CONOSCERE SAN PAOLO (13)

CONOSCERE SAN PAOLO (13)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

L’Epistola ai Romani (3)

SECONDA SEZIONE (II)

III. VITTORIA DELLO SPIRITO SULLA CARNE.

1 . LA LEGGE AL SERVIZIO DELLA CARNE. — 2. LA CARNE VINTA DALLO SPIRITO.

1. Il terzo ostacolo alla salute è la carne di cui la Legge mosaica fu ausiliare inconsapevole. Origene aveva già notato che una delle principali difficoltà del capitolo VII dell’Epistola ai Romani è il continuo cambiamento di significato che subisce la parola legge (Rom. VII, 7). Quando significa per antonomasia la Legge mosaica, ordinariamente in greco ha l’articolo determinativo, ma può anche farne a meno, così in certe locuzioni genitive o propositive consacrate dall’uso, come anche perché allora è considerata come una specie di nome proprio. Del resto la Legge può significare il codice mosaico stesso, oppure il libro che lo contiene, oppure anche tutto l’Antico Testamento per opposizione al Vangelo. Ma l’equivoco non è tutto qui. Quando io voglio fare il bene, scopro questa legge in me, che il male mi sta appresso. Poiché io mi diletto nella legge, secondo l’uomo interiore, ma vedo un’altra legge nelle mie membra, la quale lotta contro la legge della mia ragione e mi fa schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra (ivi, VII, 21-23). – In questo breve tratto la parola legge è presa in cinque diversi significati che enumereremo nell’ordine in cui si presentano: la legge dell’esperienza, definita da questo fatto, che quando l’uomo vuole fare il bene, constata in sé la presenza del male; la legge di Dio, cioè la Legge mosaica, poiché benché San Paolo riconosca l’esistenza della legge naturale, non le dà il nome di legge, soprattutto di legge di Dio; la legge delle membra, o più esattamente la legge che è nelle membra, la concupiscenza e i cattivi istinti; la legge della ragione che è il dettame della coscienza oppure la Legge di Dio in quanto è promulgata nell’intelligenza; la legge del peccato, detta anche la potenza del male che pesa su l’umanità decaduta. Questa osservazione preliminare troverà la sua applicazione nei ragionamenti dell’Apostolo: “Non sapete voi, o fratelli — poiché parlo con persone che sanno che cosa è una legge — che la legge impera su l’uomo fino a tanto che egli vive? Difatti la donna maritata è legata da una legge al suo marito (fino a tanto che è vivente); ma se questi viene a morire, è sciolta dalla legge del marito. Dunque, finché vive d suo marito, sarà chiamata adultera se starà con altro uomo; ma morto il marito, essa è sciolta dalla legge del marito, di modo che non è adultera se sta con altro uomo. Così anche voi, fratelli miei, siete morti alla legge per il corpo del Cristo, di modo che apparteniate ad un altro che è risuscitato da morte, perché possiamo portare frutti per Dio” (Rom. VII, 1-4). – La gran difficoltà di questo passo dipende certamente dai diversi significati della parola legge il cui senso preciso talora rimane dubbio; ma deriva soprattutto da una mancanza di armonia assai notevole tra i termini del paragone, tanto che la conclusione pare non risponda alle premesse. Come si spiega tale mancanza di armonia? Si spiega con questo, che l’Apostolo ha di mira due tesi di importanza disuguale; l’una, la principale, che ha messo in rilievo alla fine del capo VI, l’altra che svilupperà per disteso nel resto del capo VII. La prima si può formulare così: «Il Cristiano, morto nel Battesimo, è liberato dal peccato e diventa capace, unito al Cristo, di portare frutti di giustizia ». La seconda si potrebbe esprimere così: « La Legge mosaica è stata l’ausiliare inconsapevole del peccato, ma d’ora innanzi non è più di ostacolo ai frutti della salute ». – Paolo si appella prima ad un fatto di esperienza e di senso comune: una legge, o più genericamente un vincolo morale qualunque, non lega l’uomo oltre la morte. A Roma, patria dei più famosi legisti, meno che altrove si poteva ignorare un principio di diritto così evidente. Per esempio, una donna maritata diventa libera alla morte del marito, e le è permesso contrarre un secondo matrimonio senza venire accusata di adulterio. Ci aspetteremmo questa conclusione: « Così pure la Legge è morta per voi, e voi siete liberati dal suo giogo »; ma se l’Apostolo la lascia indovinare, non vi si ferma, perché essa è soltanto accessoria. Egli si ricorda che il Battesimo è una morte mistica a tutto il passato e il punto di partenza di una nuova vita, vita di giustizia e di santità. Egli dà perciò un’altra direzione al suo pensiero: « Così, fratelli miei, voi siete morti alla Legge per d corpo del Cristo, in modo da appartenere ad un altro il quale è risuscitato da morte, affinché possiamo portare frutti per Dio ». Una volta, asserviti alla carne, portavamo soltanto frutti di morte; « ma ora noi siamo stati liberati dalla Legge, essendo morti a questa Legge che ci teneva » sotto il suo impero, e più nulla si oppose alla nostra fecondità soprannaturale. È probabile che l’idea del matrimonio sia sempre nella mente di Paolo, poiché egli, come i profeti, suole presentare l’unione dell’anima con Dio, sotto questo simbolo. Egli infatti adopera qui, per indicare la nostra appartenenza al Cristo, la stessa parola che esprime la relazione della donna col suo secondo marito. Una cosa è certa, ed è che la Legge è morta per il Cristiano, e che il Cristiano è morto per la Legge. In altri termini, non vi è più nulla di comune tra la Legge ed il Cristiano: ed è giusto, poiché essa era l’ausiliare del peccato e della carne. Quest’ultima considerazione è esposta dall’Apostolo in una delle sue pagine più ardite: “Che diremo dunque? La Legge è forse peccato? No certo. Ma io non ho conosciuto il peccato se non per mezzo della Legge: poiché non avrei conosciuto la concupiscenza, se la Legge non dicesse: Non desiderare. Ora il peccato, presa occasione dal comandamento, cagionò in me ogni cupidità; poiché senza la Legge il peccato è morto. Io poi una volta vivevo senza legge; ma quando venne il comandamento, il peccato tornò a rivivere. E io morii, e si trovò che il comandamento destinato a dare la vita, aveva prodotto la morte. Poiché il peccato, presa occasione dal comandamento, mi sedusse e mi uccise per mezzo di esso. Pertanto la Legge è santa, e il comandamento è santo e giusto e buono. Allora una cosa che è buona è divenuta per me la morte? No certo, ma il peccato, affine di apparire peccato, operò in me la morte per mezzo di una cosa buona, affinché il peccato per mezzo del comandamento divenisse eccessivamente peccatore. Noi sappiamo difatti che la Legge è spirituale: ma io sono carnale, venduto come schiavo al peccato. La mia azione è per me un enigma, perché non fo quello che voglio e fo quello che abborro. Ora se io fo quello che non voglio, rendo testimonianza alla Legge, che è Ma se fo quello che non voglio, non sono dunque più io che lo fo, ma è il peccato che abita in me. Poiché io so che in me, cioè nella mia carne, non abita nulla di buono. Il volere mi è dappresso, ma l’operare il bene, no. Poiché io non fo il bene che voglio e fo il male che non voglio. Ora se fo il male che non voglio, non sono dunque io che lo fo, ma il peccato che abita in me…! Me infelice! chi mi libererà da questo corpo di morte? Grazie a Dio per Nostro Signor Gesù Cristo!” (Rom. VII, 7-25). – Qual è l’eroe di tutto questo lugubre dramma, e come mai la Legge, destinata a dare la vita, non è riuscita che a dare la morte? Queste sono le due questioni pregiudiziali suggerite dalla lettura di questo brano. – L’opinione sostenuta una volta da San Metodio, in una lunga spiegazione del nostro testo (De resurrect. II, 1-8), dev’essere respinta senz’altro. L’io di questo capitolo indicherebbe l’umanità compresa nel primo uomo; la legge sarebbe il divieto di toccare il frutto proibito; il peccato sarebbe il diavolo. L’uomo nel paradiso terrestre visse prima senza legge; ma quando venne il comandamento divino, il diavolo si mise all’opera; e l’uomo morì, cioè fu colpito da una sentenza di morte. Non fa meraviglia, che un’esegesi così strana abbia trovato un solo seguace, il Gaetano. Che Paolo parli per esperienza, che evochi il doloroso ricordo di lotte impotenti e di sconfitte umilianti, è cosa possibile e anche probabile, tanto è commossa la sua parola; ma egli non si mette in scena da solo, e tutti convengono che l’io di cui si serve, è fittizio in una certa misura. Rappresenta egli la parte dell’Ebreo vessato dalla Legge e conscio della sua debolezza, oppure quella del Cristiano rigenerato dalla grazia, ma sempre molestato dalla natura? Dal tempo delle controversie pelagiane, Agostino si fece campione della seconda ipotesi che, per merito suo, trovò molti aderenti tra gli scolastici ai quali si unirono più tardi i corifei del protestantesimo. Mutando opinione, egli diceva, cedeva all’autorità di interpreti tra i quali conta — certamente senza ragione — Sant’Ambrogio. Alcune espressioni di San Paolo sembrerebbero a prima vista favorire tale interpretazione. « Io mi diletto nella Legge di Dio »; è questa la parola di un peccatore? « Non sono io che fo il male »; chi può dire così, se non il giusto? Se si chiama « carnale, venduto come schiavo al peccato », è perché la sua liberazione non è ancora completa. Egli non fa il bene che vorrebbe, perché vorrebbe perfezionarlo. Tali sono le ragioni di Agostino. Si noterà prima di tutto che la sua distinzione tra fare e perfezionare è illusoria, perché poggia sopra una traduzione inesatta del testo; il contrasto indicato da San Paolo non è tra perfezionare e fare, ma tra fare e volere (ivi, VII, 18). L’argomento che pareva decisivo al vescovo d’Ippona, cioè che soltanto il giusto può dire: « Io mi compiaccio nella Legge di Dio, secondo l’uomo interiore », non è più forte degli altri. Si trova tra i pagani — e a più forte ragione tra i Giudei prevaricatori — una moltitudine di simili confessioni: essi amano e approvano il bene, ma abbracciano e fanno il male. Inoltre, adottando la sua nuova opinione, Sant’Agostino non condannava l’antica: « Io spiegavo, egli dice, le parole dell’Apostolo, in cui si espone il conflitto tra lo spirito e la carne, riferendole all’uomo soggetto alla Legge prima del regno della grazia. Compresi soltanto molto più tardi, che esse si potevano anche intendere — e con maggiore probabilità — dell’uomo spirituale (Retract. I, 23, 24, 26) ». Che le parole dell’Apostolo si possano applicare anche al giusto, lo concediamo volentieri ad Agostino che non domanda di più. Gli scrittori mistici, dietro l’esempio di Cassiano e di Sant’Ilario, si sono sempre giovati di questo significato accomodatizio; ma la questione non sta in questo: noi cerchiamo il vero pensiero di Paolo, e tutto il contesto ci dice altamente, dalla prima all’ultima linea, che l’io rappresenta l’uomo alle prese con la concupiscenza sotto il regime della Legge, troppo debole per non soccombere nella lotta disuguale. Tale era l’opinione comune dei Padri prima di Sant’Agostino, e tale è di nuovo l’opinione comune degli interpreti. Essa soltanto spiega certe espressioni le quali sarebbero più che strane in bocca al giusto sotto la legge della grazia. Le frasi come queste: Ego autem carnalis sum, venumdatus sub peccato, oppure: Perficere bonum non invenio, oppure: Sentio legem captivantem me in lege peccati, attribuite all’uomo trasformato dal Battesimo, sono diametralmente opposte alla lettera e allo spirito di tutte le Epistole. Ma soprattutto dobbiamo ricordarci dell’argomento che si tratta: l’Apostolo vuole dimostrare che la Legge mosaica doveva perire, perché è stata l’ausiliare del peccato, che essa ha provocato l’ira divina moltiplicando le trasgressioni. Bisogna dunque che egli si metta mentalmente sotto il regime della Legge, prima dell’economia della grazia: e così fa realmente. L’esclamazione finale: « Grazie a Dio per Nostro Signor Gesù Cristo! » è il grido di sollievo di un uomo che si risveglia come da un sogno, felice di vedere che il suo sogno non era che un incubo penoso. Ma come mai la Legge che è buona, spirituale e santa, ha fomentato il peccato, nutrito la concupiscenza, contribuito a dare la morte? Basta ricordare che cosa è una legge, la Legge mosaica non meno di qualunque altra. La Legge è una luce, ma per se stessa non è una forza; senza di essa la prevaricazione, cioè la trasgressione di una volontà positiva di Dio, sarebbe impossibile: Ubi non est lex, nec prævaricatio. Essa ha dunque il primo effetto di aumentare il numero dei peccati e di aggravarne la malizia: Lex autem subintravit ut abundaret delictum. La legge ci fa conoscere, con un’esperienza dolorosa, la sregolatezza della nostra natura: Per legem cognitio peccati; essa è il mezzo di azione del peccato e il suo strumento di regno: Virtus peccati lex. Il peccato se ne serve per i suoi fini, per assalire la nostra volontà vacillante; senza di essa non avrebbe tutta la sua energia, sarebbe morto per metà oppure avrebbe soltanto una vita latente: Sine lege enim peccatum mortuum est. Se è così, che meraviglia se la Legge provoca l’ira divina? Lex enim iram operatur. Ma non è tutto: la Legge è una barriera morale che irrita l’uomo senza fermarlo; un termine prefisso alla sua libera attività, il quale lo umilia senza attrarlo. Per una volontà incostante e fragile, quanti sono i nuovi comandamenti, altrettante sono le occasioni di cadere, poiché il divieto stimola il desiderio, il comandamento stuzzica l’orgoglio, il frutto proibito pare più delizioso. La tentazione lungamente repressa aspira alla rivincita; esplode improvvisamente; assedia la volontà che vien presa da vertigini, come il viaggiatore che cammina su l’orlo di un precipizio. Il compito della legge è quello di dire: fa questa cosa; evita quest’altra; se fosse proposta ad esseri di una rettitudine perfetta, ai quali bastasse mostrare il bene per farlo amare, essa avrebbe soltanto dei vantaggi; ma la condizione presente dell’umanità è ben diversa. – La legge si è introdotta furtivamente dietro il peccato originale per venirgli in aiuto, e ne è derivato questo strano paradosso, che « il comandamento destinato a dare la vita, finì con dare la morte (Rom. VII, 10) ». – Questo ci riconduce al problema psicologico studiato da San Paolo e dal quale, a dire il vero, noi non ci siamo mai allontanati. Volete sapere, dice l’Apostolo, in che modo il peccato ci uccide per mezzo della Legge? « Ci fu un tempo in cui io vivevo senza Legge (ivi, VII, 9) », e anche voi, o Ebrei ai quali io parlo e dei quali sostengo la parte. Questo tempo non può essere altro che quello dell’infanzia, prima che si svegliasse la ragione; poiché da quel momento fino al Battesimo, la Legge non cessò di rivendicare i suoi diritti su coloro che il sangue li rendeva soggetti. Dal giorno in cui il Decalogo promulgato dalla Legge scoprì alla mia coscienza il suo carattere imperativo, il peccato che pareva morto, ed era morto effettivamente, non tardò a riprendere vita (ivi, VII, 9). Esso manifestò subito la sua presenza rivelando un’altra legge, la legge della carne, contraria alla Legge di Dio. Il risultato del conflitto fu la morte dell’anima: Ego autem mortuus sum. Non è la Legge, è vero, che cagionò direttamente la mia morte spirituale: è il peccato che ne è responsabile, perché prese occasione dalla Legge e abusò di una cosa buona per se stessa, per darmi morte. Ma non è meno certo che, senza la Legge, il peccato sarebbe rimasto in uno stato d’inerzia, di languore e d’impotenza. – A questo ragionamento si possono opporre due cose: la prima è che, mancando la Legge mosaica, la legge naturale avrebbe avuto lo stesso risultato; la seconda è che si potrebbe argomentare nella stessa maniera contro la legge di grazia. Le due obbiezioni poggiano sopra un malinteso. – Per l’Ebreo, la legge naturale si confonde con la legge positiva. Paolo conobbe d peccato soltanto per mezzo della Legge, e intende proprio parlare della Legge mosaica, perché soggiunge subito: « Io non conoscerei la concupiscenza, se la Legge non dicesse: Non desiderare (VII, 7) ». Egli sceglie di proposito l’articolo del Decalogo in cui la ragione ha maggiormente bisogno di essere illuminata dalla rivelazione; ma lo stesso potrebbe dire anche degli altri. Il fanciullo ebreo sapeva a memoria la Legge prima di comprenderla, e la Legge s’impadroniva di lui nel momento preciso in cui si destava la sua coscienza. Infatti egli conosceva soltanto per mezzo della Legge il disordine della sua natura. Se si fosse opposto a Paolo, che la ragione abbandonata a sé avrebbe potuto fare lo stesso ufficio, egli non avrebbe contradetto, ma avrebbe notato che si spostava la questione, e che egli non alludeva a questa seconda ipotesi. – Ma egli non avrebbe ammesso che il suo ragionamento si possa applicare alla legge di grazia. Questa, come indica il suo nome, porta in se stessa il suo antidoto, poiché la grazia è inerente alla legge, mentre alla Legge mosaica la grazia era aggiunta, come un elemento estrinseco. Non già che Dio comandi l’impossibile e ricusi di proporzionare il suo aiuto agli obblighi che impone, ma nella economia antica la grazia derivava da un principio estraneo e, quando si discute il valore della Legge, non bisogna tener conto che di quello che le appartiene come suo. – La Legge mosaica doveva dunque scomparire, scomparire tutta quanta, perché Paolo non faceva affatto la distinzione che oggi ci è così familiare, tra la legge cerimoniale e la legge morale. Per lui la Legge è tutta una cosa sola che sussiste o cade tutta insieme. Si può constatare che egli, nelle sue esortazioni parenetiche, non si appella mai alla legge di Mosè. Egli al più le domanda una conferma (I Cor. XIV, 34); potrà qualche volta citarla come rivelazione, ma non mai come regola imperativa (Rom. XII, 19). Egli non si appoggia neppure sul Decalogo scritto, e se lo ricorda di passaggio, lo fa soltanto per dirci che tutti i suoi comandamenti sono compendiati nella legge di amore (Rom. XIII, 8). La Legge è dunque abolita per sempre. I Cristiani sono morti alla Legge, e la Legge è morta per loro (Rom. VII, 4). Il Cristo era il suo fine, lo scopo a cui essa tendeva e il termine dove doveva cessare (Rom. X, 4). Essa è stata lacerata e inchiodata su la croce (Col. II, 14). E non si dica che il pensiero di Paolo andò evolvendosi, che col tempo è divenuto o più ostile o più favorevole alla Legge mosaica: prima ancora che avesse scritto una sola riga delle sue Epistole, fino dall’assemblea di Gerusalemme, le sue idee erano già interamente fissate su questo punto, e le contradizioni dei critici dimostrano che il suo cambiamento di opinione è immaginario. – La Legge muore perché è servita di strumento al peccato, ha aumentato le prevaricazioni ed ha provocato l’ira divina; essa lascia il posto ad un’istituzione più perfetta, perché era soltanto una fase transitoria nel disegno della redenzione e perché, resa impotente dalla carne (Rom. VIII, 3), rese vani i disegni di Dio. Quest’ultima considerazione ci riconduce al nostro argomento: ora dobbiamo esaminare in che modo la carne vinta non è più di ostacolo alla nostra speranza.

2. Qui entra in scena un nuovo antagonista, lo spirito, il quale impegnerà con felice esito, contro la carne, quella lotta in cui la Legge troppo debole dovette soccombere. La carne e lo spirito, essendo quasi sempre in correlazione tra loro, non si possono quasi definire se non l’una per mezzo dell’altro. Essi si oppongono in tre maniere principali: come parti integranti del composto umano (opposizione fisica); come sostanze complete che hanno per carattere comune la vita, per differenza la materialità (opposizione ontologica); come principi antagonistici del bene e del male nell’ordine soprannaturale (opposizione morale e religiosa). Soltanto la terza opposizione ci importa per il momento. È evidente che, sotto questo riguardo, la carne è in relazione col peccato, e si tratta di determinare la natura e l’origine di questa relazione. – Molti teologi e molti esegeti radicali pensarono di attribuire a San Paolo il dualismo greco. La carne, cattiva per essenza, sarebbe fatalmente peccatrice in se stessa. Non si è riflettuto che l’antitesi materia e spirito non è biblica, ma soprattutto non si è voluto riconoscere che i l dualismo greco fu sempre antipatico al monoteismo ebraico. Per ogni Ebreo nutrito della lettura della Bibbia, Dio è il creatore di tutte le cose, e tutto ciò che ha creato è buono; non vi è materia increata e autonoma, né demiurgo indipendente da Dio. La logica degli Ebrei non usciva da questo dilemma: Se la materia è cattiva per se stessa, o Dio è autore del male, oppure il male cessa di essere male. Supposto che la carne fosse per se stessa cattiva, invece di santificarla bisognerebbe adoperarsi a distruggerla; l’ideale cristiano sarebbe l’ascetismo indiano, preludio del nirvana Ma non è questo l’ideale di Paolo: per lui il corpo è suscettibile dell’influenza dello Spirito Santo di cui è tempio fino da questa vita. L’Apostolo raccomanda ai fedeli di purificarsi « da ogni lordura della carne e dello spirito »; si augura che la vita di Gesù si manifesti nella sua carne mortale in attesa di essere rivestito di un corpo spirituale. Siamo lontani mille miglia dal dualismo platonico che aspira a spogliarsi del corpo per rendere all’anima la sua libertà nativa. In che modo il Cristo riparerebbe la natura umana, se questa fosse essenzialmente peccatrice? Come sarebbe egli senza peccato, se il peccato fosse inerente alla carne? E come condannerebbe egli il peccato nella carne, se egli stesso fosse peccatore? – La relazione del peccato con la carne non è dunque essenziale, ma accidentale; essa non ha il suo fondamento nella natura delle cose, ma in un fatto storico. Come abbiamo veduto, il peccato di un solo uomo ha costituito peccatori tutti gli uomini. La natura umana non è più quella che doveva essere secondo l’intenzione di Dio; essa è carnale, venduta come schiava al peccato. San Paolo rimprovera ai Corinzi di essere uomini e di camminare secondo l’uomo; egli vuol dire secondo l’uomo quale lo ha fatto il peccato, e non quale può essere rifatto dalla grazia. Ma se il disordine abbraccia tutto l’uomo, se l’uomo tutto intero è costituito peccatore, se lo spirito può diventare carnale quando è sregolato, se Paolo riprende i vizi che derivano dall’intelligenza, la superbia, le inimicizie, i dissensi, l’invidia, l’idolatria, con lo stesso vigore con cui riprende quelli che derivano dai sensi, da che cosa deriva che il peccato è ordinariamente così strettamente associato alla parte materiale del composto umano? Poiché, fatta astrazione da tutti i testi oscuri (Col. III, 5), non si può negare che la carne sia una carne di peccato, in cui abita il peccato e non si trova nulla di buono (Rom. VII, 18-20). E per far vedere che si tratta proprio dell’organismo materiale, l’Apostolo qualche volta alla carne sostituisce il corpo o le membra del corpo (Rom. VI, 12). – Egli aspira a deporre il suo corpo di morte che soggioga e flagella per non esserne vittima (I Cor. IX, 27): egli dunque lo considera come il focolare speciale del peccato. – Se il disordine è generale, esso però è più apparente e anche più reale negli appetiti del senso. Nonostante la sua decadenza, la nostra ragione conserva sempre una certa affinità con Dio e con le cose di Dio; essa è la sede della coscienza; approva la legge divina e ce ne impone il giogo. Invece gl’istinti del senso sono sordi e ciechi; invece di obbedire, come richiederebbe l’ordine, aspirano soltanto a comandare: la loro violenza e la loro brutalità sopraffanno la ragione; sconvolgono da capo a fondo l’ordine della nostra natura; hanno quasi sempre la loro. parte nelle sregolatezze delle facoltà superiori, e questa parte è preponderante. Ma se ci fermiamo qui, la spiegazione è incompleta: bisogna salire più alto. L’origine e l’invasione del peccato sono da San Paolo assai chiaramente riferite alla trasgressione, alla disobbedienza di Adamo, e la carne non c’entra affatto. Ma il peccato di Adamo ci è comune, perché noi siamo con lui una medesima carne. In un dato momento ogni carne è stata concentrata in Adamo; perché noi discendiamo da lui secondo la carne, abbiamo con lui questa solidarietà in forza della quale il suo peccato è il nostro peccato. Il fiume della vita umana è stato inquinato alla sorgente, e con la propagazione della carne si trasmette gradatamente la macchia. Come antidoto alla potenza attuale della carne, Dio ci conferisce lo Spirito Santo. Dimostreremo altrove, studiando la psicologia di San Paolo, che egli chiama spirito non soltanto la terza Persona della Trinità, ma anche il complesso dei doni, delle profezie e delle grazie, in una parola, la natura nuova che la presenza dello Spirito Santo produce in noi. Tra questo nuovo principio e la carne, l’incompatibilità è assoluta: « Quelli che dipendono dalla carne, hanno i pensieri della carne; quelli che dipendono dallo Spirito, hanno i pensieri dello Spirito. Ora il pensiero della carne è la morte, come il pensiero dello Spirito è vita e pace; perché il pensiero della carne è l’odio di Dio… Così quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio. Ma voi non siete nella carne, bensì nello Spirito, poiché lo Spirito abita in voi (Rom. VIII, 4-9) ». Lo Spirito scompare a misura che progredisce la carne, e la carne indietreggia nella misura in cui lo Spirito trionfa; e questo antagonismo continua senza tregua fino alla vittoria definitiva dello Spirito. – Poiché questa vittoria è certa, dal momento che lo Spirito di Dio abita in noi. Noi non abbiamo ricevuto lo spirito di servitù, ma lo spirito di libazione, e ne è prova il nome di « Padre » che sfugge dalle nostre labbra con fiducia e con amore; è la testimonianza che lo Spirito Santo rende al nostro spirito; sono le aspirazioni e i santi desideri che ci suggerisce (Rom. VIII, 9, 15, 16, 23). Affinché questo ospite divino operi in noi gli effetti che promette la sua presenza, e riesca alla distruzione totale del corpo di morte e di peccato, basta non estinguere lo spirito e abbandonarci alla sua guida. Anche per questa parte la nostra speranza è assicurata. – Forse si opporrà che l’Apostolo è sempre allo stesso punto, che mette sempre in conflitto, sotto nomi diversi, gli stessi antagonisti, che, fatta astrazione dalla Legge che si è introdotta furtivamente dietro il peccato per venire in aiuto della carne, la lotta tra il bene e il male, nei capitoli V – VIII dell’Epistola ai Romani, si risolve in tre antitesi i cui termini sembrano rispettivamente identici:

Il peccato e la giustizia (V).

La morte e la vita (VI).

La carne e lo spirito (VII – VIII).

Questa obbiezione è fondata soltanto in parte: il peccato, la morte e la carne, da una parte, la giustizia, la vita e lo spirito dall’altra, sono nozioni connesse ma distinte. In teologia moderna si tradurrebbero in questi equivalenti:

Peccato originale e grazia del Cristo.

Peccato abituale e grazia santificante.

Concupiscenza e grazia attuale.

Questo però va inteso approssimativamente. Il peccato originale e la grazia del Cristo sono generalmente contemplati da San Paolo nelle loro cause, cioè la ribellione di Adamo e la morte volontaria del Cristo, ma con tutte le loro possibili conseguenze. Il peccato abituale e la grazia santificante sono raramente considerati senza la morte eterna e la risurrezione beata che ne sono i risultati naturali. – Finalmente l’Apostolo unisce quasi sempre la grazia attuale alla sorgente da cui deriva, cioè lo Spirito di santità, e comprende col termine generico di carne quella che i teologi chiamano concupiscenza. Se anche noi abbiamo evitato la parola concupiscenza, lo abbiamo fatto perché oggi è equivoca e spesso significa il desiderio cattivo o anche il desiderio sensuale, invece di indicare in genere la corruzione della nostra natura intellettuale e sensibile, l’inclinazione al male, il yetser hara della teologia talmudica.

(Continua …)