CONOSCERE SAN PAOLO (12)

CONOSCERE SAN PAOLO (12)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

L’Epistola ai Romani (2)

SECONDA SEZIONE (I).

 

Certezza della nostra speranza.

I. IL CRISTO TRIONFA PER NOI DEL PECCATO.

1. SGUARDO GENERALE. — 2. ADAMO E IL PECCATO. — 3 IL CRISTO E IL PECCATO.

1. Paolo ha dimostrato che la giustizia di Dio viene all’uomo per mezzo di Gesù Cristo e soltanto per mezzo di lui. Il suo quadro non è terminato, perché egli si era impegnato a dimostrare che il Vangelo è non solo la sorgente della giustificazione, ma uno strumento di salute nelle mani di Dio. Tra la giustificazione e la salute molto ci corre: vi è tutta la durata di questa vita di prova, vi è la distanza tra la terra e il cielo. – I capitoli V – VIII hanno lo scopo di stabilire che queste due cose, la giustizia iniziale e la salute finale, benché separate dal tempo e dallo spazio, sono unite con un vincolo di causalità. Esse sono due anelli estremi di una catena indissolubile nel pensiero e nel disegno di Dio, quantunque sia un tristo privilegio del nostro libero arbitrio quello di poterla spezzare. La grazia è il germe della gloria, la fede è il pegno della visione, i doni dello Spirito Santo sono la caparra della beatitudine, e lo stato felice degli eletti altro non è che la fioritura tarda sì, ma spontanea della carità che è essa stessa un aspetto particolare della giustizia. « Nei siamo salvi nella speranza » e « la speranza non vien meno »; ecco la parola di occasione; la salute finale è questione soltanto di pazienza e di tempo. Evidentemente la certezza di questa speranza non è in noi; essa è in Dio, ma appunto l’amore eccessivo di cui Dio ci ama, fino a diffondere nei nostri cuori il più consolante e il più prezioso dei suoi doni, lo Spirito Santo, ci garantisce pienamente l’avvenire. Infatti ci vuole maggiore potenza per giustificare il peccatore, che non per conservargli la giustizia, e ci vuole maggiore bontà per toglierlo dall’abisso che non per impedirgli di ricadere. “La prova dell’amore di Dio per noi è che, quando eravamo ancora peccatori, il Cristo è morto per noi. Giustificati ora nel suo sangue, quanto più saremo preservati dall’ira per mezzo di lui! Se, nemici, noi fummo riconciliati a Dio dalla morte di suo figlio; quanto più, riconciliati, saremo salvi nella sua vita” (Rom. V, 8-9)! – Però tre formidabili ostacoli sorgono dinanzi a noi: il peccato, la morte, la carne. In questa sezione, l’Apostolo afferma che noi ne trionferemo con Gesù Cristo, o meglio che Gesù Cristo ne trionfa per noi. Alla fine, tutti i nostri motivi di sperare si riuniscono come in un fascio, e le tre Persone della Trinità, con tutta quanta la creazione, confermano la nostra speranza.

2. Il primo ostacolo contro il quale va ad urtare la nostra speranza è il peccato. San Paolo lo personifica e se lo figura come l’insieme delle forze morali ostili a Dio. Il peccato regna (Rom. V, 21), ha un corpo (VI, 6), ha dei servitori (VI, 17-20), ha un esercito da esso stipendiato (VI, 23). Dopo di aver ucciso noi (VII, 11-13), uccide lo stesso Cristo (VI, 10). La morte è la sua compagna assidua, regina anch’essa, ma alla sua dipendenza (V, 14). La Legge mosaica — chi lo crederebbe? — fa parte del corteo; essa è lo strumento attivo del peccato: Virtus peccati lex (I Cor. XV, 56). Il peccato personificato non è dunque soltanto il peccato originale, ma è il peccato originale con tutto il suo seguito. Ecco perché nello stesso contesto, talora nella stessa frase, si passa così facilmente da un senso all’altro, indicando il peccato ora la privazione della giustizia originale, ora la concupiscenza che ne deriva, ora il peccato attuale che ne è l’effetto. Quando è personificato, come è quasi sempre in questa sezione, il peccato prende in greco l’articolo determinativo; senza articolo, sarebbe la nozione generica del peccato. Ma bisogna guardarsi dal misurare il valore biblico di questa parola dal suo significato profano. Negli autori classici, il peccato (ἁμαρτία, =amartia, – peccatum) per lo più non è che un errore di giudizio o di apprezzamento, una mancanza alle usanze o alle convenienze, oppure, se è una colpa morale, è generalmente una colpa molto veniale. Invece l’ebraico Hattath, benché per l’etimologia corrisponda al greco ἁμαρτία e al latino peccatum, indica il pervertimento di una volontà che, allontanandoci da Dio nostro ultimo fine, ci attira la sua collera e ci costituisce suoi nemici. Considerato tanto come atto, quanto come fatto, il peccato è dunque il sommo male dell’uomo, ed ecco perché Paolo lo mette così spesso in contrasto con la giustizia nel suo senso più comprensivo. Bisogna distinguere dal peccato due parole che hanno con esso una sinonimia limitata: la colpa (παράπτωμα, delictum), caduta o falso passo morale, esprime il peccato attuale, tanto di Adamo quanto dei suoi discendenti; la prevaricaione (παράβασις = parabasis, prævaricatio) è la trasgressione di una legge positiva e si dice specialmente della violazione del precetto imposto al nostro primo padre. Ogni trasgressione è un peccato, ma non ogni peccato è una trasgressione: Ubi non est lex, nec prævaricatio (Rom. IV, 15). – Il fine dell’Incarnazione è la distruzione del peccato: per mezzo di Gesù Cristo, ha detto or ora l’Apostolo, noi abbiamo la pace con Dio; per mezzo di Lui, l’accesso al cielo; per mezzo di Lui, la riconciliazione; per mezzo di Lui, la sicurezza e la gioia anticipata della salute: “Perché come per mezzo di un solo uomo è entrato nel mondo il peccato, e per il peccato la morte, e così la morte è passata per tutti gli uomini perché tutti hanno peccato, — poiché fino alla Legge vi era nel mondo il peccato, ma il peccato non è imputato in assenza di una legge; perciò regnò la morte da Adamo fino a Mose anche sopra coloro che non peccarono a imitazione della prevaricazione di Adamo il quale è l a figura di colui che doveva venire” (Rom. V, 12-14). La costruzione è irregolare, e la prima frase, rimasta sospesa, non è compiuta; ma il senso generale è assai chiaro, perché non c’è nessuno sforzo nel mettere nel termine di paragone che è indicato senza essere espresso. Il pensiero va e viene ai due poli di questa antitesi: Un uomo ha potuto perderci; un uomo, il quale è più che un uomo, potrà salvarci. Come il regno del peccato è stato l’opera di un solo uomo, il regno della giustizia verrà pure da un solo uomo. Adamo, il primo capo dell’umanità, ci ha trascinati nella sua caduta; Gesù Cristo, secondo Adamo e capo dell’umanità rinnovata, ci porterà con sé nella sua ascesa verso Dio. Questo è il senso dell’enigmatico « perché » con cui incomincia il periodo, della particella comparativa « come » a cui pare che non corrisponda nulla, e finalmente delle parole « il quale è la figura dell’Adamo che deve venire », che terminano la digressione e nel tempo stesso completano, in una forma grammaticalmente scorretta, il paragone rimasto sospeso. Per la sua tesi, Paolo ha bisogno soltanto di un argomento di parità, ma gli è impossibile fermarsi in esso: al peccato che abbonda, egli non può fare a meno di opporre la grazia che sovrabbonda; il semplice parallelo tra i due Adami gli sembra ingiurioso verso Gesù Cristo, e senza pensarci lo trasforma ogni momento in un contrasto. Però verso la fine, ricordandosi che questo soprappiù di prova non è necessario, ripiglia l’argomento di parità, non senza abbandonarlo ancora una volta, per concludere: Ubi abundavit delictum super abundavit gratia. – Non dimentichiamo che l’Apostolo ha presente alla memoria il racconto della Genesi la cui autorità non è contestata dai suoi lettori. Un uomo solo che portava in sé tutte l’umanità, ha introdotto nel mondo il peccato e la morte; egli si è visto privare, insieme con i suoi discendenti, delle prerogative soprannaturali di cui era il depositario; si è fatto maledire con tutta la sua posterità. Era quasi un luogo comune, per i contemporanei di San Paolo, che Adamo è l’autore della morte e dell’inclinazione al male, che la sua caduta è la nostra caduta. Il quarto libro apocrifo di Esdra e l’Apocalisse di Baruch, composti, questa poco prima della catastrofe dell’anno 70, e quello una ventina d’anni dopo, ma sempre nel primo secolo, sono a questo riguardo molto espliciti. La teologia talmudica ereditò tali idee non senza però mescolarvi molte favole. Comunque, era ammesso che il genere umano, per la trasgressione di Adamo, è passibile di morte, dominato dal desiderio del male, votato alla maledizione. Se in questo non vi è precisamente il peccato originale tale e quale lo intendiamo noi, vi è qualche cosa che molto gli si avvicina, poiché la pena suppone la colpa, e la maledizione implica l’offesa. – Paolo non si propone dunque di provare l’esistenza del peccato originale, ma si serve soltanto dell’universalità della caduta, conosciuta e accettata su la fede delle Scritture, per spiegare e rendere verosimile l’universalità della redenzione. Tutta la sua argomentazione si potrebbe riassumere così: Se è certo, come voi non ne dubitate, che tutti gli uomini sono costituiti peccatori dalla disobbedienza di Adamo, a più forte ragione dovete credere che saranno costituiti giusti dall’obbedienza del Cristo. Egli suppone, più che non dimostri, la proposizione condizionale: ma l’afferma quattro o cinque volte assai esplicitamente, e la sua affermazione tiene per noi il posto di ima prova: « Per un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e per il peccato la morte ». — « La morte ha invaso tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato ». — « Per una sola colpa (è caduta) su tutti gli nomini una sentenza di condanna ». — « Per la disobbedienza di un solo nomo tatti, qualunque sia il loro numero, sono stati costituiti peccatori ». — Finalmente Adamo, autore del peccato, è la «figura» del Cristo, autore della riparazione. Quest’ultima verità, enunziata una volta direttamente, è in fondo a tutto questo parallelo e domina tutto il passo. – Per riassumere, San Paolo riferisce al primo Adamo: il regno del peccato nel mondo, l’universalità della morte, una condanna che si estende a tutti gli uomini e che ha come antitesi la giustizia conferita dal secondo Adamo. L’entrata del peccato nel mondo non è per l’Apostolo un fenomeno semplicemente passeggero, ma la solenne inaugurazione di un regno: « Per un solo uomo il peccato entrò nel mondo, e per il peccato la morte, • così la morte passò per tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato (Rom. V, 12) ». Non è il peccate personale di Adamo, il quale viene espresso in altri termini — colpa, trasgressione, disobbedienza — e del resto non è il primo per il tempo, poiché fu preceduto dal peccato di Eva; non è neppure, per metonimia, la pena del peccato, perché la pena del peccato non porta dietro di sé un’altra pena; è dunque un peccato comune a tutti, multiplo e unico, quello in virtù del quale la morte ha invaso tutti gli uomini, quello che costituisce peccatori tutti gli uomini, che attira sopra tutti una sentenza di condanna, quello a cui può dare rimedio la sola giustizia del Cristo. È, se si vuole, il peccato originale, non isolato, ma quale lo presenta ordinariamente l’Apostolo, col suo seguito di maledizioni. Non dobbiamo però fargli dire che tutti gli uomini hanno peccato in Questa formola può essere perfettamente teologica, e Paolo ne dà in certo qual modo il modello dicendo che « tutti muoiono in Adamo »; ma insomma, essa non è sua, e non si deve pensare di tradurre il testo greco e neppure d latino (in quo omnes peccaverunt) con « nel quale tutti hanno peccato ». L’espressione greca significa certamente perché, e tale è pure, nella Volgata, il senso della locuzione corrispondente in quo. Ma ci affrettiamo ad aggiungere, per rassicurare i teologi, che traducendo « perché tutti hanno peccato », come esigono il lessico, la grammatica e d contesto, non solo tutte le parti del periodo si seguono e si legano meglio, ma l’argomento in favore del peccato originale guadagna in chiarezza e in valore dimostrativo. Difatti Paolo afferma allora direttamente due cose: che tutti gli uomini hanno peccato, anche quelli che non hanno imitato la prevaricazione di Adamo; e che un peccato il quale non è il peccato attuale, è per tutti un debito di morte. – Il peccato e la morte hanno la stessa universalità, perché l’una è l’effetto e la conseguenza dell’altro. Il nesso di causalità che lega la morte al peccato, è espresso in due maniere: anzitutto « per il peccato la morte è entrata nel mondo, e così la morte è passata per tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato ». La morte di ciascun uomo non si può attribuire ai suoi peccati attuali, bisogna dunque che vi sia, oltre i peccati attuali, un peccato di tale natura, che di esso ciascun uomo sia tanto responsabile da subirne la pena. Ecco in che modo l’Apostolo dimostra la premessa di questo entimema: Nel periodo che corre da Adamo a Mosè, nel mondo si commettevano peccati, ma non vi era ancora una legge positiva che punisce di morte i peccatori. Ora una pena particolare, come sarebbe la pena di morte, non si applica se non in quanto è promulgata. Ora è un fatto evidente, che la morte fu universale nel periodo di cui si parla; essa dunque non si spiega con i peccati personali degli uomini. E tanto meno si spiega perché « non tutti avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo (Rom. V, 13) », cioè non avevano imitato la sua disobbedienza. Quali erano questi figli di Adamo i quali non avevano peccato a somiglianza del loro padre? San Paolo non lo dice. Si può pensare a quelli che non hanno l’uso di ragione, come i bambini, e che non sono neppure essi risparmiati dalla morte: segno evidente che la morte non è il castigo di colpe individuali. Per dare a questa argomentazione una forza invincibile, bisogna certamente supporre, col racconto della Genesi, che, nei disegni di Dio, l’uomo fosse stato destinato all’immortalità e che non avrebbe potuto perdere tale privilegio se non con disobbedire ad un comando divino, o personalmente o nella persona di colui che, rappresentando l’umanità intera, operasse in qualità di mandatario universale in nome di tutti i suoi discendenti. – “Così dunque, come per una sola colpa (è venuta) su tutti gli uomini la condanna, anche per un solo merito (verrà) su tutti la giustificazione di vita. Difatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti, nonostante il loro numero, sono stati costituiti peccatori, così pure per l’obbedienza di un solo, tutti, nonostante il loro numero, saranno costituiti giusti”. – Non bisogna separare questi due periodi che si dilucidano a vicenda: il secondo spiega e dà ragione del primo e ne determina ogni parola. L’unica colpa che si risolve per tutti gli uomini in una sentenza di condanna, è la disobbedienza di Adamo: l’unico atto meritorio che si risolve per tutti gli nomini in una sentenza di giustificazione, è l’obbedienza del Cristo. Questa sentenza di condanna costituisce peccatori tutti gli nomini, e San Paolo lo afferma esplicitamente. Si torturi pure il suo testo quanto si vuole, ma non se ne caverà mai altro che quello che egli proclama altamente, che cioè tutti gli uomini sono stati stabiliti, fatti o resi peccatori, e non soltanto considerati o trattati come peccatori. Questa seconda interpretazione urterebbe contro la doppia impossibilità di concepire che Dio consideri e tratti come peccatori quelli che realmente non sono tali, e di trovare un senso ragionevole a questa frase: « Tutti sono stati trattati come peccatori dalla disobbedienza di Adamo ».

3. Essendo la giustizia conferita dal Cristo « una giustificazione di vita », il peccato lasciato in eredità dal pruno padre Adamo non può essere meno vero né meno reale. Si obbietta che in pratica non tutti gli uomini sono giustificati nel Cristo. Risponde San Tommaso: « Tutti gli uomini che nascono da Adamo secondo la carne, peccano e muoiono in lui e per lui; così tutti gli uomini che rinascono spiritualmente nel Cristo, sono giustificati e vivificati in Lui e per Lui ». Una semplice riflessione dissiperà l’oscurità che può lasciare questa risposta: per i meriti del Cristo, tutti gli uomini sono giustificati in potenza, e sarebbero giustificati in atto se adempissero alle condizioni richieste. L’universalità del peccato è assoluta, perché deriva da una condizione inerente alla nostra esistenza, essendo noi costituiti peccatori dal fatto che ci costituisce uomini e figli di Adamo; invece noi non diventiamo membri del Cristo come diventiamo membri della famiglia umana, senza la nostra partecipazione. – La fede che ci fa nascere alla grazia, e il Battesimo che ci rigenera, sono qualche cosa di aggiunto alla nostra natura. Con tale riserva, l’universalità del peccato e quella della giustizia si trovano nella stessa proporzione. – Terminiamo brevemente il parallelo, o meglio il contrasto, tra il primo e il secondo Adamo. Siccome Adamo è il tipo del Cristo, e il tipo, per natura sua, è meno perfetto che l’antitipo, vicino alle relazioni che vi sono, vi saranno pure differenze: “Non è del dono gratuito come della colpa. Poiché se per la colpa di un solo molti muoiono, a più forte ragione la grazia di Dio e il dono concesso per un solo uomo, Gesù Cristo, si spargeranno su molti con abbondanza. E non è del dono come dell’atto di un solo uomo che ha peccato. Perché il giudizio (è partito) da un solo atto (per venire) a una sentenza di condanna, ma il dono gratuito (parte) da molte colpe (per venire) a una sentenza di assoluzione. Ora se, per la colpa di un solo, la morte ha regnato per il fatto di un solo, a più forte ragione coloro che hanno ricevuto l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno per il solo Gesù Cristo”. Vi sono dunque due differenze capitali: differenza nelle cause e differenza negli effetti. Da una parte un uomo, Adamo; dall’altra un Uomo-Dio, Gesù Cristo: tale è la causa morale. Da una parte il peccato; dall’altra la giustizia: tale è la causa formale. Ma è evidente che Gesù Cristo rappresenta meglio che Adamo l’umanità, e la ragione insegna che il bene vince, in potere, il male: ne segue che la riparazione sarà più efficace che l’atto distruttore. Essendo disuguali le cause, anche gli effetti saranno disuguali. Così vediamo che il punto di partenza della rovina è un peccato unico il quale si trasmette successivamente; ma il puntò di partenza della restaurazione è un’infinità di peccati da espiare. La sovrabbondanza della grazia è resa ancora più spettacolosa dalla stessa abbondanza del peccato: Ubi abundavit delictum super abundavit gratia. Da questi dati derivano tre corollari: Il regno del peccato nell’umanità risale a una causa unica, deriva in ultima analisi da un solo atto, dalla disobbedienza del nostro primo padre. Perciò la restaurazione o, per mantenere l’antitesi, il regno della giustizia potrà risalire a una medesima causa, la persona del Cristo, e derivare da un solo atto meritorio, dall’obbedienza del Cristo fino alla morte su la croce. Per questo basta che l’autore della riparazione abbia col genere umano lo stesso rapporto che ebbe l’autore della caduta, ossia che d Cristo sia il capo dell’umanità e l’antitipo di Adamo. Da questa unica sorgente derivano rispettivamente: da una parte la morte universale, la tirannia della carne, l’onda sempre crescente dei peccati attuali; dall’altra la rigenerazione, l’effusione della grazia e i frutti dello Spirito Santo. – Il peccato che invade il genero umano por la colpa di un solo, non è una pura denominazione estrinseca; esso costituisce peccatori tutti gli uomini, anche quelli che non hanno imitato la trasgressione di Adamo; porta su tutti una sentenza di condanna; diventa proprio di ciascuno, come la grazia, la giustizia e la vita che apporta a tutti il Cristo. In che cosa consiste precisamente questo peccato originale? Perché ci viene imputato? In quale senso ci diviene proprio? Che esso consista nella privazione della giustizia originale di cui Adamo era depositario, e che egli non seppe conservare; che ci sia imputato in forza della solidarietà che fa della volontà di Adamo la volontà di tutta la sua stirpe; che si trasmetta per via di generazione soprannaturale, sono verità che potremmo dedurre dalle parole e dai ragionamenti di San Paolo. Ma queste deduzioni e queste speculazioni oltrepassano l’oggetto della teologia biblica, e dobbiamo lasciarle ad un’altra scienza.

II. IL CRISTO CI FA TRIONFARE DELLA MORTE.

1. IL BATTESIMO, MORTE MISTICA. — 2. MORTE MISTICA, PRINCIPIO DI VITA.

1. Poiché la vita e la morte sono due nozioni correlative, è impossibile che la modificazione di significato subita dall’una non reagisca sul significato dell’altra. Per San Paolo, come per San Giovanni, la vita in tutta la sua pienezza è ad un tempo la vita della grazia e la vita della gloria, la partecipazione alla giustizia del Cristo, la beatitudine celeste che è la fioritura spontanea della carità, e l’esistenza gloriosa del corpo risuscitato, che è d compimento della beatitudine. Così pure la morte indica ora la separazione fisica, dell’anima dal corpo, ora la privazione della grazia santificante, ora la perdizione eterna, chiamata da San Giovanni una seconda morte, ora tutte queste cose insieme, che sono unite tra loro da un vincolo di intima dipendenza. Tutti gli effetti del peccato sono compresi sotto il nome di morte, e tutti gli effetti della grazia sono compresi sotto i l nome di vita: « Lo stipendio del peccato è la morte; la gratificazione di Dio è la vita eterna (Rom. VI, 23) ». Sarebbe limitare troppo lo stipendio del peccato, il ridurlo alla morte fisica, poiché esso ha come corrispondente la vita eterna che non è soltanto la restaurazione del composto umano, ma è la partecipazione alla vita del Cristo, quaggiù con la grazia, e in cielo con la gloria. Noi viviamo in quella misura con cui siamo partecipi della vita del Cristo; ora Gesù Cristo ci fa partecipi della sua vita soltanto nella sua morte, perciò noi viviamo soltanto in quanto moriamo in lui. Questo avviene di diritto sul Calvario, ma di fatto avviene nel Battesimo. – Per chi abbia penetrato bene il pensiero dell’Apostolo, il suo sistema di argomentazione è dei più semplici: il Battesimo ci applica il frutto del Calvario; in esso Gesù Cristo ci associa, in una maniera mistica ma tuttavia reale, alla sua morte e alla sua vita. Associandoci alla sua morte, egli neutralizza il principio di attività che il peccato aveva deposto in noi, e che costituiva l’uomo vecchio; associandoci alla sua vita, distrugge tutti i germi di morte e ci conferisce il privilegio di una vita senza fine: vita dell’anima e vita del corpo, vita della grazia e vita della gloria. Certamente noi possediamo soltanto nella speranza una parte di tali favori, ma « la speranza non vien meno ». Dio vuole perfezionare l’opera sua in noi e vi si obbliga concedendoci un pegno certo della sua fedeltà: basta che lasciamo vivere Lui in noi. “Ignorate forse che noi tutti che fummo battezzati nel Cristo Gesù, fummo battezzati nella sua morte! Noi fummo dunque sepolti con lui per mezzo del battesimo nella morte, affinché come il Cristo fu risuscitato da morte per la gloria del Padre, così anche noi camminiamo nel rinnovamento di vita. Poiché se noi siamo innestati sopra di lui dalla somiglianza della sua morte, lo saremo pure dalla somiglianza della sua risurrezione” (Rom. VI, 3-5). – Come si vede, l’Apostolo ha in mente il rito primitivo del Battesimo e l’etimologia della parola greca battezzare. « Battezzare » vuol dire « immergere » e il rito primitivo traduceva dinanzi alla fantasia e dinanzi agli occhi questo significato etimologico. L’immersione, simbolo della sepoltura e perciò della morte — poiché si seppelliscono soltanto i morti — era subito seguita dall’emersione, emblema di risurrezione e di vita. Essere battezzato nel Cristo (εἰς Χρiστόν = eis Kriston) non è soltanto essergli assoggettato come uno schiavo al suo padrone o come un uomo legato al suo sovrano; non è neppure essergli vincolato da giuramento, come un soldato al suo generale, e neppure essergli consacrato come un tempio alla divinità; ma è anche e soprattutto essergli incorporato, essere immerso in Lui come in un nuovo elemento, è diventare una parte di Lui, un altro Lui medesimo. Non contento di affermare che nel Battesimo noi siamo immersi nel Cristo. San Paolo dice che « noi siamo immersi nella morte del Cristo », in altre parole, nel Cristo morente. Difatti noi siamo associati al Cristo e diventiamo suoi membri nel momento preciso in cui Egli diventa Salvatore; ora questo momento, per Gesù Cristo, coincide con quello della sua morte, figurata e misticamente effettuata per noi nel Battesimo. Da quel momento, tutto ci diventa comune con Gesù Cristo; noi siamo crocifissi, sepolti, risuscitati con Lui; partecipiamo alla sua morte e alla sua vita nuova, alla sua gloria, al suo regno, alla sua eredità. Unione ineffabile, paragonata da Paolo all’innesto che mescola intimamente due vite fino a confonderle insieme, e assorbe nella vita del tronco la vita del ramo innestato; operazione meravigliosa che rende noi e il Cristo σύμφυτοι (=sumfotoi), (animati dallo stesso principio vitale), σὺμμορφοι (=summorfoi). soggetti ad un medesimo principio di attività, oppure, come si esprime Paolo altrove, ci riveste del Cristo e ci fa vivere della sua vita (Rom. XI, 17-24 ).

2. È evidente che per San Paolo il Battesimo non è un’imitazione puramente figurativa della morte del Cristo, né un semplice atto del neofito che cerchi di appropriarsi la morte del Salvatore considerandola come sua, perché tale finzione non cambierebbe nulla della realtà delle cose; il Battesimo fa morire veramente in noi l’uomo vecchio, infonde veramente nelle nostre vene il succo divino, crea veramente in noi un essere nuovo. In quanto è un rito sacramentale e indipendentemente dalla fede che qui non è neppure nominata, esso opera questi meravigliosi effetti. Non è snaturare il pensiero di Paolo d tradurlo così in linguaggio teologico moderno: i sacramenti sono segni efficaci che producono ex opere operato ciò che significano. Ora il Battesimo rappresenta sacramentalmente la morte e la vita del Cristo. Bisogna dunque che esso produca in noi una morte, mistica nella sua essenza, ma reale nei suoi effetti, morte al peccato, alla carne, all’uomo vecchio, e una vita conforme alla vita di Gesù Cristo risuscitato. La maggiore di questo argomento appartiene alla catechesi elementare; la minore era così nota agli uditori di Paolo, che si limita a ricordarla; la conclusione è uno dei fondamenti più saldi della sua morale. – Ma l’efficacia del Battesimo non è il principale obbiettivo: egli la suppone più che non la dimostri. Il suo disegno è quello di provare che il Battesimo è la presa di possesso di una vita immortale e indefettibile. Tutti i neofiti sanno che il Battesimo distrugge il peccato e ci mette, riguardo al peccato, in uno stato di morte che, nelle intenzioni di Dio, dovrebbe essere duraturo e definitivo. Questo stesso rito battesimale, conchiude l’Apostolo, non avrà meno efficacia in quanto rappresenta e riproduce la risurrezione e la vita glorificata del Cristo: « Se siamo innestati al Cristo dalla somiglianza della sua morte, certamente lo saremo pure dalla somiglianza della risurrezione (Rom. VI, 5) ». Ma essendo questa nuova vita destinata a durare sempre, Dio nel darcela si obbliga a conservarcela: « Se siamo morti col Cristo, crediamo che vivremo anche con Lui. Poiché la sua morte fu una morte per il peccato una volta per sempre; ma la sua vita è una vita per Dio. Perciò consideratevi morti per il peccato e vivi per Dio in Gesù Cristo (ivi, VI, 8-11) ». La nuova vita ricevuta nel Battesimo è nelle nostre mani; dipende da noi il conservarla o il perderla. Per parte sua, Dio vuole che essa sia immortale, e che la grazia si cambi in gloria al termine della prova. Veniamo dunque a finire nello stesso punto di partenza: « La speranza non vien meno ».