e saranno chiamati la nazione empia, il popolo contro il quale Jehovah è sdegnato per sempre” (Mal. I, 1-3). Questi due testi hanno di comune il fatto che considerano delle nazioni e non delle persone, ma del resto i due casi sono totalmente diversi. Prima dell’esistenza dei due popoli e prima della nascita dei loro capi, indipendentemente da qualunque merito acquisito e previsto, Dio destina agli Israebti, a preferenza degli Idumei, l’onore e il favore di essere i depositari delle speranze messianiche e gli eredi delle promesse. Da tale privilegio derivavano prerogative temporali e spirituali, con una provvidenza speciale che garantiva Israele dalla rovina. Gli Israeliti non erano per questo assicurati della salute né preservati dall’infedeltà; ma avevano, come membri del popolo eletto, un vantaggio sopra gli altri popoli, vantaggio che essi dovevano non ai loro meriti o a quelli dei loro padri, ma alla libera scelta di Dio. Malachia ci porta ad un altro punto della storia dei due popoli fratelli. Sdegnato contro i loro peccati, Dio suscita Nabucodònosor per punirli insieme; ma mentre Edom, come nazione, scompare dalla faccia della terra, Israele, come nazione, sopravvive. È questo un favore puramente temporale? In se stesso, sì; ma non nella sua causa e nei suoi effetti. Israele è risparmiato, benché colpevole, perché porta la speranza del mondo. Insomma, prima di qualunque merito, Dio sceglie Israele e lo preferisce a Edom; dopo il loro comune demerito, perdona a Israele a preferenza di Edom. Dunque, mancando ogni merito, Dio è padrone di preferire chi vuole; a parità di demeriti, Dio è padrone delle sue misericordie. Questi testi, come si vede, provano bensì l’indipendenza di Dio nella distribuzione delle sue grazie, ma non hanno nessuna relazione diretta con la salute eterna di Giacobbe o con la dannazione di Esaù, e meno ancora con la predestinazione o con la riprovazione dell’uomo in generale. Se certi teologi ci avessero riflettuto, si sarebbero risparmiate molte teorie inutili. La fedeltà di Dio è così rivendicata: Dio ha mantenuto tutti i suoi impegni nella misura in cui b aveva presi, perché non si era mai legato con gli individui in particolare. Egli detestò Edom perché Edom era degno di odio; predilesse Israele e continua ancora ad amarlo, benché Israele sia immeritevole di amore; ma questo non ha impedito che molti Israeliti non avessero parte a quei favori speciali. Dio sarebbe dunque ingiusto con loro? Si vede che il pensiero dell’Apostolo prende una piega diversa: si trattava di nazioni, ed ora, si tratterà di persone.

2. Anche qui, come prima, Dio conserva la sua indipendenza e concede le sue grazie quando vuole e come vuole. L’esempio di Mosè e di Faraone lo mostra sotto due aspetti diversi. Mosè domanda un favore al quale nessun uomo ha diritto, quello cioè di vedere la faccia di Dio; e Dio glielo nega, pure concedendogliene un altro che egli non domandava. Al povero che stende la mano, il ricco fa la limosina che vuole, oppure non ne fa nessuna: la giustizia non lo obbliga a nulla. Nel caso di un favore assolutamente gratuito in cui non può entrare nessun merito antecedente — come nell’esempio molto bene scelto da San Paolo — questa conclusione s’impone per la sua evidenza: Non est volentis neque currentis sed miserentis est Dei. Ma guardiamoci bene dal tradurre con un certo numero di Padri troppo solleciti di salvare la libertà dell’uomo: « Non basta il volere e il correre, ma bisogna che Dio faccia misericordia »; e neppure: « Non giova a nulla il volere e il correre, se Dio non fa misericordia ». La sola traduzione legittima e conforme al contesto è quella che suggerisce Sant’Agostino: « Non serve il volere e il correre, ma tutto dipende dal Dio delle misericordie ». – Una grazia puramente gratuita, come quella che domandava Mosè, non può essere subordinata all’azione dell’uomo né condizionata da questa. L’indurimento di Faraone, in fondo, dimostra la stessa cosa, perché la grazia efficace della conversione è una grazia puramente gratuita. L’indurimento dell’uomo si può considerare come un castigo di Dio il quale ritira a poco a poco il suo aiuto, in punizione delle colpe precedenti: così l’Apostolo ha spiegato l’accecamento dei Pagani in principio della sua lettera. Ma per quanto riguarda Faraone, la Scrittura ci presenta il suo indurimento come un effetto della pazienza e della longanimità di Dio. Dio lo indurisce moltiplicando i miracoli che lo dovrebbero commuovere e, come gli Ebrei contemporanei di Gesù Cristo, lo acceca con la luce. – Origene assai giustamente ha osservato che Faraone incomincia a commuoversi sotto la mano di Dio quando lo colpisce, e ritorna a indurirsi quando sembra che Dio temporeggi. In ogni caso, come notano parecchi Padri seguendo Origene, Dio indurisce soltanto l’uomo che è già duro per colpa sua, e lo indurisce soltanto per un fine degno della sua giustizia e della sua sapienza. Perciò l’indurimento viene attribuito ora all’uomo che ne è il vero autore con le sue volontarie resistenze, ora a Dio che ne è la causa occasionale con la troppa benignità, oppure che lo permette per una giusta vendetta, subordinandolo tuttavia ad un fine più elevato: « Io ti ho suscitato, si dice a Faraone, appunto per mostrare in te la mia potenza e perché il mio nome sia annunziato in tutta la terra ». Siccome la parola greca significa « eccitare » e « suscitare », bisogna prendere il secondo significato, il solo conforme al senso dell’originale, ma conviene lasciare alla particella « per » il suo valore naturale. Vi è da parte di Dio più che un semplice permesso, vi è intenzione e finalità. L’atto di un generale che abbandoni al nemico un esercito ribelle, oppure quello di un medico che non si occupi più di un ammalato recalcitrante, non è un puro permesso: è un castigo o una vendetta. Ricordiamoci però che Dio non può volere direttamente il male, Egli lo permette soltanto per correggere o per volgerlo in bene. I suoi disegni sono impenetrabili: « Egli fa misericordia a chi vuole », poiché non vi è volontà che egli non possa piegare con la sua grazia; « egli indurisce chi vuole », lasciandolo perseverare e ostinarsi nel suo indurimento, per ragioni di cui non ha da rendere conto a nessuno. – “Tu dunque mi dirai: Perché si lagna ancora? poiché chi resiste alla sua volontà? O uomo! chi sei tu dunque, tu che ti costituisci avversario di Dio? Forse che il lavoro dice all’operaio: Perché mi hai fatto così? Il vasaio (che plasma) l’argilla non può fare della stessa massa un vaso di onore e un vaso d’ignominia? E se Dio, volendo mostrare la sua collera e manifestare la sua potenza, ha sopportato con molta longanimità i vasi d’ira disposti per la perdizione; affine di manifestare la ricchezza della sua gloria verso i vasi di misericordia che ha preparati per la gloria (verso) noi che Egli ha chiamato non solo tra gli Ebrei ma anche tra i pagani?…” (Rom. IX, 19-24). – Questa obiezione mira senza dubbio all’aforisma del versetto precedente: « Dunque Dio fa misericordia a chi vuole e indurisce chi vuole ». Essa non è tanto contro il ragionamento dell’Apostolo, quanto contro la condotta di Dio il quale da una parte rimprovera i peccatori e dall’altra tiene in sua mano il cuore degli uomini, come spesso afferma la Scrittura. Essa è assurda, poiché lascia supporre che Dio è l’autore del peccato e che si lagna senza ragione del peccatore: capriccio, arbitrio o inconseguenza. Essa si appoggia sopra l’espressione materiale di un pensiero che trova nel contesto la sua limitazione e il suo commento. La massima: Dio fa misericordia a chi vuole e indurisce chi vuole non è che la morale della storia di Mosè e di Faraone. Dio, nel concedere favori puramente gratuiti, fa misericordia a chi vuole, come fece con Mosè; nella punizione del colpevole al quale sottrae d suo aiuto efficace, oppure lo colma di nuovi favori di cui il peccatore abusa per colpa sua, indurisce chi vuole, come fece con Faraone. L’obiezione dunque non regge: perciò San Paolo non risponde direttamente, ma si accontenta di ripetere la risposta ordinaria degli autori ispirati, in simile occorrenza. – Questo basta per chiudere la bocca ai suoi contradittori. L’uomo non ha mai il diritto d’intentare un processo a Dio, né di chiedergli conto dei suoi atti e dei suoi disegni: la creatura non ha nulla da rimproverare al Creatore, come il lavoro all’operaio che lo ha fatto. È probabile che l’Apostolo non abbia altro di mira: quasi tutti i Padri lo hanno inteso così, e i testi citati non dicono nulla di più. – Il punto preciso del paragone sarà dunque l’atteggiamento che deve avere il lavoro verso l’operaio che lo ha fatto, la creatura verso il suo Creatore. Paolo non dice: « Dio si comporta verso le creature libere, come l’operaio con la materia inerte »; egli così distruggerebbe la sua argomentazione e toglierebbe a Dio ogni diritto di lagnarsi, poiché non si è mai veduto un operaio di buon senso rimproverare l’utensile da lui fabbricato perché non sia migliore. Paolo non dice neppure: « Dio potrebbe comportarsi con l’uomo, come l’artefice con la sua opera », perché rinforzerebbe l’obiezione dell’avversario invece di eliminarla; e poi è manifesto che la condotta dell’operaio non può essere la misura di quella di Dio. Paolo dice: « Ancorché Dio trattasse la sua creatura come il vasaio tratta l’argilla, la creatura non avrebbe diritto di alzare la sua voce contro di Lui », perché l’opera, come tale, non ha nessun diritto contro l’artefice. Se poi si vuole spingere più innanzi la similitudine e vedere nel vasaio il quale forma vasi per diversi usi, l’immagine di Dio che forma a suo talento i cuori e i destini degli uomini, questo si farà a proprio rischio e pericolo, senza la garanzia dell’Apostolo. In ogni caso non bisognerà mai, se non si vuole travisare il pensiero dell’Apostolo, dimenticare le differenze che vi sono tanto da parte dell’operaio quanto da parte del lavoro.

Differenze da parte dell’operaio. L’uomo è capace di capriccio, di arbitrio, di pazzia, d’ingiustizia. Dio non è così e, se può tutto, non può nuda che sia contrario alla sua sapienza. L’uomo, se non ha perduto il buon senso, non si irrita contro l’opera delle sue mani, perché la forma a suo talento, senza cooperazione e senza resistenza da parte dell’opera fatta: invece lo sdegno di Dio si accende con ragione contro d peccatore che rende vari i suoi disegni e non corrisponde alle sue grazie. –

Differenza da parte dell’opera. Una volontà libera non si può assimilare ad una materia inanimata; e Dio non manipola la libertà come il vasaio maneggia la creta. Se si vuole a ogni costo estendere fino a questo punto il paragone, bisognerà almeno osservare che la massa comune da cui il vasaio trae i suoi lavori, è buona o indifferente e non può servire di figura per la massa del genere umano, corrotta dal peccato originale: idea che è del resto affatto estranea al contesto. – L’interpretazione più pericolosa sarebbe quella d’identificare i vasi di onore e di ignominia, con i vasi d’ira e di misericordia. Non vi è nulla che autorizzi questa ipotesi, perché l’espressione è diversa e le condizioni non sono le medesime. I vasi formati dal vasaio per usi vili, non sono affatto oggetto della sua collera; essi sono buoni e utili come i vasi di onore, benché di una bontà e di una utilità minore. D’altra parte i vasi d’ira e di misericordia non sono i vasi destinati, riservati alla collera e alla misericordia. Si tratta del passato e del presente, non già dell’avvenire. In vasi di misericordia sono gli uomini ai quali Dio ha fatto misericordia chiamandoli alla fede; i vasi d’ira sono quelli che meritano, per la loro infedeltà, la giusta ira di Dio. Essi « si sono disposti per la perdizione »; l’atteggiamento di Dio a loro riguardo è di « sopportarli con una longanimità senza limiti », per dare loro la possibilità di pentirsi, benché la giustizia sembri consigliargli una pronta vendetta.

3. Il contrasto di Esaù e di Giacobbe, la storia di Mosè e di Faraone, l’allegoria del vasaio, con le riflessioni che questi racconti suggeriscono all’Apostolo, hanno sempre esercitato la sagacia degli esegeti cattolici. Origene, per quanto se ne può giudicare dalla traduzione infedele di Enfino, se la sbrigava mettendo in bocca ad un avversario fittizio i testi più imbarazzanti del capo IX e supponendo che San Paolo rispondesse a ciascuna obiezione: Dio non voglia! Però, poco soddisfatto di un’esegesi che doveva dopo di lui avere tanta fortuna, riprende a uno a uno i testi e dimostra come essi siano d’accordo col libero arbitrio. Il suo vero pensiero bisogna cercarlo nel libro dei Princìpi, dove la questione è trattata ex professo. L’ardente campione della libertà umana non disconosce affatto la parte della grazia né l’iniziativa di Dio; ma nota molto giustamente, che il dovere dell’interprete è quello di mettere d’accordo i dati apparentemente contradittori. Una serie di ingegnose similitudini serve a spiegare l’indurimento di Faraone: il sole dissecca la terra e fa liquefare la cera, la pioggia qua fa nascere i cardi e là il frumento; così la longanimità di Dio e la manifestazione della sua potenza, che avrebbero dovuto toccare il cuore a Faraone, se fosse stato meglio disposto, non fanno che indurirlo. Fu Origene che inaugurò la formola tanto cara ai Padri greci, che cioè l’opera della salute non dipende unicamente dagli sforzi dell’uomo, ma anche e principalmente dalla misericordia divina. Sotto la penna di lui, il paragone del vasaio perdeva il suo angosciante mistero: erano i vasi d’ira che si disponevano da se stessi alla perdizione. L’ortodossia lo avrebbe potuto seguire fino alla fine, se egli non avesse fatto intervenire i meriti e i demeriti acquisiti in un’esistenza anteriore, per spiegare la. sorte disuguale di Esaù e di Giacobbe. Gli editori cappadoci della Filocalia sopprimono questo passo. San Gerolamo, che in tutto il resto ne segue le orme con una docilità forse eccessiva, qui lo abbandona senza riguardi (Epist. 120 ad Hedibiam). L’influenza esercitata da Origene su San Giovanni Crisostomo non si può negare; ma se il Crisostomo spesso s’ispira da Origene, non lo copia (omelie XVI-XIX su l’Epistola ai Romani). I testi difficili sono, ai suoi occhi, obiezioni presentate da San Paolo stesso per ridurre al silenzio gli Ebrei increduli; essi non contengono ancora la risposta dell’Apostolo, ma la preparano, mostrando con la Scrittura che vi sono misteri dei quali l’uomo non si può dare ragione; ma ancorché li prendesse come vero pensiero di Paolo, non ci sarebbe nessun inconveniente. Per esempio, il testo Non volentis neque currentis sed miserentis est Dei si dovrà intendere nel senso che non basta volere e correre, ma è indispensabile la grazia: « Bisogna volere e correre e mettere la propria fiducia nella bontà divina, e non nelle proprie forze, secondo quelle parole: Non io solo, ma la grazia di Dio con me ». La similitudine del vasaio ha lo scopo di far tacere gli importuni temerari. Spingendo di più l’analogia tra l’operaio e Dio, si verrebbe a finire nell’assurdo: nella sua condotta verso l’uomo, Dio non ha nulla di capriccioso o di arbitrario, perché è sapiente; Egli non può imputare alla sua creatura quello di cui Egli stesso è autore, perché è giusto. Si cita come obiezione la storia di Faraone: ma Faraone fece tutto il possibile per perdersi, mentre Dio non trascurò nulla per emendarlo e si decise finalmente a castigarlo quando lo vide incorreggibile: « Da che cosa deriva insomma che gli uni siano vasi d’ira, e gli altri vasi di misericordia? La ragione sta nella loro volontà. Dio infinitamente buono dimostra con tutti la stessa bontà. » La differenza tra gli uomini dipende dal diverso uso delle grazie: « Non tutti vollero rispondere alia chiamata di Dio; ma per quanto riguarda Dio, tutti sono stati salvati, perché tutti sono stati chiamati ». – Tale è, con differenze accidentali, l’esegesi della Chiesa greca. Tutti i commentatori, Teodoreto, San Giovanni Damasceno, Ecumenio, Eutimio, Teofìlatto, seguono da vicino il Crisostomo; San Basilio, Sant’Isidoro di Pelusio, San Cirillo Alessandrino e gli altri se ne allontanano di poco, se possiamo giudicarne dalle brevi citazioni delle Catene È giusto il dire che gli scrittori greci non ebbero mai che fare col pelagianesimo; Fozio è quasi il solo che ricordi le controversie pelagiane e non distingue neppure tra pelagiani e semipelagiani. Il misterioso anonimo chiamato per convenzione l’Ambrosiastro, occupa un posto di mezzo tra i Greci e Sant’Agostino che lo conobbe e lo cita col nome di Sant’Ilario. L’Ambrosiastro differisce dai Greci in questo, che considera i testi difficili del capitolo IX, fatta una sola eccezione, come il vero pensiero di Paolo, e non come obiezioni di qualche contradittore fittizio; differisce poi da Sant’Agostino in questo, che spiega tutti gli atti di Dio, vocazione, elezione, predestinazione, giustificazione, glorificazione, con la prescienza eterna; è anzi questa, si può dire, l’idea che domina il suo commentario. Se parla, come Agostino, dei predestinati e degli eletti alla salute eterna, se intende la loro glorificazione della gloria eterna, se ammette due specie di vocazione alla grazia, l’una che è secondo il proponimento perché ha di fatto la gloria come termine finale, l’altra che non sarebbe secondo il proposito, per colpa dell’uomo che ne neutralizza l’effetto, questi accordi parziali con Agostino non fanno altro che accentuare le divergenze radicali. Poiché, per l’Ambrosiastro, la prescienza divina non fa accettazione di persone: Dio vuole la salute di tutti gli uomini, ma non tutti gli uomini si vogliono salvare; egli fa misericordia a colui che prevede dovrà corrispondere alla grazia; la sua volontà non è cieca né arbitraria e non distrugge il libero arbitrio: Faraone resiste a Dio, e Dio ne fa un esempio terribile di giustizia. Ma l’anonimo oltrepassa i limiti dell’ortodossia quando pronunzia questo aforisma: Praeparare unumquemque est præscire quid futurum est. Del resto si vede benissimo che egli non tocca nel vivo la questione; non parla mai della volontà di Dio conseguente; si può rimandare la questione e, in questa materia spinosa, non è detta l’ultima parola: questo toccherà ad Agostino. Per quanto si possa ammirare Sant’Agostino come teologo, non si possono chiudere gli occhi sui difetti della sua esegesi. Nella seconda delle Questioni diverse a Simpliciano, dove egli esamina l’elezione di Giacobbe e l’indurimento di Faraone, dimostra perfettamente che la vocazione di Giacobbe è interamente gratuita e non dipende da nessun merito attuale o previsto, tanto come causa, quanto come condizione della scelta divina. Ma egli dimentica che nei testi citati da San Paolo, Esaù e Giacobbe sono nazioni e non individui; che la vocazione di Giacobbe è una destinazione alla dignità teocratica e non una chiamata alla fede; che l’amore per Giacobbe e l’odio contro Esaù si riferiscono ad un momento della loro storia, in cui l’uno e l’altro si sono resi colpevoli. Egli intravede, è vero, quest’ultimo punto, ma non ne trae le conseguenze, essendo tutto assorto nel problema che lo preoccupa (De divers. Quœstion. ad Semplician.). A partire dalle controversie pelagiane, la teologia di Agostino invade sempre di più la sua esegesi, e l’esegesi qualche volta ne soffre. Se egli ebbe il merito di sostenere che, nella vocazione secondo il proponimento, si tratta del proponimento di Dio, che la prescienza non è la ragione ultima dei decreti divini relativi alla nostra salute, che i passi diffìcili del capo IX dell’Epistola ai Romani esprimono proprio il vero pensiero di Paolo, ci può rincrescere che trascuri con troppa frequenza il contesto, il ricorso all’originale, il senso letterale delle citazioni bibliche, che consideri l’elezione e il proponimento di Dio come una predestinazione alla gloria, che si metta finalmente, sopra parecchi punti, in opposizione con tutti i suoi predecessori. Ma se non è il principe degli esegeti, egli resta però sempre l’incomparabile dottore della grazia.

II. RAGIONI PROVVIDENZIALI DELL’ABBANDONO DEGLI EBREI.

I . RESPONSABLLITÀ DEGLI EBREI INFEDELI. — 2. LA LORO CONVERSIONE SEMPRE POSSIBILE, UN GIORNO CERTA.

1. Paolo ha l’abitudine di far risaltare certi aspetti in apparenza contradittori, senza curarsi sempre di conciliarli. Mentre era ancora vivo, questa sua tattica più di una volta servì di pretesto ad accuse e fu causa di malintesi. Se chiudete l’Epistola ai Romani alla fine del capo IX, sarete tentati di riassumerne la dottrina in queste massime di un senso profondo, ma troppo facili ad essere travisate, se si separano dal loro contesto: « A nulla serve il volere, tutto dipende dal beneplacito divino. Dio fa misericordia a chi vuole e indurisce chi vuole. I destini degli uomini sono nelle sue mani, come la creta nelle mani del vasaio ». Una conclusione falsa, benché speciosa, ne sarebbe che l’uomo non ha nessuna parte nell’affare della sua salute, che la sua attività è completamente assorbita dall’iniziativa divina. Ma se si legge un po’ più innanzi, si troverà la parte correttiva: si vedrà che l’uomo risponde liberamente alla chiamata divina, che è padrone della sua sorte eterna, che la sua incredulità è inescusabile, che il suo indurimento mette il colmo alla misura dei suoi peccati. Secondo che si isola uno di questi contrasti esagerandolo, si è giansenista o pelagiano, discepolo di Calvino o di Arminio, si predestina alla salute e alla dannazione senza tener conto delle azioni dell’uomo, oppure si esalta il potere dell’uomo fino al punto di sopprimere l’iniziativa e l’indipendenza di Dio. – Il nuovo aspetto della dottrina di Paolo si può formulare in queste due proposizioni accompagnate dalle loro prove (Rom. IX, 30 e 36):

La colpa dell’incredulità degli Ebrei ricade sopra di loro.

Difatti: Essi hanno cercato la salute per una via che non ve lo poteva condurre. — Essi non possono portare come scusa né l’ignoranza né la buona fede; il loro torto è di aver seguito le tracce dei loro padri, liberi e infedeli al pari di loro. — Ma, se vogliono, possono ancora rimediare al male, abbracciando il Vangelo.

Del resto la riprovazione d’Israele non è totale nè definitiva.

Non è stata totale, poiché la Chiesa conta a decine di migliaia gli ebrei convertiti. — Non sarà definitiva, poiché un giorno la nazione si convertirà in massa. Che essi abbiano avuto « zelo per Dio », non si può negare; ma è uno zelo male illuminato « che non è secondo la scienza (X, 2) ».Essi hanno urtato contro la pietra d’inciampo, contro Gesù Cristo, il quale offriva loro la salute per mezzo della fede (IX, 32). Essi fanno unicamente assegnamento su la Legge della quale il Cristo è lo scopo e il termine (X, 4). Essi vogliono acquistare una giustizia che sia loro propria, che li dispensi dall’umiltà e dalla riconoscenza, e così non riconoscono la vera giustizia il cui carattere essenziale è di confondere la superbia (Rom. X, 3; IX, 31, 32). Finalmente essi cercano la loro salute nel particolarismo giudaico, « quando non vi è più differenza tra Giudei e Greci (XI, 32) », come chiaramente lascia capire la stessa Scrittura. Ciechi e disgraziati che si ostinano nel sentiero scosceso e sassoso della Legge, mentre la via aperta dal Cristo è così diritta, così larga, così comoda! Non si tratta di salire al cielo per trovarvi un Salvatore, poiché Gesù Cristo si è fatto uomo; non si tratta di scendere negli abissi, poiché Dio ne ha tratto fuori d Cristo; basta credere di cuore che Gesù è il Signore, e confessare con la bocca che Dio lo ha risuscitato da morte (X, 5-10). L’obiezione provocata da questa spiegazione, è che l’infedeltà degli Ebrei sembra ridursi così ad un errore invincibile, e perciò scusabile. Se si cammina in una via sbagliata per aver « ignorato la giustizia di Dio (X, 3) », è una disgrazia, ma non una colpa. Paolo non concede loro il benefizio di tale ignoranza: il Vangelo è stato loro predicato; è impossibile che non l’abbiano udito, poiché è risonato fino agli ultimi confini della terra (X, 18). Essi non hanno « obbedito al Vangelo (X, 16) »: questa è la vera causa della loro incredulità. Questo spettacolo, per quanto triste, non ha nulla di nuovo per chi conosce la storia d’Israele. La durezza del cuore è tradizionale presso gli Ebrei. Già ai suoi tempi se ne lagnava Isaia con queste parole: « Signore, chi ha creduto al nostro messaggio ?… Tutto il giorno ho steso le mani verso un popolo che non vuole credermi e che mi contraddice (Isaia, LXV, 2) ». Molto tempo prima di Isaia, avevano già meritato lo stesso rimprovero (Deuter. XXXII, 21). La loro infedeltà presente, oggetto di tanta meraviglia e di tanto scandalo, non è che un fatto di più, da aggiungere agli annali delle loro apostasie.

2. Ma la porta della Chiesa non è chiusa per loro. Paolo continua a pregare per loro (X, 1): egli non pregherebbe se sapesse che sono riprovati per sempre. Egli si sforza, a costo di mille pene, a guadagnarne qualcuno al Cristo, e i suoi sforzi hanno spesso un buon esito (Rom. XI, 14). L’incredulità li ha strappati dall’ulivo schietto, ma la fede ve lo può innestare di nuovo (XI, 23). Noi abbiamo qui ciò che forma d contrappeso esatto del capo IX, e qualunque teoria che trascuri uno di questi aspetti della questione, mutila il pensiero dell’Apostolo. Tuttavia la questione rimandata non è interamente risolta. Gli Ebrei portano la pena del loro indurimento, e la responsabilità della loro riprovazione cade su loro; la giustizia e la fedeltà di Dio sono così rivendicate; ma poiché egli tiene in sua mano i cuori degli uomini, non conveniva alla sua sapienza e alla sua bontà fare del popolo eletto il centro della Chiesa ed allargare l’antica teocrazia invece di trasportarla altrove? Questa è la questione che Paolo affronta nel terminare. Anzitutto egli nota che è posta male. « Forse che Dio ha rigettato il suo popolo? » Questa domanda chiede una negazione energica. Difatti essa contradice ad un’affermazione della Scrittura, ripetuta tre volte; e il solo avvicinamento di « Dio » e del « suo popolo » dimostra abbastanza l’impossibilità di una riprovazione che sarebbe da parte di Dio un’incostanza, se non un’infedeltà. « No, certamente; Dio non ha rigettato il suo popolo che ha conosciuto anticipatamente (XI, 1-2) ». L’uomo modifica la sua scelta perché non ne prevede tutti gli Sconvenienti; ma non così è di Dio il quale ha scelto Israele per suo popolo, nonostante le infedeltà previste. La ragione che Paolo ne dà, è che i doni di Dio sono senza pentimento. Israele, nonostante la sua indegnità presente, rimane caro a Dio per causa dei patriarchi; e l’elezione di cui essi furono oggetto, impegna in un certo modo la fedeltà divina (XI, 29). Ma altro è rigettare il popolo in quanto è popolo, altro è d permettere il traviamento degli individui. Infatti gli individui non furono mai protetti contro l’apostasia dal fatto che appartenevano al popolo eletto. Vediamo nella storia sacra, che la Provvidenza vegliò soltanto perché la defezione non fosse mai totale. Ciò che distingue Israele dalle altre nazioni, è che esso può essere castigato, disperso, quasi sterminato, ma non mai senza speranza di riaversi. Dio gli lascia sempre un residuo, un rampollo, un germe in cui si concentra per qualche tempo tutta la vita nazionale e su cui fiorirà la salute. Tra gli esempi di questa condotta provvidenziale di cui i profeti ad ogni pagina ci ricordano la legge, Paolo ne sceglie uno che si adatta mirabilmente alle condizioni di allora. Quando Elia si lagnava con Dio dell’apostasia generale di cui era il testimonio desolato, Dio gli rispose che si era riservati sette mila uomini i quali non avevano piegato il ginocchio dinanzi a Baal. Era il cuore della nazione santa, la speranza d’Israele e la prova vivente della fedeltà di Dio. « Così pure, conchiude l’Apostolo, in questo tempo vi è ancora un residuo, secondo l’elezione della grazia (XI, 5) ». L’applicazione è evidente: non si può dire che Dio abbia rigettato il suo popolo, come non si poteva dirlo al tempo di Elia. – Cosi è dissipata l’obiezione teologica; ma resta una difficoltà che si potrebbe chiamare di sentimento, un’obiezione popolare. Se in diritto la nazione come nazione non è rigettata, nel fatto la massa degli individui è infedele. Come si concilia questo con la provvidenza speciale di cui Dio circondava Israele? La risposta di Paolo è questa: l’apostasia degli Israeliti non è assoluta e non è definitiva. In altre parole: coloro che sono infedeli oggi, potranno essere fedeli domani; in ogni caso alla fine dei tempi, Israele ritornerà a resipiscenza ed entrerà in massa nella Chiesa. Vi è qui un insegnamento teologico ed una profezia; ma l’Apostolo vi mescola delle considerazioni profonde su la provvidenza soprannaturale e su le vie impenetrabili di Dio. – Che l’apostasia non sia completa, lo dimostra l’esperienza: Paolo stesso, uscito dal più puro sangue ebreo, non è forse cristiano? (XI, 1). La Chiesa di Gerusalemme è fiorente; essa si è diffusa per tutta la Palestina; un gran numero di Ebrei della diaspora hanno abbracciato il Vangelo. Alcuni mesi dopo l’invio della nostra lettera, San Giacomo potrà annunziare a Paolo le molte decine di migliaia di Ebrei convertiti (Act. XXI, 20). Non è che una minoranza, ma una minoranza importante: essa può aumentare; l’Apostolo spera che aumenterà, e in tale speranza va prodigando i suoi sforzi e le sue preghiere. In quanto poi alla conversione finale d’Israele, la speranza è una certezza. Paolo promulga altamente « questo mistero », sia che gli venga dalle sue rivelazioni, sia che lo presenti come una conseguenza infallibile degli oracoli profetici: « L’indurimento parziale d’Israele si à prodotto fino a che entrasse la pienezza delle nazioni, e così tutto Israele sarà salvato (Rom. XI, 25-26) ». Provvidenza ammirabile di Dio! I Gentili, prima increduli, sono stati chiamati alla fede in grazia dell’incredulità degli Ebrei; gli Ebrei non vogliono credere alla misericordia fatta ai Gentili, per essere alla loro volta l’oggetto della misericordia. « Dio ha chiusi tutti gli uomini nell’infedeltà affine di fare misericordia a tutti ». Non è qui il caso di esclamare: « O profondità di ricchezza e di sapienza e di scienza? » E come è possibile non adorare gli inscrutabili giudizi e disegni di Dio? Questa è l’ultima parola dell’Apostolo.