IV DOMENICA dopo PENTECOSTE

Introitus

Ps XXVI:1; XXVI:2 Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timebo? Dóminus defensor vitæ meæ, a quo trepidábo? qui tríbulant me inimíci mei, ipsi infirmáti sunt, et cecidérunt. [Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò? Il Signore è baluardo della mia vita, cosa temerò? Questi miei nemici che mi perséguitano, essi stessi vacillano e stramazzano.] Ps XXVI:3

Si consístant advérsum me castra: non timébit cor meum. [Se anche un esercito si schierasse contro di me: non temerà il mio cuore.]

Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timebo? Dóminus defensor vitæ meæ, a quo trepidábo? qui tríbulant me inimíci mei, ipsi infirmáti sunt, et cecidérunt. [Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò? Il Signore è baluardo della mia vita, cosa temerò? Questi miei nemici che mi perséguitano, essi stessi vacillano e stramazzano.]

Orémus. Da nobis, quæsumus, Dómine: ut et mundi cursus pacífice nobis tuo órdine dirigátur; et Ecclésia tua tranquílla devotióne lætétur. [Concedici, Te ne preghiamo, o Signore, che le vicende del mondo, per tua disposizione, si svolgano per noi pacificamente, e la tua Chiesa possa allietarsi d’una tranquilla devozione.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom VIII:18-23. Fratres: Exístimo, quod non sunt condígnæ passiónes hujus témporis ad futúram glóriam, quæ revelábitur in nobis. Nam exspectátio creatúræ revelatiónem filiórum Dei exspéctat. Vanitáti enim creatúra subjécta est, non volens, sed propter eum, qui subjécit eam in spe: quia et ipsa creatúra liberábitur a servitúte corruptiónis, in libertátem glóriæ filiórum Dei. Scimus enim, quod omnis creatúra ingemíscit et párturit usque adhuc. Non solum autem illa, sed et nos ipsi primítias spíritus habéntes: et ipsi intra nos gémimus, adoptiónem filiórum Dei exspectántes, redemptiónem córporis nostri: in Christo Jesu, Dómino nostro. [Fratelli: Penso che le sofferenze presenti non sono paragonabili alla gloria futura che si manifesterà in noi. Poiché l’attesa del creato si rivolge tutta alla rivelazione dei figli di Dio. Infatti il creato è stato assoggettato alla vanità, non per suo volere, ma da colui che lo ha assoggettato con la speranza che lo stesso creato sarà liberato dalla schiavitú della corruzione nella libertà della gloria dei figli di Dio. Sappiamo infatti che tutto il creato è unito nei gémiti e nelle doglie del parto fino ad ora. E non solo il creato, ma anche noi, che abbiamo le primizie dello Spirito, gemiamo in noi stessi aspettando, dopo l’adozione a figli di Dio, la redenzione del nostro corpo: in Gesù Cristo nostro Signore.]

Omelia I

[Mons. G. Bonomelli [*], “Nuovo saggio di OMELIE per tutto l’anno”, Vol. III, Torino 1899 –imprim.]- Om. IX.

“Tengo per certo, che le sofferenze del tempo presente non hanno punto proporzione colla gloria che sarà manifestata in noi. Perché la stessa creatura irragionevole aspetta ansiosamente la manifestazione dei figliuoli di Dio: perché la stessa creatura suo malgrado fu sottomessa alla vanità da colui che ad essa l’ha sottoposta nella speranza. Perché anch’essa creatura sarà francata dalla servitù della corruzione e messa nella libertà gloriosa dei figliuoli di Dio. Sappiamo difatti, che fino ad ora ogni creatura geme ed è in travaglio quasi di parto. Né solamente essa, ma noi ancora, che abbiamo le primizie dello spirito e gemiamo in noi stessi, anelando all’adozione a figliuoli di Dio, alla redenzione del nostro corpo „ (Ad Rom. VIII, 18– Paolo ci lasciò quattordici lettere e prima di tutte nella Scrittura è posta quella ai Romani, dalla quale sono tolti i pochi versetti, che avete uditi e che si leggono nella Messa odierna. Questa tiene meritamente il primo posto tra le lettere di S. Paolo, non già perché sia stata scritta prima delle altre, ma perché è indirizzata alla Chiesa di Roma, madre di tutte le altre Chiese, sede del Primato, ed anche perché è la più lunga e per ragione della dottrina dogmatica in essa sviluppata sopra le altre importantissima. Questa lettera fu scritta da S. Paolo in Corinto, allorché era sulle mosse per Gerusalemme, l’anno 58, al più tardi, il 59 dell’era nostra. – Il tratto che devo chiosare si legge nel capo ottavo della lettera, ed è una miniera d’altissime verità teoriche e pratiche. L’Apostolo comincia il capo, toccando la felice condizione dei rigenerati in Cristo, e afferma ch’essi sono sciolti dalla legge del peccato; poi accenna alla misera condizione di coloro che vivono secondando la carne. Insegna che nei rigenerati in Cristo abita lo Spirito santo, come devono seguirne la legge e come nell’intimo della coscienza abbiano la testimonianza d’esser figli di Dio. A quali condizioni potranno riceverne la mercede? A condizione di patire con Cristo; soffrendo con Lui, con Lui saranno anche glorificati. E qui comincia la lezione che devo spiegare. – « Tengo per certo, che le sofferenze del tempo presente non hanno proporzione con la gloria, che sarà manifestata in noi. „ È questa una verità, che troviamo, starei per dire, ad ogni pagina nelle lettere dell’Apostolo, ma che pure non è mai abbastanza ripetuta, perché di questa abbiamo bisogno continuo. La nostra vita quaggiù è una serie di afflizioni interne ed esterne raramente interrotte: il fardello del dolore ci sta sempre sulle spalle e l’ombra della croce ci segue dovunque. Ora in mezzo a tante tribolazioni, a tanti e sì crudeli affanni, che ci accompagnano nel cammino della vita, la verità più consolante, che possiamo avere, è questa: “Siamo certi, che le sofferenze del tempo presente non hanno proporzione colla gloria, che sarà manifestata in noi” —. Quali sofferenze? Forse quelle soltanto che ci vengono direttamente dal professare la fede di Gesù Cristo e dalla osservanza fedele dei suoi precetti? Indubbiamente queste ci meritano la gloria divina; ma l’Apostolo non parla di queste solamente, ma di tutte le sofferenze della presente vita: Hujus temporis —, come sono quelle del lavoro, delle infermità, dell’inclemenza delle stagioni, dei timori, delle contraddizioni, della povertà e andate discorrendo; anche queste, quantunque comuni a tutti gli uomini, patite con spirito di fede, per amore di Gesù Cristo, ci fruttano per il cielo. Quale conforto il cristiano può attingere in questo insegnamento di S. Paolo! Egli può e deve dire a se stesso: io soffro, ma il mio soffrire è seme, che frutterà il godere e godere eterno; tra il soffrire presente e il godere futuro non vi è proporzione alcuna; il soffrire lieve, immenso il godere; il soffrire è breve, pochi giorni, pochi anni; il godere interminabile; la ricompensa, Dio stesso. Io affido alla terra un granellino, che l’occhio appena discerne; questo, dopo alcuni giorni, qualche mese o qualche anno, mi dà un fiore bello a vedersi, soave a odorarsi, un albero che curva i rami sotto il peso dei suoi frutti moltiplicati. Ecco l’immagine del mio soffrire quaggiù sulla terra e del mio godere su in cielo. Questo pensiero deve essere un balsamo versato sulle ferite del mio povero cuore e deve mitigarne e raddolcirne il dolore, come la speranza della messe copiosa rallegra il contadino, che suda sull’aratro e sparge la semente nel solco aperto. – S. Paolo dice: “Tengo per certo „ existimo che le sofferenze presenti mi daranno una gloria senza confronto maggiore del merito. „ Quale certezza abbiamo noi di ricevere il premio del nostro patire? La nostra certezza non è, né può essere di fede, perché la Chiesa ha definito contro gli eretici, che nessun cristiano, senza una speciale rivelazione, può essere certo di fede d’aver ottenuto la grazia, senza la quale non si può ottenere la vita eterna (Conc. di Trento, sess. VI, can. XIII, XLI); ma la nostra certezza può essere una certezza umana, che viene dalla coscienza di adempiere i propri doveri, di fare ciò che possiamo per pacere a Dio, per fuggire il peccato, simile a quella certezza che abbiamo d’essere amati dall’amico, dal padre, dalla madre, ai quali ci studiamo di mostrarci fedeli e ubbidienti. Questa gloria, che deve essere il frutto delle presenti sofferenze, sarà manifestata in noi, dice l’Apostolo, e a ragione. La gloria e la gioia, che avremo in cielo, non è altra cosa che la esplicazione e la fioritura della grazia, che possediamo sulla terra, come i fiori ed i frutti dell’albero non sono che la esplicazione e la fioritura di quel piccolo seme, che avete affidato alla terra; ondechè, possedendo la grazia, possediamo in potenza o in germe la gloria, e soffrendo in pace i dolori della vita, portiamo in noi stessi la gioia, che un dì sgorgherà dal fondo dell’anima nostra: Revelabitur in nobis. – Poiché noi tutti siamo fatti per la felicità e ad essa tendiamo necessariamente, come la pietra tende al suo centro, ne conseguita che i nostri cuori con ardente brama sospirano questa ricompensa delle nostre sofferenze e la gloria onde saremo vestiti. – Ma vi è di più, continua l’Apostolo: non pure noi, noi esseri deboli di ragione, sollevati e mossi dalla grazia aspettiamo col desiderio più acceso questa futura trasformazione, “ma la stessa natura irrazionale aspetta con ansia che siano manifestati i figliuoli di Dio, „ ossia che apparisca il giorno della loro manifestazione o gloria celeste. – Che è dessa quella creatura, che dicesi aspettare con ansia la rivelazione? Alcuni vi ravvisarono indicati gli angeli, ma a torto: perché questa creatura la si dice tosto nel versetto seguente soggetta alla vanità, e per fermo gli angeli non possono essere soggetti alla vanità. D’altra parte non possono essere gli uomini giusti, perché si dice, che questa creatura aspetta la rivelazione dei figli di Dio, cioè dei giusti, onde è manifesto, che la creatura che aspetta non si può confondere coi giusti: non possono essere nemmeno i tristi o peccatori, perché questi né aspettano, né possono aspettare questa rivelazione, che non conoscono, disprezzano od odiano. Resta dunque che quella parola creatura significhi la natura tutta irragionevole, ossia l’universo. S. Paolo, uomo orientale e nutrito nello studio dei Profeti, con un volo arditissimo di fantasia, ci rappresenta non solo le anime cristiane, ma le creature tutte anche irragionevoli, che si uniscono a quelle in desiderare ardentemente il compimento della speranza mercé la manifestazione della gloria eterna. Ma come mai e perché la natura irragionevole può unirsi alle anime credenti in questo affocato desiderio della futura trasformazione? Questo modo di parlare è veramente poetico, attribuendo 1′ aspettazione ansiosa a esseri destituiti di ragione e di volontà e perciò incapaci di desiderio; ma vi si nasconde un senso profondo, che mi studierò di spiegare alla meglio. Tutte e le cose materiali sono create per l’uomo e debbono servire a lui in tutti i modi, e in gran parte per via di evoluzioni meravigliose e perenni debbono entrare nell’organismo dell’uomo stesso, diventare successivamente parte del suo corpo ed essere assunte all’altissimo onore di strumento del suo pensiero e della sua volontà. Il perché tutte le creature materiali, a nostro modo di dire, aspirano alla loro unione con l’uomo, perché in esso e con esso si nobilitano, partecipano alla sua vita fisica e spirituale e sentono che la loro sorte è legata indissolubilmente alla sorte dell’uomo. Ecco perché tutte queste creature irragionevoli, a loro modo anch’esse, come formanti il corteggio, l’appendice dell’uomo, formanti anzi qualche parte dell’uomo insieme con lui sospirano che venga il giorno dell’umana trasformazione e risplenda agli occhi di tutti la gloria degli eletti e dei figli di Dio. E qui S. Paolo sviluppa più ampiamente il suo pensiero. Seguitiamolo. “La stessa creatura è soggetta alla vanità. „ Tutte le creature, che esistono sulla terra che direttamente o indirettamente servono l’uomo, giusta il volere del Creatore, nell’ordine presente, subiscono incessanti trasformazioni ed alterazioni: ora passano dalla natura in organica all’organica vegetale od animale e fino all’umana e poi ritornano all’inorganica. Osservate ciò che avviene intorno a noi e nel nostro corpo e troverete un movimento incessante, un farsi e disfarsi perpetuo delle creature, or lento, or rapido, tantoché la morte è la condizione della vita e la vita la condizione della morte: non vi è una sola creatura visibile che sfugga alla legge, che tutto fa vivere e morire e dalla morte trae gli elementi di una, vita novella e getta nella vita i germi della morte. Tutte queste creature non solo sono sottoposte a questa trasformazione che non cessa un solo istante, ma devono servire (ahi quante volte!) di strumento al disordine, all’offesa del Creatore, contro il loro fine. L’aria, la luce, l’acqua, la terra, le sue produzioni più belle e più preziose, tutto il regno vegetale, animale ed universale, per opera dell’uomo sono forzati a deviare dal loro fine e a diventare strumento di peccato. Inquantoché sono sottomesse al lavoro della trasformazione senza tregua ed alla necessità di essere soventi volte costrette ad un uso contrario al loro fine naturale, queste creature sono dette da S. Paolo ” sottoposte alla vanità: „ Vanitati creatura subjecta est. Espressione sublime, che rappresenta il mondo tutto in uno stato di prova e di violenza, come 1’uomo, del quale segue necessariamente la sorte, perché ad esso è ordinato, come mezzo al fine. Questo mondo visibile, continua S. Paolo, non vorrebbe questa legge di continue mutazioni, di alternative di morte e di lotta e rivolta contro il Creatore, alla quale è costretto dall’uomo: Non volens; ma vi si acconcia, perché così vuole il Creatore; vi si acconcia, ma con la speranza che verrà pure quel giorno, nel quale cesserà questa lotta, che lo affatica, nel quale saranno cieli nuovi e terra nuova e tutto sarà composto in una pace inalterabile e perfetta. “La stessa creatura è sommessa alla vanità, non volente, ma da Colui, che a questa l’ha sottoposta nella speranza. „ Sì, la natura tutta irrazionale, nel suo linguaggio domanda al pari di noi, uomini e cristiani, il cessare del suo stato presente, al quale istintivamente rilutta: il suo grido, eco lontana del nostro, è questo: Quando, Signore, porrete fine al mio travaglio? Quando mi darete la pace ? Quando, anch’io, come l’uomo e per l’uomo, sarò rinnovata e secondo la mia natura non servirò che a Lui solo? E giusto, risponde l’Apostolo: “anch’essa, questa natura irrazionale sarà affrancata dal servaggio della corruzione, nella libertà della gloria dei figliuoli di Dio. „ Non è facile intendere questo luogo del sacro testo, ma sembra fuor di dubbio, essere, non altrimenti del seguente, una spiegazione dell’antecedente. La natura tutta irrazionale, quasi culla, reggia e nutrice dell’uomo, suo re, al termine dei secoli, quando egli ripiglierà, rifiorente di vita immortale, il suo corpo, anch’essa si rinnovellerà, quasi per fare più bella la gloria dell’uomo, e ad imitazione dell’uomo stesso: Et ipsa creatura liberabitur a servitute corruptionis, in libertatem gloria filiorum Dei. Quale sarà questo rinnovellamento della natura irrazionale, riflesso del rinnovellamento dell’uomo? Come finirà il suo servaggio e quale sarà la libertà sua, di cui qui favella l’Apostolo? Sappiamo che avverrà, ma quale sarà lo ignoriamo, e solo per una cotale induzione possiamo formarcene un’idea. Saranno cieli nuovi e terra nuova, l’uno e l’altra abitazione degna dell’uomo glorificato, sottratta interamente all’impero e all’influenza di ogni male morale e fisico, e saper questo ci basti. – Da questa dottrina sì alta e sì bella dell’Apostolo si fa manifesto che il fine delle creature tutte irragionevoli è legato al fine proprio dell’uomo e da questo dipende tantoché, se così posso esprimermi, anch’esse saranno felici o infelici della sua felicità od infelicità: ed è giusto perché le creature irragionevoli sono create per l’uomo e a lui debbono servire e per conseguenza la sorte del principale tira seco la sorte del secondario. Gli elementi, onde risulta il nostro corpo, accompagneranno e per sempre l’anima o beata in cielo, o straziata nell’inferno, perché l’unione sarà sempiterna, e perciò siamo noi che determiniamo la sorte eterna del mondo materiale. Il linguaggio dunque dell’Apostolo in questo luogo è poetico e ad un tempo altamente filosofico e vero. Questa idea dell’aspettazione ansiosa della natura irrazionale è ribadita e con più forte tinta rilevata in questo altro versetto: “Sappiamo di fatto che ogni creatura finora geme ed è come nel travaglio del parto. „ Questo gemere e quasi soffrire i dolori del parto di tutte le creature irragionevoli, aspettanti la loro liberazione e trasformazione finale, ci fa sentire la loro solidarietà coll’uomo e com’esse fremono nello stato di disordine e di violenza, in cui al presente troppo spesso si trovano. Questa frase dell’Apostolo ci riduce alla memoria quell’altra frase non meno energica del libro della Sapienza, in cui si dice, che Dio armerà tutte le creature contro gli stolti, cioè i peccatori. Ah! ricordiamola sempre, o dilettissimi, questa verità. Ogni volta che noi abusiamo delle creature, peccando, rivolgendole contro il Creatore, esse, per così dire, si sdegnano contro di noi, soffrono, gemono e sospirano il momento, nel quale spezzeranno il giogo della corruzione, che loro imponiamo: strumento nostro quaggiù al peccato, al piacere colpevole, diventeranno allora strumento di Dio a nostra punizione. S. Paolo, dopo questa breve e brillante digressione sulle creature tutte irrazionali, che con sì affocato desiderio aspettano e invocano la propria libertà e rinnovazione, ritorna a sé, ai credenti, e prosegue: “E non solo essa, cioè la creatura irrazionale, ma noi ancora, che abbiamo le primizie dello spirito, gemiamo in noi stessi, anelando alla adozione dei figliuoli di Dio, alla redenzione del nostro corpo. „ Sì, l’universo sospira e geme, ma con esso e ben più di esso, noi, cristiani, primizie del giardino di Cristo, la Chiesa, o meglio, noi cristiani, che abbiamo ricevuto i primi e più copiosi doni dello Spirito, sospiriamo e gemiamo nel fondo delle anime nostre. Travagliati da sollecitudini ed affanni interni, fatti segno di calunnie e di persecuzioni, sbandeggiati, flagellati, gettati in carcere, trascinati dinanzi ai tribunali, divenuti il rifiuto del mondo, ci viene a noia la vita, ita ut tæderet nos etiam vivere, volgiamo lacrimosi gli occhi al giorno, in cui la grazia, o l’adozione di fìgli di Dio ci schiuderà le porte del cielo e saremo liberati da questo corpo mortale e rivestiti del corpo impassibile e glorioso: Adoptionem filiorum Dei, expectantes redemptionem corporis nostri. Questo grido affannoso dell’Apostolo, che guarda, aspetta ed invoca la gloria della risurrezione del corpo, risponde al grido di Giobbe, che, straziato e disfatto dalla lebbra esclama: ” So che il mio redentore vive, e ch’io alla fine dei tempi risorgerò dalla polvere e rivestirò questa carne, e in essa vedrò il mio Dio e mio Salvatore. „ È questo il grido, che erompe dal cuore d’ogni credente, che attraversa questa terra d’esilio, che sente la miseria della vita presente, che cammina verso la vera patria, al possesso di Dio. Sia pur questo il grido che esce dai nostri cuori, disillusi della terra e anelanti al cielo!

[*][NOTA: Un lettore ci ha fatto cortesemente notare come Mons. G. Bonomelli, ai suoi tempi, sia stato in “odore” di Modernismo, anche per le sue abituali frequentazioni con A. Fogazzaro. I volumi dai quali traiamo le omelie sulla lettura, sono tutti muniti di nihil obstat ed imprimatur, letti da “quelli” del Santo Uffizio e dell’Indice. Vigilare è sempre opportuno, e la prudenza non è mai troppa, per cui invitiamo i lettori Cattolici a segnalare eventuali “svarioni” modernisti, sui quali abbiano chiuso gli occhi o si siano addormentati i censori del Santo Uffizio. Grazie a tutti anticipatamente]

Graduale

 

Ps LXXVIII:9; LXXVIII:10 Propítius esto, Dómine, peccátis nostris: ne quando dicant gentes: Ubi est Deus eórum? V. Adjuva nos, Deus, salutáris noster: et propter honórem nóminis tui, Dómine, líbera nos. [Sii indulgente, o Signore, con i nostri peccati, affinché i popoli non dicano: Dov’è il loro Dio? V. Aiutaci, o Dio, nostra salvezza, e liberaci, o Signore, per la gloria del tuo nome.]

Allelúja

Alleluja, allelúja Ps IX:5; IX:10 Deus, qui sedes super thronum, et júdicas æquitátem: esto refúgium páuperum in tribulatióne. Allelúja [Dio, che siedi sul trono, e giudichi con equità: sii il rifugio dei miseri nelle tribolazioni. Allelúia.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. Luc. V:1-11

In illo témpore: Cum turbæ irrúerent in Jesum, ut audírent verbum Dei, et ipse stabat secus stagnum Genésareth. Et vidit duas naves stantes secus stagnum: piscatóres autem descénderant et lavábant rétia. Ascéndens autem in unam navim, quæ erat Simónis, rogávit eum a terra redúcere pusíllum. Et sedens docébat de navícula turbas. Ut cessávit autem loqui, dixit ad Simónem: Duc in altum, et laxáte rétia vestra in captúram. Et respóndens Simon, dixit illi: Præcéptor, per totam noctem laborántes, nihil cépimus: in verbo autem tuo laxábo rete. Et cum hoc fecíssent, conclusérunt píscium multitúdinem copiósam: rumpebátur autem rete eórum. Et annuérunt sóciis, qui erant in ália navi, ut venírent et adjuvárent eos. Et venérunt, et implevérunt ambas navículas, ita ut pæne mergeréntur. Quod cum vidéret Simon Petrus, prócidit ad génua Jesu, dicens: Exi a me, quia homo peccátor sum, Dómine. Stupor enim circumdéderat eum et omnes, qui cum illo erant, in captúra píscium, quam céperant: simíliter autem Jacóbum et Joánnem, fílios Zebedaei, qui erant sócii Simónis. Et ait ad Simónem Jesus: Noli timére: ex hoc jam hómines eris cápiens. Et subdúctis ad terram návibus, relictis ómnibus, secuti sunt eum”.

[In quel tempo: Affollàtesi le turbe attorno a Gesú per udire la parola di Dio, Egli si teneva sulla riva del lago di Genézareth. E vide due barche tirate a riva, poiché i pescatori erano discesi e lavavano le reti. Salendo in una barca, che era di Simone, lo pregò di allontanarlo un poco dalla spiaggia; e sedendo insegnava alle turbe dalla navicella. Quando finí di parlare, disse a Simone: va al largo, e getta le reti per la pesca. E rispondendogli, Simone disse: Maestro, per tutta la notte abbiamo lavorato senza prendere niente, tuttavia, sulla tua parola, getterò la rete. E fattolo, presero una cosí grande quantità di pesci che le reti si rompevano. E allora fecero segno ai compagni che erano nell’altra barca affinché venissero ad aiutarli. E vennero, e riempirono le due barche al punto che stavano per affondare. Visto questo, Simone Pietro si gettò ai piedi di Gesú, dicendo: Allontanati da me, o Signore, poiché sono un peccatore. Lo spavento infatti si era impadronito di lui e di quelli che erano con lui a causa della pesca: ed erano sbigottiti anche Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano compagni di Simone. E Gesú disse a Simone: Non temere: d’ora in poi sarai pescatore di uomini. E avendo tirato a secco le barche, lasciata ogni cosa, lo seguirono.]

Omelia della Domenica IV dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

Uomini come pesci-

Fa menzione l’odierno Evangelo d’una pesca miracolosa notturna tentata dai discepoli del Salvatore con esito infelicissimo; poiché passarono tutta la notte in fatiche continue, e non venne loro fatto di prendere un solo pesce: “tota nocte laborantes nihil cœpimus”; ma poi, gettata nuovamente la rete, raccolsero una tal copiosa moltitudine di pesci, che la rete minacciava di rompersi, e la navicella di affondarsi. Da questa evangelica narrazione di pescatori e di pesca io prendo motivo di assomigliare gli uomini ai pesci. Non vi sorprenda l’assunto, è S. Ambrogio che me ne porge l’idea. “Pisces enim sunt, dice egli, qui hanc enavigant vitam” (Lib. 4 in Luc.). E a questa similitudine fece allusione il divin Redentore allorché disse a Pietro e ad Andrea; venite, seguitemi, e di pescatori di muti animali farò che siate pescatori di uomini: “Venite post me, et faciam vos fieri piscatores hominum”. Ora siccome i pesci si lasciano ingannare dal pescatore per un poco d’esca lusinghiera, così una gran moltitudine d’uomini incauti si lasciano ingannare dal pescatore per quel poco di dolce con cui li alletta a peccare. Deploriamo, fedeli amatissimi, la stoltezza di quei peccatori, che per un misero gusto di soddisfazione brutale cadono nella rete del peccato e del demonio, e perdono miseramente la vita dell’anima e l’eterna vita. La proposta allegoria degli uomini simili ai pesci riuscirà per avventura più sensibile, più opportuna al disinganno, e allo spirituale vantaggio di tutti. Favoritemi della solita vostra graziosa attenzione. – Fingiamo ipotesi (anche le ipotesi impossibili giovano a meglio schiarire la verità), fingiamo che i pesci avessero intendimento e discorso, e tra di loro andassero dicendo così: mirate quanto è grande la bontà e l’amore, che gli uomini hanno per noi. Abbandonano le loro case, vengono sulla sponda del mare, o ascendono su qualche naviglio, passano le notti in vigilie, e i giorni sotto la sferza del sole, esposti ai venti, alle piogge e al rigore delle stagioni. E tutto ciò perché? Per recarci qualche scelto alimento, per gettarci i più squisiti bocconi. Un tal discorso farebbe pietà insieme, e moverebbe il riso. Stolti, insensati, voi potreste rispondere, gustate pure ed inghiottite quei cibi che gli uomini vi apportano, e mi saprete poi dire quanto è grande per voi la loro bontà. Quel che non dicono, né possono dire i pesci muti e irragionevoli, lo dicono tanti uomini del bel mondo, dediti al piacere e al libertinismo, descritti nel libro della Sapienza: “Venite fruantur bonis” [Cap. II, 6], si dicono essi a vicenda: non vedete quanti beni ci presentano le creature, il mondo, il senso, la gioventù? Venite adunque, godiamo di questi piaceri, faranno questi la nostra felicità: “venite ergo, et fruamur bonis . . . quoniam hæc est pars nostra” (V, 8). Ah gente senza consiglio, più insensati, più deplorabili che i pesci non sono! Sotto l’esca allettante dei mondani piaceri si nasconde un amo adunco, micidiale, che vi strapperà le viscere, che vi toglierà la pace, la vita di grazia, e, se non vomitate con vera penitenza il dolce boccone trangugiato, anche la vita eterna. È lo Spirito Santo, che precisamente descrive nell’Ecclesiaste la vostra insensatezza e la vostra disgrazia. Avviene agli uomini, dice egli, come ai pesci, di venir presi ed uccisi da un amo nascosto : “Sicut pisces capiuntur hamo .., sic capiuntur hómines” (Eccl. IX, 11). – Vediamolo in pratica. Quel giovane frequenta ridotti: il demonio, pescatore scaltrito, lo alletta al giuoco coll’esca del guadagno, colla speranza di accrescere il suo coll’altrui danaro, e di rifarsi delle sue perdite. Questa è l’esca lusinghevole, sotto di cui un amo crudele gli fa poi sentire le più vive punture, per le perdite di somme considerabili, per le discordie domestiche, minacce del padre adirato, lacrime dell’afflitta madre, rimproveri dei congiunti, amarezze, rancori, disperazioni. Oh povero pesce ingannato, quanto ti costa quell’esca traditrice! “Sint pisces capiuntur hamo, sic capiuntur homines”. Quell’altro è spinto a intavolare una lite. Il demonio per invilupparlo in una rete inestricabile muove la passione dell’interesse colla speranza della vittoria, muove quella dell’amor proprio, e gli fa credere forti, evidenti, insuperabili le sue ragioni, e di nessun peso quelle della parte avversa; muove l’irascibile e gli fa dire: quando anche dovessi restar mendico, non voglio che il mio emolo se ne rida. Tutte queste passioni compongono un’esca molto saporosa ed attraente: vediamo se chi l’ingozza l’indovina. S’incomincia la lite, incominciano gli affanni, si prosegue, si va avanti, e allo stesso passo corrono le spese; ma le lusinghe sono che presto sarà finita. Passano intanto i mesi, passano gli anni, ma non cessa il conturbamento dell’anima, ed il dolor della borsa: nascono incidenti che affliggono, sospetti che affannano: succedono bugie, che velate consolano, e scoperte amareggiano giorni tristi, notti inquiete: lunghe anticamere, accoglimenti poco graziosi: sommissioni che costano, raccomandazioni che non giovano, parole simulate, promesse non adempite, odi, inimicizie, decadenza di stato, rovina di famiglia. Ecco le fitte pungenti e crudeli dell’amo nascosto, a cui delusi da un falso bene vi siete appigliato. Così è: “sicut pisces capiuntur hamo, sic capiuntur homines”. – Voi, o donna, coltivate quell’amicizia: badate bene, colui che vi viene attorno vuole tradirvi. Le lodi, le adulazioni, i donativi, le promesse sono le solite vie dell’inganno e del tradimento, e sono esche lusinghevoli per tirarvi ai suoi malvagi disegni. Non mi credete? aspettate forse che vi obblighi a credermi la vostra luttuosa esperienza? Oh Dio! Già questa vostra amistà è divulgata, le visite troppo frequenti fan parlare i vicini, ne mormorano i lontani, tutto il paese ne bolle. Siete figlia? Contro di voi si allarmano i genitori, i fratelli, i congiunti, i veri amici. Siete maritata? Sorgono contro di voi le gelosie, i sospetti, le minacce, le percosse dell’offeso consorte. Chiunque voi siete, se non recidete il filo della rea corrispondenza, il vostro onore è perduto, non potete più mostrar faccia, e coll’onore perduta avete la grazia di Dio e dell’anima. Questo vuol dire lasciarsi ingannare come i pesci dall’esca: “Sicut pisces capiuntur hamo, sic capiuntur homines” – Non sempre, dirà qui un uomo di mondo, non sempre avvengono le da voi descritte disavventure. Quante volte i pesci senza lor danno portan via dall’amo la pasta, e troncano il filo o fuggono dalla rete, e liberi guizzanti lasciano deluso il pescatore? – Ho inteso. E da casi rari, fortuiti, volete dedurre una general conseguenza, che dunque l’esporvi al pericolo sia da uom ragionevole e da buon cristiano? Eh miei cari, pericolo di peccare, che si vuole, si cerca, si ama, è peccato, in morale non si distinguono, e in pratica il pericolo che non si teme si cangia in rovina: “Qui amat periculum, in illo peribit” (Eccl. III, 27). – Sansone, prodigio di fortezza , allettato dalle carezze di Dalida, e caduto nelle sue reti, rompe la prima, la seconda, la terza volta le grosse funi, i forti legami, con cui dalla traditrice è stato avvinto; sprezza il pericolo, si fida della sua forza, e finalmente dato in man dei nemici perde la libertà, perde gli occhi, e perde la vita. Ecco il tragico fine di questo grosso fortissimo pesce; ecco l’esito funesto dei dolci allettamenti, e del non curare i pericoli. Diciamolo ancor una volta: “Sicut pisces capiuntur hamo, sic capiuntur nomine”. – Un altro pesce stoltissimo fu Esaù. Voi stupite in sentire dalle divine Scritture ch’egli rinunziò alla sua primogenitura, e con essa al diritto di pingue eredità, per una vile minestra di lenticchie. E poi non vi fa specie, quando voi, per un sozzo piacere, per un vile interesse, per una momentanea soddisfazione rinunziate a Dio e all’eredità del regno eterno! Non basta; la rinunzia di un sommo bene, voi lo sapete, porta seco necessariamente l’incontro di un sommo male. Or ditemi di grazia se l’uomo non è più stolto di un pesce, qualora per un boccone di sensuale diletto si condanna ad un sempiterno supplizio? Nel corso delle umane cose, dice il Santo Giobbe, dove si troverà persona così insensata, che voglia gustar di un cibo, conoscendo che le darà la morte? “Potest aliquis gustare, quod gustatum offert mortem?” (Job. VI, 6). Sia pur dolce, dolcissima una bevanda, sia pur ardente la sete, se di certo si sa che in fondo a quel bicchiere brillante sta una goccia di veleno, niuno è così pazzo e nemico di se stesso da accostarvi le labbra. Giusto riguardo per non perdere la vita. E solo, solo per l’anima saremo ciechi, forsennati, indifferenti, insensibili? O Cristiani, dov’è la nostra fede, dov’è l’uso di nostra ragione, dov’è il naturale amore di noi stessi? – Non poteva darsi pace il povero Gionata, quando si vide condannato a morte per aver gustato una goccia di miele: “Gustans, gustavi paullulum mellis, et ecce morior” ( I Re XIV, 43). Da un più grande e doloroso rammarico saranno compresi ed agitati tutti coloro, che per una stilla d’animalesco piacere hanno segnata la sentenza della loro morte spirituale ed eterna. – Eh via, miei cari, fuggiamo una volta, fuggiamo per carità gli allettativi del demonio, del mondo e della carne, ai quali abbiamo solennemente rinunziato nel santo battesimo. – Il Signore per nostra istruzione ci manda ad imparare la sollecitudine dalla formica, la semplicità della colomba, la prudenza del serpente, ed io, per vostro bene, contentatevi che vi proponga l’esempio di alcuni pesci, che sembrano dotati di ragione, di senno e di consiglio. Vedono questi sovente andar ondeggiando tra’ flutti esche saporite, delicati bocconi; vedono accorrere a questi tanti altri pesciolini, ed essi? Oh! Essi, sebbene allettati dalla vista, sebbene spinti dalla fame, guai che si accostino, voltano la coda, li lasciano intatti, e deludono lo scaltro pescatore. Volete vedere un di questi pesci saggi, prudenti, giudiziosi? (Già vi dissi dal bel principio con S. Ambrogio: “pisces sunt, qui hanc enavigant vitam”). Vedetelo dunque in casa di Putifarre, egli è Giuseppe figliuolo di Giacobbe. Questo casto virtuosissimo giovane venne più volte tentato dall’impudica padrona; ma egli, occhi a terra, piedi in fuga e costanti rifiuti; e quando la sfacciata ardì tenerlo per la veste, gliel’abbandonò fra le mani, e si salvò con fuggire. Atto sì generoso, vittoria così segnalata meritò che Iddio l’esaltasse al grado di viceré dell’Egitto, e la gloria del suo nome immortale nei secoli, qual santo patriarca in terra, e beato comprensore nel cielo. Esempio così luminoso non ha bisogno di commento. Felice chi navigando fra i pericoli di questo mare tempestoso, che è il mondo, saprà fedelmente seguirlo. Più felice chi si avvicinerà al divino Redentore per esser preso dalle sue dolci attrattive. Egli, come abbiamo dall’odierno Vangelo, ascese sulla barca di Simon Pietro, per essere più facilmente inteso dalle turbe che stavano sul lido, e, come osserva S. Gregorio Nazianzeno, per far preda del cuor dell’uomo, per trarre dal profondo delle lor colpe i peccatori, come dal fondo del mare si traggono i pesci. “Ut a profundis extrahat. piscem hominem, natantem in amaris huius vitæ pericoli” (D. T. in Cat. aurea). – Conchiudiamo: Gesù Cristo rassomiglia la sua Chiesa ad una gran rete, che nel suo seno accoglie una moltitudine immensa di pesci di ogni genere, di ogni forma, di ogni colore: “Simile est regnum cœlorum sagenæ missæ in mare, et ex omni genere piscium congreganti” (Matth. XIII, 17). Tratta sul lido la rete si fà dai pescatori la scelta, i pesci buoni si ripongono in vasi opportuni, i cattivi si gettano a marcir sull’arena. Così avverrà alla fine del mondo nella gran valle; discenderanno gli angeli dal cielo a separare i buoni dai malvagi, i giusti dai riprovati. Quei che dagl’incentivi del senso, dalle lusinghe del mondo si sono lasciati sedurre saranno gettati all’eterna perdizione, quei che da saggi e prudenti han saputo disprezzare i vietati piaceri, fuggire i pericoli e mantenersi a Dio fedeli, saranno collocati negli eterni tabernacoli, ove Iddio ci conduca.

 Credo…

 Offertorium

Orémus Ps XII:4-5 Illúmina óculos meos, ne umquam obdórmiam in morte: ne quando dicat inimícus meus: Præválui advérsus eum. [Illumina i miei occhi, affinché non mi addormenti nella morte: e il mio nemico non dica: ho prevalso su di lui.]

Secreta

Oblatiónibus nostris, quæsumus, Dómine, placáre suscéptis: et ad te nostras étiam rebélles compélle propítius voluntátes. [Dalle nostre oblazioni, o Signore, Te ne preghiamo, sii placato: e, propizio, attira a Te le nostre ribelli volontà.]

Communio

Ps XVII:3 Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus: Deus meus, adjútor meus. [Il Signore è la mia forza, il mio rifugio, il mio liberatore: mio Dio, mio aiuto.]

Postcommunio

Orémus. Mystéria nos, Dómine, quæsumus, sumpta puríficent: et suo múnere tueántur. Per … [Ci purifichino, o Signore, Te ne preghiamo, i misteri che abbiamo ricevuti e ci difendano con loro efficacia.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.

Un commento su “IV DOMENICA dopo PENTECOSTE”

I commenti sono chiusi