CONOSCERE SAN PAOLO (8)

CONOSCERE S. PAOLO (8)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

LETTERE AI CORINTI

La chiesa di Corinto. (4)

I CARISMI.

1 . DIVERSE SPECIE DI CARISMI. — 2. LA PROFEZIA E IL DONO DELLE LINGUE.

1. Gesù Cristo, prima di salire al cielo, prometteva ai credenti il potere di scacciare i demoni, di guarire gli ammalati, di parlare nuove lingue, di rendere inoffensivi i veleni (Marc. XVI, 17-18), e la sua promessa si avverava ben presto. Quando lo Spirito Santo discese su gli Apostoli a Gerusalemme (Act. II, 4), sui semplici fedeli in Samaria (Act. VIII, 8), su le primizie del gentilesimo a Cesarea (Act. X, 46), su gli antichi discepoli di Giovanni Battista a Efeso (Act. XIX, 6), si manifestarono fenomeni del carattere più meraviglioso. I neofiti di Corinto ne erano stati favoriti con tanta abbondanza, che consultarono Paolo (I Cor. XII, 1) sul valore e su l’uso di quei doni straordinari. La cosa più urgente era di verificarne la provenienza. « Nessun uomo mosso dallo Spirito di Dio dice: Gesù (sia) anatema! e nessuno può confessare che Gesù (è) Signore, se non nello Spirito Santo (I Cor. XII, 3) ». San Paolo, notiamo bene, non pretende di dare una pietra di paragone egualmente applicabile a tutti i tempi e a tutti i luoghi. In tutte le epoche turbate da discussioni religiose, vi è sempre una formula che è come la parola d’ordine degli ortodossi: l’homoousios ai tempi di Ario, il merito delle opere ai tempi di Lutero, la grazia sufficiente ai tempi di Giansenio. Per San Giovanni, il criterio di ortodossia è la fede nel Verbo incarnato, perché allora gli eretici o negavano l’umanità del Cristo o la sua divinità, oppure non riconoscevano che un’unione accidentale tra l’umanità e la divinità. Per San Paolo, è la supremazia di Gesù Cristo. Il confessare che Gesù è Signore, è una professione di fede compendiata, è un riassunto del credo, perché è un confessare equivalentemente che egli è il Messia, che è Figlio di Dio, che è Dio. Gesù diceva dei falsi profeti: « Voi li riconoscerete dalle loro opere »; San Paolo e San Giovanni dicono: « Voi li riconoscerete dalla loro dottrina ». L’ipocrisia può ingannare: Dio solo ne penetra la maschera; ma la regola data basta in pratica, e se sempre vi resta una possibilità di errore, essa è in tal caso innocua. E poi tra i carismi ve n’era uno, il discernimento degli spiriti, che aveva appunto lo scopo di constatare l’origine soprannaturale di questi doni spirituali. Noi intendiamo qui per carismi, quelle che i teologi chiamano grazie gratuite (gratis datati per opposizione alle grazie santificanti (graturn faeientes). Esse non si distinguono dalle altre perché sono gratuite — poiché chi dice grazia dice dono gratuito — ma perché, per se stesse, esse non sono santificanti; esse hanno soltanto in sé la nozione del genere senza la differenza specifica. Il carisma si può definire: un dono gratuito, soprannaturale, passeggero, conferito per l’utilità generale, per l’edificazione del corpo mistico del Cristo. Gratuito, nel senso che non vi è nessuna connessione necessaria con la grazia santificante e che, non essendo richiesto per la salute, lo Spirito Santo « lo concede a chi vuole e quando vuole (I Cor. XII, 11) », benché vi sia speranza di ottenerlo se si chiede (ivi, XIV, 27). Soprannaturale, perché è un’operazione speciale dello Spirito Santo in noi (ivi, 12-32), che tuttavia si può sovrapporre ad un’attitudine naturale, come generalmente la grazia si sovrappone alla natura che essa trasforma e innalza. Passeggero, poiché lo Spirito lo dà e lo toghe a suo talento; è transitorio in confronto delle virtù teologali che rimangono, in confronto soprattutto della carità che non vien meno; ma possiede tuttavia una certa stabilità per la quale l’uomo abitualmente dotato del carisma profetico sarà chiamato profeta. Finalmente il carisma è conferito per l’utilità generale, come lo afferma esplicitamente San Paolo (49I Cro. XII, 7). Il paragone dei carismi con le membra del corpo umano, la cui funzione è di concorrere all’azione o al benessere comune, prova in fondo la stessa cosa. Perciò i carismi sono stimati secondo la loro utilità: quanto più sono utili alla società cristiana, tanto più sono perfetti. Ottenuti in ragione del bene comune più che in favore degli individui, essi potevano un giorno scomparire, senza privare la Chiesa di nessun organo indispensabile.

2. Di tutti i carismi, il più straordinario era il dono delle lingue, la glossolalia. Non sapremmo dire con precisione che cosa fosse, ma la Scrittura ci dice almeno che cosa non era. Essa non aveva certamente per scopo la predicazione del Vangelo. Quando gli Apostoli, nel giorno di Pentecoste, « incominciarono a parlare in diverse lingue, secondo che lo Spirito dava a loro di parlare », essi non si rivolgevano al popolo, ma celebravano nelle lingue dei presenti « le magnificenze di Dio (Act. II, 4) », con un’animazione di voce e di gesti, che li fece accusare di ubriachezza. Se si tratta di parlare alla moltitudine, Pietro parla in nome di tutti e, non potendo parlare che una lingua alla volta, è naturale che parli la sua. Se vi fu miracolo, questo si compì negli uditori e non in lui. Nel momento in cui incominciava la predicazione, il dono delle lingue era cessato. Il centurione Cornelio e i suoi, dopo il loro Battesimo, « parlarono le lingue celebrando le lodi di Dio (Act. X, 46) ». Lo stesso avvenne ai dodici discepoli di Efeso che « pieni di Spirito Santo, parlavano le lingue e profetavano (Act. XIX, 6) ». Né gli uni né gli altri non avevano da predicare. Finalmente, e questo è decisivo, il possessore di questo carisma non era compreso dai presenti, se non si trovava loro un interprete (I Cor. XIV, 2). – Riunendo tutti i dati relativi alla glossolalia, noi vediamo che essa era la facoltà soprannaturale di pregare o di lodare Dio in una lingua straniera, con un entusiasmo vicino all’esaltazione. Di fatti gli Apostoli cantano «,le magnificenze di Dio », i familiari di Cornelio « glorificano Dio », i neofiti di Efeso « profetano » nel senso biblico, quelli di Corinto « non parlano agli uomini ma a Dio, e nessuno li capisce quando, sotto l’impulso dello Spirito, profferiscono misteri », il cui significato sfugge agli uditori. D’altra parte l’eccitazione degli Apostoli è attribuita al vino che dà alla testa; e San Paolo teme per i suoi Corinzi l’accusa di pazzia, se si servono del loro dono dinanzi agli infedeli e ai catecumeni (ivi, XIV, 23). Queste manifestazioni meravigliose avveravano le profezie, dimostravano sensibilmente la permanenza dello Spirito Santo nel seno della Chiesa, simboleggiavano la grande unità cattolica e l’universalità del Vangelo, destinato a parlare tutte le lingue e a raccogliere tutti gli uomini nella professione della stessa fede. Ma quello che aveva di prodigioso la glossolalia, mentre colpiva le fantasie, doveva farla desiderare ardentemente dai neofiti ancora imperfetti e inesperti. Paolo insorge con forza contro questa stima eccessiva e raccomanda invece il dono della profezia del quale sembravano fare troppo poco conto. – Nell’Antico, come nel Nuovo Testamento, il profeta è colui che parla in nome di Dio. Ma mentre i profeti dell’Antico Testamento esercitavano una funzione pubblica e un ministero permanente, quelli del Nuovo sono profeti piuttosto in modo privato e transitorio. Essi sono predicatori ispirati, ma non è essenziale che siano apportatori di una rivelazione propriamente detta. Il loro compito specifico è quello di « edificare, esortare e consolare (ivi, XIV, 3) ». Se leggono in fondo ai cuori e sollevano il velo dell’avvenire, è in virtù di una prerogativa aggiunta alla loro missione ufficiale. Nella gerarchia dei carismi, i profeti vengono sempre immediatamente dopo gli Apostoli, e si vede che il dono spirituale di cui erano favoriti, li rendeva capaci di dirigere le comunità nascenti e li designava alle funzioni del ministero ordinario. Perciò Paolo consiglia di desiderare la profezia più che gli altri carismi e particolarmente più che il dono delle lingue (ivi, 1). Essa ha sopra questo il doppio vantaggio di essere intesa dagli uditori e di essere utile anche agli infedeli: tutti comprendono il profeta e possono profittare delle sue istruzioni, mentre Dio solo comprende il glossolale, se non gli viene in aiuto un interprete (ivi, 5). Mentre il profeta edifica la Chiesa, il glossolale edifica soltanto se stesso. Quando si sente sotto l’azione di Dio, ha coscienza di lodarlo, ma che cosa ne viene ai presenti? (ivi, XIV, 3-4). A che cosa serve infatti una lingua non compresa? (ivi, 19). Dio aveva già minacciato il suo popolo di fargli udire una lingua straniera che non avrebbe capita; c’è dunque tanto da vantarsi di un privilegio promesso all’infedeltà? (ivi, 20-21). Almeno la glossolalia convertisse gli infedeli! essa invece è per loro un argomento di derisione, come nel giorno della Pentecoste. « Quando la Chiesa è radunata in assemblea plenaria, se tutti parlano le lingue, ed entrano catecumeni e infedeli, non diranno che siete impazziti? Ma se tutti profetano, ed entra un infedele o un catecumeno, è convinto da tutti e sentenziato da tutti, e per tal modo si manifesta quello che egli ha occultamente nel cuore; e così gettatosi bocconi adorerà Dio, dichiarando che Dio è veramente in voi » (ivi, XIV, 23-35). Siccome anche il dono della profezia può essere soggetto ad abusi, San Paolo lo regola come il dono delle lingue. Tre avvisi sono diretti al glossolalo e due al profeta: Se i glossolali sono numerosi, due soltanto, o al più tre, prendano la parola in ciascuna riunione. — Essi non parlino insieme, ma uno dopo l’altro; e uno dei presenti, dotato del carisma dell’interpretazione, o che conosca la lingua che si parla, spieghi ciò che dicono. — Se non vi è interprete, il glossolalo stia in silenzio dinanzi al pubblico e parli con Dio a bassa voce (ivi, XIV, 27-28). Le disposizioni seguenti regolano l’uso della profezia: Due o tre profeti, in ciascuna riunione, esorteranno alternativamente il popolo; gli altri, oppure i fedeli dotati del carisma del discernimento degli spiriti, giudicheranno della loro ispirazione e della loro dottrina. — Se mentre uno parla, un altro si sente ispirato, il primo, per deferenza e per modestia, gli cederà la parola (ivi, 29-32). L’Apostolo riassume questo avviso in una frase; « Tutto si faccia con decenza e con buon ordine (ivi, 40) ». Nel loro desiderio di fare sfoggio dei doni spirituali, i Corinzi dimenticavano troppo facilmente, che i carismi né aggiungono né suppongono alcun merito in chi li possiede, e che gli sono concessi non tanto per il suo particolare profitto, quanto per il bene generale della Chiesa; perciò il metterli in mostra con compiacenza è una fanciullaggine. Il dono delle lingue specialmente, è uno dei minimi, perché ha bisogno di essere completato dal dono dell’interpretazione. Il glossolalo non è compreso dagli altri e ordinariamente egli non comprende se stesso: il suo spirito (πνεῦμ͜α = pneuma) si edifica, ma la sua intelligenza (νοῦς = nous) rimane digiuna. Non senza ironia Paolo lo paragona a uno strumento musicale che eseguisce un’aria sconosciuta che non capisce nessuno: l’uno e l’altro scuotono l’aria e la fanno vibrare invano. Non già che si debba di sprezzare il dono di Dio o impedirgli di manifestarsi, m a conviene stimare i carismi secondo la loro utilità. Con tale criterio, dopo il dono dell’apostolato che non è per le comunità già stabilite, la profezia tiene il primo posto. Vi è tuttavia qualche cosa di ben superiore ai carismi, favori gratuiti che Dio distribuisce a suo piacimento e la cui privazione non ci toglie nulla agli occhi suoi: sono le virtù soprannaturali, perché esse rimangono nell’anima finché vi rimane la grazia santificante, e soprattutto le tre virtù teologali, fede, speranza e carità. Questo è lo scopo per eccellenza, che Paolo assegna all’ambizione dei perfetti, e questo nome di carità gl’inspira una pagina di meravigliosa bellezza e quasi lirica. – L’oggetto speciale dei carismi diversi rimane oscuro, ma un carattere comune ed essenziale è la loro instabilità e la loro dipendenza assoluta dal beneplacito di Dio. Questo non permette di confonderti né con gli altri « frutti dello Spirito », né con le funzioni ordinarie della gerarchia. Senza dubbio da principio i dignitari ecclesiastici furono scelti spesso tra coloro che possedevano carismi. Il carisma disponeva alla funzione, ma non era necessario, potendo supplirvi la grazia dello stato, che talora si chiama anch’essa carisma. Finalmente se tutti i carismi erano soprannaturali, come frutti dello Spirito, non pare necessario che fossero tutti miracolosi, e non si vede che l’Apostolo non abbia potuto chiamare carisma un’attitudine naturale soprannaturalizzata.

V . LA RISURREZIONE DEI MORTI.

1 . CERTEZZA DELLA RISURREZIONE. — 2. RISURREZIONE NEL CRISTO E PER MEZZO DEL CRISTO. – 3. BATTESIMO PER I MORTI E PERSUASIONE DEGLI APOSTOLI. – 4. GLORIFICAZIONE DEI MORTI E DEI VIVI.

  1. Il dogma della Risurrezione del Cristo, e per conseguenza della nostra risurrezione, è, come tutti sanno, uno dei perni della teologia di San Paolo, ed era pure il più difficile da inculcare ai Pagani. L’Apostolo lo imparò a sue spese quando, nell’Areopago, udì le risa scroscianti prorompere al solo nome della risurrezione (Act. XVII), e quando, esponendo dinanzi a Festo la stessa verità, il procuratore gli disse brutalmente: « Paolo, tu vaneggi: la molta dottrina ti fa dare in pazzie (Act. XXVI, 24) ». Non è dunque cosa straordinaria che sia nato a questo riguardo qualche dubbio isolato nella cristianità di Corinto, formata quasi tutta di Gentili. Alcuni licevano: « Non vi è risurrezione dei morti (I Cor. XV, 12) ». Essi non arrivavano certamente fino a contestarne la possibilità assoluta, ma si limitavano a negare il fatto. Se si degnavano di fare un’eccezione a favore di Gesù Cristo, unica eccezione legittimata dalla dignità sublime di Figlio di Dio, si credevano forse in regola con l’insegnamento dell’Apostolo, intendendo per la risurrezione predicata da lui, la rigenerazione battesimale, una specie di risurrezione spirituale. – Agli occhi di Paolo, il negare la nostra risurrezione equivale a negare la risurrezione del Cristo, perché l’una è il corollario dell’altra o, per dir meglio, l’una è impossibile senza l’altra; perciò per essere logici bisogna ammetterle tutte e due oppure negarle tutte e due. Ma se il Cristo non è risuscitato, il Cristianesimo non è che menzogna. È vana la predicazione degli Apostoli i quali fondano su questo fragile appoggio tutto il loro vangelo; vana la fede dei fedeli, poiché essa poggia su questa base in rovina: i messaggeri della buona novella “sono falsi testimoni che attribuiscono calunniosamente a Dio un miracolo che egli non ha fatto. E quali conseguenze per i Cristiani! Vivi, essi rimangono piombati nei loro peccati; morti, sono perduti senza speranza; vivi e morti si trovano nella massima miseria. Difatti se Gesù Cristo non è risuscitato, Egli non è né il figlio né l’inviato di Dio; se Egli non è il Messia, non è il Salvatore; se non è il Salvatore, la fede in Lui e il Battesimo nel suo nome sono senza efficacia. Ne risulta dunque che il Vangelo è un’impostura, la giustificazione una lusinga, la speranza una chimera, la vita un sogno miserabile che finisce nel nulla o nella sventura. Nulla di là dalla tomba e, in questo mondo, dolori e persecuzioni, aggravati da privazioni volontarie e da rinunzie fanatiche. Questa sarebbe, in tale ipotesi, la sorte del Cristiano (I Cor. XV, 14-19). Ma, ripetiamo, non si tratta della risurrezione di Gesù Cristo, bensì della nostra, e Paolo si accinge a dimostrare che esse sono unite tra loro con un vincolo indissolubile. Noi dobbiamo risuscitare nel Cristo (ἐν Χριστῷ = en Cristo) e dobbiamo risuscitare per mezzo del Cristo (διά Χριστοῦ = dia Cristou). In altri termini, il Cristo è la causa esemplare della nostra risurrezione e ne è pure la causa meritoria. Sappiamo da Daniele, che giusti e peccatori si leveranno un giorno dalla polvere per ricominciare una vita senza fine, gli uni di obbrobrio, gli altri di gloria; da San Giovanni sappiamo che vi sono due risurrezioni, l’una di vita, l’altra di giudizio. Anche Paolo proclamò dinanzi al procuratore Pesto la risurrezione così degli empi come dei giusti (Dan. XII, 2; Joan. V, 29, Act. XXIV, 15); ma nelle sue Epistole parla soltanto di quest’ultima, perché i suoi argomenti, applicati all’altra, non terrebbero. Infatti, come potrebbe il Cristo essere causa esemplare per coloro che non hanno ricevuto e non hanno conservato la sua immagine?, e come potrebbe essere causa meritoria per coloro che hanno calpestato i suoi meriti?
  2. 2. Il ragionamento fondato su la causa esemplare si presenta in doppio aspetto: Se i giusti non risuscitano, il Cristo non è risuscitato; se il Cristo è risuscitato, anche i giusti risusciteranno (I Cor. XV, 20). Un vincolo di dipendenza unisce i due membri di queste proposizioni condizionali che bisogna o negare o affermare insieme. Ora è certo che il Cristo è risuscitato; gli scettici di Corinto non ne dubitano e, occorrendo, le testimonianze accumulate da San Paolo chiuderebbero loro la bocca. La conseguenza ineluttabile è che anche i giusti risusciteranno. E perché? Perché Gesù Cristo è risuscitato dai morti come « primizia dei dormienti (ivi, 20) ». Le primizie sono la promessa e il pegno della messe e non sarebbero più primizie senza il raccolto

che esse annunziano. Benché meno stimato e meno prezioso, il raccolto non è di natura diversa dalle primizie: è il frutto di una stessa semina, il prodotto di un medesimo campo, il reddito di una medesima coltivazione. Così il Cristo non avrebbe diritto ai titoli che gli appartengono, non sarebbe « il primogenito dei morti né primizie dei dormienti », se Egli solo, esclusi i suoi fratelli, fosse risuscitato. Si vede facilmente che la ragione ultima di tutto questo sta nella solidarietà degli eletti con il loro redentore. « Come tutti gli uomini muoiono in Adamo, così pure tutti saranno vivificati nel Cristo (ivi, 22) ». Per contrarre il debito di morte, nel corpo e nell’anima,

basta appartenere alla stirpe di Adamo e il fare con Lui una sola cosa per il fatto della generazione naturale; per ricevere il credito di vita, nell’anima e nel corpo, basta essere incorporati nel secondo Adamo e fare una cosa sola con Lui per il fatto della rigenerazione soprannaturale. Tutti quelli che sono morti in Adamo in conseguenza della comune natura ricevuta da Lui, saranno vivificati nel Cristo, a condizione che comunichino con la sua grazia. Si vede quanto sarebbe difettosa questa argomentazione di Paolo, se si parlasse della risurrezione generale dei morti; ma limitata ai giusti, essa è incrollabile. Essa ha le sue radici nella teoria del corpo mistico così cara all’Apostolo. Nel momento in cui veniamo innestati sui Cristo per mezzo del battesimo, incominciamo a vivere della sua vita, a partecipare ai suoi privilegi e ai suoi destini, come il ramo innestato sul tronco ne riceve il succo; da quel momento noi acquistiamo un diritto alla risurrezione gloriosa. Dio è debitore verso se stesso della nostra risurrezione, perché siamo membri, siamo parte integrante del Cristo. Non è una semplice convenienza, ma è una necessità, nella provvidenza attuale, è un corollario evidente, nell’ordine presente delle cose, del disegno divino della redenzione. – La seconda dimostrazione che parte dalla nozione di causa meritoria, è ancora più chiara. Nessun Cristiano può ignorare, perché questa verità appartiene al catechismo elementare, che Gesù Cristo ha la missione di restaurare le rovine fatte dal primo Adamo. Queste rovine si riassumono nella privazione della giustizia originale e nella perdita dell’immortalità. Se il Cristo non fosse vincitore della morte come è vincitore del peccato, avrebbe compito soltanto una metà dell’opera sua: « La morte è il fatto di un uomo, la risurrezione dei morti sarà pure il fatto di un uomo (ivi, 21) ». Nel numero dei nemici da distruggere, si trova la morte. Essa sarà vinta l’ultima, ma bisogna che sia vinta; ora non sarebbe vinta mai, se Gesù Cristo fosse impotente a strapparle la sua preda. Soltanto quando ciò che vi è di mortale in noi avrà rivestito l’immortalità, noi potremo cantare nell’ebbrezza del trionfo: « O morte, dov’è la tua vittoria? O morte, dov’è il tuo pungolo? ». Gesù avrebbe perso definitivamente la lotta contro la gran nemica, se, contento di sfidarla per conto suo, non potesse liberare le sue vittime.

3. A questi due argomenti fondati su l’essenza della redenzione, Paolo aggiunge una doppia prova derivata dalla convinzione intima dei fedeli e dalla condotta degli Apostoli. Egli vuole dimostrare così, che la risurrezione è conforme alla voce della Del resto la persuasione degli Apostoli è già essa stessa un insegnamento (ivi, 31-32). Vi era a Corinto, e probabilmente anche in altre cristianità, un’usanza curiosa. Quando un catecumeno moriva prima di ricevere il Battesimo, uno dei suoi parenti o amici riceveva per lui le cerimonie del sacramento (I Cor. XV, 29). Che significato preciso davano essi a tale atto? È difficile dirlo. San Paolo né lo approva né lo biasima, e vede soltanto in esso ima professione di fede nella risurrezione dei morti. Difatti il Battesimo simboleggiato dall’albero della vita, depone nel corpo un germe d’immortalità; completa col rito esteriore dell’incorporazione col Cristo, la rigenerazione prodotta internamente nell’anima dalla grazia invisibile; imprime nel Cristiano un sigillo indelebile che lo farà conoscere nell’ultimo giorno come un membro del Cristo. Ecco il segno distintivo che i Corinzi volevano supplire, per quanto era loro possibile, nei catecumeni morti senza Battesimo. La loro pratica non era, in sé, superstiziosa: era una protesta solenne che il defunto apparteneva a Gesù Cristo, e che a Lui era mancato il tempo, non il desiderio, di diventare membro effettivo della Chiesa visibile. Essi non s’ingannavano neppure pensando che, in virtù della comunione dei santi, un atto di fede e di pietà da parte loro poteva giovare al defunto. Ma il pericolo stava nel credere che essi facendosi battezzare per i morti, cioè a loro profitto, si facessero battezzare in loro vece e al posto loro, in modo da procurare loro gli effetti del Battesimo, come se la morte non fosse il termine della prova, e come se i defunti potessero essere assistiti anche in altro modo che con i suffragi. Certi eretici, i cerinziani, i montanisti, i marcioniti, caddero più tardi in questo errore e giunsero persino a battezzare i cadaveri, non senza sollevare la riprovazione generale della Chiesa. Paolo e i suoi colleghi di apostolato rendono alla risurrezione una testimonianza più illustre. Essi muoiono ogni giorno con le loro volontarie rinunzie; la loro vita esposta a tanti pericoli e a tante privazioni, non è che un’immolazione lenta e continua. Tutti potrebbero dire con San Paolo: « Io castigo il mio corpo e lo riduco alla schiavitù ». Ma se il corpo non ha parte alla ricompensa, perché trattarlo così! Non è meglio seguire la massima degli epicurei? E non bisognerà conchiudere o che le azioni del corpo sono indifferenti, oppure che la speranza di una vita migliore non è che un’illusione? Si potrebbe obbiettare che basta che sopravviva l’anima. Ma oltre il fatto che, nella provvidenza attuale, la felicità eterna dell’anima e quella del corpo sono indissolubilmente unite, una felicità incompleta che toccasse soltanto a una parte del composto umano, non sodisfa le nostre aspirazioni. Del resto coloro che negano la risurrezione del corpo, sono assai vicini a negare l’immortalità dell’anima. Perciò San Paolo, come lo stesso Salvatore, confuta con gli stessi argomenti questo doppio errore.

4. Se la risurrezione risponde alle nostre aspirazioni più intime, il modo con cui essa si compirà, sconcerta la nostra immaginazione. Noi non abbiamo nessuna idea di un corpo organico eternamente incorruttibile; noi non concepiamo la vita sensibile senza mutazione, né la mutazione senza alterazione. Quando la morte avrà disperso ai quattro venti quel pugno di polvere che fu il nostro corpo, dove si potranno ritrovare quegli atomi sparsi ed entrati in mille nuove combinazioni, e come si potrà impedire che si disperdano ancora? Questa è l’obbiezione che Paolo prevede, e vi risponde subito: «Come risusciteranno i morti e in quale corpo verranno? (ivi, 35)». È evidente che il nostro corpo deve subire una trasformazione profonda; deve rivestire la forma del Cristo che « trasfigurerà il corpo della nostra umiliazione », il nostro corpo nello stato di miseria e di prova, « per renderlo conforme al corpo della sua gloria (Fil. III, 21) », cioè al suo corpo glorificato: trasfigurazione, se si considera che la personalità sarà elevata e nobilitata senza essere distrutta; trasformazione, riguardo alla nuova forma soprannaturale del corpo risuscitato. L’Apostolo spiega questa trasformazione o questa trasfigurazione con l’esempio del seme. Il seme è dotato di una vita latente che si manifesta soltanto per mezzo della morte e della corruzione; esso si trasfigura morendo, e la sua vita si trasforma in una vita più nobile, seguendo una legge di proporzione stabilita da Dio. « Così avviene della risurrezione dei morti (ivi, 42) ». Il corpo del giusto, abitato dallo Spirito Santo, contiene un germe di vita soprannaturale; e la trasformazione comune a tutti i santi non esclude affatto le differenze di gloria individuale proporzionate alla natura e all’energia del principio vitale. Le piante differiscono di perfezione, e gli astri differiscono di splendore: che meraviglia che avvenga altrettanto per gli eletti? – San Paolo insegna espressamente che il nostro corpo, nello stato di umiliazione e nello stato di gloria, rimane ideutico a se stesso; egli afferma che « questo corpo corruttibile deve rivestire l’incorruttibilità e questo corpo mortale l’immortalità (ivi, 53) ». Non bisogna dunque abusare del paragone del seme, per sostenere un cambiamento sostanziale che equivarrebbe alla produzione di un altro individuo. L’Apostolo non decide se il seme e la pianta abbiano lo stesso principio vitale; tali questioni biologiche non lo interessano; il suo paragone si riferisce soltanto alla continuazione della vita attraverso la morte, ed egli sa che la forza la quale trasfigurerà e trasformerà il nostro corpo in modo da renderlo conforme al corpo glorificato di Gesù Cristo, è sempre la stessa nonostante la diversità dei suoi effetti e delle sue manifestazioni: essa è il Πνεῦμα [= pneuma] divino. – Per quanto sia profondo, il rinnovamento del nostro essere non arriva fino alla creazione di una nuova personalità. Il corpo « è seminato nella corruzione e risuscita nell’incorruzione; è seminato nell’ignominia e risuscita nella gloria; è seminato nella debolezza, e risuscita nella forza; è seminato corpo psichico, e risuscita corpo spirituale » (ivi, 42-44). Da corruttibile diventa incorruttibile, per conseguenza immortale; da vile ed abbietto, da soggetto alle più umilianti necessità, diventa degno di onore e di rispetto, rivestito di una bellezza che riflette l’immagine di Dio riparata e lo splendore di un’anima gloriosa; da impotente e infermo, da sottoposto a tutte le limitazioni della sua natura e a tutte le tristi conseguenze del peccato, diventa superiore agli elementi, vincitore del tempo e padrone dello spazio: da carnale e terrestre, diventa « spirituale », non aereo o etereo, secondo il significato etimologico di spirito, e neppure simile agli spiriti celesti nella sua maniera di essere e di agire, benché tale spiegazione possa sembrare seducente, ma dominato dallo Spirito di Dio che lo informa nella sua vita soprannaturale, come l’anima lo muove e lo penetra nella sua vita sensibile. Il corpo spirituale è un corpo simile al corpo glorificato di Gesù. In virtù della generazione naturale, noi abbiamo da Adamo un corpo terrestre (χοϊκόν = Koicon), un corpo psichico (ψυχικόν = psukicon), che aggrava l’anima e la impaccia nelle sue operazioni; in virtù della discendenza soprannaturale, noi riceviamo dal secondo Adamo un corpo celeste (ἐπουράνιον = epuranion), un corpo spirituale (πνεματιόν = pneumaticon), simile al suo (ivi, 45-49). Le proprietà del corpo di Gesù Cristo — impassibilità, chiarezza, libertà intera di azione e di movimento — saranno pure le nostre. Ecco quanto c’insegna la rivelazione. San Paolo ricorda ai Corinzi, che la loro curiosità s’inganna. Essi vogliono sapere come saranno fatti i corpi dei risuscitati; ora la trasformazione dei vivi non è meno meravigliosa né meno difficile a comprendersi, perché « la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio (ivi, 50) ». È necessario un cambiamento che equivale ad una completa trasformazione: “Ecco che vi dico un mistero: noi non morremo tutti, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba, poiché sonerà la tromba, e i morti risorgeranno incorrotti, e noi saremo trasformati; poiché bisogna che questo corpo corruttibile si rivesta dell’incorruttibilità, e che questo corpo mortale ai rivesta dell’immortalità (ivi, 51-53). Ammirabile segreto e veramente misterioso che Paolo ha incarico di trasmettere ai fedeli e che infatti comunica loro in tre lettere: « Noi non morremo tutti, ma tutti saremo trasformati ». I giusti degli ultimi giorni non conosceranno la morte: l’incorruttibilità li avvolgerà come in un manto di gloria, senza spegnere in loro la scintilla della vita; tutto ciò che hanno di mortale, sarà assorbito dall’immortalità in quell’istante indivisibile, illuminato dalla sfolgorante venuta del Cristo. Gesù Cristo, causa esemplare e meritoria della risurrezione del giusti, con la persuasione invincibile dei fedeli e con la certezza infallibile degli Apostoli, non sono le sole prove che Paolo fa valere in favore della nostra risurrezione. Altrove parla di Gesù Cristo primogenito tra i morti, dei pegni dello Spirito Santo e del desiderio soprannaturale che c’inspira, della sua abitazione nell’anima e nel corpo dei cristiani come in un tempio, della grazia che è seme di gloria. È impossibile che questi argomenti insieme connessi, dei quali dovremo esaminare i molteplici aspetti, non si tocchino in alcuni punti e non arrivino a compenetrarsi, ma essi dimostrano almeno la ricchezza delle intuizioni dell’Apostolo e la vastità dei suoi orizzonti.