CONOSCERE SAN PAOLO (9)

CONOSCERE SAN PAOLO (9)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

Seconda ai Corinzi

I . I MALINTESI.

1. SGUARDO STORICO. — 2. LAGNANZE CONTRO PAOLO. 3. APOLOGIA.

1. Paolo non scrisse nulla di più eloquente, di più commosso, di più appassionato che questa lettera. La tristezza e la gioia, il timore e la speranza, la tenerezza e lo sdegno vibrano in essa con la medesima energia. L’arte di elevare gli incidenti più comuni con i più alti principi della fede, fa di essa una miniera inesauribile per l’ascetismo o per la mistica. – Dopo più di tre anni da che aveva lasciato Corinto, l’Apostolo aveva riveduto soltanto una volta i suoi neofiti. Questa visita di cui gli Atti non fanno menzione, ci sembra assolutamente certa; poiché se si possono intendere queste parole: « Per la terza volta mi preparo a venirvi a vedere » per un semplice proposito di un viaggio, ripreso tre volte, non si possono intendere così le parole: « Vengo a voi per la terza volta » e neppure, con più forte ragione, queste altre: « Ripeto ora che sono assente, come ho fatto quando ero presente per la seconda volta, che se vengo di nuovo, non perdonerò ». Spiegare questo con una presenza ideale e con progetti non mandati ad effetto, ci sembra contrario a qualunque sana esegesi (II Cor. XII, 14). Su questo viaggio di Paolo a Corinto si è inventato un romanzetto i cui particolari variano secondo i gusti e la fantasia dei critici, ma il cui tema ordinario è questo: Timoteo, mandato a Corinto per ridurre i recalcitranti, era miseramente fallito nel suo tentativo. Ci va allora Paolo con la speranza di ristabilire l’ordine, ma egli pure « ha una disdetta; la sua parola è impotente, e i suoi nemici trionfano. Egli è insultato pubblicamente e deve ritornarsene a Efeso con l’anima accasciata da una tristezza apostolica, in cui la collera si mescola con i rimpianti. Da Efeso riprende la lotta; rivolge ai Corinzi una lettera terribile, oggi perduta, della quale in un momento deplora i termini troppo violenti, e manda Tito il cui spirito conciliativo, la grande autorità personale potevano condurre i Corinzi alla resipiscenza. La lettera di Paolo, appoggiata dalla parola di Tito, provocò nei Corinzi un risveglio commovente di affezione e di riconoscenza. La maggioranza della chiesa, i n un’assemblea solenne, condannò l’uomo che aveva insultato l’Apostolo, e decise di mandargli per iscritto e per mezzo di Tito, le scuse e le testimonianze non equivoche del pentimento riguardo il passato, di vivo affetto per il presente e di fiducia per l’avvenire (Sabatier) ». – Non varrebbe la spesa ricordare queste ingegnose invenzioni, se non fosse la notorietà dei nomi di cui esse si fregiano. Siccome una congettura ne chiama un’altra, in mancanza d’ipotesi, si cade in un garbuglio di sistemi sempre più complicati e inverisimili. Invece di una lettera perduta, certi critici ne pretendono due ed hanno anche bisogno di due viaggi di Tito, e a forza d’intricare le corrispondenze, di moltiplicare le andate e i ritorni, sono obbligati ad allungare di un anno intero l’intervallo tra le nostre due Epistole, il che dà il colpo di grazia a tutto il sistema (Heinrici). Una visita recente di Paolo è inammissibile, perché una delle principali lagnanze dei malcontenti è appunto la sua prolungata assenza. Egli promette di venire e non mantiene la parola; sembra che abbia paura di farsi vedere e preferisce comporre i dissidi da lontano. Questi rimproveri non avrebbero senso, se i Corinzi avessero ricevuto una sua visita nell’intervallo tra le nostre due Epistole. Egli risponde che ha differito la sua visita per pietà verso i colpevoli e che è voluto stare lontano finché duravano i malintesi; ma che non tarderà molto e tratterà come si meritano i superbi e gl’insubordinati. Nell’ipotesi di una recente disdetta e di un affronto personale seguito da una ritirata umiliante, questa difesa non avrebbe senso, e queste minacce, invece d’ispirare un salutare terrore, avrebbero soltanto provocato il disprezzo. L’ipotesi di una lettera intermedia, oggi perduta, fa nascere meno difficoltà. Essa è subordinata alla questione se la nostra seconda Epistola faccia seguito alla prima e se, in particolare, il colpevole condannato dalla chiesa di Corinto a maggioranza di voti, sia l’incestuoso di cui l’Apostolo aveva chiesto la punizione. Per parte nostra, non vediamo nulla, nella seconda Epistola, che ci obblighi a supporre una lettera perduta, e pensiamo che questa ipotesi fa nascere assai più difficoltà di quante ne risolva. La scandalosa connivenza dei Corinzi aveva offeso Paolo abbastanza, e le loro tergiversazioni avevano leso abbastanza i suoi diritti di apostolo e di padre, da non esservi nessun bisogno d’inventare un’ingiuria personale. La sua prima Epistola conteneva dei biasimi abbastanza vivaci, degli ordini abbastanza severi ed espressioni abbasta: dure perché Paolo, il quale conosceva per esperienza la loro suscettibilità, il loro carattere sospettoso e il loro spirito d’insubordinazione, potesse temerne i cattivi effetti, e per un momento, si pentisse di averla scritta. In una circostanza precedente, gli era bastato assai meno per alienarsene i cuori: ed ora aveva saputo che un nuovo fermento di discordia e di ribellione era apparso a Corinto con quei mestatori forestieri, con quei falsi apostoli, operai di sventure e ministri di satana, risoluti di rovinare l’opera sua. – Non conosce bene il cuore di Paolo chi suppone che la sua prima Epistola non gli sia costata lacrime. Nonostante la sua incontestabile unità su cui sono oggi concordi i migliori giudici, la nostra Epistola presenta questa particolarità curiosa, che ciascuna delle sue tre parti forma come un tutto completo, senza legame apparente col resto. Il suo argomento si può riassumere in questi tre titoli: — I malintesi (I – VII); — la colletta (VIII – IX); — gli avversari (X – XIII).

I malcontenti di Corinto se la prendevano contro l’Apostolo per un motivo assai futile: lo accusavano di leggerezza e d’incostanza nei suoi progetti di viaggio. Prima delle difficoltà di cui le due lettere ci fanno udire l’eco, Paolo si era proposto di recarsi per mare a Corinto e, dopo un giro per le chiese della Macedonia, di ritornarvi ad aspettare il bastimento che lo doveva portare in Palestina (II Cor. I, 15-16). I suoi progetti, non sappiamo perché, erano completamente mutati nella primavera dell’anno 56, nel momento in cui scriveva la nostra Epistola: allora si proponeva di celebrare la Pentecoste a Efeso, di prendere poi la via di terra e, attraversando l’Asia a piccole tappe, con una fermata alquanto più lunga in Macedonia, di arrivare a Corinto verso la fine dell’estate (I Cor. XVI, 6-7). La sollevazione imprevista degli orefici e degli statuari dovette fargli affrettare la sua partenza da Efeso, e da questo ne risultò che Tito, che egli aveva mandato a Corinto e che sperava di ritrovare a Troade, non vi era ancora arrivato. Paolo andò dunque ad aspettarlo in Macedonia, probabilmente a Filippi, e siccome non voleva ripresentarsi a Corinto prima che tutti i dissidi fossero composti, affidò a lui la nostra seconda lettera (II Cor. II, 17). – Ora il nuovo itinerario che egli comunicava ai Corinzi nella sua prima lettera, era stato per loro una sorpresa e una delusione, perché avevano fatto conto di vederlo più presto. Invano egli promette loro, come compenso, una fermata più lunga: « Forse mi fermerò con voi e vi passerò anche l’inverno. Perché non voglio vedervi di nuovo di passaggio; spero di fermarmi qualche tempo con voi (I Cor. XVI, 6-7) ». Invano egli insiste su la necessità di vedere prima i Macedoni la cui visita, nel primo progetto, era rimandata dopo quella ai Corinzi; certamente già messi su dai mestatori, i neofiti non accettano le sue spiegazioni. Che cosa significano questi ritardi? Perché promettere, se non è certo di mantenere? « Ho forse deciso questo per leggerezza? Oppure le mie decisioni sono secondo la carne, e vi è in me il sì e il no? Come è vero che Dio è fedele, noi non vi diciamo il sì e il no (II Cor. I, 17-18) ». Se egli ha differito la sua visita, lo ha fatto per compassione verso di loro: avrebbe dovuto essere severo; ora egli non vuole che il suo ritorno sia accompagnato dalla tristezza. Egli ha dunque dato tempo alle nubi di dissiparsi. – A quest’accusa ridicola si aggiungevano rimproveri di ben altra gravità: Paolo era accusato di doppiezza nella sua predicazione, di arroganza nel parlare, di tirannia nel governare. Le imputazioni dei malevoli, ricordate qua e là non senza una punta d’ironia, sono tracce che ci permettono di seguire un pensiero il cui filo talora si rallenta, ma che non si spezza mai. La difesa di Paolo che non discende a meschine personalità, ma si mantiene sempre a una serena altezza, si può riassumere così: L’Apostolo porta alta la fronte, senza dissimulazione e senza maschera — perché ha l’onore di essere messaggero del Vangelo. — Quella che viene chiamata arroganza, è semplicemente il legittimo sentimento della sua dignità e la coscienza che la sua vera forza sta nella sua debolezza. — Egli parla coraggiosamente e opera nella stessa maniera, ma la sua qualità di ambasciatore del Cristo autorizza questa libertà apostolica.

Slealtà, furberia, politica, sono parole odiose e sospetti assurdi, per un uomo come lui; eppure erano proprio i termini precisi della requisitoria fatta contro di lui; nelle sue lettere si volevano trovare sottintesi, equivoci volontari, astuzie di cattivo genere: « Noi non vi scriviamo, egli risponde, altro che quello che potete leggere e capire. Spero che alla fine lo capirete… Noi non somigliamo a molti altri che adulterano la parola di Dio, nel Cristo (II Cor. II, 17) ». L’opposizione è tra la sincerità dell’Apostolo che predica la parola di Dio tale e quale, senza mescolanze o falsificazioni di sorta, e i tranelli disonesti di quegli intrusi che l’adattano ai gusti dei loro uditori, come gli osti adulterano il vino con buoni tagli o con miscele sospette, per fare più quattrini. La sincerità, come si vede, è la parola di occasione. Come potrebbe un apostolo di Gesù Cristo, mancare di rettitudine? Dovrebbe forse arrossire del suo mandato, o dissimulare il suo messaggio! Il ministero dell’antica alleanza mondava la faccia di Mosè con una luce così abbagliante, che i figli d’Israele non ne potevano sopportare lo splendore: ma quello era soltanto il ministero della lettera, e il Vangelo è il ministero dello spirito; quello era il ministero della condanna, e il Vangelo è quello della giustificazione; era il ministero della servitù, e il Vangelo è quello della libertà; era il ministero del timore, e il Vangelo è quello della confidenza filiale; era un ministero destinato a finire, mentre il Vangelo è fatto per durare per sempre (ivi, III, 6-16). Che Mosè, parlando al popolo, si copra la faccia con un velo, sia pure! che quel velo di Mosè passi su gli occhi e sui cuori di tutti quelli che lo leggono, sia pure! Ma anche Mosè, quando si voltava verso Dio, gettava via il velo; e i suoi ciechi discepoli alla fine dei tempi lacereranno anch’essi il loro velo, quando si convertiranno a Gesù Cristo. Per noi, araldi della legge di grazia, ogni velo sarebbe sconveniente: “Contemplando a viso scoperto la gloria del Signore, siamo trasformati di gloria in gloria in questa stessa immagine, come dallo Spirito del Signore. Per la qual cosa, avendo noi tale ministero in virtù della misericordia da noi conseguita, non ci perdiamo di animo; respingiamo la vergogna che cerca l’ombra; ben lungi dal seguire i raggiri della doppiezza e dal falsificare la parola di Dio, ci rendiamo commendevoli alla coscienza di tutti gli uomini, in presenza di Dio, con la chiara manifestazione della verità. Se la nostra predicazione è equivoca, essa è equivoca per i figli di perdizione, per coloro ai quali il dio di questo mondo ha accecato la mente, per gl’infedeli incapaci di fissare lo splendore del glorioso Vangelo dei Cristo che è l’immagine di Dio” (ivi, III, 18). Gli altri due rimproveri sono così connessi, si toccano in tanti punti, che non è quasi possibile separarli: perciò l’Apostolo li confuta insieme senza disgiungerli. Quella che gli avversari trattano come arroganza e vanagloria, non è che la giusta stima del suo carattere sacro; quella che chiamano tirannia e abuso … potere, non è che l’esercizio obbligatorio del suo mandato apostolico:

“Questa sicurezza noi l’abbiamo in Dio per mezzo del Cristo. Non che da noi stessi siamo atti a concepire qualunque cosa come (derivante) da noi stesa, ma la nostra attitudine è un dono di Dio, il quale ci ha resi atti ad essere i ministri della nuova alleanza”. (ivi, III, 4-6).

Egli ha parlato di sé in termini che possono farlo tacciare di fatuità e di presunzione (ivi, II, 14-17). e se ne sensa con molta opportunità e con molto spirito (ivi, III, 1-3). No, egli dice ora, la sicurezza nostra — mia e dei miei compagni di apostolato — non è esagerata. Essa è soprannaturale, nella sua sorgente e nel suo oggetto: essa deriva dal Cristo, nostro Mediatore universale nell’ordine della salvezza; essa tende verso Dio, come al suo termine e al suo punto di appoggio. Essa è dunque legittima, perché non si fonda sui nostri mezzi personali, ma su l’appoggio della grazia divina. D a noi stessi noi non possiamo nulla; noi siamo incapaci, inetti, anche a concepire e ad apprezzare i mezzi per compiere il nostro sacro ministero; tutta la nostra attitudine viene da Dio solo il quale ci ha resi atti a sublimi funzioni. Ben lungi dall’attribuire a sé l’apostolato, l’Apostolo afferma di aver bisogno dell’aiuto divino anche per giudicare ciò che deve fare, tanto più poi per eseguirlo. – Quando i teologi da questo passo fanno derivare la necessità della grazia per ogni atto salutare nell’ordine soprannaturale, possiamo domandarci se la loro prova derivi dall’analisi stessa del testo, oppure se essa è la conclusione di un ragionamento più o meno complesso. È noto che Sant’Agostino, nei suoi ultimi scritti, intendeva sufficientia nostra di tutti i cristiani, e cogitare aliquid, di tutti i pensieri che si riferiscono alla salute. In tal modo la necessità della grazia risulterebbe formalmente dal nostro testo per la fede iniziale e, con più forte ragione, per tutti gli atti salutari. Ma se con tutti i commentatori, compreso San Tommaso, s’intende non quod sufficientes simus e sufficientia nostra di Paolo e dei suoi collaboratori, se inoltre, con i migliori interpreti, s’intende cogitare aliquid dei pensieri che si riferiscono al ministero apostolico, si giunge alla conclusione soltanto con un doppio argomento di parità o, se si vuole, con un doppio argomento a fortiori: argomento legittimo, fondato sul senso letterale, ma che lo oltrepassa. Il canone 7 del secondo concilio di Orange, non decide la questione. Sul terreno su cui si è messo, Paolo si trova in ottima posizione contro i suoi avversari. Gli apostoli sono i depositari della verità evangelica: se sono o se sembrano umanamente insufficienti, che cosa importa? « Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinché il valore incommensurabile (dei risultati ottenuti) sia di Dio e non nostro (II Cor. IV, 7) ». Benché la natura umana, destinata a diventare il ricettacolo dei doni divini, sia per se stessa tanto vile da giustificare la metafora dei vasi di creta, è probabile che San Paolo qui faccia allusione alla mancanza di qualità esteriori, che sembrerebbero non indicarlo per l’apostolato: il suo stile scorretto, la sua presenza meschina, il suo corpo infermo. Ebbene, quanto più meschino è lo strumento, tanto più divino sarà l’effetto. Sotto la mano onnipotente di Dio, la debolezza opera la forza, la morte genera la vita, il nulla è fecondo. Paolo sembra compiacersi di questo contrasto che di paradossale ha soltanto la forma. Egli vede dunque, senza perdersi di coraggio, il suo corpo che va in rovina, egli è orgoglioso di constatare in se stesso lo stato di morte di Gesù. Questo pensiero lo innalza con un volo alle regioni più sublimi della speranza cristiana; la morte lo fa pensare alla risurrezione; la rovina progressiva di questa abitazione terrestre gli ricorda l’abitazione imperitura del cielo. Egli sogna dunque di emigrare da questo mondo, per vivere col Cristo. In attesa del trionfo finale, il sentimento che lo domina si può tradurre così: confidenza, ardire, santa audacia e libertà apostolica.

II. LA GRAN COLLETTA.

1. QUESTUA IN FAVORE DI GERUSALEMME 2. TRE MOTIVI DELLA LIMOSINA.

1. Durante il concilio apostolico, nell’anno 49 o 50, Paolo aveva promesso di pensare, nelle sue missioni tra i Gentili, ai fratelli di Gerusalemme (Gal. II, 10). Questi per molto tempo vissero di limosine, quella specie di comunismo di cui fecero da principio un tentativo (Act. IV, 32) non dovette contribuire ad arricchirli. L’Apostolo non dimenticò mai la sua promessa: ei vedeva una prova di gratitudine, di deferenza e di venerazione verso la chiesa in cui era nato il Vangelo. Quei doni volontari stringevano i vincoli tra le due frazioni della comunità cristiana, troppo portate a isolarsi vicendevolmente; ravvivavano i sentimenti fraterni di cui erano l’espressione sensibile; insegnavano a tutti la generosità e il distacco; finalmente simboleggiavano il gran principio della solidarietà cattolica, la comunione dei santi. Gli Ebrei ellenisti si quotavano ogni anno per i bisogni del tempio: era conveniente che i Cristiani facessero di meno per il centro della loro unità? – Paolo aveva già predicato la questua alle chiese della Galazia (I Cor. XVI, 1); quelle della Macedonia, indovinando il suo desiderio, lo avevano prevenuto (II Cor. VIII, 6-16 ); ora era la volta di Corinto e dell’Acaia. Nella sua prima Epistola, rispondendo certamente alle domande dei Corinzi, aveva dato su questo punto istruzioni precise (I Cor. XVI, -4): egli voleva che, ogni domenica, ciascuno mettesse da parte la sua offerta, affinché fosse pronta al suo arrivo. Evidentemente la parte di questuante non gli garbava, e sentiva ripugnanza a trattare questioni di denaro. Le sue preoccupazioni per mantenere la sua buona riputazione d’integrità e di disinteresse, ci paiono oggi quasi esagerate. Egli non voleva fare nulla se non alia presenza di testimoni e non voleva neppure portare da solo ai destinatari le somme raccolte (II Cor. VIII, 3-4). A Corinto, Tito gli aveva preparata la via organizzando la colletta, e l’Apostolo, consegnandogli questa lettera, gli dava l’incarico di finire la faccenda al più presto possibile. I capitoli VIII e IX non sono altro che una raccomandazione dell’elemosina; ma quanta delicatezza per essere insinuante senza riuscire importuno! Quanti riguardi e quanta accortezza per stimolare la generosità, pure evitando d’imporla! Che volate di soprannaturale per temperare la fatale volgarità dell’argomento! Egli non pronunzia neppure la parola questua né limosina; è un atto di beneficenza e di misericordia, un ministero sacro, un mezzo di unirsi ai fratelli e di partecipare alle loro preghiere, è l’assistenza ai santi, è finalmente una grazia più per chi dà, che non per chi riceve (λογία = loghia, [colletta], si trova nella prima lettera: I Cor. XVI, 1-2 ).

2. Paolo fa appello a tre motivi che raramente vengono meno al loro scopo: l’emulazione, l’amor proprio e l’interesse (emulazione: VIII, 1-11; l’amor proprio IX, 1-5; l’interesse: IX, 6-15): questi sentimenti sono onnipotenti così per il bene come per il male; non si tratta che di dirigerli e di renderli soprannaturali. L’Apostolo vi riesce meravigliosamente e ci presenta in queste pagine un modello squisito di questo genere di predicazione. – Egli si vale anzitutto dell’emulazione. I fedeli della Macedonia, nell’infierire della persecuzione, nonostante la loro grande povertà, hanno chiesto con insistenza di contribuire alla questua: « Io devo loro questa testimonianza; essi hanno dato di buon grado quanto potevano e più di quanto potevano. Essi non hanno soltanto colmato le nostre speranze » ma le hanno superate di molto; « essi hanno dato se stessi al Signore e a noi ». Il buon esempio è una lezione facile a capirsi. O Corinzi, « voi siete eccellenti in tutto, in fede, in dottrina, in scienza, in sollecitudine di ogni sorta ed in carità per noi; bisogna dunque che siate eccellenti anche in questa grazia. Io non comando (do un consiglio); ma voglio provare la bontà della vostra carità confrontandola con lo zelo degli altri. Voi sapete infatti che nostro Signore Gesù Cristo, da ricco si fece povero per noi, per arricchirci con la sua stessa povertà (ivi, VIII, 9) ». Non si tratta più dei cristiani di Filippi o di Tessalonica; Paolo spinge il suo sguardo in cielo e là ci mostra il Figlio di Dio che si spoglia dei suoi attributi divini e si riveste della nostra miseria, per associarci alle sue grandezze e alle sue ricchezze. Chi resisterebbe a tale esempio e sarebbe sordo a tale invito? – L’amor proprio è più difficile da maneggiarsi, e la lode è uno specifico pericoloso, quando non si sa dosarlo bene. Paolo ricorda ai Corinzi, che da un anno essi hanno incominciato la colletta, e lo hanno fatto di loro iniziativa, senza che nessuno ve li spingesse. « Io conosco, egli soggiunge, la vostra premura della quale mi vanto per voi presso i Macedoni; io ripeto loro che l’Acaia è pronta da un anno, e che il vostro ardore ha eccitato molti altri (II Cor. IX, 2) ». Se dunque i Macedoni, quando accompagneranno l’Apostolo a Corinto, trovassero la colletta non ancora compiuta, Paolo dovrebbe arrossire dinanzi a loro, o piuttosto gli stessi Corinzi sarebbero coperti di vergogna; si vedrebbe che le lodi date loro con tanta generosità, sarebbero poco meritate. Certamente non si tratta d’impoverirsi per venire in aiuto degli altri; ciascuno esamini i suoi mezzi e dia quello che può; l’importante è che la limosina sia il benefizio spontaneo di un cuore generoso e non il contributo forzato dell’avaro. Il fine della limosina è quello di stabilire una certa eguaglianza tra i Cristiani (ivi, VIII, 13-15); i ricchi abbandonano ai poveri il superfluo dei loro beni temporali, i poveri lo restituiscono loro in aiuti spirituali con le loro preghiere e le loro benedizioni. Come si vede, il tono si va sempre innalzando e ci riporta ogni istante nel soprannaturale. – Quest’ultimo pensiero ci prepara al terzo motivo tratto dai vantaggi della limosina. L’elemosina è un seme di benedizioni spirituali e anche temporali. Tra la semenza e il raccolto vi è una legge di proporzionalità rigorosa: chi semina con parsimonia, deve aspettarsi di raccogliere poco: chi semina con abbondanza, si prepara una ricca messe (IX, 6). Però, quando si tratta di limosina, la quantità è cosa accessoria, ma quello che importa di più è l’intenzione caritatevole, la prontezza e la dilatazione del cuore: Hilarem datorem dìligit Deus (IX, 7; Prov. XXII, 8). L’avaro può dare suo malgrado, per forza, per rispetto umano: egli non semina per il cielo. Chi dà ai poveri, impresta a Dio. Dio s’incarica di far fruttare questo deposito e deve a se stesso di non lasciarlo infruttifero: « Dio è abbastanza potente per far abbondare in voi ogni grazia, affinché avendo tutti sempre pienamente di che bastare a voi medesimi, abbondiate in ogni sorta di buone opere… Colui che dà al seminatore la semenza e il pane (di cui ha bisogno) per suo nutrimento, moltiplicherà la vostra messe e farà crescere i frutti della vostra giustizia; e voi sarete arricchiti sotto ogni riguardo, per distribuire con cuore semplice l’offerta che farà salire verso Dio i ringraziamenti (IX, 8-11) ». Agli interessi spirituali, ai profitti temporali, si aggiunge un altro vantaggio di un ordine più generale e più elevato: Dio è glorificato, il Cristo è benedetto (ivi, 12-14). E queste preghiere e questi ringraziamenti provocati dalla limosina, ricadono in benedizioni su chi ha fatto il benefizio. Ecco perché l’elemosina è un sacro ministero, u n atto del culto, una specie di « Liturgia » (IX, 12), secondo la bella espressione di San Paolo. La carità animata da tali motivi non è più onerosa per il donatore, né umiliante per chi la riceve.

III. GLI AVVERSÀRI D I PAOLO.

1. FORESTIERI E INTRUSI. — 2. LORO DOTTRINE E LORO MIRE. — 3. FATICHE E FAVORI CELESTI DI PAOLO. — 4. LO STIMOLO DELLA CARNE.

1. Certi critici, colpiti dalla diversità di tono che vi è nelle due parti della nostra Epistola, ne hanno dedotto una diversità di condizioni, e hanno supposto che i quattro ultimi capitoli formassero da principio una lettera distinta. Questa ipotesi, non appoggiata da nessun indizio esteriore, non ebbe molti partigiani. È infatti molto inverosimile che si abbia avuto l’idea di mutilare due lettere autentiche di Paolo, per farne un tutto le cui parti combinano male insieme. Perciò la maggioranza dei critici contemporanei, mantenendo l’incontestabile unità dell’Epistola, cercano altrove la spiegazione del cambiamento di tono e di fare. Abbandonandosi alla gioia delle buone nuove portatogli allora da Tito, l’Apostolo sfoga anzitutto il suo cuore: egli ringrazia, loda, esorta, consiglia, riprende paternamente i suoi cari Corinzi ritornati a resipiscenza. Le parole « consolare » e « consolazione » che ripete una dozzina di volte nei due primi capitoli, riassumono assai bene il sentimento che in lui trabocca. Poi, quando si vede ben padrone del terreno, sicuro della simpatia, della docilità, della sommissione e dell’obbedienza dei suoi figliuoli spirituali, si rivolge contro gli agitatori e, scrivendo oramai a nome suo (X, 2-7, 12; XI, 21-22), li copre di sarcasmi, li minaccia di rappresaglie e lancia loro i suoi fulmini. Si è constatato nel Discorso per la Corona un procedimento simile: quello che in Demostene era un raffinato artifizio, è in San Paolo l’ispirazione spontanea di una natura eloquente. – Chi erano dunque quegli intriganti che correvano dietro le peste di Paolo, per rapirgli i frutti del suo apostolato? Erano anzitutto forestieri, poiché avevano bisogno di lettere di raccomandazione per farsi ammettere (II Cor. III, 1)). L’Apostolo ha sempre una gran cura di distinguere quegli intrusi dalla comunità di Corinto. Benché le loro mene bastino a turbare tutta la chiesa, essi formano un’infima minoranza nel numero dei fedeli; essi sono soltanto « alcuni »; l’indicazione vaga e collettiva di « chi viene » (XI, 14) accentua ancora di più la loro origine forestiera. Essi usurpano « il lavoro altrui » e se ne vantano come di cosa loro; s’installano nelle chiese già fondate e invadono « il dominio occupato da altri » (X, 15-16). Sono falsi apostoli, perfidi operai che si travestono da apostoli del Cristo; ministri di satana che si trasfigurano in ministri di giustizia, come satana loro capo si trasfigura in angelo di luce (XI, 13, 15) ». Il loro carattere speciale sembra essere l’amore del guadagno. Essi sfruttano il Vangelo, adulterano la parola di Dio, non tanto certamente per il piacere di corromperla, quanto per il desiderio di fare più denaro (II, 17). Essi depredano, spolpano, tosano e divorano il loro gregge (XI, 20). La loro cupidigia immagina contro Paolo un’accusa singolare: accusano la delicatezza che gli fa sacrificare i suoi diritti e respingere i doni, e l’attribuiscono a motivi vergognosi, all’ambizione, alla diffidenza, a calcoli indegni di un uomo onorato. In realtà essi si augurano che Paolo li imiti, per potersi valere del suo esempio o per sfuggire almeno l’odiosità del contrasto (XI, 7-12).

2. Sarebbe molto interessante il sapere che cosa predicavano e di dove venivano. Un’ipotesi abbastanza comune in questi ultimi tempi, attribuisce loro un vangelo opposto a quello di Paolo e ne fa degli emissari della chiesa di Gerusalemme. Nonostante l’attrattiva della novità e lo sfavore che accompagna le opinioni antiche, siamo obbligati a respingere questa doppia ipotesi come totalmente sprovvista di prove. La congettura del vangelo antipaolino si fonda unicamente sul testo più oscuro dell’Epistola. Paolo scrive ai Corinzi: « Se chi viene predica un altro Gesù che noi non abbiamo predicato, o se ricevete u n altro Spirito che non avete ricevuto, o un altro Vangelo che non avete avuto, voi con ragione lo sopportereste (XI, 4)». L’ultimo inciso si può tradurre « voi lo sopporterete » o anche « voi lo sopportate con ragione »: tutto dipende da una variante la quale consiste in una sola lettera di più o di meno. Qualunque sia la lezione adottata, il senso rimane ambiguo, e bisogna determinarlo dal contesto. Ora se gli avversari di Paolo avevano predicato a Corinto un altro Gesù, un altro Spirito Santo, un altro Vangelo, se erano riusciti a sedurre i Corinzi, se continuavano nelle loro mene sorde e lavoravano per rovinare l’insegnamento dell’Apostolo, è credibile, è possibile che questi si accontentasse di rispondere loro con un’ironia così velata, che la maggior parte degli interpreti non la rilevano? E se non vi è ironia, è ammissibile che egli si limiti a questa fredda constatazione, egli che nell’Epistola ai Galati fulmina l’anatema contro chiunque annunziasse un vangelo contrario al suo? Egli non farebbe nessuna allusione a quelle dottrine perverse e non cercherebbe di premunire i neofiti contro l’errore! Egli coprirebbe di scherno i costumi dei falsi apostoli, la loro avidità del guadagno, le loro vanterie puerili, le loro manovre sconvenienti, e non avrebbe una parola di sdegno o di biasimo per le loro eresie, ed eresie così fondamentali! Si pretende che gli avversari di Paolo siano giudaizzanti, simili a quelli che sconvolgevano le chiese della Galazia; ma la lettera non fa nessuna allusione a pratiche giudaizzanti; non vi è nulla su la giustificazione per mezzo della fede, nulla su l’impotenza e l’inutilità della Legge mosaica, e la circoncisione non è neppure nominata. Bisogna dunque che l’Apostolo si metta dinanzi a un’ipotesi assurda tanto, che la sua stessa assurdità lo dispensa dal confutarla. Se gli intrusi portavano un altro Vangelo, un altro Spirito Santo, un altro Cristo, se aggiungevano qualche cosa ai beni spirituali di cui i Corinzi già erano dotati, questi avrebbero ragione di dare loro ascolto. Ma no: non vi sono due Cristi, due Spiriti Santi, due Vangeli. Gli agitatori di Corinto cercano di soppiantare Paolo, ma senza prendersela direttamente contro la sua predicazione; se adulterano il Vangelo non lo fanno tanto per alterarlo, quanto per trarne più guadagno, per mezzo di aggiunte sospette e di abili tagli! Certi interpreti credono di avere scoperto ì connotati di quegli intriganti. Essi sono Ebrei; si fanno chiamare « gli apostoli per eccellenza » sono a capo del partito del Cristo: dunque appartengono alla chiesa madre di Gerusalemme e sono forse mandati dai dirigenti di quella chiesa per fare da contrappeso all’influenza di Paolo. Disgraziatamente questi titoli onorifici riguardano i veri apostoli e non i ministri del diavolo. A chi si può far credere che dicendo: « Sono Ebrei? anch’io; sono Israeliti? anch’io; sono figli d’Abramo! anch’io; sono ministri del Cristo? Voglio parlare da insensato: io lo sono più di loro (IX, 23) », San Paolo voglia paragonarsi a coloro che ha chiamato poco prima falsi apostoli, impostori e ministri di satana! Si risponderà che li tratta ironicamente da ministri del Cristo: ma la frase non ha nulla d’ironico. Egli non contesta loro nessuno di questi titoli, ma soltanto li rivendica per sé. Nel tempo stesso egli prende mille precauzioni oratorie per farsi perdonare la sua iattanza e, come dice più di una volta, la sua pazzia. Tratterebbe con tanto onore coloro che ha schiacciato con il suo disprezzo, e dovrebbe fare tanto per innalzarsi fino alla loro altezza? No, certamente. In quegli apostoli per eccellenza ai quali non è inferiore nonostante il suo nulla, Paolo vede i veri apostoli, i veri ministri del Cristo. Egli ha lavorato più di loro; ha sofferto più di loro. A lui si oppone il gran nome dei Dodici: ebbene, per quanto costi alla sua umiltà, per quanto tale pretesa possa avere l’apparenza di vanagloria e di irragionevolezza, egli è disposto a sostenerne il confronto. Come rappresentante del Cristo, egli non è inferiore a nessuno, neppure a quegli Apostoli per eccellenza che sono messi così in alto per abbassare lui.

3. Si è quasi tentati di rallegrarsi che la calunnia abbia costretto l’Apostolo a parlarci di sé e a raccontarci, con le grandi cose che egli ha fatto per Dio, una parte dei favori di cui Dio in cambio lo ha colmato. A dire il vero, il racconto volontariamente sobrio e circoscritto degli Atti ci lasciava indovinare i pericoli di ogni sorta incontrati da San Paolo, per parte di ladri, di falsi fratelli, di Ebrei e di Gentili. I suoi viaggi apostolici in regioni appena esplorate e situate ai confini dell’impero, in mezzo a popolazioni ostili o prevenute, senza l’apparato dell’autorità e del potere, lo obbligavano quasi inevitabilmente a fatiche sovrumane, a digiuni prolungati, alla fame, alla sete, al freddo e alla nudità. Conoscevamo già la lapidazione di Listri, la prigionia e la flagellazione di Filippi, l’evasione rischiosa di Damasco, la drammatica sommossa di Efeso, la fuga precipitosa da Gerusalemme, da Antiochia di Pisidia, da Iconio, da Tessalonica, da Berea, da Corinto. Ma non c’era nulla che ci facesse sospettare i tre naufragi che precedettero quello di cui San Luca ci descrive le peripezie, né il giorno e la notte che passò nell’abisso, senza dubbio su un rottame galleggiante, né i trentanove colpi di frusta inflittigli dagli Ebrei per ben cinque volte, né le altre due flagellazioni applicategli per sentenze di governatori, nonostante il suo titolo di cittadino romano, che avrebbe dovuto scampare Paolo da tale pena infamante (XI, 23-33). Tanti particolari, del resto ignorati e ricordati qui come per caso, ci debbono togliere la speranza di ricostruire, con l’aiuto di documenti incompleti, l’intera trama della sua vita. – Se Paolo ha lavorato più degli altri, se ha sfidato più prigionie, più tormenti, più pericoli di morte, è stato anche favorito di grazie più insigni. Bisogna gloriarsi? “Questo non conviene, ma io vengo alle visioni e alle rivelazioni del Signore. Conosco un uomo, un cristiano, il quale quattordici anni fa — nel corpo o senza corpo, non so, Dio lo sa — fu rapito fino al terzo cielo. E quest’uomo — nel corpo o senza corpo, non so, Dio lo sa — fu rapito al paradiso e intese parole ineffabili che non è permesso (o possibile) all’uomo di profferire. Mi glorierò di questo; ma per quello che mi riguarda, non mi glorierò che delle mie infermità” (XII, 1-5). In questo curioso sdoppiamento del suo essere, Paolo distingue la parte di Dio, della quale si può gloriare poiché essa glorifica Dio medesimo. Egli tiene per sé soltanto la sua miseria e se ne gloria anche, perché essa fa risaltare dal contrasto l’opera ammirabile di Dio in lui. – Non si è concordi sul senso preciso delle visioni e delle rivelazioni. È probabile che le rivelazioni siano il termine generico che abbraccia anche le visioni. L’Apostolo ne ricorda una sola ed ha cura di precisarne la data, sia per farne notare di più la realtà e la certezza, sia per insinuare che essa fu un punto importantissimo della sua vita. Essa infatti cade sul cominciare del suo ministero attivo, alla fine del suo lungo ritiro nella Cilicia, quando Barnaba venne a prenderlo a Tarso per farlo suo collaboratore nella fiorente cristianità di Antiochia. Disgraziatamente per la nostra curiosità, se Paolo è certo del fatto, ne ignora affatto il modo. Sa che fu rapito fino al terzo cielo, al paradiso, che intese parole ineffabili; ma non sa se il suo corpo ebbe parte o no con la sua anima a quel favore. Tuttavia anche questo stesso dubbiò è istruttivo, perché ci permette di conchiudere che la visione e la rivelazione fu puramente intellettuale. Se i sensi vi avessero avuto parte, il dubbio di San Paolo non si potrebbe spiegare. Il rapimento fu dunque accompagnato da estasi e da alienazione completa delle facoltà sensibili. Riguardo poi al rapimento, i commentatori sono assai divisi. Gli uni suppongono che l’Apostolo ignori se fu trasportato al cielo in corpo e anima. Nel caso in cui l’anima sola fosse stata oggetto di questo trasporto locale, il corpo sarebbe rimasto sulla terra nello stato di cadavere. Ma altri esegeti che hanno con l’autorità di Sant’Agostino e del Dottore angelico, trovano con ragione che tale cambiamento di luogo non è né necessario né probabile, dal momento che si tratta soltanto dell’anima. L’anima è rapita in cielo quando i misteri del cielo si rivelano dinanzi a lei, e Dio le scopre i suoi intimi segreti. Dappertutto gli angeli fedeli portano il cielo con sé, e il paradiso degli eletti è la felicità di possedere Dio. M a sia che l’anima di Paolo fosse trasportata nello spazio fino al soggiorno dei beati, sia che il cielo fosse idealmente trasportato nell’anima di Paolo, è inutile ricorrere alle fantasticherie sui sette cieli sovrapposti alla terra. In forza di una locuzione accettata che si snaturerebbe analizzandola, Paolo dice di essere stato rapito fino al terzo cielo, cioè fino alla vetta più sublime della contemplazione divina.

4. Per tenerlo nell’umiltà, richiamandolo continuamente al sentimento della sua debolezza, Dio ha piantato nella sua carne una spina o un pungiglione (XII, 7). La versione latina stimulus carnis, oscura e poco esatta, ha dato credito ad un’opinione che non ha grande probabilità intrinseca, sconosciuta a tutta l’antichità e poco conciliabile col testo originale. « La spina nella carne » oppure « il pungiglione per la carne » indicherebbe un’inclinazione ai piaceri carnali, sorgente di lotte penose e umilianti. Né la vecchiaia a cui andava avvicinandosi, né il dono della continenza che egli dice di aver ricevuto, non lo mettevano assolutamente al sicuro dalla tentazione, ed è impossibile dimostrare che egli sia stato immune da questa prova. Ma si può affermare senza timore che nelle sue parole non vi è nulla che autorizzi tale spiegazione. Supposto anche che potesse avere questo senso, Paolo non darebbe un’arma in mano ai suoi avversari, rivelando loro l’esistenza di una simile lotta, conosciuta da lui solo ed a Dio? Come potrebbe compiacersene e metterla nel numero delle infermità di cui si gloria? Lasciando da parte le tentazioni carnali, noi ci troviamo dinanzi a due interpretazioni che sono divise tra i commentatori antichi: le persecuzioni e le malattie. Ma è difficile comprendere che le persecuzioni esterne si possano chiamare una spina nella carne, e meno ancora si concepisce come l’Apostolo se ne senta umiliato: le persecuzioni sono talmente il retaggio del cristiano, sono così espressamente annunziate a chiunque voglia vivere piamente nel Cristo Gesù, che non si vede a che titolo egli le considerasse come una difesa personale soprattutto contro le tentazioni di superbia. E chi potrebbe poi persuadersi che Paolo abbia chiesto tre volte di esserne liberato! – Rimane la malattia: « S i dice che un dolore fisico lo facesse soffrire crudelmente; i dolori fisici sono molto spesso dovuti agli angeli di satana, ma non senza il permesso divino ». Così parla Sant’Agostino, e quasi tutti i moderni sono del suo parere. Di che malattia si tratta? Si è parlato di emicrania, di podagra, di oftalmia, di epilessia e di vari e specie di febbri; ma questa varietà di opinioni, dimostra che non è possibile una diagnosi. Supposto che nell’Epistola ai Galati (Gal. IV, 12) Paolo alluda alla medesima infermità, noi abbiamo questi sintomi, Il male di cui soffriva l’Apostolo, doveva essere acuto e cocente, perché lo chiama metaforicamente una spina o un pungiglione piantato nella carne; doveva avere qualche cosa di ripugnante, perché ringrazia i Galati di non essersi allontanati d a lui con orrore; doveva essere umiliante, perché lo considera come un antidoto contro la vanagloria e come uno schiaffo di Satana. Finalmente quell’infermità doveva sembrare un ostacolo al suo apostolato, poiché tre volte supplicò Dio che lo liberasse, e non cessò se non quando ebbe questa assicurazione: « La mia grazia ti basta ». Ulcere degli occhi, malaria o attacchi nervosi, il termine patologico a noi poco importa.