CONOSCERE SAN PAOLO (10)

CONOSCERE SAN PAOLO (10)

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

LIBRO TERZO.

Galati e Romani.

CAPO I .

La crisi giudaizzante in Galazia.

I . PREDICATORI DI UN NUOVO VANGELO. – L’EPISTOLA AI GALATI. — 2. ATTACCHI DEGLI AGITATORI CONTRO L’APOSTOLO.

1. Una crisi assai più terribile che quella di Corinto era scoppiata in un altro punto del vasto impero conquistato da San Paolo a Gesù Cristo. Per essa noi abbiamo l’Epistola ai Galati e, per ripercussione, l’Epistola ai Romani. A Corinto il fanatismo per le idee nuove era ancora lontano dall’eresia; lo spirito di parte non arrivava ancora allo scisma; gli abusi, benché gravi, non intaccavano l’essenza del Cristianesimo; se incominciavano a nascere dubbi su le dottrine fondamentali, essi erano parziali e circoscritti; l’autorità di Paolo era minacciata, la sua missione era contestata, i suoi atti e le sue intenzioni snaturate, ma i suoi avversari non si erano ancora imbaldanziti fino al punto di gettare la maschera e di predicare un vangelo contrario al suo. Tale audacia ebbero invece i giudaizzanti della Galazia, più lontani dall’Apostolo, i quali lo vedevano alle prese con difficoltà di cui pareva non potesse venire a capo. La nostra Epistola è la risposta alla loro sfida. Circa la data di questa lettera, vi è tra i critici la massima diversità di opinioni: mentre parecchi le danno il primo posto nell’ordine cronologico, altri le danno l’ultimo; i più le assegnano un posto intermedio, dopo la corrispondenza con Tessaloniea; finalmente certi autori le cui ragioni ei sembrano migliori, la mettono dopo le lettere indirizzate ai Corinzi. Non possiamo persuaderci che un lungo intervallo la separi dall’Epistola ai Romani. La mente di Paolo è manifestamente agitata dagli stessi pensieri: sono gli stessi ragionamenti, le stesse citazioni, le stesse formule teologiche; però quello che è appena abbozzato nella prima, è espresso nella seconda con maggiore precisione, con maggiore pienezza, con maggiore coesione e con maggiore ampiezza. – Le lettere scritte presso a poco nel tempo stesso — le due Epistole ai Tessalonieesi, le due Epistole ai Corinzi, le due Epistole ai Colossesi e agli Efesini, le Pastorali — hanno sempre tra loro stretti rapporti d’idee e di stile. Le nostre due Epistole, confrontate tra loro, presentano rapporti ancora più evidenti. Si noti particolarmente: la tesi identica; enunziata quasi negli stessi termini (Rom. III, 28), la storia di Abramo ricordata due volte con applicazioni affatto simili (Rom. IV, 25), l’uso teologico dei tre medesimi testi della Scrittura per trarne le stesse conclusioni dottrinali (Gen. XV, 16), finalmente l’incontrarsi delle stesse espressioni, troppo frequente per non far vedere lo stato di una mente preoccupata dalle medesime sollecitudini. Tali incontri sottili, costanti e quasi sempre caratteristici, ci pare che tronchino la questione della simultaneità. In quanto all’anteriorità relativa dell’Epistola ai Galati, crediamo che essa non abbia bisogno di essere discussa: l’Epistola ai Galati non è il sunto dell’Epistola ai Romani, ma ne sarebbe piuttosto il primo abbozzo. Per tutto il tempo che l’Apostolo dimorò a Efeso, pare che abbia avuto piena fiducia nei suoi cari Galati, e soltanto al suo arrivo in Macedonia le prove gli arrivano da tutte le parti: timori nell’interno, lotte all’esterno, inquietudini su inquietudini, afflizioni su afflizioni. Le circostanze sono proprio quelle che convengono alla nostra Epistola e, in mancanza di prove più esplicite, noi crediamo che sia stata scritta in Macedonia, durante quel periodo di ansiosa attesa che seguì l’invio della seconda ai Corinzi. Chi erano quei Galati il cui pericolo improvviso viene a dare al cuore dell’Apostolo un colpo così sensibile! Erano forse i discendenti di quegli avventurieri che, partiti dal fondo della Gallia nell’anno 280 a. C., invasero come un torrente l’Illiria, la Grecia, la Tracia e, passato l’Ellesponto, si fecero un regno nell’Asia Minore, a spese della Frigia, della Cappadocia e della Paflagonia? Oppur dobbiamo vedere in loro gli abitanti dell’Isauria, della Pisidia, della Licaonia, cioè delle regioni meridionali di quell’immensa provincia della Galazia che era succeduta, nell’anno 25 a. C. , al regno eterogeneo di Aminta? Ragioni abbastanza plausibili appoggiano l’una e l’altra ipotesi; ma siccome noi rinunziamo a determinare col carattere nazionale dei Galati la natura dei loro errori, tale questione, vivamente discussa ai nostri giorni, è per noi accessoria. O Greci, o Celti o aborigeni, poco c’importa; ci basta sapere che essi non erano di razza ebrea. Ora consta che essi venivano dalla gentilità; Paolo parla sempre del giudaismo dei Galati come di cosa importata da fuori; distingue espressamente i suoi padri dai loro (Gal. I, 13-14); ma ricorda loro il tempo in cui erano liberi dalle osservanze giudaiche di cui vorrebbero ora prendersi il gravame; quando li sconsiglia di assoggettarsi « di nuovo ai rudimenti del mondo (IV., 9) », non vuole dire che essi fossero anticamente asserviti alla Legge mosaica, ma egli abbassa quest’ultima al grado delle pratiche dettate dall’istinto religioso: abbracciare la Legge di Mosè è ritornare a qualche cosa di simile al loro antico culto. Le allusioni ad un elemento ebreo tra i cristiani della Galazia sono vaghe e oscure; se tale elemento esiste, non può essere che un’infima minoranza. – Ben più strana è la presenza di giudaizzanti nella Galazia. Di dove venivano quegli intrusi? Di quali nomi si fregiavano? Quale missione pretendevano di avere? Le loro imprese erano sporadiche, tentate a caso, oppure facevano parte di una vasta congiura, di una formidabile levata di scudi contro l’Apostolo? Tutto quello che sappiamo, è che gli emissari del giudaismo predicavano « un vangelo diverso (Gal. I, 6-7) ». Il vangelo di Paolo era una carta di libertà riguardo le prescrizioni mosaiche, quello dei giudaizzanti era un codice di asservimento alla Legge; il vangelo di Paolo era il Vangelo della grazia indipendente dalle opere, quello dei giudaizzanti era il vangelo delle opere indipendentemente dalla grazia; finalmente il Vangelo di Paolo era il vero Vangelo di Gesù Cristo, e quello dei giudaizzanti ne era il rovescio. Il primo articolo di quel nuovo « vangelo » era la necessità della circoncisione per i pagani convertiti, sia come condizione essenziale di salute, secondo la dottrina estremista dei giudaizzanti di Antiochia e di Gerusalemme, sia piuttosto come ultima perfezione e compimento indispensabile del Cristianesimo (Gal. III, 3). Se ne mettevano i n mostra con compiacenza i vantaggi spirituali e temporali, cioè la partecipazione alle prerogative e alle benedizioni d’Israele, la pacificazione degli Ebrei refrattari, ravvicinamento delle due frazioni della Chiesa, la facilità di fare proseliti con la protezione di una religione legale. Senza insistere su gli obblighi onerosi della circoncisione, si predicava lo splendore delle solennità ebraiche, tanto più gradite ai neofiti perché supplivano alla povertà del culto cristiano appena nato. Tuttavia la gran maggioranza dei fedeli, benché scossa, resisteva sempre. « Tenete fermo, scrive loro l’Apostolo, e non lasciatevi sottoporre al giogo. Se vi fate circoncidere, il Cristo non vi servirà a nulla … Essi vogliono imporvi la circoncisione per vantarsi della vostra carne (Gal. V.) ». Quando si rivolge alla Chiesa intera, egli ha sempre speranza e fiducia; ha premura di addolcire le frasi pessimistiche strappategli dal dolore; attribuisce i tentativi di perversione ad un piccolo numero di spiriti Se i giudaizzanti hanno già fatto delle vittime, non sono ancora riusciti a conquistare la Chiesa.

2. La loro sola speranza di riuscita stava nel fargli perdere il credito presso i neofiti; gli facevano perciò tre accuse. Lo rimproveravano di sostenere il pro e il contro, secondo l’occasione e l’interesse. Lanciando l’anatema contro i suoi detrattori, egli li apostrofa ironicamente: « Porse che io ora ho riguardo degli uomini? Forse che vo cercando il favore degli uomini? (Gal. I, 10) ». Siccome volevano metterlo in contradizione con se stesso, ricordando la storia di Timoteo, egli risponde con uno sdegno misto di sarcasmo: « Se predico ancora la circoncisione, perché sono ancora perseguitato? Allora lo scandalo della croce sarebbe annientato! Siano mutilati coloro che spargono in mezzo a voi l’agitazione e il turbamento! (V, 11-12) ». Gli rimproveravano anche di essere soltanto il discepolo dei discepoli del Cristo e d’insegnare ciò che egli stesso non aveva mai bene imparato. Ecco la sua risposta: « Vi dichiaro, o fratelli, che il Vangelo predicato da me non è secondo l’uomo; poiché io non l’ho ricevuto né appreso da un nomo, ma dalla rivelazione di Gesù Cristo (I, 11) ». Tutti conoscevano, almeno per averne Udito parlare, il fervore del suo fariseismo e la sua rabbia di persecutore: non certo allora egli aveva potuto conferire con i cristiani e mettersi alla loro scuola. Un giorno egli fu fermato improvvisamente nella sua corsa e convertito istantaneamente. Era piaciuto a Dio rivelare in lui suo Figlio. Sodisfatto di quella luce interiore, si nasconde nel deserto; dopo tre anni viene a vedere Pietro, ma si ferma con lui soltanto quindici giorni; solamente dopo quattordici anni egli si trova finalmente a contatto con i suoi colleghi di apostolato. Egli non deve a loro il suo Vangelo: il suo maestro è stato Gesù Cristo. Finalmente lo accusavano di essere in contrasto con i Dodici, con le colonne della Chiesa, con gli Apostoli per eccellenza, come essi li chiamavano per abbassare lui. Ebbene, Giacomo, Giovanni e Pietro ai quali egli espose il suo Vangelo, non vi trovarono nulla da riprendere, nulla da modificare, nulla da aggiungere; essi riconobbero formalmente i suoi titoli all’apostolato; gli diedero la mano in segno di fraternità e fecero alleanza con lui. Col non voler cedere alle esigenze dei giudaizzanti che a gran voce chiedevano la circoncisione di Tito, essi sanzionarono la libertà dei Gentili. In un’altra circostanza il principe degli Apostoli ascoltò gli avvisi di Paolo e non esitò a dargli ragione. Tutto questo prova che vi è unità di principi e di dottrina tra i predicatori della fede, e che l’accusa dei giudaizzanti i quali vogliono fare di Paolo un dissidente, uno scismatico, è tutta una calunnia. Così termina la parte storico-apologetiea della lettera la cui parte dogmatica occupa il centro.

GIUSTIFICAZIONE PER MEZZO DELLA FEDE SENZA LE OPERE DELLA LEGGE.

1 . TESI DELL’EPISTOLA. — 2. LA FEDE CHE GIUSTIFICA. — 3. GIUSTIFICATI DALLA FEDE. — 4. LE TRE PROVE DELLA GIUSTIFICAZIONE PER MEZZO DELLA FEDE. — 5. PAOLO E GIACOMO.

1. Paolo formula la sua tesi capitale negli stessi termini accettati dal Principe degli Apostoli, nell’assemblea di Gerusalemme, sei o sette anni prima. “Noi, Giudei per nascita, e non peccatori della stirpe dei Gentili, sapendo come l’uomo non è giustificato per le opere della legge, ma per la fede di Gesù Cristo, crediamo anche noi in Gesù Cristo per essere giustificati per la fede del Cristo, e non per le opere della legge; poiché (dice la Scrittura) nessun uomo sarà giustificato per le opere della legge. Che se cercando di essere giustificati nel Cristo, Siamo trovati anche noi peccatori, è egli forse il Cristo ministro del peccato! No certamente. Se infatti di bel nuovo edifico quello che distrussi, mi costituisco prevaricatore. Poiché per la legge sono morto alla legge, per vivere a Dio; col Cristo sono confitto in croce. E vivo non già io, ma vive in me il Cristo. E la vita per cui vivo adesso nella carne, la vivo nella fede del Figliuolo di Dio, il quale mi amò e diede se stesso per me. Non rigetto la grazia di Dio: poiché se la giustizia è dalla legge, dunque invano il Cristo morì” (Gal. II, 15-16). – In queste frasi scorrette, quasi ansanti e oppresse dal peso delle Idee, difficili a capirsi ed impossibili a tradursi. Paolo accumula tutti i motivi che militano per la libertà evangelica contro la servitù permanente della Legge. Egli abbozza di passaggio cinque o sei prove diverse; ecco lo schema delle sue argomentazioni: Argomento ad hominem: Pietro e Paolo, benché Giudei di nascita, hanno riconosciuto che l’uomo non arriva alla giustificazione con le opere della Legge, e con tale persuasione hanno creduto a Gesù Cristo e rinunziato alle osservanze legali (II, 15,16). Ritornare indietro e volervi trascinare anche gli altri, sarebbe un’anomalia e una contradizione.

Argomento scritturale: Nessun uomo, per testimonianza del Salmista, non si giustifica dinanzi a Dio con i suoi sforzi (Ps. CXVII, 13); dunque, poiché i termini sono generali, né con l’osservanza della Legge né con altra cosa qualunque.

Argomento dall’assurdo: Perché fecero assegnamento sulla sufficienza della grazia e sulla redenzione sovrabbondante del Cristo, i giudeo-cristiani -— e tra questi Pietro e Paolo — si credettero dispensati dalla Legge e agirono in conseguenza a tale persuasione. Se questo fatto li costituisce peccatori, il loro peccato risalirebbe al Cristo, autore e oggetto della loro fede.

Argomento teologico-scritturale: Per la Legge, i Giudei sono morti alla Legge, per vivere a Gesù Cristo; dunque il considerare la Legge come ancora capace d’imporre dei doveri, è andare contro la sua volontà, è violarla. Questa prova, piuttosto sottile, esigerebbe uno sviluppo che qui non possiamo dare.

Argomento teologico: La morte del Cristo, sorgente di tutte le grazie, ha un valore influito. Stabilire un altro mezzo per arrivare alla giustizia o alla perfezione della giustizia, è fare ingiuria alla grazia e negare, in modo equivalente, la virtù redentrice della croce.

2. Prima di entrare nella tesi di Paolo, è bene analizzare i due termini: giustizia e fede. Qualunque sia l’etimologia della parola « giusto », è certo che la giustizia è la conformità alla regola suprema delle nostre azioni. Siccome esprime il rapporto normale tra la volontà umana e la volontà divina, essa per gli Ebrei si confonde con l’osservanza intera della Legge, considerata come l’espressione adeguata della volontà di Dio. Essa abbraccia dunque tutta la vita morale dell’uomo. « Giusto » ha come sinonimi « retto, buono, perfetto, innocente », e come termini opposti « cattivo, empio, peccatore ». Tutti sono d’accordo in questo, e la controversia tra protestanti e Cattolici si svolge sul senso di « giustificare » e non su quello di « giusto ». I protestanti sostengono che giustificare (δικαιοῦν), nonostante la sua forma causativa, significa dichiarare giusto e non rendere giusto. Essi dicono che tale è il senso ordinario della parola negli scrittori profani, e che i verbi di questa forma non sono causativi quando derivano da un aggettivo che esprime una qualità morale. – Su questo ragionamento ci sarebbe molto da ridire. Si sa che l’idea di un dio che santifica l’uomo era completamente estranea ai pagani: ecco perché negli autori profani « giustificare » significa sempre «dichiarare giusto, considerare o trattare come giusto, giudicare » e, per estensione, « approvare », per eufemismo, « condannare o punire ». Lo stesso avviene nella Bibbia tutte le volte che questo verbo ha per soggetto un essere finito, poiché appartiene a Dio solo il fare giustizia. Ma quando il soggetto è Dio, o l’uomo stesso aiutato da Dio, il verbo « giustificare » può benissimo conservare il suo valore causativo. Per lo più, è vero, la parte di Dio nella giustificazione del peccatore è espressa dalla grazia e dalla misericordia, e quando il giusto, innocente o pentito, è portato al tribunale del sommo Giudice, la giustificazione non è più altro che una sentenza favorevole o un’assoluzione; ma qualche volta non è così (Ps. LXXII, 13). – Poi è evidente che il giudizio di Dio è necessariamente conforme alla verità, e che nessuno non può essere dichiarato giusto dal giudice infallibile, se non è effettivamente tale. Quando Dio « giustifica l’empio », bisogna che lo trovi o che lo renda giusto, altrimenti ci troveremmo chiusi in questo dilemma: o Dio dichiara giusto alcuno che non lo è, e pecca Egli stesso contro la verità, oppure il peccatore dichiarato giusto è divenuto giusto con le sole sue forze, il che è l’opposto della dottrina di Paolo; in ogni caso, giustificare l’empio lasciandolo tale, è un’impossibilità e un controsenso. – « Paolo, scrive Sabatier, non avrebbe avuto parole abbastanza severe per colpire una così grossolana interpretazione del suo pensiero »; e dice molto bene, ma è desolante il vedere lo stesso autore che attribuisce « alla scolastica del medioevo quella giustificazione forense la quale sarebbe da parte di Dio una sentenza altrettanto insufficiente quanto arbitraria (L’Apostolo Paolo, pag.321) », come se tutti, i Cattolici, scolastici e non scolastici, non l’avessero sempre respinta con orrore. Lutero che la inventò, non arrivò mai a persuadere Melantone e, nonostante la professione di fede di Smalkalde, i luterani non si sono mai potuti intendere sopra una dottrina così fondamentale. Per dare qualche appoggio a dottrine così strane, dovevano citare un testo scritturale in cui il peccatore giustificato da Dio sia ancora chiamato peccatore: ma tale testo non esiste. I fedeli sono chiamati « santi » per il solo fatto che sono Cristiani e stimati degni di tale titolo. La giustizia non è in essi una semplice finzione; essa è tanto reale e tanto personale in loro, quanto il peccato al quale è sottentrata. Essa non è neppure soltanto il preludio di una nuova vita e come il lato negativo dell’operazione divina di cui la santificazione sarebbe il compimento positivo: essa è la stessa nuova vita, ed è infatti la stessa cosa che la santificazione. Per convincersene basta meditare queste tre serie di testimonianze: La giustificazione è una giustificazione di vita (Rom V, 8) », cioè un atto che conferisce la vita soprannaturale. Essa è sinonimo della rigenerazione e del rinnovamento dello Spirito Santo, che sono frutti del battesimo (Tit. III, 5-7). Lo Spirito Santo è « Spirito di vita (Rom. VIII, 2) » perché porta la vita della grazia dovunque abita, ed abita in tutti i giusti; oppure, come dice ancora San Paolo, « è vita per causa della giustizia (Rom. VIII, 10) ». – Se ci volgiamo alla giustificazione che deriva dalla fede, il risultato sarà il medesimo, poiché « il giusto vive per la fede (Rom. I, 17; Gal. III, 11) ».Non si potrebbe immaginare un giusto che non viva della vita della grazia, e per conseguenza si potrà benissimo stabilire una differenza di definizione e di concetto tra giustificazione e santificazione, ma non si possono separare né considerare come separate queste due cose inseparabili. L’effetto primario del Battesimo è quello d’innestarci sul Cristo e di farci partecipi della sua vita (Rom. VI, 3-5). È per noi impossibile morire all’uomo vecchio, senza che incominciamo a vivere al nuovo; ora quest’uomo nuovo è « creato secondo Dio nella giustizia e nella santità (Efes. IV, 24) ». Giustizia e santità sono dunque due nozioni equivalenti, tanto che San Paolo non teme di invertire l’ordine e di dire che il Cristo è diventato per noi « santità, giustizia e redenzione (I Cor. I, 30) ». Altrove, ricordando ai neofiti il primo istante della loro rigenerazione, dice loro senza esitare, come se volesse anticipatamente confutare i cavilli degli eterodossi: « Voi eravate tutto questo (idolatri, adulteri, ladri, ecc.); ma voi foste purificati, ma voi foste santificati, ma voi foste giustificati in nome del Signore Gesù e nello Spirito del nostro Dio (I Cor., VI, 11) ». Il solo momento della rigenerazione battesimale porta insieme e purificazione e santificazione e giustificazione, e questa è nominata l’ultima, per dimostrare che non è soltanto la via e come il vestibolo delle altre due.Era conveniente che il rinnovamento dell’uomo avesse per principio un atto umano, prodotto delle due facoltà intellettuali, la ragione e la volontà: questo atto è la fede. La fede è presa dall’Apostolo in due sensi diversi. Non è provato che essa significhi « fiducia »: tutti i testi che si citano al riguardo, si possono intendere di una fede propriamente detta, accompagnata, è vero, da fiducia, sentimento che la fede ingenera spontaneamente, quando ha per suo oggetto delle promesse. A più forte ragione, essa non è quella fiducia cieca e irragionevole che ci farebbe considerare i nostri peccati come coperti, senza essere rimessi, e considererebbe noi stessi trattati da Dio come giusti, senza essere tali. Ma lasciando da parte i significati meno frequenti — buona fede, fedeltà, fede dei miracoli (Rom. XIV, 23) — si distinguono, nella fede propriamente detta, l’atto, l’oggetto e l’abitudine soprannaturale: noi crediamo in Dio per la fede, sottomettiamo la nostra ragione alla fede e abbiamo la fede. Paolo conosce quest’ultimo significato e più ancora il secondo; ma quando si tratta di giustificazione per mezzo della fede, egli intende quasi sempre la fede attuale, l’azione del credere. Non bisogna però pensare che egli proceda col rigore di analisi di un metafisico che studia minutamente entità ideali: il psicologo non considera l’uomo sotto le due sole formalità di animale ragionevole, ma lo studia come è nella sua realtà concreta. Così fa Paolo riguardo all’atto di fede; egli lo considera nelle sue condizioni normali di esistenza e con proprietà che la sua stretta definizione non comprende. La fede è un atto complesso; è l’amen dell’intelligenza e della volontà alla rivelazione divina, proposta col grado di certezza morale propria ai fatti storici. Paolo parla per esperienza: egli descrive ciò che ha provato nella crisi da cui è uscito Cristiano, ciò che la maggior parte dei suoi lettori, in tempo non lontano, hanno provato come lui. Un giorno un banditore del Vangelo, con un accento di convinzione irresistibile, aveva loro parlato di Gesù, della sua morte e della sua risurrezione, della sua missione divina, del dovere che ha ciascun uomo, per essere salvo, di credere in Lui e di praticare la sua dottrina. Illuminati e sostenuti dalla grazia, essi avevano detto: Noi crediamo! Ah! essi non lo dimenticavano quel momento decisivo in cui si erano dati, mani e piedi legati, al Vangelo, a Gesù Cristo. – La fede che giustifica, racchiude dunque questi elementi; un atto dell’intelligenza che aderisce incondizionatamente alla parola dì Dio, perché non può ingannarsi né ingannare (I Tess. II, 13). L’elemento intellettuale che è sempre in fondo all’atto di fede, può diventare predominante al punto da oscurare tutti gli altri. Questo accade particolarmente quando l’oggetto da credere è un fatto passato a cui non si può rivolgere la fiducia, oppure una verità che non abbia relazione diretta con la salute. Tale è la fede del Cristiano nei miracoli e nei misteri del Vangelo; tale fu la fede di Abramo, benché l’oggetto fosse nell’avvenire: sulla parola di Dio egli credette l’inverisimile, l’impossibile, senza lasciarsi prendere dall’esitazione o dal dubbio. Quando l’oggetto per sua natura cade sotto il dominio della speranza, è difficile che la fede, se è sincera, non sia fiduciosa. La fede e la speranza sono due sorelle inseparabili; quando l’una incespica, anche l’altra barcolla, e si stenta ad immaginare un caso in cui la speranza venga meno da sola. La fede è spontaneamente fiduciosa, come la speranza è fedele. Ma se la fiducia si aggiunge naturalmente alla fede nelle promesse, essa ne è piuttosto una modalità, che non un elemento intrinseco: la prova ne è che la speranza è così spesso ricordata insieme con la fede, e che la fede e la speranza insieme con la carità, formano la terna delle virtù che rimangono, per opposizione ai carismi che passano. – Vi è inoltre nella fede un doppio atto di obbedienza: obbedienza della volontà che inclina l’intelligenza ad accettare la testimonianza di Dio; obbedienza di tutto l’uomo al volere divino conosciuto dalla rivelazione. Ecco perché in San Paolo « credere » e « obbedire alla fede » sono espressioni sinonime: l’incredulità è descritta come una mancanza di sommissione, come una ribellione (Act. VI, 7). L’obbedienza è un elemento così essenziale, che senza di essa la fede, il cui oggetto conserva sempre una certa oscurità e non sforza l’intelligenza, non si potrebbe produrre. A più forte ragione la fede attiva, la fede normale che si traduce con questa domanda: Domine, quid me vis facere? oppure con quest’altra: Quid faciemus, viri fratres? contiene necessariamente un atto di obbedienza, poiché racchiude il voto implicito di fare tutto ciò che Dio comanda: è la fede di cui è forma la carità, la fede che opera sotto l’impulso della carità, la fede che giustifica. – Paolo dunque afferma che l’uomo è giustificato dalla fede, in virtù della fede, su la fede: la prima espressione indica il mezzo o lo strumento, la seconda il principio, la terza il fondamento della giustificazione. Quando è stato giustificato, l’uomo continua a vivere nella fede, come in un’atmosfera soprannaturale di cui la sua vita ha allora bisogno, e dalla fede, come da una forza la cui energia è duratura e sempre attiva (Rom. I, 17). Tutte queste espressioni indicano già una causalità strumentale dell’ordine morale. I testi che seguono, ci permetteranno di specificarla di più.

3. La giustificazione dell’uomo per mezzo della fede ha due espressioni leggermente differenti: l’uomo non è giustificato dalle opere della Legge, ma dalla fede di Gesù Cristo (Ga. II, 16). — L’uomo è giustificato dalla fede senza le opere della Legge (Rom. III, 28). Che qui si tratti della prima giustificazione, cioè del passaggio dallo stato di peccato allo stato di giustizia, lo prova chiaramente il contesto in tutti e due i casi. Nell’Epistola ai Romani, l’Apostolo ha consacrato tre capitoli a dimostrare che tutti gli uomini, ridotti alle sole loro forze o ai soli mezzi della Legge, sono peccatori, ed ora esamina di dove derivi la giustizia che esclude il peccato, perciò la giustizia prima. Nell’Epistola ai Galati, Paolo ricorda a Pietro il motivo che li spinse ad abbracciare la fede, e questo motivo è che soltanto dalla fede deriva la giustizia, cioè, data la loro condizione di allora, la giustizia prima. Constatiamo di passaggio che l’interpretazione protestante « essere dichiarato giusto » non conviene al verbo δικαιοῦσθαι [dikaioustai], né in un caso né nell’altro. Difatti Paolo non dice già che l’uomo è giustificato da Dio per motivo della fede (δὶα πίστιν = dia pistin), perché allora si potrebbe rigorosamente intendere una dichiarazione di giustizia; egli dice che l’uomo è giustificato dalla fede (δὶα πίστεως [= dia pisteos] o πίστει [pistei]: dativo strumentale). Ora in qualunque lingua questa frase: « L’uomo è dichiarato giusto dalla fede », avrebbe un senso ragionevole? La Legge di cui qui si tratta è la Legge mosaica, e nessuno ne può dubitare; ma un gran numero di commentatori cattolici, antichi e moderni, pensano che l’Apostolo parli soltanto della Legge rituale che riguarda la circoncisione, il sabato, i sacrifici, intorno alla quale discuteva con i giudaizzanti. Ci pare assai più probabile che Paolo, secondo il suo solito, indichi la Legge in generale, poiché la oppone alla fede. Come mai potrebbe lasciar intendere, senza contradirsi, che la legge morale senza la fede ha il potere di giustificare? Finalmente se l’Apostolo mira direttamente all’atto di fede che produce la giustificazione, noi crediamo che egli abbia pure di mira il Vangelo da cui l’atto di fede trae la sua efficacia. Egli designa le due economie con ciò che hanno di caratteristico; ma non nega affatto che le opere siano necessarie nell’economia nuova, come non esclude neppure la fede dall’economia antica. Dunque invano certi teologi protestanti s’ingegnano di dimostrare che la fede non è un’opera e che per conseguenza essa non è un atto — poiché la Legge mosaica prescriveva anche atti interni — ma è qualche cosa di puramente passivo. Essi arrivano così a questo bel risultato, di togliere alla fede ogni valore etico; e allora ci domandiamo che parte possa essa avere nel rinnovamento dell’uomo, e come sia capace di rendere gloria a Dio. – Ritorniamo ora alle formole di Paolo; quella dell’Epistola ai Romani è la più semplice: « L’uomo è giustificato dalla fede, senza le opere della Legge ». L’esigenza dell’argomentazione, come pure la posizione delle parole, fanno cadere l’enfasi su le ultime parole di questa frase che si può sciogliere in due proposizioni: « L’uomo è giustificato senza le opere della Legge, indipendentemente da esse » — proposizione principale. « L’uomo è giustificato dalla fede » — proposizione incidente. Si noterà che l’Apostolo non si occupa qui del compito delle opere dopo la giustificazione. Che allora esse siano necessarie, risulta dalla sua morale; che aumentino la giustizia già acquistata, si deduce dai suoi principi; ma nella polemica con i giudaizzanti, la discussione si svolge principalmente su la prima giustificazione, cioè sul passaggio dallo stato di peccato allo stato di grazia. Le opere della Legge non ne sono né la causa né la condizione essenziale e neppure, per se stesse, l’occasione; e altrettanto si potrebbe dire, e con più ragione, secondo i più elementari principi della teologia paolina, delle opere naturali compiute prima della giustificazione. Ma, notiamolo bene. San Paolo non dice affatto che la fede sia l’unica disposizione richiesta, e noi sappiamo da altri passaggi, che essa deve essere accompagnata da due sentimenti complementari, il pentimento del passato e, per l’avvenire, l’accettazione della volontà divina. – Ecco la seconda formola: « L’uomo non è giustificato dalle opere della Legge, ma dalla fede di Gesù Cristo ». Facendo dire a San Paolo, che l’uomo non è giustificato dalle opere sole, ma dalle opere congiunte con la fede, si verrebbe a dire cosa diametralmente opposta alla sua dottrina e giustamente da lui combattuta nei giudaizzanti. La frase virtualmente complessa, si deve scomporre così: « L’uomo non è giustificato dalle opere della Legge; (egli è giustificato soltanto) dalla fede di Gesù Cristo ». Che poi la fede di Gesù Cristo sia la fede di cui Egli è autore o la fede di cui è oggetto — la fede in Lui, nella sua Persona, nella sua parola — questo poco importa: in tutti e due i casi è l’insieme della rivelazione cristiana, il Vangelo, per opposizione alla Legge mosaica. Notiamo di nuovo che si tratta delle opere anteriori alla giustificazione, e che la necessità assoluta della fede non esclude le altre disposizioni richieste.

4. Le prove della giustificazione per mezzo della fede, indipendentemente dalle opere, sono tre: prova di fatto o di esperienza, prova teologica e prova scritturale.

La prova di fatto è abbastanza semplice. I Galati, convertiti dal gentilesimo, non avevano mai osservato la Legge di Mosè; è dunque impossibile che l’osservanza di questa Legge abbia influito in qualunque maniera sulla loro giustificazione, o come causa o come condizione essenziale o come disposizione preliminare. Intanto non vi è dubbio che essi siano stati realmente giustificati al loro Battesimo, poiché ne hanno come pegno il dono dello Spirito Santo la cui presenza si manifestò allora con segni straordinari, come i carismi, e continua a manifestarsi con prodigi sensibili. Né si deve obbiettare, come probabilmente facevano i giudaizzanti della Galazia, che la giustizia ottenuta per mezzo della fede si perfezioni e si compia con la Legge, perché l’autore della giustificazione è capace di conservarla e di perfezionarla senza nessun aiuto estraneo, ed è stoltezza, quando si è incominciato con lo Spirito, voler finire con la carne. Per non capire una conseguenza così chiara, bisogna che i Galati abbiano dimenticato la virtù redentrice della morte del Cristo. Paolo non può attribuire ad altro che ad un fascino (Gal. III, 1-5) il loro traviamento. Egli aveva dipinto ai loro occhi, con colori di fuoco, l’immagine del Crocifisso, e uno sguardo su Gesù Cristo, morto per procurarci la giustizia che la Legge non aveva potuto dare, doveva rompere l’incanto. Sostenere la necessità della Legge in faccia al Calvario, è negare il valore del sangue divino e la sufficienza della redenzione. – Quest’ultima considerazione, qui soltanto accennata, ci conduce alla prova teologica. Per comprenderne la forza, bisogna ricordarsi che l’Apostolo si appoggia su due postulati, per lui evidentissimi, il cui enunciato si trova nelle sue lettere sotto diverse forme: La giustificazione è un dono gratuito che l’uomo non merita né può meritare. — L’uomo non ha mai il diritto di vantarsi dinanzi a Dio o, se si vanta, può vantarsi soltanto dei benefizi divini (Efes. II, 9). Ciò posto, l’Apostolo ragiona così: La giustificazione per mezzo della fede è gratuita e non permette all’uomo di vantarsene; essa risponde dunque alle due condizioni richieste. La giustificazione per mezzo delle opere non sarebbe gratuita e permetterebbe all’uomo di vantarsene; essa dunque non esiste (Rom. IV, 1-9). La giustificazione per mezzo della fede è gratuita, perché essendo la fede un dono di Dio, tutto l’edificio che su essa si poggia, è opera di Dio. L’atto di fede suppone essenzialmente la chiamata di Dio fatta al momento propizio. Ora queste due cose, la chiamata divina e la sua opportunità, dipendono esclusivamente dal beneplacito di Dio, perciò la priorità della grazia, sotto l’aspetto ontologico, è innegabile, e Dio incomincia sempre prima dell’uomo l’opera della salvezza dell’uomo. Invece la giustificazione che fosse prodotta dalle opere della Legge o, in modo più generale, dalle opere fatte prima della fede — supposto che essa fosse possibile — sarebbe il frutto del lavoro dell’uomo; essa gli sarebbe dovuta come è dovuto il salario all’operaio, ed egli potrebbe vantarsene come di cosa sua. Se i falsi giusti, i farisei, considerano la giustizia come collocata nella sfera della loro attività naturale, e si lusingano di ottenerla ex opere operato, per così dire, con l’osservanza materiale della Legge, i veri giusti, Abramo e Davide, sono di parere ben diverso. « Abramo credette a Dio, e questo gli fu imputato a giustizia ». Non già che la fede sia la giustizia né l’equivalente della giustizia, ma è una disposizione che Dio vuol trovare nel cuore dell’uomo per conferirgli un bene più eccellente, la giustizia. Davide poi esclama: « Beati quelli ai quali sono rimesse le loro iniquità… Beato l’uomo al quale Dio non imputa il peccato! » Neppure una parola di opere e di meriti: Davide riferisce tutto alla misericordia. Ecco dunque in che cosa differiscono le due tendenze: il fariseo che aspira ad ottenere la giustizia, la reclama come un debito; il credente invece non pretende nulla, ma si arrende a discrezione e confessa col suo stesso atto la sua indegnità e la sua impotenza: sta dinanzi a Dio come il mendicante dinanzi al suo benefattore e dà a Dio la gloria che rifiuta a se stesso. Riassumendo: Colui che ottenesse la giustizia con le sue opere non sarebbe giustificato per grazia, ma per diritto: egli non avrebbe dunque la vera giustizia, la giustizia di Dio, il cui elemento più essenziale è la gratuità. – Colui che è giustificato dalla fede indipendentemente dalle opere, è giustificato gratuitamente, perché la fede non ha proporzione con la giustizia, e l’atto di fede, non essendo altro che l’assenso della ragione e della volontà alla chiamata divina fatta nel momento opportuno, è appunto per questo una grazia. La necessità della fede e delle altre disposizioni richieste non nuoce affatto alla gratuità della giustizia, come l’atto supplichevole del povero non sopprime la liberalità della limosina, ancorché ne possa essere la condizione necessaria; e vi è questa differenza, che l’atto del mendicante è tutto suo, mentre l’atto di fede è un dono di Dio. – Finalmente il credente, con la confessione della sua impotenza e con il riconoscimento implicito della misericordia divina, si priva di ogni diritto di vantarsi e glorifica tanto più l’Autore di ogni bene: Dans gloriam Deo. La prova teologica prepara la prova scritturale presa dalla storia di Abramo (Rom. IV, 10-25 e Gal. III. 7-14). Abramo fu giustificato e proclamato padre dei credenti prima della sua circoncisione, e da ciò segue anzitutto che non vi è nessun legame necessario tra la circoncisione e la giustizia, e che si può essere giusto senza essere circonciso; in secondo luogo, che la paternità di Abramo, ricompensa della sua fede, è egualmente indipendente dalla circoncisione e si può estendere ai Gentili imitatori della fede di Abramo. Derivando non dalla Legge, ma dalla promessa, non dalla carne, ma dallo spirito, essa non è il privilegio esclusivo di una razza, ma è di tutti i credenti. Che Abramo sia stato giustificato prima della circoncisione, risulta chiaramente dal confronto delle date. Al capo XV della Genesi si dice di lui: « Abramo credette a Dio, e questo gli fu imputato a giustizia ». Al capo XVIII soltanto è riferito il comando divino della circoncisione per tutta la famiglia di Abramo; dunque la giustizia è anteriore. Perché dunque la circoncisione? Essa è il segno sensibile dell’alleanza precedentemente conchiusa e il sigillo materiale della giustizia concessa alla fede, nello stato d’incirconcisione. Per la paternità spirituale, il ragionamento è presso a poco il medesimo. Fu detto al patriarca: « In te saranno benedette tutte le nazioni ». Non si dice già: « Tutti gli Ebrei » oppure « soltanto gli Ebrei », ma tutte le nazioni della terra. Le benedizioni promesse al Padre dei credenti, oltrepassando il particolarismo della Sinagoga, sono estese ed universali quanto doveva essere la Chiesa stessa; queste benedizioni sono concesse senza restrizione né condizione di sorta, assai prima dell’alleanza del Sinai. Ora il senso comune dice che una concessione affatto gratuita di Dio, ricevuta da Abramo come un testamento, da lui lasciata alla sua discendenza spirituale come un’eredità, non può essere revocata senza ingiustizia o senza arbitrio in seguito ad un fatto ulteriore: “Un testamento, benché di uomo, autenticato che è, nessuno lo annulla o vi aggiunge (qualche cosa). Le promesse furono fatte ad Abramo e al suo seme. Non dice: E ai semi, come a molti; ma come ad uno: E al suo seme, il quale è il Cristo. Ora io dico così: Il testamento confermato da Dio non è reso vano da quella legge che fu fatta quattrocento e trenta anni dopo, talmente che sia abolita la promessa. Se infatti l’eredità (delle benedizioni) è per la Legge, già non è più per la promessa; ma Dio la diede ad Abramo per mezzo della promessa (Gal. III, 15-18).

5. Tale è la dottrina di San Paolo su la giustificazione per mezzo della fede. A prima vista, quella di San Giacomo sembra agli antipodi. Il dotto dei Gentili dice: « L’uomo è giustificato dalla fede, senza le opere della Legge (Rm. III, 28) », oppure ancora più energicamente: « L’uomo non è giustificato dalle opere della Legge, ma dalla fede di Gesù Cristo (Gal. II, 16) ». Il fratello del Signore dice: « L’uomo è giustificato dalle opere e non dalla fede sola (Giac. II, 24) ». Ma vi è di più: ciascuno di essi appoggia la sua tesi su lo stesso esempio biblico e sul medesimo testo della Scrittura: « Abramo credette a Dio e questo gli fu imputato a giustizia (Gen. XV, 6) ». Ora mentre Paolo trae questa conclusione: « Se Abramo fosse stato giustificato dalle opere avrebbe da vantarsi; ma non è così dinanzi a Dio (Rom. IV, 2) », Giacomo conchiude l’opposto: « Abramo nostro padre non fu giustificato dalle opere, quando offrì a Dio il suo figlio Isacco? Voi vedete che la fede cooperava con le sue opere e che per mezzo delle opere la sua fede era consumata (Giac. II, 21-22) ». Non vi è qui un’opposizione irriducibile, se non una manifesta contradizione? Si racconta che Lutero, in un accesso di giovialità buffonesca, promettesse il suo berretto di dottore a chi avesse dissipato tale contradizione. Se in certi momenti egli chiamava San Giacomo un brav’uomo, benché un po’ corto, più spesso trattava la sua lettera come un’epistola di nessun valore, che non conteneva neppure una sillaba degna del Cristo. I due Apostoli, pure adoperando le stesse parole, non parlano delle medesime cose. La fede di San Paolo è la fede concreta, la fede attiva, la fede che riceve dalla carità il suo impulso e la sua forma; la fede di San Giacomo è un semplice assenso dell’intelligenza, paragonabile a quello che danno anche i demoni alle verità evidenti (Giac. II, 21-22). È chiaro che questo atto il quale è necessario e puramente intellettuale, non può influire per nulla su la giustificazione dell’uomo. — Le opere di cui parla San Paolo, sono le opere che precedono la fede e la giustizia, principalmente le opere della Legge di cui si tratta nella controversia con i giudaizzanti; le opere di cui parla San Giacomo, sono le opere che seguono la fede e la giustizia, poiché egli parla a Cristiani che già possiedono la vita soprannaturale. — La giustizia di cui parla San Paolo, è la giustizia prima, cioè il passaggio dallo stato di peccato allo stato di santità, come lo provano abbondantemente l’argomento stesso della polemica e le ripetute spiegazioni dell’Apostolo; la giustizia di cui parla San Giacomo, è la giustizia seconda, detta anche accrescimento della giustizia, lo sviluppo regolare della vita cristiana. — Insomma, San Paolo si mette prima della giustificazione dell’uomo, e San Giacomo si mette dopo; il primo parla della fede viva, il secondo di una fede che può essere morta e che in ogni caso è inoperosa; l’uno dichiara all’infedele, che senza la fede non può raggiungere la perfezione, l’altro insegna al cristiano a mettere la sua condotta d’accordo con la sua fede, perché la fede sola non gli basta. – La dottrina di/ Paolo, derivata dalla profondità della sua teologia, era superiore alle intelligenze comuni ed era facile darle un senso paradossale o abusarne per vivere male. Sappiamo che lo stesso Apostolo dovette qualche volta protestare contro le false interpretazioni delle sue teorie. Il fratello del Signore si proporrebbe egli pure di opporsi alle perniciose conclusioni che l’ignoranza o la malafede potrebbero dedurre da questo principio: L’uomo è giustificato dalla fede senza le opere? In altri termini, avrebbe egli di mira San Paolo e vorrebbe forse, non rettificare, ma spiegare il suo insegnamento, presentandole setto un nuovo aspetto? Molti interpreti lo hanno creduto. L’esempio di Abramo e il testo della Genesi, comuni a tutti e due gli Apostoli, non basterebbero però a provarlo, perché quell’esempio e quel testo venivano quasi infallibilmente sotto la penna di uno scrittore ebreo, quando si trattava di fede e di giustizia; così Filone, nel lungo trattato intitolato Vita del giusto, che egli dedica al Padre dei credenti, cita più di dieci volte quel testo che il Talmud espone con la sua solita diffusione. Quello che dimostrerebbe un’allusione voluta, e non un incontro accidentale, è il contrasto sostenuto tra la fede e le opere, è la terminologia simile che esprime idee differenti, è la maniera con cui San Giacomo formula la sua tesi, prendendo la direzione opposta a quella di San Paolo. Comunque sia, la polemica di Giacomo — se polemica vi è — è diretta contro i lettori poco illuminati o mal disposti di Paolo, e niente affatto contro Paolo stesso di cui Giacomo, nel concilio di Gerusalemme, aveva solennemente approvato il vangelo, senza trovarci nulla da riprendere o da aggiungere.

III. IL COMPITO DELLA LEGGE.

1 . I L PERCHÈ DELLA LEGGE. — 2. INFANZIA DELL’UMANITÀ SOTTO IL REGIME DELLA LEGGE.

1. I giudizi di San Paolo su la Legge mosaica sono, a prima vista, contradittori: ora la esalta fino al cielo, ora sembra che l’abbassi fin sotto la legge naturale. La Legge è santa e spirituale (Rom. VII, 12-14); essa ha lo scopo di dare l a vita (Rom. VII, 10); nell’ultimo giorno quelli che la osservano saranno dichiarati giusti (Rom. II, 13). Essa f u stabilita dagli Angeli con Mosè come mediatore (Rom. II, 13); essa è una delle nove prerogative, e non l’ultima, dei figli d’Israele (Rom. IX, 4). Essa conduce gli uomini al Cristo (Gal. III, 24) che ha l’onore di profetizzare (Col. II, 16). Nel Cristo essa ha il suo fine e il suo compimento (Rom. X, 4). Finalmente, per riassumere tutti gli elogi, essa non è la Legge di Mose, ma è la Legge di Dio (Rom. VII, 22-25). Ma ecco ora i biasimi: La Legge non ha portato nessuna cosa alla perfezione (Ebr. VII, 9); essa è piuttosto l’artefice della collera divina (Rom. IV, 15); essa si è insinuata subdolamente dietro il peccato per aggravare la prevaricazione (Gal. III, 19). Essa dà la conoscenza del peccato (Rom. III 20), senza dare la forza di evitarlo. Tutti quelli che dipendono dalle sue opere e mettono la loro fiducia in lei, cadono sotto il colpo della maledizione (Gal. III, 10). – Così la Legge è nel tempo stesso un pegno della bontà di Dio ed un precursore della sua collera. Oggi è il messaggero del cielo e la via che conduce alla vita, domani diventa l’arma del peccato (I Cor. XV, 56) e uno strumento di morte. Essa è impotente a giustificare, eppure quelli che la osservano saranno dichiarati giusti. Qual è dunque la spiegazione dell’enigma? Cercheremo di darla quando tratteremo dell’Epistola ai Romani; qui si tratta soltanto della ragione di essere della Legge. L’Apostolo ha dimostrato che essa non contribuisce per nulla alla giustificazione dell’uomo; ha dimostrato che se l’eredità delle benedizioni messianiche deriva dalla Legge, non può derivare dalla promessa affatto gratuita fatta al padre dei credenti, come insegna la Scrittura; poi prosegue così: « Perché dunque la Legge? Essa fu aggiunta a causa delle trasgressioni, fino a tanto che venisse quel seme a cui era stata fatta la promessa (Gal. III, 19) ». La ogni tempo la dottrina di Paolo è sembrata dura agli esegeti i quali hanno cercato di addolcirla spiegando: « per diminuire, reprimere e punire le trasgressioni ». Ma non hanno riflettuto che la trasgressione è la violazione di una legge positiva, e che per conseguenza se non fosse stata data nessuna legge positiva, non sarebbe stata possibile nessuna trasgressione: Ubi non est lex nec prævaricatio (Rom. IV, 15). La Legge non poteva dunque avere l’effetto di diminuire o di reprimere trasgressioni che, senza di essa, non sarebbero esistite. Essa invece le fa nascere: ne è almeno la causa occasionale, data l’attuale corruzione dell’uomo e la sua medicazione al peccato. Tale è l’insegnamento dell’Apostolo il quale altrove chiama la Legge una forza attiva (I Cor. XV, 59) del peccato e dice in termici espliciti: Lex autem subintravit ut abundaret delirium. Ben lungi dal diminuire le cadute, essa non poteva fare altro che aggravarle e moltiplicarle. La ragione che ne dà Paolo, è chiara: è perché la Legge istruisce l’uomo intorno ai suoi doveri, senza rimediare alla sua debolezza: Per legem cognitio peccati (Rom. III, 20). Promulgando il codice del Sinai, Dio provocava le disobbedienze di cui questo sarebbe occasione, ma prevedeva nel tempo stesso il bene che poteva far derivare dalle stesse colpe: risvegliare la coscienza, umiliare il peccatore, convincerlo della sua impotenza, fargli desiderare l’aiuto divino. Così il bene vince il male, e Dio che non può amare il male, si compiace di ripararlo e di farne derivare il bene; ma quando Egli lo permette in vista del bene che ne risulterà, la Scrittura dice senz’altro, che Egli lo vuole e che lo ordina. San Paolo esprime appunto questi due momenti della volontà di Dio il quale accetta il male di cui Egli non è autore, come un mezzo per raggiungere lo scopo che si propone: « La Legge è intervenuta per moltiplicare le cadute… affinché la grazia regnasse per mezzo della giustizia per la vita eterna (Rom. V, 20) ». – La Legge, data la sua natura, non poteva durare sempre: essa non era altro che un intermezzo nel gran dramma dell’umanità; il giorno in cui si avvereranno le sue promesse, perderà tutta la sua ragione di essere. Già lo faceva presagire la maniera con cui fu data: Mosè ne fu il mediatore: ma la presenza del mediatore suppone due parti contraenti, e l’atto che ne risulta è un contratto bilaterale che porta da ambe le parti dei diritti e dei doveri, la cui stabilità è condizionata poiché si può rescindere per comune consenso delle parti oppure annullare per la violazione di uno dei contraenti (Gal. III, 19-20). Ben diversa sarà invece la promessa: qui c’è Dio soltanto in causa,” e in Lui non vi è da temere né incostanza né dimenticanza né infedeltà; Egli s’impegna con giuramento per ispirare più fiducia nell’uomo; la sua promessa non è subordinata né al consenso né al merito di nessuno, e come è assoluta e senza condizioni, così pure sarà senza pentimenti.

2. Ma anche queste spiegazioni sembrano contradittorie. Se la promessa è assoluta e affatto gratuita, perché aggiungervi in seguito questa condizione così onerosa? Perché questo gravame insopportabile che ha schiacciato gli Ebrei col suo peso? « La Legge non va contro le promesse di Dio? » No, risponde l’Apostolo, essa sarebbe contraria alle promesse qualora desse i vantaggi che sono l’oggetto delle promesse (Gal. III, 21), oppure se dovesse durare ancora quando sarà venuto il momento di adempiere le promesse; ma non è così. La Legge è incapace di vivificare e non conferisce la giustizia soprannaturale. D’altra parte essa è soltanto uno stato di transizione, una tappa prima del termine, un episodio prima dello scioglimento. Essa non ha respinto l’impero del male, ma piuttosto lo ha consolidato, però con un fine affatto provvidenziale: « La Scrittura chiuse tutto sotto il peccato, affinché la promessa fosse data ai credenti mediante la fede di Gesù Cristo (ivi, III, 22) ». Nell’attesa di questo termine, conveniva che l’uomo non potesse sfuggire, che per amore o per forza fosse condotto alle porte della fede. Il duro regime della Legge rendeva agli Ebrei questo servizio: « Prima della venuta della fede, noi eravamo prigionieri sotto la legge, chiusi in aspettazione di quella fede che doveva poi essere rivelata (III, 23) ». La fede doveva essere rivelata nella pienezza dei tempi: essa rappresenta l’età maggiore dell’umanità, e il regime della Legge ne è per conseguenza l’infanzia. Questa idea suggerisce a Paolo un doppio paragone che completa il suo pensiero. Prima della venuta del Cristo, l’uomo era minorenne e pupillo, e la Legge era il suo pedagogo e il suo tutore. Il pedagogo antico non somigliava molto al precettore moderno: schiavo fedele e sicuro, spesso assai ignorante, accompagnava il pupillo dappertutto: lo conduceva anche a scuola — portando i suoi libri, se ci piace questo particolare di Sant’Agostino — ed assisteva talora, senza capirne nulla, alle lezioni del maestro. La sua probità inflessibile, che poteva servire alla formazione del carattere, contribuiva più di tutto a far desiderare l’adolescenza, ed era per il giovane romano un giorno felice quello in cui, deposta la bolla d’oro e la pretesta, indossava la toga virile; i saluti al pædagogium, scarabocchiati in gran numero ai piedi del Palatino, non contenevano dei rimpianti. Per il rigore dei suoi precetti, la Legge faceva desiderare il liberatore; con le sue profezie sempre più chiare, permetteva di conoscerlo già anticipatamente; essa vi preparava i cuori mantenendoli quasi per forza nel monoteismo; così essa conduceva al Cristo che è il suo termine e il suo fine (Rom. X, 4). – Fino a tanto che l’erede è fanciullo, non differisce per nulla da un servo, pure essendo padrone di tutto; ma è sottomesso ai tutori ed economi fino al tempo stabilito dal padre. Così anche noi, quando eravamo fanciulli, eravamo servi dei rudimenti del mondo. Ma venuta la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio per redimere quelli che erano sotto la Legge, per conferirci la qualità di figli (Ga. IV, 1-5). I secoli che precedettero la venuta del Cristo, erano per il genere umano l’età minore; gli uomini erano eredi in virtù delle promesse messianiche, perché queste promesse erano un testamento che riguardava i Gentili non meno che gli Ebrei, e il Vangelo è loro eredità comune: ma per entrare in possesso del loro patrimonio, Ebrei e Gentili dovevano aspettare l’età maggiore del mondo; fino a quel tempo essi erano asserviti a istituzioni rudimentali che però li preparavano ad uno stato più perfetto e ve li conducevano gradatamente. Alcuni si domandano se l’Apostolo si figura il testatore come vivo o come morto. Questa seconda ipotesi è più verisimile. Vivendo il padre, il pupillo non è né erede né proprietario, né sotto la dipendenza di tutori e di amministratori. Si obbietta che il diritto romano non lasciava al testatore la facoltà di fissare l’età dell’emancipazione; ma Paolo fa astrazione dal diritto romano e sta al diritto naturale che, legando di meno la volontà del testatore, gli sembra meglio adatto a figurare il decreto divino. E poi non è ancora ben certo che il diritto romano, soprattutto nelle province, fissasse col massimo rigore l’età maggiore legale; comunque sia, la libera scelta del padre qui ci deve entrare, perché la pienezza dei tempi che mette fine all’età minore dell’umanità, dipende dal beneplacito di Dio. – Gl’interpreti non sono neppure concordi sul senso di elementa mundi ai quali gli uomini, prima della venuta di Gesù Cristo, erano asserviti. Confrontando attentamente gli scritti di Paolo, vedremo altrove che egli indica con questo le istituzioni rudimentali, prodotto di una rivelazione ancora imperfetta o dell’istinto religioso, le quali governavano Ebrei e Gentili prima dell’economia evangelica. L’apparizione del Cristo li liberò egualmente, ma in modo diverso: agli Ebrei tolse il giogo della Legge, a tutti conferì la filiazione adottiva che era stata promessa a tutti i figli spirituali di Abramo, senza distinzione di razza, ma di cui gli Ebrei erano di fatto i depositari. Allora non vi è più nessuna differenza: Ebrei e Gentili arrivano insieme alla « pienezza dei tempi » e insieme sono emancipati e chiamati a rivendicare i loro diritti di eredi. Un’allegoria scritturale rischiara e completa il pensiero di Paolo. Egli vede nelle due spose di Abramo la figura dei due Testamenti. Agar, la schiava, rappresenta la Sinagoga; Sara, la donna libera, è l’emblema della Chiesa. Agar partorisce secondo la carne, conforme alle leggi della natura, un figlio schiavo come lei; Sara partorisce secondo lo spirito, in virtù di una promessa miracolosa, un figlio che dev’essere libero come lei. È un principio universale di diritto, che i figli partecipano della condizione della madre. Per conseguenza il Sinai di cui Agar era il simbolo, non genererà altro che schiavi; la celeste Gerusalemme, la Chiesa figurata da Sara, metterà al mondo uomini liberi. L’allegoria è trasparente (Gal. IV, 1-5): gli Ebrei, come Ismaele, sono figli di Abramo secondo la carne; ma, come Ismaele, non sono i veri eredi di Abramo. I cristiani, come Isacco, sono i discendenti di Abramo secondo lo spirito e, come Isacco, ereditano le promesse e le benedizioni spirituali. Ne risulta che i giudaizzanti della Galazia, i quali vogliono stare sotto la Legge, nonostante le indicazioni della Legge stessa, ritornano in dietro, rinunziano ai loro privilegi e si mettono in condizione tale da essere esclusi dal patrimonio del loro padre, come il loro prototipo L’Apostolo chiama allegoria questa applicazione esegetica. Egli non parla certamente dell’allegoria propriamente detta, la quale sopprimerebbe la realtà del racconto della Genesi lasciandogli soltanto un senso figurato. Vuole forse indicare un tipo biblico che lo Spirito Santo avrebbe avuto di mira nell’ispirare quel racconto? Si dovrebbe ammetterlo, se si considerasse il suo sviluppo come un argomento scritturale destinato a provare che il cristiano non è più sotto sotto la Legge; e ci sarebbe ancora da domandarsi qual è la parte del tipo e quella dell’accomodazione, poiché è difficile credere che l’intenzione dello Spirito Santo si estendesse a tutti i particolari dell’antitipo. Ma Paolo non è forse anche un oratore? e un paragone, un’analogia, un confronto, non hanno molte volte maggior forza, per illuminare una verità, che l’argomento teologico più reciso e più stringente? Se è così, perché gli negheremo il diritto che riconosciamo in tutti gli oratori, di trarre da un testo biblico delle applicazioni accomodatizie? Con questa allegoria termina lo svolgimento dommatico. L’Epistola ai Galati ha questo di particolare, che la morale fa un corpo solo con il dogma e ne è il corollario immediato. Paolo termina dunque con un caloroso appello alla libertà del Cristo (Gal. V, 1). Ma questa libertà del Vangelo non deve degenerare in licenza, e non bisogna scuotere il giogo della Legge, per cadere sotto il giogo della carne (Gal. V, 13). Questa è l’ultima parola dell’Apostolo e la conclusione dell’Epistola.