DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps CXVIII:137;124
Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secúndum misericórdiam tuam. [Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.
[Beati gli uomini retti: che procedono secondo la legge del Signore.]

Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secúndum misericórdiam tuam. [Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]

Oratio

Orémus.
Da, quǽsumus, Dómine, pópulo tuo diabólica vitáre contágia: et te solum Deum pura mente sectári.
[O Signore, Te ne preghiamo, concedi al tuo popolo di evitare ogni diabolico contagio: e di seguire Te, unico Dio, con cuore puro.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV: 1-6
“Fatres: Obsecro vos ego vinctus in Dómino, ut digne ambulétis vocatióne, qua vocáti estis, cum omni humilitáte et mansuetúdine, cum patiéntia, supportántes ínvicem in caritáte, sollíciti serváre unitátem spíritus in vínculo pacis. Unum corpus et unus spíritus, sicut vocáti estis in una spe vocatiónis vestræ. Unus Dóminus, una fides, unum baptísma. Unus Deus et Pater ómnium, qui est super omnes et per ómnia et in ómnibus nobis. Qui est benedíctus in saecula sæculórum. Amen.”

Omelia I

[Mons. G. Bonomelli, Omelie, vol. IV, Torino 1899 – Omelia IX].

Io, prigioniero nel Signore, vi scongiuro a vivere degnamente secondo la vocazione  alla quale foste chiamati. Con ogni umiltà e mansuetudine, sopportandovi con longanimità gli uni gli altri in carità. Usando ogni cura in mantenere l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Un corpo ed uno spirito, come già voi foste chiamati in una sola speranza della vostra vocazione. Un Signore, una fede, un battesimo, un Dio, e padre di tutti, il quale è sopra tutti e per tutti e in tutti noi. „ (Agli Efesini, capo IV, 1-6).

Là dove si chiudeva il commento dell’omelia settima, comincia precisamente questo dell’odierna Epistola di S. Paolo agli Efesini. I versetti che vi devo spiegare sono pochi di numero, soltanto sei, ma ripieni dei più alti e pratici documenti, talché ciascuno potrebbe fornire argomento ad un discorso. Scopo dell’Apostolo in essi è di esortare caldamente i fedeli a comportarsi da Cristiani, conservando la concordia, ed accenna in poche parole i princîpi e le cause che devono generare ed alimentare questa concordia. L’avervi accennato il soggetto capitale di questo commento è più che bastevole stimolo alla vostra attenzione. “Io, prigioniero nel Signore, vi scongiuro a vivere degnamente secondo la vocazione, alla quale foste chiamati. „ Non posso nascondere a voi, o carissimi, il senso profondo che io provo nel mio cuore al solo leggere le prime parole di questo versetto, quale si trova nella Volgata: “Obsecro vos — Vi scongiuro. „ Chi  è colui che esorta, che prega, che scongiura? È Paolo apostolo, che porta sul suo corpo le stimmate di Cristo, che fu chiamato da Lui stesso vaso eletto, che ha lavorato e sofferto più di tutti gli altri Apostoli; è Paolo apostolo, che da Gerusalemme fu condotto a Roma carico di catene, attraverso ad infiniti pericoli e patimenti, e che detta queste righe dal fondo del suo carcere, a pochi metri dal palazzo imperiale, dove Nerone sta preparando lo sterminio dei Cristiani; lo dice egli stesso, l’Apostolo, con un accento di santo orgoglio e come un titolo sopra tutti efficacissimo per ottenere ciò che domanda: “Io, prigioniero nel Signore, cioè, per il Signore, per la causa del suo Vangelo, vi scongiuro. „ E a chi rivolge queste parole sì accese? Ai suoi figli di Efeso, ch’egli ha guadagnato a Cristo con la sua parola, con la sua carità e con i suoi miracoli. Ma come? Paolo apostolo, già vecchio, già martire tante volte per Cristo, già presso alla corona, rivestito di quella eccelsa autorità, ch’egli ricevette da Cristo stesso in modo al tutto straordinario, prega, anzi scongiura i fedeli, i suoi figliuoli? Ma dimentica egli la sua dignità, il potere che tiene? Perché pregare e scongiurare quelli che gli sono di tanto sotto ogni rispetto inferiori? Perché non comandare? No, Paolo non dimentica la propria dignità, il proprio potere, e al bisogno saprà usarne; Paolo, formato alla scuola di Gesù Cristo, al comandare preferisce il pregare: sa d’essere padre e ne tiene il linguaggio pieno di tenerezza: sa che l’autorità è un officio, un ministero, un vero servizio; che il comando può offendere l’amor proprio, mentre la preghiera lo vince e lo guadagna, e perciò non scrive: “Io, prigioniero nei Signore, vi comando, ma sì vi prego, vi scongiuro: Obsecro vos ego vinctus in Domino. „ Questo linguaggio, tutto umiltà ed amore, esprime l’indole, l’intima natura del Vangelo, e ci fa sentire quanta differenza corra tra il potere laico, che usa l’impero e la forza, e l’autorità ecclesiastica, che usa la persuasione e la preghiera: Obsecro vos. Quella parola “prigioniero nel Signore „ è d’una forza e d’una eloquenza meravigliosa, e messa lì con un’arte da sommo oratore. È una sola parola: “Vinctus — prigioniero; „ non si diffonde a descrivere i suoi dolori, le privazioni, le noie e l’orrore del carcere; tutto questo lo lascia immaginare ai suoi figli, e si direbbe che ama nascondere tutto questo per non amareggiarli, e perciò racchiude tutto in una sola parola; “io prigioniero. „ Per ottenere ciò che vuole dagli Efesini, più che della sua autorità, si vale del suo stato di prigioniero per la fede: Obsecro vos ego vinctus in Domino. Quanta delicatezza e quanta forza di dire! Carissimi! Quale esempio per tutti quelli che esercitano un potere qualunque, sia nella società domestica, come i genitori e i padroni, sia nella società civile e politica, sia nella società ecclesiastica! In luogo della parola voglio, comando, impongo, usiamo, se le circostanze particolari lo permettono, usiamo le parole: vi prego, vi supplico, se vi piace, se non vi è grave, e con queste assai volte otterremo ciò che non otterremmo con quelle. Così vuole il sentimento della fratellanza, che abbiamo tra noi, e la eguaglianza dinanzi a Dio: così vuole la prudenza e il rispetto che dobbiamo ai nostri fratelli, che, quantunque inferiori, non cessano mai d’essere fratelli e l’amor proprio dei quali facilmente si offende con un linguaggio altezzoso ed imperioso. Paolo prega e scongiura i suoi fedeli di Efeso: e di che cosa li prega e li scongiura? “A vivere degnamente secondo la vocazione, alla quale foste chiamati, „ che è quanto dire, la vocazione di Cristiani. La vocazione cristiana comprende tutto l’insegnamento teorico e pratico, il simbolo e il decalogo, che il Cristiano deve professare e praticare. Il soldato, che volontariamente segue un capitano e si schiera sotto il suo vessillo, giurando fedeltà in faccia alla sua coscienza ed in faccia agli uomini, è tenuto a mostrarsi degno del suo capitano e del suo vessillo. Ora chi è il Cristiano? È un uomo che ha il dovere di seguire Gesù Cristo e volontariamente si è schierato sotto la sua bandiera: egli, in faccia al cielo ed alla terra, per il Battesimo, per la Cresima, ricevendo la sua Eucaristia, ed in cento altri modi, ha solennemente dichiarato d’avere per legge il Vangelo di Gesù Cristo, per vessillo la sua croce, che la sua professione è quella di Cristiano, n’andasse la vita e l’onore. Egli dunque nella sua fede, nella sua condotta, nelle sue opere, in ogni luogo, in ogni tempo, in qualunque condizione, non deve né dire, né fare, e nemmeno pensare o desiderare cosa che non sia conforme alla sua vocazione di Cristiano. Chiunque lo veda, o l’ascolti, o consideri la sua condotta, deve dire: Ecco un Cristiano che fa onore alla sua vocazione, al nome che porta. Esaminando noi stessi alla luce della verità, troviamo noi di essere sempre vissuti e di vivere al presente in modo degno della nostra vocazione? Ohimè! Quante volte venimmo meno a questa vocazione, e pur professandoci, a parole Cristiani, con le opere facemmo oltraggio al nome glorioso che portiamo! Deh! per l’avvenire viviamo come vuole l’Apostolo: ” Vi scongiuro, io prigioniero nel Signore, a procedere secondo la vocazione, alla quale foste chiamati. „ – Dalle esortazioni in genere S. Paolo discende al particolare, e dice in che devono i Cristiani mostrarsi pari all’alta loro vocazione. Uditelo: “Con ogni umiltà e mansuetudine, sopportandovi gli uni gli altri con longanimità.,, Nell’esercizio principalmente di due virtù, che poi si riducono ad una sola, vuole l’Apostolo che i Cristiani vivano secondo la loro vocazione, e sono l’umiltà e la mansuetudine, le quali due virtù sono fra loro inseparabili. Si dice umile chi sente bassamente di sé, dirò meglio, chi giudica se stesso secondo verità e conosce d’essere nulla, e per tale vuol essere trattato; mansueto è chi si rimette all’altrui giudizio e senza offendersi si lascia piegare e lavorare qual molle cera. – Il perché voi tutti comprendete che la mansuetudine è figlia della umiltà, per guisa che dove è quella, questa pure è forza vi sia. È cosa degna di osservazione, l’Apostolo volendo accennare le virtù principali onde deve onorarsi la vocazione cristiana, mette in primo luogo l’umiltà e la mansuetudine. Né qui s’arresta, ma vuole che codesta mansuetudine tocchi il sommo grado in quella, ch’egli chiama longanimità, che è quella pazienza che non si affanna mai, che è sempre eguale, inalterabile, che non conosce l’ira: mansuetudine e longanimità che naturalmente si esercitano, tollerando i nostri difetti, che è cosa facile, e i difetti dei fratelli, che è cosa assai difficile: Supportantes invicem. E nel sopportare le molestie, i difetti, e sopratutto le offese fatteci, che appariranno la nostra umiltà e la nostra mansuetudine. E stile dell’Apostolo addossare le frasi, e le parole, e i concetti, ma in guisa che l’uno sia o causa o effetto dell’altro. Egli ha nominato due virtù principalissime del Cristiano, l’umiltà e la mansuetudine; poi vuole che questa al bisogno diventi anche longanimità, massime nella convivenza sociale; ma tosto alla sua mente si affaccia la domanda: Ma donde si potrà attingere la forza della longanimità in mezzo alle tante asprezze della vita? – Dalla virtù, madre di tutte le virtù, e perciò soggiunge: ” Sopportandovi gli uni gli altri con longanimità nella carità, „ quasi dicesse: È la carità la sorgente perenne e vivace della mansuetudine e della longanimità. Io immagino la società domestica, la famiglia; la società più in grande, la parrocchia o il comune; la società più in grande ancora, la Nazione, lo Stato, in cui le virtù raccomandate e sì spesso inculcate da S. Paolo, l’umiltà, la mansuetudine, la longanimità, figlie tutte della carità, fossero esattamente osservate, e dico: la terra non sarebbe essa mutata in un paradiso ? Quanti mali rimossi e quanta felicità vi regnerebbe! Ah se la Religione Cristiana informasse davvero la società umana, che potremmo mai desiderare? Ma giova tener dietro all’Apostolo, che prosegue e scrive: “Usando ogni cura in mantenere l’unità dello spirito nel vincolo della pace. „ Le virtù sopra dall’Apostolo accennate, nutrite dalla carità, vi porranno in cuore una cura continua, uno studio amoroso di conservare l’unità dello spirito, che ne sarà uno dei frutti più preziosi. Quanto ai corpi noi siamo separati: lo spazio ed il tempo necessariamente ci dividono: ma attraverso allo spazio ed al tempo, che separano i nostri corpi e ci tolgono di vederci, di parlarci, di udirci, noi possiamo tenderci le mani, parlarci, udirci e stringerci intimamente tra noi in modo da formare una sola famiglia, un solo cuore. E come ciò? Ascoltate. La verità è sempre la stessa ed in ogni luogo; per lei non vi sono né fiumi, né monti, né mari, né continenti: essa è come Dio, di cui è figlia; or bene: se con la mente io tengo salda la verità che viene da Dio, e ad essa si tiene saldo ciascuno di voi, tutti gli uomini, non è egli chiaro, che con la verità saremo tutti uniti con la mente, benché separati di corpo? Quella stessa verità che è in me, che è in voi, che è nei fratelli nostri di fede sparsi da un capo all’altro del mondo, è il filo meraviglioso che tutti ci unisce nello spirito. Separati quanto al corpo da migliaia di chilometri, da decine di secoli: separati per lingua, per usi, per costumi, per mille altre cause, tutti diciamo lo stesso Credo, tutti invochiamo lo stesso Padre, che è nei cieli, tutti professiamo lo stesso decalogo, tutti riceviamo lo stesso Gesù Cristo nella Ss. Eucaristia, tutti aspiriamo allo stesso fine, al possesso della felicità. Ecco, o cari, l’unione dello spirito, che S. Paolo voleva nei suoi figliuoli, unione che nessuna forza né terrena, né infernale può rapire: Solliciti servare unitatem spiritus. E non è tutto: S. Paolo vuole che questa unità dello spirito nella stessa unità si conservi ” nel vincolo della pace — In vinculo pacis. „ Assolutamente parlando, potremmo avere l’unità dello spirito nella professione della stessa fede e dello stesso decalogo, e poi essere inquieti nell’animo nostro, o turbare gli altri e da loro essere turbati, come vediamo accadere ogni giorno intorno a noi; persone che hanno la stessa fede non solo, ma sono virtuose, non sanno vivere in pace sotto lo stesso tetto, e sono moleste le une alle altre. Ebbene: S. Paolo, a nome del Vangelo di Gesù Cristo, esorta tutti a coronare la loro unione nella verità della fede comune col vincolo della pace, che deve essere la dolce catena che lega tra di loro i cuori: In vinculo pacis. Questa verità sì cara dell’unione  nella pace con tutti, anche quando alcuni la turbano, l’aveva profondamente scolpita in cuore S. Bernardo, allorché scriveva queste parole ad un personaggio che si mostrava offeso con lui: “Checché facciate, o fratello, io sono fermo in amarvi, anche non amato da voi. Sarò con voi, ancorché voi noi vogliate; sarò con voi, ancorché nol volessi io stesso. Mi son legato a voi con un forte vincolo, con la carità sincera, che non vien meno. Sarò pacifico coi turbolenti, darò luogo all’ira per non darlo al demonio. Vinto nelle ingiurie, vincerò cogli ossequi. Prenderò buoni uffici a chi non li gradisce, sarò largo con gli ingrati, onorerò quelli che mi disprezzano „ (Lettera 252 all’abate Premonstratese). Percorrete tutta la letteratura greca e latina, tutti i fasti della storia non cristiana, e non vi sarà possibile trovare dieci righe come queste, che mostrano a quale altezza di eroismo possa giungere la carità e la pace cristiana. – Ritorniamo al nostro testo: “Un corpo ed uno spirito, come voi già foste chiamati in una sola speranza della vostra vocazione. „ Questa sentenza dell’Apostolo è quasi il riepilogo dei due versetti antecedenti, e vuol dire: “Siate un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza della gloria e della immortalità, alla quale siete chiamati. „ Qui riapparisce quella immagine sì bella e sì famigliare all’Apostolo per adombrare l’unità della Chiesa, che esprime a capello il suo concetto. Vedete l’uomo: esso ha braccia, occhi, orecchi e membra tra loro distinte, anzi diversissime per se stesse e per il fine a cui sono destinate; eppure il corpo è uno solo, e le membra, congiuntissime tra loro, si aiutano a vicenda e, se l’una soffre, le altre tutte soffrono insieme. Perché tanta varietà di membra e tanta unità tra loro? Perché è una sola l’anima, che avviva tutte le membra secondo la loro natura, e tutte le muove e le ordina tra loro. Il somigliante deve essere nel corpo dei fedeli: essi sono distinti e differenti tra loro per natura, per grazia, per uffizi: ma informati tutti dallo spirito di Dio e dalla sua carità, e tutti camminando verso l’unico fine comune, formano un solo corpo, avente una sola anima e un solo cuore, come la Chiesa primitiva. L’Apostolo ha tanto a cuore questa unità dello spirito, quest’armonia delle membra, onde si compone la Chiesa, che sotto altra forma, e più completa, ne ripete il principio generatore, dicendo: “Un Signore, una fede, un battesimo. „ Il corpo dei fedeli, la Chiesa deve essere una sola, perché un solo è il Signore, il padrone assoluto ed universale, da cui ripete l’origine; un solo Gesù Cristo, che col suo sangue l’ha riscattata e a sé disposata. Una sola è la fede, che a Lui ne conduce e ne unisce: Una fides, sempre la stessa ed immutabile, come Lui, che ne è l’oggetto. Un solo il battesimo: Unum baptisma, perché non si riceve che una sola volta, e perché è sempre lo stesso, ed è l’unica porta, per la quale si può entrare nel regno di Cristo, che è la Chiesa. In questa triplice causa della unità della Chiesa, che riducesi ad una sola, Dio, vi è un ordine che non può sfuggirvi. Vi è l’oggetto primo ed assoluto, che è Dio, Dio unico in cielo ed in terra. Come andiamo a Dio, unico nostro Signore, termine ultimo di ogni nostro desiderio ed amore? Per l’unica fede ch’Egli stesso ci ha dato. E come riceviamo questa fede? come si suggella in noi? Con l’unico Battesimo che Dio ci ha dato: Dio, la fede, il Battesimo; un solo Dio, una sola fede, un solo Battesimo: come non formeremo un solo corpo tra noi, avendo tutti un solo Dio, da cui veniamo ed a cui torniamo; una sola fede, che a Lui ci conduce; un solo Battesimo, che stampa in noi la stessa fede e il carattere di figli di Dio? L’Apostolo, dopo aver nominato Dio, Dio che è solo, quasi rapito fuor di sé, e come se fissasse lo sguardo nella sua luce inaccessibile, nell’impeto d’amore, che lo strugge, esclama: “Sì, Dio, un Dio solo, che è Padre di tutte le creature del cielo e della terra, degli Angeli e degli uomini, che sta sopra di tutti per la sua sapienza e bontà: Qui est super omnes, e che con la sua virtù e forza infinita tutto muove, penetra, avviva e feconda: Et per omnia, e che in modo affatto speciale abita in noi con la sua grazia e ci governa. In Dio, da cui tutto viene ciò che è vero, bello e buono; in Dio, che è uno per essenza, e che con la verità e con l’amore ci trae dolcemente e fortemente; in Dio, che è la causa prima e suprema d’ogni unità, siamo un solo corpo ed un solo spirito nel vincolo d’una pace inalterabile, figura e pegno di quella che avremo in cielo. – E qui il pensiero corre mestamente ad un fatto oltre dire doloroso, che ci sta sotto gli occhi. S. Paolo con un linguaggio sublime parla di Dio e dice, che è sopra tutti, per tutti e in tutti noi. E una verità proposta dalla fede e proclamata dalla stessa ragione naturale: Dio è tutto in tutti; viviamo in Lui, ci muoviamo in Lui, siamo in Lui. Eppure che vediamo noi,, o dilettissimi? Oggidì gli uomini della scienza, gli uomini del potere, pressoché tutti o hanno vergogna di nominare Dio per un miserabile rispetto umano, o apertamente lo negano e lo respingono ed osano dire: Noi non abbiamo bisogno di Dio: la scienza può farne senza e cammina senza di Lui: la società può vivere e prosperare senza Dio e l’onestà e l’ordine possono aversi con la scienza, col lavoro, con la forza, con l’industria dell’uomo. – Questo si dice e, se non si dice con la lingua, lo si dice coi fatti, tantoché il nome di Dio più non si pronuncia nella scuola, nelle aule legislative, negli atti solenni dell’autorità, o lo si pronuncia per servire ad un uso, che si vuol cessare. O Dio buono e grande! Voi che siete principio e fine d’ogni cosa: voi che con la vostra provvidenza governate ogni cosa; voi che siete il Padre di tutti, perdonate a questi uomini, che, superbi della loro scienza e della loro potenza, vi disconoscono e bestemmiano: essi non sanno quel che si facciano. Illuminate le loro menti, toccate i loro cuori, fate che conoscano chi Voi siete e ritornino a Voi, che siete la via, la verità, la vita: che siete tutto in tutti!

Graduale
Ps XXXII:12;6
Beáta gens, cujus est Dóminus Deus eórum: pópulus, quem elégit Dóminus in hereditátem sibi.
[Beato il popolo che ha per suo Dio il Signore: quel popolo che il Signore scelse per suo popolo.]
Alleluja

Verbo Dómini cœli firmáti sunt: et spíritu oris ejus omnis virtus eórum. Allelúja, allelúja [Una parola del Signore creò i cieli, e un soffio della sua bocca li ornò tutti. Allelúia, allelúia]
Ps CI:2
Dómine, exáudi oratiónem meam, et clamor meus ad te pervéniat. Allelúja.
[O Signore, esaudisci la mia preghiera, e il mio grido giunga fino a Te. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt XXII:34-46
“In illo témpore: Accessérunt ad Jesum pharisæi: et interrogávit eum unus ex eis legis doctor, tentans eum: Magíster, quod est mandátum magnum in lege? Ait illi Jesus: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo et in tota ánima tua et in tota mente tua. Hoc est máximum et primum mandátum. Secúndum autem símile est huic: Díliges próximum tuum sicut teípsum. In his duóbus mandátis univérsa lex pendet et prophétæ. Congregátis autem pharisæis, interrogávit eos Jesus, dicens: Quid vobis vidétur de Christo? cujus fílius est? Dicunt ei: David. Ait illis: Quómodo ergo David in spíritu vocat eum Dóminum, dicens: Dixit Dóminus Dómino meo, sede a dextris meis, donec ponam inimícos tuos scabéllum pedum tuórum? Si ergo David vocat eum Dóminum, quómodo fílius ejus est? Et nemo poterat ei respóndere verbum: neque ausus fuit quisquam ex illa die eum ámplius interrogáre”.

Omelia II

[G. Bonomelli, ut supra, – Omelia X].

“I farisei si accostarono a Gesù, ed uno di loro, un legista, lo interrogò, tentandolo: Maestro, qual è il precetto grande della legge? Gesù gli disse: Ama il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, e con tutta la tua anima, e con tutta la tua mente. Questo è il grande e il primo precetto. Il secondo poi e simile a questo è: Ama il prossimo tuo come te stesso. Da questi due precetti tutta la legge dipende e i profeti. E stando riuniti insieme i farisei, Gesù li interrogò, dicendo: A voi che ne pare di Cristo? Di chi è Egli figlio? Risposero: Di Davide. Disse loro: Come dunque Davide, ispirato, lo chiama Signore, dicendo: Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, finche io metta i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi? Se pertanto Davide lo chiama Signore, com’è suo figlio? E nessuno poteva rispondergli parola, e da quel dì nessuno “più ebbe ardimento di interrogarlo „ (San Matteo, XXII, 34-46).

Il dialogo, che S. Matteo qui narra tra Cristo e i farisei, e finalmente i discorsi precedenti, cominciando dal capo XXI, ebbero luogo in Gerusalemme, e precisamente nel tempio o nell’atrio, o nei portici del tempio, in quella settimana ultima della vita di Gesù Cristo, tra la domenica delle Palme ed il giovedì seguente. Ciò è più che evidente dai quattro Evangeli. Quei quattro giorni, ultimi di sua vita, furono quattro giorni di lotte continue tra Gesù e la setta farisaica, che aveva giurata la sua morte. Il rumore e l’effetto di quelle lotte doveva essere grandissimo, e per ragione del luogo, dove si svolgevano, e per il concorso dei pellegrini, venuti d’ogni parte per celebrare la Pasqua, per i miracoli operati da Gesù, massime il più recente e il più strepitoso, avvenuto sulle porte di Gerusalemme, la risurrezione di Lazzaro, e perché Gesù Cristo nei suoi discorsi si annunziava francamente per il Messia aspettato e per il Figlio di Dio. La città, spettatrice di quelle lotte e di quei fatti meravigliosi, doveva essere tutta sossopra (Nei nostri tempi di fiacche convinzioni e di scetticismo religioso non possiamo farci un’idea dell’interesse, dirò meglio, dell’ardore, con cui il popolo giudaico, popolo eminentemente religioso, doveva occuparsi della persona di Gesù Cristo e della lotta che ferveva intorno a Lui. Anche al giorno d’oggi in Oriente le questioni religiose sono quelle che toccano le fibre del popolo e lo appassionano fino al fanatismo, e se n’hanno esempi recenti.). Il tratto evangelico, che dobbiamo spiegare, si divide in due parti: la prima comprende una domanda insidiosa d’uno scriba, o legista; la seconda una domanda di Cristo ai farisei, che senza persuaderli li ridusse al silenzio. Vogliate seguirmi nella spiegazione dell’una o dell’altra parte con tutta l’attenzione. Nei versetti che precedono quelli che ci sono proposti a spiegare dalla Chiesa, si narra che i sadducei (erano gli epicurei del popolo ebreo, e negavano l’esistenza degli spiriti, e perciò dell’anima, e la risurrezione dei corpi) avevano teso un laccio a Cristo con un certo quesito degno di loro; Gesù li aveva prontamente confutati e svergognati alla presenza dei farisei, mostrando la necessità della vita futura e la risurrezione: i farisei, nemici dei sadducei, n’erano lietissimi. Ma, vedete che razza di gente ch’erano costoro! … e una volta di più conoscete come le passioni accecano anche gli uomini istruiti. I sadducei vivevano tranquilli in mezzo al popolo, e par certo che buon numero di loro sedessero nel gran consiglio della nazione, e alcuni fossero anche membri del sacerdozio; essi non ammettevano vita futura, in buon linguaggio, oggi si direbbero materialisti; voi vedete che i sadducei schiantavano dalle radici ogni religione e ne rendevano perfino impossibile l’esistenza; opperò erano lasciati in pace e rispettati, e fors’anche aiutati dai farisei, sì rigidi in materia di religione, fino a veder violata la legge divina per un miracolo operato in giorno di sabato: e non solo i sadducei erano lasciati in pace e rispettati dai farisei, ma e sadducei e farisei si davano la mano, ed erano amici od alleati allorché si trattava di combattere od opprimere Gesù Cristo. I farisei rinfacciavano a Cristo di profanare il sabato perché guariva un paralitico in giorno di sabato, e non dicono verbo ai sadducei, che negavano la risurrezione! Tant’è vero che i tristi si trovano sempre in lega tra loro pur di levarsi dinanzi agli occhi i virtuosi, che con la sola presenza danno loro noia. Gesù aveva appena, come dice S. Matteo, ridotti al silenzio i sadducei con una di quelle risposte ch’Egli sapeva dare, eccovi farsi innanzi un fariseo, scriba o legista, legis doctor, e “interrogarlo tentandolo — tentans eum. „ Notate quella parola “tentandolo. „ Può essere che la domanda di quel legista avesse lo scopo di mettere alla prova la dottrina di Cristo, e vedere qual fosse il suo conoscimento della legge, che sarebbe stato minor colpa; ma sapendo qual era l’astio e il livore dei farisei contro di Gesù, e sapendo che codesto legista era fariseo e assaliva Gesù subito dopo i sadducei, non è irragionevole il credere che volesse cogliere in fallo il divin Maestro, umiliarlo e accusarlo all’uopo. Checché fosse del suo intendimento vero, il legista gli mosse questa domanda : “Maestro, quale è il precetto più grande (cioè massimo) della legge? „ Ignorava egli il legista, il precetto massimo della legge? Nol credo. Ben è vero che presso i Giudei si questionava intorno al primo e massimo precetto della legge, e alcuni avvisavano il massimo precetto esser quello di offrire i sacrifici stabiliti dalla legge, come l’atto massimo del culto divino. Ma io penso con san Giovanni Grisostomo, che quel legista, sapendo come Cristo si affermava Messia Figlio di Dio e Dio, sperava che avrebbe risposto qualche cosa intorno alla propria persona e alla legge mosaica, tanto da poterlo accusare o almeno screditare presso il popolo. Ma Gesù, non badando punto all’intenzione colpevole, o almeno poco schietta e poco benevola del legista, rispose con ammirabile precisione: “Ama il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. „ Io non vi spiegherò la forza di ciascuna di queste parole, perché penso che sia una forma di dire piena di energia, e si compendiano stupendamente, credo, in quelle altre parole di S. Luca (X, 27): “Ama Dio con tutte le tue forze. „ Amar Dio con tutto il nostro cuore, con tutta l’anima e con tutta la mente, in sostanza non vuol dir altro che amarlo come più e meglio possiamo, volgendo a Lui tutte le attività dell’essere nostro e a Lui facendole servire (Queste parole di nostro Signore si leggono nel Deuteronomio (capo VII, vers. 5), e Gesù Cristo le tolse dal libro di Mosè per chiudere la bocca al Fariseo e mostrare la perfetta armonia tra la sua dottrina e quella di Mosè). Il che importa, come fanno notare gli interpreti, che amiamo Dio sopra tutte le cose create, anteponendolo a tutte, anche insieme considerate e moltiplicate finché si voglia; che a Lui indirizziamo, come a fine ultimo e supremo, tutti i nostri pensieri, affetti e desideri e tutte le opere nostre, e che Lui apprezziamo sopra tutte le cose, e siamo disposti a sacrificare ogni cosa anziché offenderlo in qualsiasi modo. Vuoi tu sapere, domanda S. Bernardo, qual debb’essere la misura del tuo amore verso Dio? Tel dico in una sola parola: Sine triodo, cioè senza misura, quanto alle tue forze è possibile. Voi comprendete che un amore come questo, non consigliato, ma comandato da Dio, domanda necessariamente l’attuazione delle opere e l’osservanza di tutti i precetti della legge divina e di quelli, che la Chiesa a nome e per autorità divina impone, essendo inconcepibile un vero e sommo amore, che si chiuda soltanto nella mente e nel cuore. E non potrebbe Iddio dispensarci da siffatto amore e appagarsi d’un amore qualunque, pari a quello che nutriamo verso creature a noi carissime? No: Dio, che è onnipotente, non potrebbe dispensarci dall’obbligo di un amore sommo e superiore a qualsiasi amore, perché non può negare se stesso. Egli è l’Essere sopra ogni essere, eterno, immutabile, infinito, giustissimo, santissimo, centro e fonte di tutte le perfezioni, e perciò stesso degnissimo d’ogni amore: appagarsi d’un amore inferiore, comune, importerebbe da parte sua un disconoscere le sue perfezioni e l’essere pareggiato, e, peggio ancora, posposto alle sue creature, il che ripugna assolutamente alla verità e all’essere suo. E possiamo noi amarlo sopra ogni cosa? Tanto è vero che lo possiamo, che è un dovere, il sommo dovere e il compendio di tutti i nostri doveri. Non solo possiamo amarlo sopra ogni cosa, ma con la sua grazia, che mai non fa difetto, è cosa facilissima. E non è facilissima cosa amare un Essere che è la stessa bellezza, la stessa giustizia, la stessa bontà, il sommo ed unico vero benefattor nostro e sorgente d’ogni perfezione? La stessa natura ci spinge ad amare le creature, nelle quali si manifesta qualche lampo di queste perfezioni, a talché talora non sappiamo resistere e valichiamo i giusti confini: come dunque non potremo amare Colui nel quale  si accolgono tutte in grado sovranamente perfetto? E perché dunque, direte, sì pochi son coloro che l’amano con tutte le loro forze ? Perché poco lo conoscono, e poco lo conoscono perché poco vi pensano, e da fuggevole bellezza delle creature sedotti e fuorviati, non fissano mai, o troppo raramente e leggermente, l’occhio della mente nel loro Creatore; guardando sempre alla luce, che abbellisce i fiori, gli alberi, la terra, non badano mai al sole, che la versa a torrenti. “E questo, continuò Cristo, sempre rivolto al legista, il grande e primo precetto. „ Aveva risposto alla sua domanda : “Qual è il precetto grande o maggiore della legge? „ e qui senza dubbio poteva fermarsi. Ma gli piacque aggiungere un secondo precetto, e dare al fariseo un’altra lezione, ch’egli non aveva chiesta, ma che troppo bene stava a lui e a molti farisei che dovevano essere presenti. “Ti ho detto, così Cristo in sentenza, ti ho detto qual è il massimo e primo precetto della legge: ti dirò anche il secondo, che è simile al primo, e che da esso non si può separare: “Ama il prossimo come te stesso — Dilige» proximum tuum sicut teipsum (Levit. XIC, 18). „ Si potrebbe per avventura domandare: Per qual motivo Gesù Cristo dà al legista una risposta che non era richiesta? Perché al primo e massimo precetto aggiunge il secondo? Forse per dare garbatamente una lezione al legista, secondoché crede il Crisostomo. Vuoi sapere, o fariseo, qual è il primo e il massimo precetto della legge? Ebbene: sappi che è l’amor di Dio sopra ogni cosa; ma v’è anche un altro precetto, ed è l’amore del prossimo: e questo amore ti avrebbe insegnato e obbligato a non tendergli insidie, come tu ora fai meco, che pure sono almeno tuo prossimo e tuo fratello. Forse, ed è sentenza più probabile e naturale, al precetto dell’amore di Dio accoppiò quello del prossimo, perché è simile ad esso, come espressamente dice Gesù Cristo, e perché è una conseguenza o derivazione del medesimo, e ne è inseparabile. Se bene mi ricordo, in altra omelia ebbi a mostrarvi come sia impossibile l’amore di Dio senza l’amore del prossimo, e perciò di questa verità mi passo. E invero: se amiamo veramente Dio sopra ogni cosa, dovremo anche amare tutto ciò ch’Egli ama, e, per quanto è possibile, come Egli ama. Ora Dio ama tutti gli uomini, ed è sì vero che li ama, che li ha creati, li conserva, li ricolma di benefizi, ha patito ed è morto per essi, e li vuole partecipi della sua stessa felicità. Quale amore più vivo ed efficace di questo? Gli uomini portano in sé l’immagine di Dio: anzi Dio stesso si pone in ciascun uomo, e protesta che quello che faremo per essi, l’avrà per fatto a se stesso. Si può concepire vincolo più intimo tra l’amore di Dio e quello del prossimo? Non credo. Fors’anche un’altra ragione indusse Gesù Cristo ad accoppiare l’amore del prossimo all’amore di Dio, quantunque non gliene fosse fatta domanda, ed è questa. A quei tempi una interpretazione tutt’affatto farisaica aveva oscurato, anzi alterato il senso del precetto divino della carità fraterna. Il precetto divino diceva: “Amerai il prossimo tuo come te stesso: „ ora la parola ebraica “recha” significa ad un tempo prossimo e amico, e i farisei, seguendo la durezza del loro spirito, interpretavano il precetto così: “Amerai il prossimo tuo amico ; „ e, facendo un altro passo, dicevano: “Non amerai il prossimo che non ti è amico, anzi odierai il tuo nemico — Et odio habebis inimicum tuum. „ Con questa interpretazione i farisei avevano, più che alterato, distrutto il precetto della carità, restringendola ai nazionali, e, più ancora, agli amici e benevoli. Gesù Cristo richiama il precetto divino alla sua purezza, lo estende a tutti gli uomini senza distinzione, e lo lega al precetto dell’amore di Dio, facendone una appendice (I farisei su molti punti con le loro interpretazioni avevano storpiata malamente la dottrina biblica e tradizionale, e Cristo più volte li rimproverava. Come qui sulla carità verso del prossimo, così altrove sul matrimonio e la sua indissolubilità. E qui mi piace riferire la difficoltà dei sadducei e la risposta di Cristo, che è netta e facilissima se conosciamo la interpretazione erronea introdotta dai farisei. La spiegazione gioverà a molti preti, che trovano sì difficile la sentenza di Cristo sulla indissolubilità del matrimonio (Matt. xix, 9), dove sembra ammettere che l’adulterio possa sciogliere il vincolo coniugale, come tengono i protestanti. È da sapere che Mosè “propter duritiam” degli Ebrei aveva ammesso il ripudio ed il divorzio. Per quali cause? Mosè non le determinò: naturalmente dovevano essere gravi e si dovevano esprimere nel libello del ripudio. Al tempo di Cristo si erano formate due scuole, quella di Hillel e l’altra di Schammai. Hillel, allargando oltre ogni limite le cause del divorzio, diceva che il marito poteva rimandare la moglie per qualunque causa: per es. bastava che donna non avesse fatto bene l’arrosto, che fosse uscita di casa da sola, che diventasse cisposa, e per dir tutto in una parola, che non gli piacesse più. Era in diritto di darle il libellum repudii. Schammai negava e restringeva tanta libertà e la diceva contraria alla legge e allo spirito della legge mosaica. I farisei domandano a Cristo: Si licet homini dimittere uxorem suam QUACUMQUE EX CAUSA? È precisamente la sentenza del Sabbi Hillel. Gesù rigetta l’enorme lassezza di Hillel, contenuta in quella espressione: Quacumque ex causa, e, secondo lo spirito della legge ebraica, la restringe alla fornicazione, cioè all’adulterio. Gesù Cristo adunque in quel luogo, che ha tormentato e tormenta ancora gli interpreti, non parla del matrimonio nella legge nuova, come molti vorrebbero e giova ai protestanti, ma del matrimonio nella legge mosaica, della quale si trattava e intorno alla quale lo interrogavano i farisei. Il testo così inteso, la difficoltà è sciolta e Gesù non fa che richiamare gli Ebrei alla osservanza della legge mosaica contro la interpretazione erronea di molti farisei). – A taluno può far meraviglia che Gresù non parli dell’amore che dobbiamo a noi stessi, ma solo dell’amore che dobbiamo avere per i fratelli nostri; ma Egli tacque del primo, perché lo suppone, ed è tanto naturale e necessario all’uomo, che non occorre ricordarglielo, e perché indirettamente lo accenna, dandocelo come misura dell’amore verso del nostro prossimo: “Amerai il prossimo come te stesso. „ Noi dunque dobbiamo amare noi stessi e poi gli uomini tutti a somiglianza di noi stessi, e amarli più o meno in ragione dei vincoli e dei doveri che a loro ci legano. L’amore è come la luce, che emana dal sole, e si sparge su tutte le creature capaci di riceverla: l’amore ha la sua fonte in Dio, da Lui si riflette sopra ciascuno di noi e poi si spande su tutti gli uomini per ritornare a Dio, perché l’amore vero ha il suo fine e il suo principio in Dio. „ Da questi due precetti, conchiude Cristo, dipende tutta la legge ed i profeti. „ Cioè tutta la legge di Mosè, tutto l’insegnamento dei profeti si riduce a questi due precetti, il primo che riguarda Dio, il secondo che riguarda gli uomini. Datemi un uomo, un Cristiano che ami Dio ed il prossimo, e quest’uomo, questo Cristiano non trasgredirà uno solo dei doveri che ha verso Dio e verso il prossimo, ed adempirà esattamente tutta la legge, tutti i precetti della fede, della speranza, eserciterà tutte le virtù, tutte le opere della misericordia, insomma sarà un perfetto cristiano. Oh! dunque, carissimi, facciamo tesoro di questa carità, e, come scrive S. Paolo, adempiremo tutta la legge. – Qui S. Matteo non dice nulla dell’accoglienza fatta dal legista fariseo alle parole di Cristo; ma S. Marco ei fa sapere che gli rispose: Maestro, bene hai detto secondo verità che vi è un Dio solo, e che fuor di Lui non ve n’è altro, e che amarlo con tutto il cuore e con tutta la mente e con tutta l’anima e con tutta la forza, ed amare il suo prossimo come se stesso, è più che tutti gli olocausti ed i sacrifizi. E Gesù, vedendo che aveva risposto sapientemente, gli disse: “Tu non sei lontano dal regno di Dio„ ( S . Marco, XII, 32-34). Dalle quali parole di Cristo è da argomentare, che se il fariseo a principio interrogò Cristo con sinistro intendimento, dalle parole di Lui rimase convinto ed illuminato, e fu ridotto a miglior consiglio, cosa singolare in un fariseo. – Il Salvatore aveva imposto silenzio ai sadducei, e aveva chiusa la bocca al fariseo per guisa che questi l’aveva dovuto approvare. Nessuno degli astanti osava muovergli altre questioni, ancorché ne avessero vivissimo il desiderio. Il fine di tutti i suoi miracoli, e specialmente dei discorsi ch’Egli tenne nell’ultima settimana nel tempio e sotto i portici del tempio, era costantemente quello di stabilire la sua divina missione e provare e persuadere ch’Egli era il Figlio di Dio. E veramente era questo il punto capitale di tutta la sua dottrina, il fondamento dell’opera sua. Ottenuta la fede nella propria divina origine, tutto il resto veniva da sé. Sapeva troppo bene che il dichiararsi Figlio di Dio era un provocare il furore de’ suoi nemici e un segnare la propria sentenza di morte: ma Egli non poteva esitare un istante a confermare con la morte la propria origine e missione. Il perché dalla difensiva Egli passò all’offensiva, e dopo aver risposto agli avversari, che lo tempestavano con domande insidiose, rivolto ai farisei, che lo circondavano in gran numero, e pieni di malanimo per le patite umiliazioni, li interrogò, dicendo: “Che ne pare a voi del Cristo? Di chi è desso figlio? „ Il Messia od il Cristo aspettato, per gli Ebrei era tutto; in Lui si concentravano tutte le speranze della nazione; a Lui erano rivolti tutti i pensieri, tutti i desideri; Lui designavano tutti i riti e i sacrifizi, Lui annunziavano tutti i profeti: la nazione intera non viveva che nell’aspettazione del Messia, ed a quei giorni, dopo la predicazione di S. Giovanni, dopo la predicazione ed i miracoli di Cristo, e il compimento manifesto dei vaticini, non v’era argomento più interessante di quello del Messia. La domanda pertanto di Cristo sul Messia toccava la fibra più viva dei suoi uditori e li obbligava a dichiarare la loro fede intorno all’origine e dignità di Lui. “Di chi è desso figlio il Cristo o Messia? „ La domanda era netta e precisa, ed esigeva una risposta eguale. Essi dovevano rispondere senza esitare: “È figlio di Dio e di Davide, „ ossia Dio e uomo. I libri santi in cento luoghi lo dicevano, e l’aveva detto in termini il sommo dei profeti, Isaia. Ma i farisei, fosse ignoranza, fosse malafede, o altra causa, risposero: “Di Davide. „ Con questa risposta essi indirettamente confessavano che lo riputavano semplice uomo, perché della sua origine divina, che dovevano mettere innanzi alla umana, non ne fanno nemmeno cenno. Per essi il Messia, il Cristo venturo doveva essere un profeta, il sommo dei profeti, la gloria del popolo d’Israele, il suo liberatore più temporale che spirituale, e nient’altro (S. Marco, XII, 35 seg. e S. Luca, XX, 41 seg., narrando questo stesso fatto, lo riferiscono più succintamente. Cristo disse: “Come mai gli scribi dicono che il Cristo è figlio di Davide, s’Egli nei Salmi dice: Disse il Signore al mio Signore? ecc. „). Quanta differenza tra questa risposta degli scribi e quella di S. Pietro data alla stessa domanda! Pietro a Cristo che domandava agli Apostoli: Voi chi dite chi Io mi sia? Francamente rispose: “Tu sei il Cristo, Figlio di Dio vivo. „ Il pescatore di Galilea, che poco o nulla sapeva dei libri santi, nella semplicità della sua fede conobbe e confessò la divinità di Gesù Cristo, dovechè gli scribi ed i farisei con la loro scienza superba non videro nel Messia che un uomo grande, un figlio di Davide! Come è vera la sentenza di Cristo: “Padre, lo confesso a te: tu hai nascosto le cose divine agli uomini della sapienza e prudenza mondana, e le hai disvelate ai fanciulli, cioè ai semplici. „ Oh! l’umiltà e la semplicità vedono bene più alto della scienza orgogliosa, e Francesco d’Assisi conosceva Dio più assai dei più acuti filosofi e teologi. Avuta la risposta degli scribi e farisei: “Il Cristo è figlio di Davide, „ Gesù li incalza con un argomento perentorio. “Voi dite che il Cristo è figlio di Davide, solamente di Davide, e perciò puro uomo: se così è, ditemi, come mai Davide ispirato da Dio, scrisse nel Salmo: Il Signore ha detto al Signore: Siedi alla mia destra, finché io metta i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi. Se pertanto Davide lo chiama Signore, come è suo figlio? „ Prima di spiegare questa risposta del divino Maestro è necessario dire alcune parole su questo Salmo CIX. Esso è brevissimo, era popolare presso gli Ebrei e lo è nella Chiesa, la quale ogni giorno lo fa recitare ai suoi sacerdoti. La stessa Sinagoga lo riferiva al Messia, ed è sì certo che gli scribi ed i farisei stessi non osarono negarlo, e l’avrebbero negato se l’avessero potuto fare. In questo magnifico Salmo si afferma la divinità del Cristo, la sua eguaglianza col Padre, il suo Sacerdozio eterno, il suo trionfo finale dopo le sue umiliazioni (Una delle difficoltà che si incontra nella spiegazione specialmente dei Salmi, è il mutare il soggetto parlante senza nemmeno dirlo: quando si pon mente a questo uso sì comune nei Salmi, molte difficoltà si dileguano. Vedete p. es. il Dixit, Nel 1°, 2°, 3° e 4° versetto è Dio Padre che parla al Figlio, Uomo-Dio, e lo si dice chiaramente. Nel 5° versetto, la prima parte è del profeta, la seconda è ancora in bocca del Padre, e il passaggio non è annunziato. Gli ultimi tre versetti, 6°, 7°, 8°, sono del profeta, che fa quasi le parti di storico, e qui pure si tace il passaggio d’una persona all’altra.). – Il Signore, il Padre, ha detto, cioè è suo volere dalla eternità, che il Signore, il Figlio suo, segga alla sua destra, abbia pieno ed assoluto potere eguale al suo, e che debelli i suoi nemici e ne meni il più splendido trionfo. Ecco il testo citato da Cristo, sul quale Egli così argomenta: Qui Davide dice che Dio ha detto al Cristo, suo Signore: Siedi alla mia destra; Davide chiama il Cristo futuro suo Signore: ma se il Cristo è figlio di Davide, e semplice uomo, Davide, che ne è padre, non poteva chiamarlo suo Signore e dargli lo stesso nome, con cui designa il Padre. Dunque il Cristo è, sì figlio di Davide in un senso, ma è anche suo Signore, è Dio: in altri termini il Cristo è vero uomo e vero Dio; lo insegna chiaramente Davide. E questa l’argomentazione di Cristo. – In sostanza Gesù Cristo con questa citazione sì netta del Salmo, accettando pure la dignità di figlio di Davide, chiaramente fece conoscere ch’Egli era anche Figlio di Dio; figlio di Davide e Signore di Davide. Gli scribi ed i farisei col loro formalismo avevano inaridita la parte pratica della legge e agghiacciata la morale, col loro monoteismo freddo avevano separato l’uomo da Dio, relegandolo nelle profondità del cielo, mentre i profeti tutto avvivavano e mostravano Dio operante in mezzo a gli uomini, illuminante le menti, eccitante le loro volontà: Gesù Cristo squarcia il velo e dice: Questo Dio è in mezzo a voi, vi parla e vi ammaestra: voi non lo ascoltate, lo respingete, ne avete già deliberata la morte, vi dichiarate suoi nemici: ricordatevi che Egli sarà il vostro giudice, che il suo trionfo non può fallire, e sarete posti come sgabello dei suoi piedi. Cristo si dichiara Dio e giudice supremo dei suoi nemici. Che avvenne? Come furono accolte le sue parole? Il Vangelo non lo dice, né lascia credere che alcuni dei suoi uditori fossero scossi dalle parole di Cristo e si dessero vinti, e chiude con questa dolorosa sentenza: “Nessuno poteva rispondergli verbo. „ Si sentivano conquisi dalla evidenza della verità, ma non uno che si arrendesse e si gettasse ai piedi di Cristo e gli dicesse come Pietro: “Signore, voi avete parole di vita, „ vi riconosciamo e vi adoriamo. Amarono meglio, dice S. Agostino, struggersi in un rabbioso e superbo silenzio, che riconoscersi umili discepoli. “Da quel giorno nessuno osò più interrogarlo, „ dice S. Matteo, e per tal modo chiusero da se stessi la mente alla luce della verità. Giudizio pauroso, terribile, frutto naturale di quel malnato germe, che è la superbia! Vedono, sentono d’essere nell’errore: la verità splende vivissima ai loro occhi: l’odono dalla bocca dei sacri ministri, da quella degli amici: la vedono nella condotta della moglie cristiana, delle figlie credenti e pie: la sentono nella coscienza inquieta, agitata: la sentono in una voce arcana, che a quando a quando risuona in fondo all’anima, che è la voce della grazia, la voce di Dio: un brivido scorre loro per le vene, un fremito agita il loro cuore; ma legati tra vecchi pregiudizi, schiavi del rispetto umano, invischiati forse in ree passioni, e sopra tutto vittime del reo orgoglio, chiudono gli occhi alla verità, chiudono la bocca a quelli che ne vorrebbero loro parlare, soffocano i rimorsi, nelle occupazioni e nello strepito del mondo si distraggono, e quasi assordano se stessi, e a poco a poco intorno a loro si fa il silenzio della morte. Gesù tace perché questi sventurati più non lo interrogano, e non lo interrogano perché non vogliono udire la verità, e non vogliono udire la verità perché è loro molesta, perché l’odiano. Mio Dio! Nella vostra misericordia non permettete mai che pur uno di questi che mi ascoltano respinga la verità, o, come gli scribi e i farisei, non interroghi i maestri che avete posti nella vostra Chiesa, per timore ch’essi gliela facciano conoscere.

Credo …

Offertorium
Orémus
Dan IX:17;18;19
Orávi Deum meum ego Dániel, dicens: Exáudi, Dómine, preces servi tui: illúmina fáciem tuam super sanctuárium tuum: et propítius inténde pópulum istum, super quem invocátum est nomen tuum, Deus.
[Io, Daniele, pregai Iddio, dicendo: Esaudisci, o Signore, la preghiera del tuo servo, e volgi lo sguardo sereno sul tuo santuario, e guarda benigno a questo popolo sul quale è stato invocato, o Dio, il tuo nome.]

Secreta
Majestátem tuam, Dómine, supplíciter deprecámur: ut hæc sancta, quæ gérimus, et a prætéritis nos delictis éxuant et futúris. [Preghiamo la tua maestà, supplichevoli, o Signore, affinché questi santi misteri che compiamo ci liberino dai passati e dai futuri peccati.]

Communio
Ps LXXV:12-13
Vovéte et réddite Dómino, Deo vestro, omnes, qui in circúitu ejus affértis múnera: terríbili, et ei qui aufert spíritum príncipum: terríbili apud omnes reges terræ.
[Fate voti e scioglieteli al Signore Dio vostro; voi tutti che siete vicini a Lui: offrite doni al Dio temibile, a Lui che toglie il respiro ai príncipi ed è temuto dai re della terra.]

 Postcommunio
Orémus.
Sanctificatiónibus tuis, omnípotens Deus, et vítia nostra curéntur, et remédia nobis ætérna provéniant.
[O Dio onnipotente, in virtù di questi santificanti misteri siano guariti i nostri vizii e ci siano concessi rimedii eterni.]

 

 

I SETTE DOLORI DI MARIA

SETTE DOLORI DI MARIA

[Sac. Vincenzo STOCCHI: “DISCORSI SACRI”; Tipogr. Befani – Roma 1884 – Impr.]

DISCORSO XX

“Tuam ipsius animam pertransibit gladius”

Luc. II, 35.

Chi voglia pigliar degno concetto dell’amore sviscerato, e della tenerezza soavissima, onde la Chiesa prosegue la gran Madre del suo Sposo Maria, basta che si riduca alla memoria le molteplici e svariate solennità, colle quali compartite ad intervalli fra l’anno, ne festeggia il nome, ne commemora le gesta, ne riverisce la rimembranza. Diremmo che sempre è bella agli occhi della Chiesa Maria: bella se concetta senza peccato, scende celeste dono dal Paradiso a rallegrare la terra: bella se sorgendo aurora di salute e di pace, instaura col suo nascere il regno della giustizia: se porgendo il famoso assenso all’Angelo messaggero consente al Verbo di pigliar carne umana nell’intemerato suo seno, divenuta Madre di Dio, Maria è più bella: ed è bellissima quando anima ricongiunta col frale onde la sciolse la morte, ascende rivestita di sole a cingere il diadema di Regina del Paradiso. Ma non meno di quando si adorna e trionfa, è bella quando si addolora e languisce, né le pene che lacerarono il cuor di Maria rimangono senza onore e senza memoria. Che dico senza onore e senza memoria? Doveva dire, che mentre i suoi privilegi, le glorie, i trionfi rammemora un giorno solo, due giorni solenni, dentro il volger di un anno, son dati alla rimembranza dei suoi dolori. Amorosa cortesia della Chiesa, che ripaga con raddoppiata onoranza le angosce di chi tanto penò per darle il Salvatore e lo Sposo. E uno di quei giorni è questo che corre, e oggi tutto il mondo cattolico compatisce i dolori che trafissero e lacerarono il cuor di Maria. La quale con gran ragione vendica a se medesima il titolo di Regina dei martiri: Maria portò lunghi anni fitta nel cuore la spada che la trafisse, e ne provò l’un dì più che l’altro atroce il laceramento e la piaga, e venne da ultimo a tale stretta e a tal termine, che il sopravvivere al martirio fu cumulo ineffabile e smisurato di pena, e il morire sarebbe stato refrigerio e conforto. A muovere pertanto il mio e il vostro cuore, perché secondo l’intento di santa Chiesa compatisca ed onori questa cara Addolorata sarà volto tutto il mio faveIlare di questa mattina: e poiché la compassione non si desta per altra via che del metter sott’occhio le ambasce di chi patisce, mi sforzerò con semplice favellare di ritrarre vivamente al possibile come stesse nel pellegrinaggio di questa vita il cuore della nostra Madre, e che coltello e che spada la trafiggesse; e se da Gesù in fuori vi parrà che siasi trovata una creatura umana che patisse più di Maria, mi contento che le neghiate ogni compassione: ma se dopo Gesù scorgerete in Maria la più dolorosa e trambasciata anima che fosse mai, allora vi ricorderò che sarebbe da spietati non amare chi patì tanto per noi. Incominciamo.

1. Di Gesù nostro Salvatore, dice S. Bernardo, che a gran ragione si appella l’Uomo dei dolori, perchè a nativitatis exordio passio crucis sìmul exorta. Fu per Lui una medesima cosa il nascere ed il patire. Quindi andrebbe di lunga mano lungi dal vero, chi si desse a credere che la passione di Gesù cominciasse allora, che nel Getsemani si turbò, spaurì, si contristò, sudò sangue. No: proruppe allora al di fuori e fu manifesta e visibile l’ambascia che lacerava il Cuor di Gesù: ma la passione cominciò in quel cuore fino dal primo istante che palpitò nel petto del Verbo fatto uomo per la salute degli uomini. E di questa battaglia continua, di queste pene sono simbolo e quella treccia spietata di spine che lo circonda e lo stringe, e quella croce che sopra vi gravita, e dicono a tutti che per Gesù non passò un giorno senza dolore. Guardate ora il vivo ritratto di Gesù, guardi e Maria. Che spada è quella che le vedete infitta nel seno non darle posa mai e dentro sempre più immergersi acutamente? È la spada che Simeone le profetò quel giorno, che Ella in compagnia di Giuseppe recò al tempio e offerse al Signore il bambinello Gesù. – Povera Madre! aveva allora allora compiuto la grande oblazione, e ricoverato il suo bambolo con lo sborso del prezzo che la legge imponeva, se lo era raccolto al seno, e con materno vezzo lo carezzava: quand’ecco farsele innanzi il santo vegliardo Simeone e preso dalle braccia di Maria fra le sue il bambino Gesù, levarlo al cielo, e “Costui, esclamare, è posto in rovina e risurrezione di molti, e in bersaglio di contraddizione, ma intanto tu o donna preparati perché una inesorabile spada di angoscia, fia che ti trapassi l’anima da banda a banda. Et tuam ipsius animam pertransìbit gladius.” (Luc. II, 35.) O Dio! Immaginate che ad una madre, mentre si tiene fra le braccia l’unico figlioletto che Ella ama quanto l’anima sua, e se lo stringe al cuore e lo bacia, comparisse dinanzi tutto scuro e rabbuffato un profeta, e “donna, pigliasse a dirle così ispirato da Dio, sappi che assai care pagherai le delizie che ora ti inondano l’anima per conto di cotesto fanciullo”. Fanciullo infelice! Esso è serbato al patibolo dei ribaldi e alla morte dei malfattori. Verrà giorno, e indubitatamente verrà, nel quale sarà rapito all’amor tuo, e alle tue braccia e consegnato al carnefice, e tu lo vedrai. Lo vedrai sopra la carretta immonda dei rei tradotto al patibolo, lo vedrai ascendere tremebondo la ferale scalea, lo vedrai curvare sul lurido ceppo, vedrai piombar lampeggiando la truce mannaia, e dare i tratti e dibattersi il tronco sanguinolento, e guizzare il reciso teschio sotto la mano del manigoldo che pei capelli lo stringerà. Ahimè! Qual cuore di madre potrebbe reggere senza scoppiare a questa denunzia? E come sarebbe possibile, che avesse più un’ora di bene quella infelice donna a cui sovrastasse tanta mole di sventura e di affanno? Allevare un figliuolo e pascerlo col proprio latte, ma allevarlo e pascerlo pel patibolo, avvezzarsi ad amarlo di un amore l’un dì più sviscerato dell’altro, ma non con altro pro che di fabbricarsi via più intenso il dolore: gioire di vederlo crescere e infiorarsi delle grazie innocenti della infanzia e della puerizia, ma aver sempre davanti agli occhi il ferro micidiale, che farà di quel pargolo pieno di vita un cadavere tronco e deforme. Ma nessuna madre si è mai trovata nell’orribile e disperata stretta di questi dolori, nessuna, nessuna da quella infuori che in ogni cosa fu unica, nessuna fuor di Maria. Maria sì, non appena suonò sul labro di Simeone quella denunzia formidabile che acuta spada le doveva trafigger l’anima, intese subito di che spada si trattasse, e le rivelò la gran tela e vide: vide, come allora allora accadesse, tutta la carneficina che si sarebbe fatta del suo Gesù; vide quella mole, quel cumulo, quel subbisso di insulti, di villanie, di contumelie, di tormenti, di stragi, che quel pargoletto vezzoso avrebbero condotto a rassembrare un lebbroso. Un percosso, un umiliato da Dio. E chi può dire in quel primo assalto, in quella prima occhiata, in quel primo stringerlo al seno, che punta, che laceramento, che squarcio. Inorridì, tremò, palpitò, un gelo un ghiado le corse per l’ime ossa; e fu allora per mio credere, che il Cuor di Gesù impresse se medesimo come suggello sul Cuor di Maria per modo che il cuor del Figlio non battesse d’un palpito, non fosse commosso di un affetto, al quale non consentisse e corrispondesse il cuor della Madre. Parmi quindi vederla questa desolata madre, allora quando il suo bambinello rifocillatosi alla viva fontana del seno materno, tendeva verso di Lei e le gettava al collo le tenere manine, e con quell’impeto e con quel sorriso che sogliono i pargoletti le faceva festa e pareva dirle ti amo, stringersi anch’Ella al cuore come l’amor materno la spingea quel caro pegno, ma nella dolcezza di quell’amplesso, quasi nube tenebrosa farsele innanzi il pensiero del sacrificio a cui allevava quel pargolo immacolato, e le pareva vederlo palpitare come un agnello sotto la mano che lo scanna, e non aprir la sua bocca: e ahimè esclamare, ahimè Gesù che sarà di te. A che ti so riserbato! A che strazi ti nutro con questo latte, a che martirii ti preparo con queste cure. Vedrò, vedrò intriso di sangue e coronato di spine codesto capo, che biondeggia a somiglianza dell’oro, vedrò lordato di sputi e di fango cotesto viso, che fiorisce siccome il giglio, e codeste mani così delicate, e codesti così teneri piedi traforati dai chiodi, e nuotare nelle tenebre dell’agonia le stelle di codesti occhi, e ardere di mortal sete cotesta bocca, in cui s’invermiglia la rosa, e quando spirerai l’anima fra due ladri nella croce dei malfattori, io, io ti vedrò con questi occhi, o mia delizia, o mio amore, o bene unico del cuor mio. Così facendosi via più sempre grandicello Gesù correvano i giorni alla desolata, così le notti, e lo contemplasse vinto dal sonno nella povera cuna, o il sonno gli lusingasse sulle ginocchia, o nel sembiante soavissimo, nei vezzi, nelle maniere si giocondasse, sempre, sempre a la gioia si mesceva l’affanno, vedeva sempre le truculente facce dei manigoldi, gli strazi, la croce, e se l’aveste detta felice pel possesso di quel tesoro, non mi chiamate felice, avrebbe risposto, chiamatemi dolorosa, perché è bello il mio Gesù, è amoroso, è gentile, ma fasciculus myrrœ, vi avrebbe risposto, fasciculus myrrœ dilectus meùs mihi (Cant. I , 12.) Questo dolcissimo che è tutto l’amor dell’anima mia, è al mio cuore un fastelletto di mirra, né mi delizia tanto con la soavità dell’odore, che non mi cruci anche pia con l’amaro che dal suo cuore si trabocca nel mio.

2. E fin qui non ho ritratto Maria altro che come madre, né Gesù altro che come figlio, senza quella gran giunta che Dio era Gesù, e Maria la Madre di Dio. E se ineffabile si palesa il dolore di Maria per quello solo che la natura opera nel cuor di ogni madre, che sarà se si attenda a quella soprassoma di pene che nel cuore di tal madre dovette operar la grazia. Certo è uditori, che se l’amor di tutte le madri quante furono, sono e saranno in una sola fiamma di amore si raccogliesse, non avrebbe più proporzione con l’amor che Maria portava a Gesù di quel che abbia l’ombra col corpo e la figura colla realtà. Perciocché l’amor di Maria, era sì amor materno, ma amore materno di carità soprannaturale, amore nel quale non ebbe né avrà mai chi la somigli, come non ebbe né avrà mai chi la somigli nella dignità di Madre di Dio. Insomma Maria amò, o miracolo, amò Dio con amore di Madre, perché l’amor materno che Ella portava a Gesù nella Persona del Verbo si terminava, e Gesù era il Verbo incarnato. Ora dell’ amor di Dio quando si insignorisce di un’anima è scritto, che esso è forte al par della morte, che è tenero, che è geloso, che mette nel cuore smanie indomite ed attuose siccome smanie d’inferno; e finga e stimola come con fiaccole e con facelle di fuoco. Fortis est ut mors dilectio, dura sicut ìnfernus æmulatio, lampades eius, lampades ignis atque flammarum. (Cant. VIII, 6.) Guardate i Martiri. Una scintilla di questo fuoco che li scaldava bastò a farli presti alle cataste, alle mannaie, alle ruote, e nei tormenti e nella morte esultarono come nel giubilo di una festa, e nella gloria di un trionfo. Guardate gli Apostoli e tanti uomini che agli Apostoli si somigliarono: questo fuoco beato che li scaldava, li portò in paesi remoti, barbari, inospiti, tra fame, sete, pericoli, nudità, trafitture: che pretendevano? Di travasare nei petti altrui la fiamma che ardeva nei loro, e la morte pareva loro nulla, purché inducessero un popolo, una città, un’anima a conoscere ad amare Gesù. Guardate i Santi. Mansueti, umilissimi, pacifici, rassegnati, pazienti; ma ad un patto che non si toccasse il loro Dio; se Dio era vilipeso diventavan leoni, il nome di peccato li facea tramortir per orrore della creatura ardita insorgere contro il Creatore, e avvampavano di zelo, e affrontavano ogni fatica, e incorrevano ogni cimento per impedire un peccato. – Ora di Maria ci dice Idelfonso che: velut ignis ferrum, Spiritus Sanctus totam decoxit, incanduit, et ignivit; ita ut in ea tantum Spfritus Sancii fiamma videretur, nec sentiretur nisi tantum ignis amoris Dei. La fiamma dello Spirito Santo tutta, come il fuoco fa il ferro, la investì, la penetrò la infuocò, e non pareva umana cosa, ma fuoco vivo, né innamorata la avresti detta da mero e purissimo amore. Con quella cognizione pertanto che aveva sublimissima della dignità del Verbo incarnato, con quell’amore che verso il Verbo incarnato, viscere delle sue vincere, le cuoceva l’anima, considerava Maria, come ogni eccellenza non solo umana ma angelica era meno che fango rispetto a Gesù; e che era giusto, era degno che tutto il genere umano gli soggettasse la testa come a Signore, e che un oltraggio un’offesa alla dignità di quella persona era tal abisso di perfidia e di male che meno sarebbe stato andare in fasci l’universo, e tutti gli uomini come frutta vizze ed abominevoli essere scrollati all’inferno. Con questo sublimissimo intendimento della dignità di Gesù con quella riverenza di amore, onde aveva per Lui pieno il petto, lo guardava sovente, e tremava davanti quella divina Persona e si sentiva annichilare davanti a Lui, e avrebbe voluto gittarglisi prostesa bocconi e adorarlo con la fronte per terra, e si riputava indegna non dico di averlo in conto di figlio, ma di fissargli gli occhi in fronte e di profferirne il nome. Pure se fissava gli occhi in volto a Gesù, vedendo quella dolce mestizia che nel sembiante dell’uomo dei dolori abitualmente si diffondeva, le soccorreva alla memoria il ricambio che otterrebbe dagli uomini questa smisuranza di carità. Persecuzioni, bestemmie, tradimenti, abbandono, deicidio, peccati senza fine né modo, ecco come gli uomini tratteranno quel Dio che ha preso carne umana per la loro salute. E chi può dire che lancia di dolore, che fiaccola di zelo doveva destarsi in petto a Maria. Ahimè se una Maddalena dei Pazzi al solo nome di peccato mortale che altri pronunziasse davanti a lei, si vedeva impallidire. Tremare, dibattersi, languire e cader come morta sul pavimento; che sarà stato di Maria, di Maria alla quale il cospetto e la vista di Gesù le diceva l’orrendo deicidio, che avrebbero consumato gli uomini in quel suo caro che li voleva salvare? Ah! ben disse Bernardino di Siena, che come tiene dell’infinito la dignità di Madre di Dio, così dell’infinito dovette tenere come l’amore che portava a Gesù, così il dolore che l’anima le lacerava. Quanto plus amabat. tanto plus dolebat, et amor non quem ipsa  portabat Christo eius unigenito Filio erat infinits.

3. Or questo fuoco misterioso di amore pel quale la natura e la grazia, quasi due fiaccole, si mescevano nel cuor di Maria e si intrecciavano in un’unica fiamma, come crebbe, come s’ingigantì per la lunga consuetudine di tanti anni, e come alla misura medesima dell’amore si fè gigante anche il duolo e l’ambascia. Lo sanno le madri quanto quel tenere continuo fra le braccia i lor pargoletti e il nutrirli e il procurarli ed il logorarsi nelle mille sollecitudini che esige la fievolezza di quella età, accresca nei loro petti l’amore: che dico lo san le madri? Anche quelle prezzolate nutrici, che per guadagno tolgono ad allattare gli altrui figliuoli, per quel comunicare che fanno ad essi stemprato in latte il loro sangue medesimo, si vengono a poco a poco infiammando verso il pargoletto che nutriscono di tanto amore, che venuto il tempo di renderlo alla legittima madre si vedono piangere e urlare per impeto di materna pietà, e sembra che si svelga loro il cuore dal petto; or che diremo di Maria? Aveva quest’unico Figlio, che senza opera di Padre s’era ingenerato in Lei di Spirito Santo, della sua sola sostanza. Lo aveva allattato Ella sola ubere de cœto pleno, empiendole miracolosamente il seno il Signore con latte di Paradiso. Quel che può patire una madre povera, disagiata, sprovveduta di tutto lo aveva Ella patito per Lui. Lo aveva veduto spargere il sangue sotto il ferro della circoncisione, perseguitato fin dai primi giorni del viver suo lo aveva trafugato in Egitto, e ricondotto in Giudea con tanto suo rischio, di giorno in giorno se lo era veduto crescere in casa, pieno di grazia e di Spirito Santo, delizia di Dio e degli uomini, chi può dire come a misura dell’età e della persona di Gesù, cresceva l’amore nel cuor della Vergine? Chi può dire a che termine fosse giunto quando all’età dei dodici anni dopo tre dì di ansietà dolorose lo vide nel tempio disputar coi dottori, e a casa lo ricondusse? Eppur lo vedeva garzoncello umile e industrioso, usare verso di Lei tutti quei gentili riguardi che ben nato figliuolo suole a madre diletta, e andar e ad un suo cenno e venire, e la mano divina dechinare a lavori da artigianello, e solamente alla giazia, alla sapienza, alla soavità, al decoro degli atti e delle parole palesarsi quello che era l’Unigenito del Padre. Domandava Ella allora a se stessa; perché tanto eccesso di degnazione in un Dio, e chi incatena in questa umiltà terrestre il Signore e il gaudio del Cielo? E si sentiva rispondere. Propter nimiam charitatem suam: l’amore, l’amore è la catena che lo costringe, l’amore onde si strugge pei figliuoli degli uomini. Che cuore fosse poi il tuo o Maria, e quando il tuo Figlio fioriva dei primi onori di gioventù, adolescente ventenne, e quando la gioventù si maturava in gravità virile all’età di trent’anni, e lo vedevi sempre umile, sempre soave, sempre tenero, affettuoso, obbediente, sollecito pendere dai cenni tuoi e di Giuseppe, qual lingua è che lo possa ridire? Ma ahimè, che la età crescendo, l’amore accumulava il tormento; imperocché ogni giorno, ogni mese, ogni anno erano tanti passi verso i tribunali di Gerusalemme e il Calvario, verso la croce e la morte. E chi può dubitare che ogni giorno, ogni mese, ogni anno non infiggesse la fiera spada sempre più dentro al cuor di Maria? Ecco, doveva dire questa desolata, ecco il mio Gesù cresce in età, dunque si avvicina il tempo funesto; dieci, otto, cinque anni ancora e questo benissimo di tutti i figliuoli degli uomini fatto verme e non uomo, obbrobrio degli uomini ed abiezione della plebe, penderà agonizzante fra cielo e terra dal suo patibolo, e più dei tormenti lo funesteranno le grida incondite della procace plebe, lo scherno diabolico dei sacerdoti sacrileghi, l’odio presente e la ingratitudine futura degli uomini. E qui vinta e trafitta da questo pensiero, o uomini, credo io che gridar dovette nei recessi del cuor trafitto, o uomini venite qua e vedete il mio Figlio, e sappiate che Dio l’ha dato a me, e io l’ho partorito, allattato e cresciuto per la vostra salute. E perché vedo nei vostri cuori covar consigli spietati, perché fremete contro questo agnello, perché gli macchinate la morte? Che vi ha fatto, dite su, che vi ha fatto, rendete ragione alla povera madre dei vostri furori o trafiggetela insieme col figlio. O Martire, anzi Regina dei Martiri, no veramente no, non v’ha dolore che al tuo si pareggi e grande come il mare è la tua contrizione.

4. E per quanto fu in questa stretta, in questa oppressura il cuor di Maria? Per oltre trent’anni. Per oltre trent’anni sempre martire nel profondo dell’anima, ma di martirio arcano e recondito, e Dio solo era testimonio degli amorosi gemiti di questa colomba, né fuor del cuor di Gesù aveva un cuore che si risentisse ai suoi palpiti. Ma alla immaginazione successe finalmente lo sperimento, e come per Gesù la vita di dolore terminò sulla croce, così sul Golgota si consumò in olocausto alla giustizia di Dio il martirio del cuor di Maria, e i dolori che in espettazione la lacerarono tanti anni divennero realtà e la conquisero in opera. Povera Madre, caro le costò l’aver per figliuolo la gran vittima nata a espiare i peccati di tutto il mondo e a gran prezzo pagar dovette il divenir corredentrice degli uomini. Imperocché nata a ritrarre in sé i dolori e le pene di Gesù lontana col corpo, lo vide in spirito pieno di paura, di tristezza, di tedio entrar nel Getsemani, lo vide piegarsi orando con la faccia per terra al cospetto del Padre e inorridire per apprensione del calice che gli soprastava, udì la gran preghiera perché quel calice fosse rimosso da Lui, lo vide sudar vivo sangue, e di quel sangue che era il sangue che aveva derivato da Lei inzupparsi le vesti e il terreno, lo vide traboccato per terra nell’agonia in abbandono d’ogni soccorso, non aver in sostegno neppur le mani degli Apostoli che dormivano, vide tra le tenebre a maniera di lupi inoltrar gli armati, e al chiaror delle fiaccole e delle lanterne trarre innanzi il perfido Giuda, lesse nell’anima fella il nero disegno, udì lo scoppio del bacio infame, vide irrompere la sbirraglia, e catturarsi Gesù, e accompagnò coll’anima in Gerosolima Gesù legato, e udì le strida e gli urli della infellonita plebaglia, e di tribunale in tribunale lo accompagnò, lo vide condannato per bestemmiatore, abbandonato allo strazio di soldatesche furenti, posposto a un ladro, vestito da pazzo, dilaniato dai flagelli, incoronato di spine, dannato a morte, e col carico della croce in spalla muovere alla volta de1 Golgota. È qui fu quando le risuonò nel cuore il comando dell’Eterno Padre che, “donna, le disse, donna al Calvario”. Sorse, credo io, la magnanima a quel comando, compose il sembiante a una costanza sovrumana, alzò gli occhi al Cielo, e gran cose disse, grandi offerte rinnovellò al Signore con quell’occhiata ed andò. Andò e non è né lingua né penna che ridir possa quel che provasse in quella andata, come non è umana cosa che una Madre, volendo Dio, fosse messa a quel gran cimento. Una madre come Maria va a veder morire confitto sopra una croce un figlio unico carissimo e un Figlio Dio. Lo scontrò, dicono, per la via e lo vide, ma qual lo vide? Trafelato, ansante, angosciato sotto il peso della sua croce, ascendeva Gesù l’erta del monte, e non gli pareva più quello, dopo tanto martiro: portava ancora infitta sul capo la corona delle spine, e il sangue gli scorreva per il viso, tutto macero ed affilato pei patimenti; una turba infellonita e baccante lo circondava, e sfogava il furore sul Nazareno con le contumelie e con le bestemmie: camminava lento al desiderio di quei carnefici l’addolorato Gesù, ed essi con urti e sospinte lo stimolavano, ed Egli umile e paziente saliva; ed ecco che Maria lo raggiunse ed oh! che percossa fu quello scontro a quei cuori: guardò Gesù con un profondo gemito dell’anima, e Gesù guardò Lei, e che dissero quelle occhiate, chi può ridirlo? Vedono intanto le turbe la mestissima donna e la segnano a dito, e la insultano di spietata: cuore, gridano, non di donna né di madre, ma di macigno, viene a vedere il supplizio, la carneficina del figlio. Niente smossa per questo dal suo proposito la donna forte, guadagnò finalmente, seguitando Gesù, la cima del monte. Giungere Gesù e scagliarglisi addosso come tigri i carnefici, e spogliarlo delle vesti, e traboccarlo sulla croce, e tendergli le mani e i pedi, e appuntare i chiodi, e dar di mano ai martelli fu un punto solo. E tutto vede, tutto sente Maria: quello stirar delle braccia, quel trar dei piedi sono strappate mortali al suo cuore: quei colpi son lanciate mortali al suo petto; quei chiodi gli entrano con la punta inesorabile nell’anima; vede squarciate le mani e i piedi di Gesù, geme per dolore, e si tinge di pallore mortale e trambascia, vede dalle mani squarciate e dai piedi zampillare una larga vena di sangue, e del sangue sacrosanto del Verbo tingersi le luride mani e le vesti dei manigoldi e inzupparsi croce e terreno. E non mette un grido quell’anima forte, e dura e sostiene a quello spettacolo, e col sangue di Gesù offre all’eterno Padre per noi l’agonia del suo cuore. Ed ecco la carneficina è compiuta, ecco che robuste mani sollevano il Crocifisso, e si presenta la croce alla apprestata buca, già scende, crolla, ed è ferma. – Oh! come all’urto, alla scossa crosciano l’ossa di Gesù, che gemendo a quello sbalzamento atrocissimo, Padre, esclama, Padre, perdonate loro perché non san quel che fanno, e un grido delle turbe come di mare in tempesta saluta la comparsa del Crocifisso. E Maria ode il crosciar delle ossa, e la preghiera divina, vede al peso della persona dilatarsi e squarciarsi orribilmente le piaghe, e il sangue diluviare a torrenti; ascolta i fischi, le bestemmie e gli applausi dei Giudei infelloniti, e chi grida: ecco colui che distrugge il tempio di Dio e lo rifabbrica in tre giorni, e chi provocandolo con disfida sacrilega: se sei figlio di Dio. gli dice; scendi dalla croce e noi ti crediamo: e chi lo insulta con ischerno bestiale, ha salvato gli altri, dicendo, e non può salvar se medesimo. Vede ed ode tutto Maria: è madre, e non scoppia per duolo? No, dice S. Giovanni. Stàbat iuxta crucem lesu Mater ejus. (Io. XIX, 25.) Sorgeva in mezzo tra due ladroni il Crocifisso e pioveva sangue e penava in dura agonia; una turba smisurata di popolo lo circondava sfogandosi in insulti e bestemmie. A pie’ della croce insieme col prediletto Giovanni stava Maria. Stava piena di morte gli occhi ed il volto, e agonizzava penante, ma non faceva motto, ma durava: solo a quando a quando per impeto di amore sollevava le pupille al suo diletto per rimirarlo, ma subito per soprassalto di ambascia le atterrava. Si scontravano talvolta gli occhi della Madre in quei del Figliuolo ed oh! che guardarsi era quello, e che dicevan quelle occhiate! Tutta la passione di Gesù e l’agonia era passione ed agonia di Maria, e quel cuore materno era l’altare dove l’olocausto si consumava. Tre ore durò Gesù sulla croce: e tre ore la dolorosa Madre sostenne il martirio di quello spettacolo; e vide i carnefici spartirsene fra loro le vestimenta, udì Gesù sitibondo chiedere ristoro alle arse fauci, e avere aceto e fiele per acqua, lo vide condotto all’estremo tra per lo peso dell’iniquità degli uomini e per l’inesorabil decreto della giustizia di Dio. e fra le tenebre orrende che ravvolsero il mondo udì il Figliuolo querelarsi al Padre. O Dio, Dio mio, gridando, perché mi hai tu abbandonato, e incalzato e stretto dall’agonia: Padre, esclamare, nelle tue mani raccomando lo spirito mio, e mettere un grido altissimo, piegare il capo e spirare. Traballò allora per terremoto la terra, si scosse il monte, i sepolcri si scoperchiarono e la natura tutta gemette, ma salda e immobile a pie’ della croce Maria, martire già e più che martire non si levò finché non raccolse fra le sue braccia la salma del suo Gesù. O povera Madre nostra, sostieni alquanto in pace il tuo duolo, che volgerassi in giubilo risorgendo Gesù. Ma io intanto voglio metter fine al mio dire con conclusione di giubilo, ricordando che nel Calvario guadagnammo una Madre, e questa Madre è Maria. Imperocché pendeva Gesù dalla croce, quando veduto a pie di quella con la sua Madre Giovanni. Donna, disse alla Madre, accennando Giovanni, ecco il tao figlio, e a Giovanni, ecco la Madre tua. O che coltello furono queste parole per te: che duro cambio, Gesù con Giovanni, il Figlio di Dio coi figliuoli degli uomini. Ma noi esultiamo figliuoli del tuo dolore, e con fidanza filiale congratulandoci con te Imperatrice del Cielo, o Maria Regina dei martiri, ti diciamo, prega per noi.

5. Dopo quel poco che ho detto dei dolori della dolce Madre nostra Maria, pare a me di poter ricondurre il discorso là onde prese le mosse, e domandarvi fidatamente se dopo Gesù si sia mai trovata un’anima più addolorata dell’anima di Maria. Che dico domandarvelo io? È Maria medesima che ve ne domanda. O vos omnes qui transitis per viam, attendìte et videte si est dolor sicut dolor meus. (Thren. I , 12.). O voi tutti quanti siete che trapassando mi riguardate fra tante pene, ponete e vedete se ci è dolore che al mio pareggi. No, nessun dolore, ci risponde il cuor nostro, si pareggia a quel di Maria, e veramente magna est velut mare contritìo tua, (Thren. II, 12.) l’angoscia che la tormenta a somiglianza di un mare non ha misura. Ma se così è sarà troppo chiedere chi domandi che amiamo Maria, poiché patì tanto cooperando alla salute del mondo, e, che è il medesimo, patì tanto per noi? Ma oltre a questa un’altra conclusione voglio che deduciamo dalla vista della Regina dei martiri, ed è la seguente. Ecco la creatura più santa che sia stata mai o possa essere, la più nobile, la più privilegiata, la più sublime, la più prossima, la più diletta a Dio siccome Colei, che con Dio medesimo tien grado di Figliuola, di Sposa, di Madre. Or qual è il modo che il Signore tiene con Lei per tutto il tempo che Ella trascorre pellegrina su questa terra? Fu vita di oscurità, di travaglio, di povertà, di abbiezione, di dolori e di pene, e chi consideri il tenor dei suoi casi direbbe che non fosse sollevata a quella dignità sublimissima per altro che per patire. Gran cosa! Chi la vedeva, non vedeva altro che un’umile donna, né credeva che meritasse più onore di quello che si doveva alla umile sposa del fabbro di Nazaret, eppure dopo Dio non ci era altezza maggiore, e le regine che cingevan diadema erano nulla di fronte a Lei. Dunque né le grandezze di guesta terra sono vere grandezze, né vere abbiezioni sono le abbiezioni di quaggiù. Vera grandezza è la grazia, vera ed unica abbiezione è il peccato: né è misero chi è tribolato da Dio in questa terra, misero è chi è Che è stato di tante regine, imperatrici, matrone, che mentre Maria si ascondeva nella casetta di Nazaret pompeggiavano fra l’oro e le gemme, insuperbivano fra l’incenso delle adulazioni, e il codazzo dei cortigiani e levavano vanto di podestà e di bellezza. Aprite le loro tombe, e stringete qui fastello putrido d’ossa, e quel pugno di ceneri: ecco quel che resta di loro su questa terra; e questo medesimo, se pur resta, è ignoto e giace sotto le glebe, o si confonde con l’ossame del volgo. Ma Maria l’umile, la tribolata, la dolorosa, dov’è Maria? Apritevi agli occhi nostri o gaudi del Cielo, e tu rivelati e mostrati o reggia del Re dei re. Lassù dove il gaudio è più sincero, dove è più viva la luce, lassù presso al trono di Dio sorge ricinto di splendori divini il soglio della Regina dei Martiri. Vedetela vestita di sole, col disco della luna soggetto ai piedi, incoronata di stelle esser salutata dalla resta e dal plauso dei Santi e riverita dall’omaggio della terra e del Cielo. – Così si onora chi per Gesù e con Gesù è tribolato e patisce. O  beata croce di Gesù sei pesante, sei amara è vero su questa terra, ma duri poco, e poco durano ancora le false gioie di quaggiù. Ma il poco amaro seconda una gioia eterna, alla poca gioia succede l’interminabil tormento. A te dunque mi appiglio o croce diletta cui si apprese Maria, e con te, è in te voglio vivere, e in te morire e con te.

LO SCUDO DELLA FEDE (XXVIII)

LO SCUDO XXVIII.[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

GESÙ’ CRISTO DIO-UOMO.

Esistenza di Gesù Cristo. — Autenticità e veracità elei Vangeli. — Affermazioni   di Gesù Cristo sopra la sua divinità. — Sincerità di tale affermazione dedotta dal suo carattere — Prove della verità di tale affermatone nella sua nascita e vita privata. — Nella vita pubblica. — Nella passione e  morte.

Perdoni: avrei ora da farle una domanda che a dir vero non oso neppure. Ma che vuole mai? Dopo aver udite certe cose da certi professori non posso fare a meno di fargliela,

Sentiamo adunque.

Gesù Cristo è egli veramente esistito, o non è altro che un mito chimerico, un fantasma dell’immaginazione dei popoli?

M’immaginava che doveva essere questa la tua domanda, perché so benissimo che in certe scuole, seguendosi certi scrittori nebulosi di oltr’alpe, si ardisce di metter fuori certi deliri. Ma dimmi, se Gesù Cristo non è altro cheun sogno, un fantasma, un mito, non sarebbero per avventura altrettanti sogni, fantasmi e miti e Alessandro Magno, e Annibale, e Scipione, e Cesare e Napoleone?

— Ma la storia accerta indubbiamente l’esistenza di tutti codesti personaggi.

La storia non attesta altresì l’esistenza di Gesù Cristo? Che anzi non fa di Gesù Cristo il centro di tutti i fatti che narra, di tutti i secoli che passa in rassegna? Questo secolo XX non segna esso forse la data della sua esistenza sulla terra? Credilo, amico mio, per negare l’esistenza di Gesù Cristo, come fanno certi pretesi grandi filosofi tedeschi, bisogna o essere divenuti grandi matti o aver perduto ogni pudore nel dire le più audaci menzogne. Epperò quando ti accade di udire taluni, siano pure professori, o qualche cosa di più grosso ancora, a dire simili bestialità …

… Non ti curar di lor, ma guarda e passa.

— L’assicuro che seguirò il suo consiglio. Ma ora mi dica un po’ di qual maniera possiamo noi essere certi che Gesù Cristo sia Dio?

Dai Santi Vangeli che ci attestano averlo Gesù Cristo affermato e comprovato.

— Ma si può essere veramente sicuri sull’autenticità dei Vangeli?

Su questa questione gravissima ti dirò poche parole, ma irrefutabili. Dimmi dunque chi è che dubita della certezza dei libri di Cicerone, di Cesare, di Sallustio, di Tito Livio, e Tacito? Eppure per affermarla vi sono assai meno ragioni, che non ve ne siano per affermare quella dei Vangeli. – Questi libri brevissimi, che narrano in succinto la vita di Gesù Cristo, e i cui autori, da Dio inspirati, rispondono al nome di San Matteo e di S. Giovanni, di S. Marco e di S. Luca, i due primi Apostoli del Redentore, i due ultimi suoi discepoli e contemporanei di Lui non meno degli Apostoli, furono mai sempre avuti come certi non solo dalla Chiesa, da’ suoi Pontefici, da’ suoi vescovi, da’ suoi dottori, da’ suoi santi, da tutti i suoi fedeli, ma eziandio dagli eretici e dai pagani.

— Possibile?

Sì; gli eretici si arrogavano essi la proprietà dei medesimi libri, ed i pagani si valevano slealmente di ciò, che in essi leggevano, per gettare il ridicolo e l’obbrobrio sulla Religione di Gesù Cristo. Ora vorresti che i Cristiani abbiano accettati senz’altro questi libri, in cui è determinata la loro fede, la loro Religione, la loro legge e la sanzione della stessa, senza essere certi degli autori che li scrissero? E ti parrebbe possibile che, oltre ai Cristiani, gli stessi pagani ed eretici dessero tanto peso a libri, che tutt’altro che essere di autori certi, fossero di origine ignota?

— Le ragioni che mi ha addotte dimostrano con la massima evidenza l’autenticità dei Vangeli. Ma si può essere parimenti sicuri della loro veracità, che cioè i Vangeli siano sinceri, narrino sempre le cose conforme a verità? Non si può con fondamento sospettare che le cose ivi narrate siano inventate appunto per poterne poscia inferire la divinità di Gesù Cristo?

Chi pensa che le cose narrate dagli Evangelisti siano state inventate, è certo che non ha letti mai, né tampoco conosce i Vangeli. E come mai inventare un tipo quale Gesù Cristo è descritto dagli evangelisti, tipo unico, tutto a sé, tipo inarrivabile, tipo impossibile anche allora che si mettessero insieme le virtù più eroiche di tutti i più grandi uomini? Come inventare una dottrina così sublime, quale non si avrebbe neppure congiungendo il distillato dei più grandi filosofi ? E dopo di avere inventato tutto ciò, come scriverlo con tanta semplicità, con tanto disinteresse, con tanta convinzione di essere creduti, e quattro scrittori diversi con sì ammirabile accordo, non ostante le differenze accidentali, che facilmente spiegabili, sono per altra parte una stupenda prova non essersi previamente intesi fra di loro! – E poi gli Evangelisti, se avessero inventato essi dei fatti relativi a Gesù Cristo, non sarebbero stati smentiti dagli Ebrei loro contemporanei, che furono testimoni ancor essi della vita di Gesù Cristo? Ed avrebbero osato, come hanno, rivelare magagne e delitti di re, di proconsoli, di sacerdoti, di dottori, di Giudei di pagani, mentre la maggior parte di costoro, per essere ancora in vita, potevano levarsi su a protestare solennemente contro la menzogna e la calunnia? Ah! che anche tutto ciò è impossibile. – È dunque necessario riconoscere che in tutto ciò che gli Evangelisti hanno scritto, sono stati sinceri e non hanno inventato nulla; è necessario insomma ammettere la veracità del Vangelo. Ed è ciò appunto che sempre si è ammesso, tanto che anche oggi, quando si vuol dire che una cosa è vera, si dice: È verità di Vangelo; ed ogni qual volta si giura per dar sicurezza che si dice il vero, si giura sulla verità del Vangelo.

— Gesù Cristo adunque secondo il Vangelo si è affermato Dio?

Non vi ha certamente nel Vangelo cosa tantto chiara ed esplicita quanto l’affermazione che fa Gesù Cristo della sua Divinità. Un dì, chiede agli Apostoli chi credano che Egli sia. E San Pietro risponde: «Tu sei il Cristo, Figlio di Dio vivo». Ed a questa affermazione così aperta, Gesù Cristo soggiunge: « Beato te, Simone, figliuolo di Giovanni, perché né la carne, né il sangue ti rivelarono queste cose, ma il Padre mio che sta nei cieli ». — Un’altra volta all’Apostolo Filippo, che quasi a nome degli altri Apostoli, gli domanda di far loro vedere il Padre celeste, di cui sempre parla, risponde: « Come!? È da tanto che Io sono con voi, e voi non mi avete ancora conosciuto? Filippo, e non sai tu che chi vede me, vede ancora il Padre? Non credi tu che Io sono nei Padre e che il Padre è in me ? » — Un giorno, taluni del popolo gli dicono: « E fino a quando ci terrai sospesi? dinne alla fine, sei tu veramente il Cristo ? » E Gesù: « Io ve l’ho detto ma voi non lo credete, eppure le opere che Io faccio nel nome del Padre mio, rendono testimonianza di me ». A queste parole i Giudei danno di piglio alle pietre per lapidarlo, ma Gesù soggiunge: « Perché mi lapidate voi? »  E i Giudei rispondono: « Per la tua bestemmia, perciocché tu essendo uomo ti sei fatto Dio ». Tradotto dinanzi al consiglio degli anziani dei sacerdoti, dei principi della Giudea, il sommo sacerdote a nome di tutti lo interroga: « Io ti scongiuro pel Dio vivo: Dimmi, sei tu il Cristo figliuolo di Dio? » E Gesù Gesù, senza punto scomporsi con solenne maestà risponde: « Io lo sono ». Anzi Egli dice di più « Sono quegli, e mi vedrete un giorno sedere alla destra della maestà di Dio e venire sulle nubi del cielo ». A questa affermazione gli ipocriti si stracciano le vesti e gridano: « E di qual altra testimonianza abbiamo ancor bisogno? Basta, basta così. Egli è reo di morte. Noi abbiamo una legge, e secondo la legge egli deve morire, perché si è fatto Figliuolo di Dio ». — E Gesù è condannato a morte, vien crocifisso e tra i più atroci tormenti spira, martire della sua affermazione: «Sono Figlio di Dio, cioè sono Dio! »

— Ma qui non si potrebbe domandare se Gesù Cristo nell’affermarsi Dio era sincero? Se cioè Egli credeva veramente di sé quello che si affermava, oppure se non era altro che un povero allucinato od un maligno impostore?

Sì, senza dubbio, desiderando avere le prove razionali della divinità di Gesù Cristo. Ma a questa domanda torna facilissimo il rispondere. Difatti a conoscere che Gesù Cristo era sincero nella sua affermazione, basta esaminare gli elementi del suo carattere, giacché propriamente dal carattere d’una persona, che si può trarre argomento per giudicare con sicurezza della sincerità o falsità delle sue affermazioni. Ora da tale esame risulta che la intelligenza, il cuore, la volontà di Gesù Cristo, gli elementi cioè che costituiscono il carattere, sono tutti in Lui d’una bellezza inarrivabile, senza la minima ombra, ed in perfettissimo equilibrio fra di loro, tanto che gli stessi nemici di Gesù Cristo sono stati costretti di ammettere per lo meno che Egli fu un uomo savio, un uomo eletto, un personaggio incomparabile. Ora qualità così eccelse sarebbero comportabili con la miseria dell’allucinazione o col vizio ignominioso dell’impostura? Il più volgare buon senso risponde di no. Gesù Cristo adunque era sincero, era anzi la stessa sincerità. Essendo sincero Egli credeva quello che diceva; ed Egli diceva di essere Dio, dunque Egli credeva che era Dio.

— E non poteva essere che Gesù Cristo credesse di essere Dio senza esserlo?

Per supporre ciò, tutt’altro che riconoscere che Gesù. Cristo era d’intelligenza sublime, di cuore grande, di volontà ferma, epperò della massima sincerità, bisognerebbe invece arrivare al punto da dire che Egli era matto. L’uomo anche il più meschino non s’ingannerà mai sopra la sua natura. Potrà credere di aver delle doti che non ha, ma ritenere sinceramente di essere uccello o pesce anziché uomo, a meno che abbia perduto il cervello, non è possibile. Come adunque si sarebbe ingannato intorno al suo essere Gesù Cristo con quelle qualità così stupende che Egli aveva? Non resta perciò che la schietta verità. Gesù Cristo afferma di sé ciò che vede in sé; Gesù Cristo afferma lo stato reale della sua Persona: Gesù Cristo afferma un fatto della sua coscienza; Gesù Cristo è Dio!

— Ma Gesù Cristo si è contentato di affermare la sua divinità, oppure ne ha dato anche le prove?

Ne ha date prove stupende in tutta quanta la sua vita, nella quale se per una parte si manifesta veramente uomo, per l’altra, sia per i prodigi che l’accompagnano, sia per quelli che opera Egli stesso. si comprova Dio nel modo più evidente.

— Amerei che mi facesse conoscere ciò in complesso.

Lo farò volentieri, a grandi linee, passando in brevissima rassegna i fatti principali della sua nascita, della sua vita privata e pubblica, e della sua passione e morte. Qual è la nascita di Gesù Cristo? Spogliamento totale, abbandono completo; suo rifugio una stalla, sua culla un presepio: ecco l’uomo che nasce. Ma i cieli si aprono; pastori e Magi, Giudei e Gentili corrono ad adorare il nato Gesù. Erode trema sul suo trono e con rispetto ipocrita nasconde il suo turbamento. I celesti cantano: Gloria a Dio nell’alto dei cieli, pace in terra agli uomini di buon volere. Ecco Dio che discende. – Egli è sottoposto alla Circoncisione: e la sua stilla di sangue è il segno della sua umanità. Ma è chiamato Salvatore, ecco il titolo della Divinità di Gesù. – Presentato al Tempio è riscattato con due colombe: è l’offerta del povero. Ma un vegliardo lo riconosce, lo proclama il Messia. Cercato a morte da Erode fugge in terra straniera: è l’esilio dell’uomo. Ma un Angelo avvisa Giuseppe, i Magi miracolosamente avvertiti prendono un’altra via; è il passaggio di Dio. – Cresce a poco a poco in età, in sapienza: la sua lingua si snoda, il suo discorso si svolge: è la condizione dell’uomo. Ma a 12 anni siede in mezzo ai Dottori; non risponde come discepolo, ma li interroga come maestro: è la sapienza di Dio. Giuseppe ammira con rispettoso silenzio. Maria gli fa un dolce rimprovero: Figlio mio. che hai tu fatto? ecco che noi ti cercavamo. È l’uomo che viene accusato. Ma Gesù: Perché cercarmi, non sapete che Io debbo fare le cose del Padre mio? Dunque suo padre è Iddio,  sua casa il Tempio, da cui discaccerà un giorno i profanatori. È Dio che si giustifica. – Sulle rive del Giordano si abbassa a ricevere il Battesimo di penitenza: è la somiglianza con l’uomo peccatore. Si apre il cielo, lo Spirito Santo discende sopra di Lui, e la voce di Dio Padre dice: « È questi il mio figliuolo diletto! È la testimonianza del Cielo. – Nel deserto vuol essere tentato da satana,  vuol sentire la fame: ecco l’uomo che soffre. Ma respinge satana, è servito dagli Angeli; ecco Dio che trionfa. – Si addormenta su d’una nave e i discepoli ne rispettano il sonno; è l’uomo che riposa. Infuria la tempesta, i discepoli impauriscono, lo chiamano, Egli sorge, placa con una parola i venti ed il mare. Chi è colui a cui gli elementi obbediscono? È Dio che comanda. Non ha una pietra su cui posare il capo; è la povertà dell’uomo. Ma con pochi pesci e pochi pani sazia la moltitudine del deserto: è la ricchezza, la provvidenza di Dio. – Minacciato, fugge per sottrarsi ai nemici; la debolezza dell’uomo si manifesta. Ma risana gl’infermi, dà la vista ai ciechi, la loquela ai muti, l’udito ai sordi, raddrizza gli zoppi, monda i lebbrosi, risuscita i morti, discaccia gli spiriti maligni, li atterrisce, li soggioga: si Trasfigura sul Tabor, è la potenza di Dio che si rivela. – Al sepolcro di Lazzaro freme dentro di sé e gli sgorgano le lagrime dell’umanità; ma alla sua voce la morte restituisce la vittima: è l’impero della Divinità. – Nell’ultima cena si lamenta di chi lo tradirà, e di chi lo negherà come un uomo derelitto, ma profetizza le circostanze della sua passione e tramuta il pane e il vino nel suo Corpo e nel suo Sangue, manifestando la potenza divina. – Nel Getsemani abbandonato dai suoi, senza poter riscuotere dal sonno i discepoli eletti, agonizza, gronda sangue: è l’uomo che soccombe. Ma si alza con maestà davanti ai carnefici, con una parola li fa cadere ai suoi piedi: è Dio che si presenta. – Flagellato orribilmente nel pretorio di Pilato, coronato di spine, coperto d’un lacero manto di porpora, postagli una canna derisoria in mano e circondato dagli scribi, dai farisei, è oppresso di accuse e di calunnie, ed il popolo ne domanda la morte: ecco l’umanità nella sua ignominia. Ma sfolgora Caifas, parla di verità a Pilato, non degna Erode di una parola; va ad appendersi chi lo ha tradito: ad un suo sguardo piange chi lo ha rinnegato: ecco il raggio della divinità, terribile al peccatore ostinato, pietosa al pentito. – Eccolo sulla Croce: passano i suoi nemici innanzi a Lui, scuotono il capo e bestemmiano il suo nome: è l’estremo insulto all’uomo che agonizza. Ma il sole si oscura, la terra trema, i macigni si spezzano, il velo del tempio si squarcia; è l’angoscia della natura, che veste il lutto pel suo Dio. Muore perché vuole, ed emesso il supremo anelito, strappa al Centurione il grido: Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio. – Ecco come in Gesù, se per una parte di continuo apparisce l’uomo, che Egli volle farsi per noi, dall’altra di continuo apparisce quel vero Dio che rimase pur sempre essendosi fatto uomo.

— Sì, alla luce di questi fatti è impossibile negare che Gesù Cristo sia Uomo-Dio!