11 MAGGIO: SANTI FILIPPO E GIACOMO APOSTOLI

S. FILIPPO APOSTOLO

Otto Hophan: GLI APOSTOLI- Marietti ed. TORINO, 1951. N. H.

Nei cataloghi apostolici degli Evangelisti Matteo e Luca l’Apostolo Filippo viene subito dopo Giovanni. Giovanni e Filippo! Due nomi, due uomini, due… mondi! Su queste pagine irraggiano ancora le luci dell’eternità, che Giovanni ha fissate in alto col suo Vangelo e con la Apocalisse. Egli ha scrutato il divino Mistero più profondamente d’ogni altro fra i Dodici: In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Iddio, e il Verbo era Iddio… »’; a ragione gli fu assegnato come simbolo l’aquila. Filippo, che gli vien vicino nel posto seguente, non ha per simbolo un’aquila; un’aquila accanto a lui piuttosto disturberebbe; poiché questo Apostolo è un’indole calma, obiettiva, quasi prosaica; è intento alle realtà palpabili e sensibili della vita; non è né poeta né mistico e in occasione di cerimonie appare maldestro e impacciato. Il Signore costituì il suo Collegio apostolico sapientemente, e come allora anche oggi…! Egli non vuole soltanto dei Giovanni, ma anche dei Filippo; Filippo etimologicamente significa « amico dei cavalli »; e in realtà il regno di Dio sulla terra non ha bisogno solamente di « aquile », ma anche di « cavalli » che tirino i carri scricchiolanti. In un antico scritto, che ci è stato trasmesso sotto il nome di Ippolito (1- 235), dal titolo « Intorno alla fede », gli Apostoli vengono chiamati collettivamente « cavalli di Dio », « poiché questi cavalli hanno tuonato il mistero della salvezza, portando la parola al buon Cavaliere e compiendo il corso della verità ». È strano che gli Atti apocrifi attribuiscano a Filippo dei tratti, che appartengono invece a Giovanni; egli, ad esempio, avrebbe invocato il fuoco dal cielo sugli abitanti increduli della città di Gerapoli, cosa che, calmo com’era per natura, non ha fatto sicuramente lui, ma il violento Giovanni, secondo l’esplicita testimonianza del Vangelo. Gli è pure attribuita la lotta contro l’eresia degli Ebioniti sulla fine del primo secolo cristiano, sebbene anche questa sia stata condotta da Giovanni. Questo scambio di Filippo con Giovanni ha certo il suo fondamento nell’antica tradizione, secondo la quale tutti e due sarebbero stati Apostoli dell’Asia Minore.

POSIZIONE

I primi tre Vangeli ci danno di Filippo esclusivamente il nome; non vi leggiamo nessun’altra notizia. Questo nome è in tutti i quattro cataloghi fisso sempre al quinto posto; tale collocamento ha il suo significato. Filippo non appartiene più al primo gruppo, che seguiva più da vicino il Signore; però viene immediatamente dopo di esso; questo quinto posto nel Collegio dei Dodici gli è assegnato già dalla storia della sua vocazione. Filippo è dunque il capo del secondo gruppo, che risulta inoltre di Bartolomeo, Matteo e Tommaso. Non ci è possibile accertare quali fossero i compiti specifici assegnati ai tre gruppi diversi di Apostoli e ai loro capi durante l’attività pubblica del Signore; il testo di Giovanni VI, 5, di cui dovremo dire presto, come pure la specializzazione di Matteo, ch’era stato precedentemente esattore e uomo di calcolo, potrebbero indurci a pensare che al secondo gruppo era stato commesso soprattutto l’incarico del settore organizzativo ed economico. Circa la condizione familiare dell’Apostolo Filippo, abbiamo delle notizie da una lettera del Vescovo Policrate di Efeso, scritta al Papa Vittore verso l’anno 190: egli sarebbe stato sposato ed avrebbe avuto tre figlie, delle quali due sarebbero morte vergini e martiri, la terza sarebbe stata sepolta a Efeso. Anche l’antico Papia, Vescovo di Gerapoli verso il 130, fa menzione di queste tre figlie, ch’egli avrebbe conosciuto personalmente. Ma qui forse ci troviamo di nuovo dinanzi a uno scambio dell’apostolo Filippo col diacono Filippo; di quest’ultimo si fa parola ripetutamente negli Atti degli Apostoli; egli è detto pure « evangelista », titolo che, secondo la terminologia della Chiesa del tempo, significava un predicatore del Vangelo, che vagava da un luogo ad un altro; e aveva « quattro figlie non maritate, che possedevano il dono della profezia ». Non è dunque difficile che in un’epoca posteriore si siano attribuite all’Apostolo Filippo le figlie del diacono; è vero che per l’Apostolo se ne ricordano solo tre, mentre il diacono ne aveva quattro; è certo però che le gesta riferite dagli Atti degli Apostoli riguardano non l’Apostolo ma il diacono Filippo. Quanto alle relazioni personali di Filippo, il Vangelo ci fa conoscere solo la sua patria: egli era di Bethsaida, villaggio di pescatori sulla riva nord-est o forse su quella occidentale del lago di Galilea. Da questo villaggio di nessuna importanza il Signore chiamò a Sè tre Apostoli; eppure un così singolare privilegio non lo preservò dalle saette dell’ira divina, ne accrebbe piuttosto la responsabilità: Gesù cominciò a indirizzare contro le città, nelle quali s’era compiuta la maggior parte dei suoi miracoli, parole di minaccia, perché non avevanO fatto penitenza: “Guai a te, Corozain! Guai a te, Bethsaida… Io vi dico: nel giorno del giudizio Tiro e Sidone saranno trattate con più indulgenza di voi! “». All’udire quella maledizione del Signore contro la sua terra forse pianse anche Filippo, sebbene freddo per natura. Il fatto ci avverte che la predilezione divina non esclude la riprovazione, qualora le proprie colpe l’abbiano meritata. Col ricordare la patria di Filippo, il Vangelo intende accennare pure ad un’altra relazione: « Filippo era oriundo di Bethsaida, patria di Andrea e di Pietro »; e in realtà gli intimi rapporti fra Filippo e Andrea sono messi in luce ripetutamente nelle pagine del Libro Santo; Ci è anzi lecito supporre che il primo messaggio di Gesù sia stato annunziato a Filippo dal nobile Andrea, suo conterraneo. Questi, nel suo zelo, aveva già guadagnato a Cristo il fratello Pietro; si volse poi a mettere sulla via del Signore anche l’amico suo Filippo; leggiamo infatti che « il giorno seguente Gesù volle andare in Galilea; ivi incontrò Filippo e gli disse: “SeguiMi” ». Ci sorprende il tono così preciso e piuttosto imperativo di questa chiamata; perché Filippo è il primo fra tutti, che si sente rivolgere un ordine così esplicito ed energico di seguire Cristo; non erano stati ancora chiamati neppure Giovanni e Andrea, ma avevano ricevuto solo un invito; doveva forse l’ordine così reciso troncare sull’istante ogni riflessione di Filippo, ch’era un po’ formalista? La pedagogia di Cristo tiene conto, con sapienza e benignità, della caratteristica di ciascuno dei suoi discepoli. La storia della vocazione ci fa vedere Filippo stretto da amicizia anche ad un altro Apostolo, a Natanaele-Bartolomeo. Potrà sembrare singolare che un Apostolo così freddo avesse due amici, uno, per così dire, a destra e uno a sinistra; ma l’esperienza ci insegna che appunto simili nature si vincolano a individui ricchi di sentimento, spintevi dall’intimo bisogno di supplire e completare la loro indole asciutta mediante l’amicizia. I cataloghi degli Apostoli dei tre Vangeli, come pure quello del Canone della Messa rendono onore a questa amicizia col ricordare sempre uniti Filippo e Bartolomeo. Ne conserva il ricordo anche la letteratura apocrifa: Bartolomeo accompagna Filippo nei suoi viaggi apostolici ed è accanto a lui anche nel suo martirio. Essendo amici, s’erano spesso comunicati quello che agitava i loro cuori; certamente, dunque, s’erano svelati l’intenso desiderio del Messia. E adesso era giunta l’ora, in cui l’uno poteva portare all’altro la notizia di Gesù. Fu veramente una grande ora dell’amicizia! Poiché Cristo Signore è il monte luminoso, cui deve tendere ogni profonda amicizia. « Filippo incontrò Natanaele » probabilmente alle porte di Cana, dove Bartolomeo abitava e dove il Signore stava per entrare, e gli disse: “Abbiam trovato Colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, il Figlio di Giuseppe, da Nazareth ” ». Quest’annunzio non è così zampillante dalla fonte come l’unica festiva proposizione di Andrea: « Abbiam trovato il Messia! »; sembra piuttosto da maestro di scuola, odora di libri. L’allegro Natanaele obietta maLiziosetto: « Da Nazareth? che può venire qualcosa di buono da Nazareth? »; Filippo non gli risponde con nessuna apologia di Gesù, vuole invece che l’amico si trovi di fronte al fatto, che ne faccia l’esperienza; e replica secco a Natanaele: « Vieni e vedi! ». E così ci è dato di conoscere l’Apostolo fino in fondo già in questo primo incontro con lui.

CARATTERISTICA

Il testo evangelico ora visto ci descrive già un aspetto della personalità di Filippo; ma l’Evangelista Giovanni ci ha trasmesso di lui altre tre notizie, che in qualche modo facilitano un’idea del suo carattere; l’Evangelista con questo intese certamente usare un’attenzione alle comunità dell’Asia Minore, che erano legate in modo particolare all’apostolo Filippo, perché era stato uno dei loro padri nella fede. La prima di queste notizie ricorre nel racconto della moltiplicazione miracolosa dei pani. La situazione era disperata: « Gesù vide venire a Sé la folla immensa di popolo, cinque mila uomini, non contate donne e fanciulli », con negli occhi il muto grido della fame; « allora Gesù disse a Filippo: “Dove compreremo pane perché questa gente possa mangiare? ». Un leggero sorriso dovette sfiorare il volto del Signore mentre faceva questa domanda, perché Egli non abbisognava dei consigli di Filippo; ma era opportuno che l’impossibilità della refezione di cinque mila persone fosse accertata da quell’Apostolo obiettivo e freddo; col rivolgersi a lui, Gesù mirava anche a risvegliare nel suo animo un timido presentimento dell’azione divina imminente: « Gesù disse questo per metterlo alla prova, poiché Egli sapeva che cosa voleva fare»; ma Filippo non percepì, nell’interrogazione del Maestro, l’intenzione delicata che vi si nascondeva; il sentire e il presagire non è il suo forte. È bravo invece nei calcoli: un’occhiata sola e ha già indovinato che in quel frangente « pane per duecento denari non basta loro, anche se ciascuno ne ricevesse un pezzetto soltanto ». Duecento denari erano forse tutto quello, che conteneva la cassa apostolica portata da Giuda; corrispondevano press’a poco a 28.000 lire della nostra valuta, ma con un potere d’acquisto, ai nostri giorni, quattro o cinque volte tanto. A che scopo sborsare tutto quel denaro? Un bravo economo evita, nella sua saggezza, le spese inutili. Fatti questi calcoli, il caso appariva a Filippo senza speranze; non gli brillò in mente alcuna idea, nemmeno un minimo sospetto, che lo strappasse al suo gelido calcolare, così da balbettare, un po’ perplesso, ma con improvvisa e crescente festosità: Signore, se Tu, se Tu…!; egli fa i conti solo con la « realtà », non con i miracoli. La seconda notizia intorno a Filippo s’incontra nel Vangelo della Domenica delle Palme “. « Fra coloro, ch’erano ascesi, si trovavano anche alcuni greci. Questi si rivolsero a Filippo, ch’era oriundo di Bethsaida in Galilea, e lo pregarono: “Signore, vorremmo vedere Gesù!”. Non conosciamo il motivo, che persuase questi « Greci », dei gentili cioè timorati di Dio, a presentare il proprio desiderio precisamente a Filippo e non ad un altro Apostolo; poté essere il suo nome greco, oppure la sua patria, e il Vangelo sembra alludere a questo motivo, ma poté essere anche un semplice caso; comunque sia, essi non avevano fatto i conti col formalismo di Filippo. Pagani, che vogliono vedere Gesù… Una faccenda scabrosa! Non era stato dato da Gesù stesso l’ordine agli Apostoli: « Non mettetevi sulla via verso i pagani! »; non s’era Egli rifiutato, almeno da principio, di guarire la figlia della Cananea perch’era pagana? « Non è giusto prendere il pane ai figli del popolo eletto e gettarlo ai cagnolini! », e cioè ai pagani; Filippo insomma abbordò il caso con la tediosa esattezza, che s’accompagna quasi sempre con le indoli asciutte. Ma neppure così ne venne a capo; « allora Filippo andò e lo disse ad Andrea »; questi, più longanime e più deciso di lui, non rilevò nella richiesta dei pagani nessuna difficoltà: « Andrea e Filippo andarono e lo dissero a Gesù ». – Quest’indole dell’Apostolo, fredda e impacciata dinanzi alle grandi idee, affiorò un’ultima volta nella sala dell’ultima Cena. Le parole del Signore risuonavano per la sala come rumore d’acque eterne: « Io sono la via e la verità e la vita. Nessuno va al Padre se non per mezzo mio. Se voi Mi conosceste, conoscereste anche il Padre mio. Da questo momento Lo conoscete e L’avete già visto ». Gli ultimi discorsi del Signore nel Cenacolo sono le luci più radiose intorno a Dio, che mai siano state fissate sul cielo dell’umanità; si possono paragonare ai lampi: squarciano la notte e strappano l’impotenza dello spirito umano dinanzi al mistero di Dio. Nel bel mezzo dunque di tanta solennità ecco Filippo con un desiderio che fa davvero pena: « Signore, mostraci il Padre e… ci basta! ». Povero Filippo! Tutto rivolto a osservare e a calcolare, al mondo sensibile e palpabile, non ha afferrato per niente il senso sublime delle parole di Gesù; egli vorrebbe vedere il Padre, di Cui parla Gesù, in una apparizione visibile, come Lo videro Abramo, Giacobbe e Mosè, e « questo basta »; non c’è bisogno di molte altre cose invisibili e inafferrabili. Il Maestro, dinanzi all’incomprensione dell’ingenuo discepolo, rispose con un rimprovero mite, ma insieme soffuso del suo intimo dolore: « Son con voi da sì lungo tempo e tu, Filippo, non Mi conosci ancora? ». Nell’opera « Stromatels » (tappeti) dello scrittore ecclesiastico Clemente Alessandrino, che tanto lesse e viaggiò sulla fine del secondo secolo (m. 214), leggiamo una quarta parola, che avrebbe detta Filippo ed è conservata nel Vangelo. Clemente avrebbe saputo dall’antica tradizione ch’era Filippo quel discepolo, il quale, al momento della chiamata, aveva chiesto la licenza: « Signore, permetti che prima vada e seppellisca mio padre”. Gesù gli replicò: “SeguiMi e lascia i morti seppellire i loro morti” ». Quanto già di Filippo, tipo perplesso, che non scorge i vasti orizzonti a causa di quant’è vicino, ci persuade della intrinseca verosimiglianza della notizia di Clemente, e che quindi le parole surriferite siano state dette realmente dal nostro Apostolo. Gesù, cui è lecito presentare ad ogni uomo delle pretese inesorabili e indeclinabili, tolse il discepolo ad ogni considerazione col preciso comando: « SeguiMi! ». Con tutto questo però avremmo presentato il buon Apostolo Filippo solo come un praticone freddo, statistico e pedante, e il giudizio che ne seguirebbe sarebbe troppo severo; la sua fisonomia apostolica dunque dev’essere ancora molto lumeggiata; poiché, nonostante la sua indole fredda e pratica, egli possedeva pure dello slancio e del cuore e della profondità, ma questi pregi erano in lui quasi nascosti e riservati nel più intimo dell’essere e solo faticosamente erompevano, come una sorgente ostruita. Quanti individui alla « Filippo », che all’esterno sembrano privi di sentimento, soffrono penosamente per la loro indole, che li rende incapaci di tradurre facilmente all’esterno il loro buon fondo interiore! Già la prima parola di Filippo, anche se un po’ cerimoniosa, è percorsa da un’onda calda d’entusiasmo per Gesù: « Abbiam trovato Colui, del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti ». Anche in occasione della moltiplicazione dei pani e dell’incontro con i Greci affiora una reale sollecitudine e non semplice calcolo; nella sua risposta, apparentemente solo oggettiva, tutti devono rilevare anche il dolente tono sottinteso: Pane per duecento denari non è sufficiente, anche se ciascuno dovesse riceverne un pezzetto »; egli non respinse i Greci né fece loro sperare d’essere ascoltati in altro tempo, sebbene la loro spinosa richiesta gli creasse degli impicci; procedette sì con ogni formalità, ma è evidente che gli stava pure a cuore che quei desiderosi « vedessero Gesù ». Filippo è un Apostolo freddo, nasconde però il sentimento più di quello che non si creda; quando si tratta di parole sovrabbondanti è veramente impacciato; ma l’amore dei fatti concreti è incomparabilmente più prezioso che la profusione di parole buone, con le quali parecchi tentano di riscattarsi dall’azione; e invece: « Figlioletti, non amiamo soltanto con le parole e la lingua, ma con i fatti e in verità »; non v’è dubbio che l’amore perfetto si ha solo quando un medesimo caldo palpito dà vita alle opere e alle parole, come era nel Signore, che si mostrava compassionevole verso le folle anche con sentimenti e parole, ma non si arrestava lì, bensì compiva i miracoli dell’amore. – La profondità di Filippo si rivelò nel modo più bello precisamente in quella espressione, che apparentemente fu la sua parola più ingenua: « Signore, mostraci il Padre! ». A ragione osserva il Bossuet : « Mai forse in tutto il Vangelo fu presentata un’esigenza più sublime e… più ardita di questa »; di fatto essa domanda l’ultima cosa, la cosa centrale: il mistero del Padre e del Figlio. Si direbbe quasi che Filippo, così proclive alle realtà palpabili e visibili della vita, sentiva l’insufficienza e l’incapacità del proprio essere e, stimolato dalla sua insoddisfazione, sospirò le profondità di Dio; giacché quanto più uno deve occuparsi di « denari » e di « pani » e di « pagani », tanto più sente pure il bisogno di radicarsi nei divini misteri. E il Signore, che non educò col metro o secondo un unico schema ciascuno dei suoi Apostoli, bensì adattandosi al suo temperamento, proprio Filippo guidò dalle strettezze del suo senno pratico agli ampi orizzonti e alle profondità di Dio. In occasione della richiesta dei Greci, il Maestro aveva già prospettato, nei riguardi del mistero della redenzione, una visione ricca di sublime e profonda verità: « Se il grano di frumento non cade a terra e muore, resta solo; ma se muore, porta molto frutto »; nella sala della Cena, accondiscendendo alle pretese di Filippo, Egli lo condusse sino alle vette della Trinità: « Chi ha visto Me, ha visto pure il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre!”? Non credi ch’lo sia  nel Padre ed il Padre in Me? » E Gesù già su questa terra, nella sua apparizione sensibile, è come la trasparenza del Padre; fin da quaggiù risplende nel suo dire e nel suo operare il Padre; perché dunque Filippo richiede un’apparizione del Padre? Gesù stesso è il riflesso di Lui, la sua apparizione più stupenda. Questa parola, rivolta dal Signore a Filippo, così solenne e pregna di senso, ci conduce ancor più in alto, fin dentro a quell’intimissimo mistero della Trinità, che la teologia greca chiama « perichóresis », circolazione cioè e più letteralmente « girare vicendevole! ». Iddio Padre e Iddio Figlio e Iddio Spirito Santo non sono affatto diverse nature, ma posseggono insieme la medesima divina natura; sono quindi insieme, « l’Uno nell’Altro », il Padre nel Figlio e il Figlio nel Padre; una Persona non può vivere fuori dell’altra; quest’inabitazione però dell’una nell’altra delle tre divine Persone non è un’esistenza immota, ma un giubilante movimento circolare, un eterno procedere e un eterno ritornare alla sorgente; « ognuna delle tre divine Persone è pure a suo modo un punto centrale e focale, al quale le altre due hanno relazione e nel quale si congiungono insieme ». Il Signore condusse Filippo a tali profondità della Divinità, precisamente Filippo! Solo l’Evangelista Giovanni ci ha tramandato in iscritto la parola provocata da Filippo. Filippo non è come Giovanni l’Apostolo con l’aquila, ha però l’anelito di elevarsi come l’aquila. Benedetto ogni Filippo, che anela all’aquila! Anche a lui saranno dette parole di lassù, proprie della vetta, ed esse realmente gli « basteranno ».

ATTIVITÀ

Circa l’opera e la morte dell’Apostolo Filippo, la Sacra Scrittura ci lascia nell’oscurità completa; così si spiega il sorgere dei così detti « Atti di Filippo » sullo scorcio del quarto secolo, compilazione non autentica, conservata in diversi frammenti e anche in diverse recensioni, che riferisce del nostro Apostolo ogni sorta di miracoli e di stranezze. Egli avrebbe predicato Gesù Cristo, ad esempio, in Atene, alla presenza di trecento filosofi greci, che bramavano di sentire delle novità; ci accorgiamo però subito della dipendenza di questa informazione dal discorso dell’apostolo Paolo all’areopago, come è riferito negli Atti degli Apostoli. Filippo sarebbe pervenuto, con un viaggio miracoloso, a Cartagine, che è paragonata alla città di « Azoto », dove, dopo il battesimo dell’eunuco, fu trasportato il diacono Filippo; avrebbe anzi annunziato il lieto messaggio persino ai Galli; s’intendono probabilmente i « Galati », che abitavano presso la Frigia, dove Filippo ha certo faticato. Anche la principale attività dell’Apostolo nella Scizia e nella Frigia e soprattutto la sua morte sono descritte in quest’opera drammaticamente e concedendo assai alla malsana tendenza di voler risvegliare nei lettori le pie sensazioni. Queste favole non rivendicano nessun valore storico, che anzi questi « Atti di Filippo », insieme con altri libri, furono espressamente proibiti da Un decreto del Papa Gelasio (492-496). Secondo il Breviario romano, Filippo lavorò nella Scizia e nella Frigia. Queste notizie s’appoggiano ad antiche tradizioni. La Scizia, sulla costa settentrionale del Mar Nero, l’odierna Ucraina meridionale, dovette essere il teatro dell’operosità missionaria di questo Apostolo per vent’anni; il nome però di questa regione, come terra di missione, ci obbliga a ricordare le riserve avanzate già per l’Apostolo Andrea, col quale Filippo dovette ivi prodigare le sue cure pastorali. Il suo zelo avrebbe preso di mira il culto di Marte che di fatto, secondo la testimonianza della storia, nella Scizia era in casa sua. La Frigia, secondo campo delle sue missioni, aveva per capitale la ricca e celebre Gerapoli; anche la lettera del Vescovo Policrate di Efeso a Papa Vittore, che sopra è stata ricordata, afferma che Filippo lavorò a Gerapoli ed ivi anche morì; pure un’antica iscrizione, scoperta nella necropoli di Gerapoli, ha un accenno a una chiesa consacrata dall’Apostolo Filippo. Vicine alla capitale erano le due città di Colossi e Laodicea, tutte e due ricordate negli scritti del Nuovo Testamento, Laodicea nell’Apocalisse di Giovanni, e Colossi nella lettera, di cui l’onorò l’Apostolo delle genti, Paolo. Giovanni, Paolo, Filippo! Come furono vicine le loro vie apostoliche in queste terre! Ci assale un profondo senso di mestizia quando pensiamo che queste regioni, nelle quali faticarono i primi cinque fra gli Apostoli — ivi infatti sudarono pure Pietro e Andrea —, sono oggi strappate a Cristo. Gli apocrifi, nel riferire dell’attività apostolica di Filippo, tornano con sorprendente frequenza e parecchie varianti alla descrizione della sua lotta con i serpenti o dragoni. Il cultO dei serpenti in quelle regioni risponde a verità storica; anche a Gerapoli il serpente fu custodito come animale sacro nel tempio della dea Cibele e fu onorato con le libazioni. Spieghiamo così perché l’arte di solito rappresenta l’apostolo Filippo impegnato nella lotta contro il dragone; la sua statua al Laterano annunzia la vittoria dell’Apostolo sulla potenza del dragone contorcentesi in virtù della croce. La Croce è così pesante, che schiaccerà sempre il dragone! Fu una singolare coincidenza quella dell’8 maggio 1945, lo storico giorno dell’armistizio: esso segnava il crollo d’un regime sbucato dall’inferno, e proprio in quel giorno la Liturgia, che onorava San Michele, patrono del popolo tedesco, annunziava: « Quando il dragone mosse guerra, Michele combatté contro di lui e riportò vittoria. Alleluia ». – Secondo lo scritto gnostico del terzo secolo « Pistis Sophia », sarebbe esistito anche un « vangelo di Filippo », contenente le rivelazioni del Risorto; ma la Scrittura canonica del Nuovo Testamento non ne sa nulla; tale « vangelo secondo Filippo » dev’essere una falsificazione dei tempi posteriori. Come l’opera di questo Apostolo, così è avvolta nell’oscurità anche la sua morte. Clemente di Alessandria afferma che Filippo, come pure gli apostoli Matteo e Tommaso, morì di morte naturale, mentre altri, e in realtà più numerosi, parlano di martirio. Secondo questi ultimi, Filippo sarebbe stato crocefisso a Gerapoli col capo all’ingiù come Pietro, al tempo dell’imperatore Domiziano o addirittura, secondo qualcuno, sotto l’imperatore Traiano (98-117), all’età di 87 anni. Singolare disposizione! Tutti e tre gli Apostoli oriundi dalla cara e… esecrata Bethsaida morirono in croce! Quanto dev’essere preziosa la croce dinanzi agli occhi del Signore, se Egli ne fa regalo ai suoi primi Apostoli! Sembra che le reliquie di Filippo siano state trasportate a Roma, dove sarebbero state composte, insieme con quelle dell’apostolo Giacomo Minore, nella chiesa dei Dodici Apostoli. Questo sarebbe pure il motivo, per cui la Chiesa latina festeggia insieme i due Apostoli; perché poi ne celebri la festa proprio il primo giorno di maggio (oggi trasportata all’11 maggio), non si saprebbe dire, se non fosse per una sottile ironia; giacché né Filippo né Giacomo Minore sono poeti e cantori della primavera, inclini com’erano piuttosto alla prosa della vita; la loro festa invece secondo la tradizione greca cade il 14 novembre. Negli «Atti di Filippo » apocrifi si legge una lunga e ridondante preghiera per la buona morte, ch’egli avrebbe recitata prima di subire il martirio; fu rielaborata da mano cattolica, ma è ancora riconoscibile la sua origine gnostica: « Cristo, Padre degli Eoni, Re della luce, Tu nella tua sapienza ci hai istruito e ci hai elargito il tuo intendimento; Tu ci hai regalato il consiglio della tua bontà; Tu non ti sei mai allontanato da noi; ci hai concesso la tua presenza della sapienza. Adesso, o Gesù, vieni, e dammi l’eterna corona della vittoria sopra tutte le forze e le potenze nemiche. La loro atmosfera tenebrosa non mi avvolga, affinché io mi apra la via attraverso i torrenti di fuoco e l’abisso tutto! Mio Signore Gesù Cristo, che il nemico non abbia modo di accusarmi dinanzi al tuo tribunale, ma rivestimi della tua veste splendente, del tuo suggello luminoso e in ogni tempo radioso, finché io passi dinanzi a tutti i dominatori del mondo e al dragone maligno, che a noi si oppone! Adesso, dunque, mio Signore Gesù Cristo, fammi incontrare Te nell’aria…! Trasforma la figura del mio corpo nella gloria degli Angeli e fammi riposare nella tua beatitudine, e ch’io riceva quello, che Tu hai promesso ai tuoi santi per l’eternità ». – Molto più semplice e… più profonda è la preghiera, che Filippo effuse veramente nel Vangelo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta! »; nel momento del martirio, dinanzi al portale dell’eternità, che gli si apriva, egli dovette ripetere desioso lo stesso grido. L’anelito più intimo d’ogni creatura umana va al Padre, all’ultimo principio di ogni essere; le tante cose di quaggiù — « denari », « pani » e anche « cinque mila uomini » — non bastano; solo Iddio basta! O santo Apostolo Filippo, vieni in nostro aiuto, perché possiamo giungere a quest’unico e a questo eterno Sufficiente!

SAN GIACOMO APOSTOLO MINORE

In tutti e quattro i cataloghi degli Apostoli Giacomo Minore occupa il nono posto; è dunque nel Collegio apostolico in testa a un nuovo e terzo gruppo, al gruppo dei cugini e del… , traditore di Gesù. Marco lo chiama « Minore » per distinguerlo dall’altro apostolo di nome Giacomo, il figlio di Zebedeo e fratello dì Giovanni; probabilmente era minore per età, forse era anche più piccolo di statura — « minor » può significare tutte e due le cose — rispetto a « Jakobus maior », ch’era il più anziano e il più alto dei due; vedremo se a questo «minor = più Piccolo » competa anche un significato simbolico. Con gli uomini di quest’ultimo gruppo non ci si presentano solo dei nuovi visi, ma s’inserisce nella serie dei Dodici una nuova categoria; noi siamo abituati a chiamare gli Apostoli i « poveri pescatori di Galilea », indistintamente; di fatto però il gruppo degli uomini, che stanno intorno a Gesù, è più vario e più ricco non solo per i caratteri, ma anche per la professione e per la posizione sociale dei singoli, come del resto le trattazioni viste finora possono aver dimostrato; con questo terzo gruppo ottengono un posto ed hanno voce in quel venerando Consesso del mondo anche i contadini: Giacomo, Giuda e Simone pure erano rappresentanti dell’agricoltura. Il Vangelo veramente non ci dà diritto di tirare una simile conclusione, perché appunto di questi tre parenti di Gesù non ci dice una sillaba, fatta eccezione del loro nome; solo di Giuda Taddeo abbiamo una breve espressione conservataci da Giovanni; in compenso però Giacomo e Giuda Taddeo hanno lasciato dietro di sé due lettere, che fanno parte della Scrittura del Nuovo Testamento e almeno indirettamente rivelano parecchio anche dei loro autori. In queste lettere infatti, quasi come sulle vesti di Esaù, è diffuso il profumo dei campi in fiore, l’aroma della zolla fumante e vi posa sopra la luccicante rugiada del cielo. La tinta campagnuola e pittoresca di queste lettere designa quali autori dei contadini; nessun pescatore e nessun esattore e nemmeno un erudito, ma solo un campagnuolo, ch’è familiare alla natura e alle sue cure, scrive frasi come le seguenti: « Il sole si leva col suo ardore e brucia l’erba; la sua fioritura avvizzisce e il suo bell’aspetto svanisce… Chi non manca nel parlare, è un uomo perfetto, ch’è in grado di frenarsi completamente. Noi — noi! — mettiamo la briglia in bocca ai cavalli, perché ci obbediscano; così conduciamo l’intero animale… Perseverate in pazienza, o fratelli, sino all’avvento del Signore. Ecco, il contadino aspetta il prezioso frutto della terra e persevera in pazienza, finché abbia ottenuto la pioggia temporanea e serotina ». – L’ipotesi suggerita da simili espressioni trova la sua conferma in un documento storico di Egesippo, della metà del secondo secolo, che ci è stato conservato dallo scrittore ecclesiastico Eusebio; secondo questo documento, l’imperatore Domiziano (81-96) fece venire a Roma due nipoti dell’Apostolo e fratello del Signore Giuda Taddeo, loro nonno, e pronipoti dell’Apostolo e fratello del Signore Giacomo Minore, loro prozio, perché sospetti d’alto tradimento; sottoposti ad interrogatorio, essi esposero all’imperatore il loro modesto patrimonio fondiario, costituito da 39 plethren — un plethron equivaleva a 0,095 di ettaro — di terreno arativo e gli fecero vedere le loro mani callose; dopo di che quel Domiziano, che li aveva ritenuti come pericolosi parenti di Gesù di Nazareth, li rilasciò senza preoccupazioni, perché  se ne tornassero in patria; se ora ricordiamo che, secondo la successione semitica, i beni di famiglia rimanevano quasi immutati alla stirpe, troveremo molto verosimile che su quei 39 plethren di terreno arativo si fossero già affaticati, mangiando il pane nel sudore della propria fronte, il nonno Giuda Taddeo e i suoi fratelli Giacomo e Simone. Il Signore, dunque, ha chiamato anzitutto dei pescatori e dei contadini per farne degli Apostoli, e questo quanto è significativo! Tutti e due, il pescatore e il contadino, si sono abituati a duro lavoro e ad ancor più dura pazienza, giacché né l’uno né l’altro può strappare a forza un nonnulla; a tutti e due dev’esser dato; quale scuola preparatoria all’apostolato! Il contadino però, a differenza del pescatore, ha sotto i suoi piedi un suolo solido, non fluido; rispetto quindi al pescatore è meno arrendevole e anche meno capace di adattamento; è invece lento, cauto e tenacemente attaccato alla tradizione. Il contegno rigidamente conservativo di Giacomo Minore in parte va certamente spiegato con la sua professione.

FRATELLO DEL SIGNORE

Perché si distingua da Giacomo Maggiore, il figlio di Zebedeo, Giacomo Minore è detto in tutti e quattro i cataloghi degli Apostoli « figlio di Alfeo ». Egesippo chiama questo Alfeo anche Klopas, Kleophas; si tratta forse di un secondo nome o anche semplicemente di una diversa pronuncia dello stesso nome Alfeo. Questa notizia d’un Alfeo, chiamato anche Kleophas, ha un appoggio anche nel Vangelo. Gli evangelisti infatti Marco e Giovanni nominano alcune delle pie donne, che perseveravano presso la croce di Gesù, e fra loro Marco ricorda una « Maria, la madre di Giacomo Minore », mentre Giovanni ricorda una « Maria, ch’era sorella della madre di Gesù, la moglie di Kleophas »; queste due Marie, accuratamente determinate per mezzo del figlio da Marco e da Giovanni per mezzo del marito, sono molto probabilmente la medesima donna; se così, Kleophas è da identificare con Alfeo, poichè Giacomo Minore era figlio d’un Alfeo. Per questo Alfeo-Kleophas non abbiamo a nostra disposizione notizie bibliche; parecchi vedono in lui uno dei discepoli di Emmaus, che in realtà portava il nome di Kleophas; Egesippo direbbe ch’egli era fratello di San Giuseppe, il padre nutrizio del Signore; già da questo lato avremmo un certo rapporto di parentela del nostro Giacomo con Gesù. – Maria, madre di Giacomo e moglie di Cleofa, da Giovanni è detta espressamente « sorella di sua madre » (della madre di Gesù); forse era una sorella corporale di Maria, Madre di Dio, sebbene in questa ipotesi ne seguirebbe la difficoltà che si trovassero nella stessa famiglia due sorelle col medesimo nome di Maria; oppure era una cugina della Madonna o almeno cognata di Lei attraverso suo marito Cleofa; in ogni caso, era una parente. Le relazioni di parentela di questa nobil donna con la Madre di Gesù ebbero la loro espressione nella cordiale partecipazione alla vita e alla passione del Signore. Nella relazione di quanto avvenne sul Calvario, Matteo la esalta, perché come l’altra madre di Apostoli, la madre dei figli di Zebedeo, Salome, ella « aveva seguito Gesù fin dalla Galilea per prestarGli servizio ». Stette con le altre buone donne accanto alla croce e prese fra le sue le mani della sua povera e sublime sorella per persuaderla che non era affatto sola, anche se in quel momento il suo Figlio e il suo tutto moriva; con Maria Maddalena, ella fu l’ultima, la sera del Venerdì Santo, ad allontanarsi dal sepolcro e fu anche la prima, all’alba del dì di Pasqua, a stare presso il sepolcro, portando i doni dell’amore, gli aromi e gli unguenti per la salma. Ebbe per questo, insieme alle altre donne, la felicità del primo Alleluia e fu anzi ritenuta degna d’una cara apparizione dello stesso Risorto, dopo la quale si affrettò a portare il lieto messaggio agli Apostoli. Anche Giacomo Minore dunque ebbe veramente un’ottima madre, una seguace del Signore, che Gli rimase fedele sino alla croce; può essere che anche lui, come la maggior parte degli apostoli di tutti i tempi, sia stato preparato per Gesù da sua madre e che la pia donna stessa considerasse una felicità della sua vita, se Gesù avesse accettato da lei il suo Giacomo. – Nella Scrittura del Nuovo Testamento si fa parola ripetutamente anche di fratelli di Giacomo; Marco, ad esempio, nella relazione del Venerdì Santo e del giorno di Pasqua, chiama sua madre una volta « la madre di Giacomo Minore e di Giuseppe », un’altra volta solo « la madre di Giuseppe », la terza volta soltanto « la madre di Giacomo ». Anche Giuda nella sua lettera si presenta come « fratello di Giacomo » e in rapporti di parentela con lui è messo pure nei cataloghi degli Apostoli di Luca. Questi medesimi nomi: Giacomo, Giuda e Giuseppe, ai quali s’unisce ancora quello di Simone, s’incontrano come fratelli già nel Vangelo, dove compaiono specialmente come « fratelli di Gesù »; vi leggiamo infatti che i Nazzareni, sorpresi dinanzi alle grandi opere di Gesù, si domandano indignati e stupiti: « Donde può Egli aver tutto questo… Non è il falegname, il figlio di Maria e il fratello di Giacomo, Giuseppe, Giuda e Simone? ». A questo punto sorge spontanea la questione circa il senso dell’espressione «fratelli di Gesù » nel testo citato e anche in altri del Vangelo; dobbiamo pure toccarne una seconda: se Giacomo, fratello di Gesù, sia la stessa persona dell’Apostolo Giacomo Minore, il figlio di Alfeo, questione per la quale s’è versato tanto inchiostro. Noi sappiamo già dalla fede che, quando nel Vangelo si fa ripetutamente menzione di « fratelli di Gesù », questi non si devono intendere fratelli e sorelle corporali di Lui, ma suoi parenti in grado più lontano. Nel Vangelo stesso infatti è ben manifesto il sublime proposito di Maria « di non conoscere uomo »; ora questa frase fu difesa dalla Chiesa, sin dalle epoche più remote, come una perla preziosa a prova della perpetua verginità della Madonna; d’altra parte l’espressione « fratelli di Gesù » non ci costringe in nessun modo a ritenerli fratelli e sorelle corporali, poiché il termine « fratello » nella lingua dell’antico e nuovo Oriente è ambiguo, come, ad esempio, presso di noi il vocabolo « cugino »; quel termine designa non solo fratelli e sorelle in senso stretto, ma anche in senso largo, come nipote, cognato, cugino e talora indica persino rapporti di amicizia e comunanza fra popoli; si può quindi concludere a fratelli corporali solo quando siano notificati anche i nomi dei genitori. Si noti inoltre che i « fratelli di Gesù » non sono mai chiamati figli di Maria, i Nazzareni invece dicono, sottolineando, « Gesù, il figlio di Maria » ed in quello stesso testo, dove enumerano i suoi « fratelli ». Nella ipotesi di veri fratelli, sarebbe ancor più inesplicabile la preghiera, che il Signore rivolse dalla croce a Giovanni: « Ecco tua madre! » e il conforto dato a Maria: « Donna, ecco tuo figlio! »; non disse: un figlio!, ma: tuo figlio! Se la Vergine avesse avuto altri figli, il Signore non avrebbe affidata a Giovanni la cura di sua Madre, che rimaneva sola; gli altri figli avrebbero dovuto prendersi cura di lei in forza della Legge. E in fine possiamo provare che l’espressione « fratello di Gesù » non solo può significare « cugino », ma deve avere questo senso, arguendo proprio dal fratello di Gesù Giacomo; con una probabilità infatti, che si può dire certezza, si dimostra ch’egli si identifica con Giacomo l’Apostolo. Nel capitolo d’introduzione agli Atti degli Apostoli Luca enumera solo due Giacomo, non tre: Giacomo, il figlio di Zebedeo, e Giacomo, il figlio di Alfeo; nel capitolo decimosecondo riferisce la morte di Giacomo Maggiore; in quelli che seguono scrive ancora d’un Giacomo, ma senza alcuna aggiunta, che lo distingua da altri dello stesso nome; eppure balza evidente dai testi che doveva trattarsi d’una personalità molto stimata, d’una autorità anzi posta a guida della chiesa di Gerusalemme; se in essa Luca avesse scorto un terzo Giacomo, fratello del Signore, diverso dall’Apostolo Giacomo Minore, ce lo avrebbe fatto capire certamente in qualche modo, lui, l’Evangelista della precisione. Alla stessa conclusione ci conduce un’espressione della lettera ai Galati. Paolo scrive della sua prima visita, dopo la conversione, a Gerusalemme, ove rimase presso l’Apostolo Pietro, e poi continua: « Ma non vidi nessun altro Apostolo, a eccezione — in greco: ei’ mé — di Giacomo, il fratello del Signore »; Paolo, dunque, annovera il fratello del Signore Giacomo fra gli Apostoli; l’interpretazione ovvia, evidentissima del testo è questa, ogni altra sarebbe artificiosa, e tanto più, perché a Paolo, col testo addotto, importava dimostrare alla comunità di Galazia, che non aveva in lui troppa fiducia, la sua comunione con gli Apostoli più anziani. Infine, non si potrebbe in nessun modo spiegare il posto di direzione, che nella Chiesa apostolica occupava il fratello del Signore Giacomo, se egli non fosse stato uno dei Dodici; gli autori stessi, che non vogliono riconoscere l’identificazione del fratello del Signore con l’Apostolo, sono costretti ad ammettere che il primo, « anche se, dopo la morte del figlio di Zebedeo, non fu accolto dagli altri Apostoli nel loro Collegio, tenne tuttavia un posto uguale all’apostolico ». Anche secondo il « Vangelo degli Ebrei », che risale al primo secolo, Giacomo, fratello del Signore, partecipa all’ultima Cena; è considerato quindi come uno dei Dodici. Provata così la identificazione del fratello del Signore con l’Apostolo dello stesso nome, resta pure dimostrato inequivocabilmente che egli era figlio di Alfeo e di Maria, sorella della Madre di Gesù; è dunque la Bibbia stessa a provarci che Giacomo, il « fratello » di Gesù, non era figlio della Madre di Dio, Maria, e neppure un figlio di Giuseppe da un precedente matrimonio, come vorrebbe una leggenda, che si conserva nel così detto « Protoevangelo dell’apostolo Giacomo »; era invece figlio di parenti loro, della « sorella » cioè della Madre di Gesù e del fratello del padre nutrizio Giuseppe, La Chiesa greca fa distinzione ancor oggi fra il fratello di Gesù e l’Apostolo Giacomo, celebrando la festa del primo il 25 ottobre e quella dell’Apostolo il 9 dello stesso mese; le testimonianze però della tradizione, cui essa s’appoggia, non hanno valore, mentre la sentenza contraria è sostenuta già da Clemente Alessandrino, Origene e specialmente da Girolamo. Nel corso del Vangelo « i fratelli di Gesù » prendono spesso, nei suoi riguardi, un proprio atteggiamento, ch’è in contrasto con quello degli altri Apostoli. Ecco, per esempio, come scrive Marco: « Vennero sua Madre e i suoi fratelli. Si fermarono fuori e Lo fecero chiamare… Egli rispose: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?”. Guardò allora a coloro, che sedevano a Lui dintorno e disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Poiché chi fa la volontà di Dio, questi Mi è fratello, sorella e madre ». Anche più tardi, nel cuore della vita pubblica. Giovanni può riferire ancora: « Neppure i suoi fratelli credevano in Lui ». Non dimentichiamo però di avvertire qui che Gesù contava certamente altri « fratelli », oltre a quei due o tre, che aveva fatti Apostoli, perché, come abbiamo visto, « fratello » poteva essere detto ogni parente anche lontano; e nondimeno il Sacro Testo non vieta la supposizione che persino quelli dei suoi « fratelli », che aveva elevati alla sublimità dell’apostolato, incontrassero per la loro fede in Cristo particolari difficoltà. Come suoi cugini infatti, erano stati gli amici quotidiani della sua giovinezza, i compagni dei suoi giochi e dei suoi canti, se non erano seduti anche alla stessa mensa e avevano riposato nel medesimo giaciglio; secondo un’antica tradizione, la mamma loro Maria, la moglie di Cleofa, dopo la morte prematura di suo marito, s’era trasferita presso sua sorella, la Madre di Gesù, nella casa di Nazareth; erano dunque vissuti in troppo intimi contatti umani col loro Cugino, nel quale mai avevano avvertito, sebbene fosse educato e raccolto, nulla di straordinario. Quando furono con Lui nella vita pubblica, si rallegrarono della sua fortuna coll’ingenuo orgoglio d’una parentela povera, che aveva generato un grande; ma quanto a intelligenza della missione spirituale e anzi divina di Gesù, essi, e proprio perché « fratelli » di Lui, ebbero da percorrere un cammino più lungo che non gli altri Apostoli. In tutti e quattro i cataloghi essi stanno agli ultimi posti; ve li avrà confinati la delicatezza del Signore; ma è possibile che per questa assegnazione all’ultimo gruppo abbia contribuito pure la fede lenta e faticosa di questi suoi cugini; Pietro, il primo nella serie, fu primo anche nella fede. Nella sua prima lettera ai Corinti Paolo menziona una particolare apparizione, che il Signore nel tempo pasquale concesse a Giacomo; il «Vangelo degli Ebrei » dice persino d’un giuramento, che Giacomo fece dopo l’ultima Cena, di non mangiare più pane finché non avesse visto Gesù risorto; ebbe dunque bisogno d’uno speciale soccorso per rassodarsi nella fede, come Tommaso o anche più di lui, giacché non fu assente, come questi, quando il Signore accondiscese a manifestarsi a tutti gli Apostoli? Ci è lecito pensare che Giacomo giungesse alla felicità d’una fede completa in Gesù, anche come « Signore e Dio », soltanto in virtù dell’accennata apparizione, quando fu a quattr’occhi col suo « Fratello »; una relazione puramente esterna con Gesù, fosse pure fisica, non basta a creare dei veri ed intimi rapporti con Lui, talora anzi è piuttosto d’impedimento che di aiuto. Il sangue è meno — minor! — della grazia; solo chi si lega a Gesù con la fede e con l’amore Gli è veramente fratello, sorella e persino madre, come Maria, che era congiunta a Lui e per sangue e per amore.

VESCOVO DI GERUSALEMME

Giacomo Minore è paragonabile a una stella ascendente, che comincia a brillare solo quando le stelle precedenti sono tramontate. Nel Vangelo non compare mai in scena, nemmeno con una sola parola; altrettanto si dica dei primi dieci anni negli Atti degli Apostoli; sta improvvisamente nella luce della storia solo dopo l’uccisione di Giacomo Maggiore nel 42 e la fuga di Pietro da Gerusalemme verso « un altro luogo »; questi, nella notte agitata della sua liberazione, lasciò nella casa di Marco l’ordine: « Annunziate questo a Giacomo e agli altri fratelli ». Già questo particolare accento su Giacomo fa concludere a una sua eminente posizione nella chiesa madre di Gerusalemme; come una « colonna » della Chiesa lo ricorda anche Paolo. Lo scrittore di storia ecclesiastica Eusebio afferma espressamente che Giacomo fu il primo Vescovo della Città Santa, e questo fatto appare chiaramente anche negli Atti degli Apostoli; tutte le volte infatti che Paolo riferisce dei suoi viaggi in Gerusalemme, menziona anche Giacomo e una volta anzi come l’unico Apostolo presente, e sempre come reggente la Chiesa della capitale; ora questa presidenza era sicuramente il posto più importante della Chiesa apostolica, poiché Gerusalemme era davvero la città santa, nella quale aveva faticato e sofferto il Signore stesso, in essa era risuscitato e da essa era asceso al Cielo; era dunque il cuore del giovane Cristianesimo. Era riservato a Gerusalemme quell’onore, che, a causa della sua colpa, più tardi passò a Roma; stava scritto nell’antica profezia: « Da Gerusalemme uscirà la Legge e la parola del Signore »; e questa divina elezione e il regno di Dio indugiavano a trasferirsi dalla prediletta Gerusalemme ad altra terra anche al tempo di Giacomo, nonostante la città deicida avesse gridato il suo esecrando: « Tolle, tolle — sia tolto di mezzo! ». Il fatto, dunque, che il Signore stesso, secondo la sentenza del Grisostomo, o i compagni d’apostolato, secondo quella di Girolamo, abbiano affidato il governo di questa Chiesa regale al nostro Apostolo e non a Pietro o a Giovanni o ad Andrea, sta a dimostrare la grande considerazione, in cui egli era tenuto. La sua parentela col Signore e ancor più il suo zelo straordinario anche per la Legge antica lo fecero certo apparire ai suoi colleghi come l’elemento più adatto per coltivare, sul suolo pietroso dello stesso Giudaismo, il meraviglioso albero del Cristianesimo. Nella « Dottrina degli Apostoli », antico scritto sirìaco, la consacrazione cristiana della regione da parte di Giacomo è descritta in termini raramente così solenni: « Gerusalemme e tutti i dintorni della Palestina, i territori dei Samaritani e dei Filistei, la terra dell’Arabia e della Fenicia e il popolo di Cesarea ricevettero la consacrazione del sacerdozio dall’Apostolo Giacomo, il legislatore e la guida della Chiesa apostolica, fondata a Gerusalemme, sul Sion ». La dignità però della sede episcopale di Gerusalemme non ci deve far dimenticare il peso, che s’accompagnava ad essa; il posto di Giacomo era importantissimo, ma anche il più difficile in tutta la Chiesa apostolica. A Gerusalemme vivevano ancora gli uccisori del Signore e il loro odio continuava ad ardere né accennava a scemare; il fanatismo religioso, ch’è il più accanito fra tutti, li spinse a perseguitare anche gli Apostoli, ch’essi ritenevano traditori della fede avita, e tanto solo per amore d’un sospeso alla croce; solo il calmo e saggio consiglio di Gamaliele, aveva stornato dagli Apostoli la sorte del loro Maestro; frattanto la proibizione di predicare, che il Sinedrio aveva loro intimata, non era mai stata revocata e ad ogni ora poteva legittimare una nuova persecuzione sanguinosa. Stefano, il nobile diacono e il primo martire della Chiesa primitiva, fu per la comunità di Gerusalemme come un santo avviso, che ammoniva di tenersi preparati anche alla morte per amore di Cristo; la sua lapidazione fu di fatto il segnale « per una grande persecuzione della Chiesa in Gerusalemme » che, condotta da Saulo furibondo, arrecò a quella primitiva comunità tanto terrore e tanto dolore. Quanto l’ambiente fosse mal disposto nei riguardi della comunità cristiana, anche dieci anni dopo la risurrezione del Signore, lo prova pure la persecuzione mossa dal re Erode Agrippa I: « Per piacere ai Giudei » aveva fatto giustiziare Giacomo Maggiore e aveva decretata la medesima sorte per Pietro. Giacomo dunque, nella sua qualità di Vescovo di Gerusalemme, copriva un posto veramente penoso; soggiornava, come Daniele, nella fossa dei leoni, che lo potevano aggredire ogni momento. Leggiamo nel Martirio coptico dell’Apostolo ch’egli, al momento della spartizione del mondo, aveva chiesto i territori dei pagani; è una leggenda; è possibile però che, immerso in riflessioni su quella città, sulla quale il Signore aveva pianto, abbia spinto spesso lo sguardo verso le regioni lontane, dove i suoi compagni d’apostolato giravano riponendo nei granai del Padre messi più abbondanti di lui, fermo a Gerusalemme, in quella città del mattino e della… sera. – E tuttavia anche il suo compito fu sublime, il più rispettabile anzi di tutti gli altri, ché egli poté portare a Cristo le reliquie del popolo eletto, al quale Iddio aveva giurato le sue promesse. E quanto sia stato il suo successo, lo prova la parola semplice, che rivolse a Paolo: « Tu vedi, o fratello, quante migliaia di Giudei hanno creduto ». Ci chiediamo allora in qual modo poté raccogliere e riporre per Cristo una messe così consolante in quel campo, ch’era stato tanto gravemente battuto dalla grandine. Prescindiamo dalla grazia, che s’era riservata anche fra gli increduli Israeliti « sette mila uomini, che non piegarono il loro ginocchio dinanzi a Baal »; quelle sante reliquie furono conquistate da Giacomo stesso, dalla sua pietà e dal suo rispetto per il sentimento giudaico, che abbracciava anche il modo esterno di condursi. Tutte le relazioni antiche mettono in risalto il santo tenore di vita di Giacomo. «Dai tempi del Signore sino ai nostri giorni », scrive Egesippo nel quinto libro dei suoi « Memorabili », « egli fu detto da tutti “il Giusto”. Egli fu santo sin dal seno materno. Non bevette vino o altra bevanda inebriante né mangiò mai nulla di vivo. Sul suo capo non passarono le forbici, non si unse con olio né frequentò i pubblici bagni. A lui solo era concesso di entrare nel Santuario (del Tempio). Non indossò neppure panni di lana, bensì di lino. Per il lungo tempo passato ginocchioni, la pelle delle sue ginocchia divenne dura come quella d’un cammello. In considerazione di questa sua ricchezza di santità fu chiamato “il Giusto e il baluardo del popolo” ». Questa condotta ascetica — Giacomo fu certamente nazireo per tutta la vita, legato quindi a certi voti di astinenza —, che oltrepassava di gran lunga anche quella dei Farisei, dovette lasciare appunto nel popolo giudaico una forte impressione. – Ai tempi di Girolamo sopravviveva ancora (420) la tradizione che le folle dei Giudei si pigiassero intorno a Giacomo per toccare anche solo l’orlo della sua veste. Eusebio nella sua Storia Ecclesiastica adduce un passo dello storico ebreo Giuseppe Flavio, secondo il quale l’Apostolo sarebbe asceso, nell’opinione dei Giudei, a tale fama di santità, che essi nella distruzione di Gerusalemme ravvisarono una punizione di Dio per il supplizio, che pochi anni prima avevano inflitto a lui. Per quel popolo, così tenacemente attaccato ai suoi usi religiosi da giungere sino al ripudio del proprio Messia piuttosto che rinnegarli, non ci voleva un Apostolo da meno del nostro. In lui i Giudei videro, come in un modello vivente, che l’adesione a Cristo non era un tradimento, ma il compimento della fede dei padri. Nessuno stava in ginocchio nel Tempio più a lungo di Giacomo, che vi passava il giorno e la notte, come la profetessa Anna; nessuno era più di lui meticoloso in fatto di fedeltà alla Legge; la sua venerazione per l’Antico Patto si rivela ancor oggi nella sua lettera, che molti, sebbene a torto, dicono più del Vecchio che del Nuovo Testamento; rinvia infatti continuamente agli scritti e alla storia del popolo eletto. Egli quindi, così fedele alla Legge e rigido conservatore, fu come un ponte della Provvidenza e un’ultima grazia per Gerusalemme: riunendo in se stesso i due Testamenti, come un secondo Mosè, ebbe il compito di condurre il popolo dal Vecchio Testamento alla terra promessa del Nuovo; in questo sta il significato e la grandiosità dell’opera sua. Non dobbiamo nasconderci certo che questo accostamento di Vecchio e Nuovo Testamento, di Sinagoga e Chiesa in Giacomo doveva mettere sull’attenti: non ci sarà pericolo, per questa via, che il Vecchio soffochi il Nuovo Testamento? O riuscirà la Chiesa a svincolarsi da quell’attacco al Tempio? La storia delle prime sette cristiane, quali quella degli Ebioniti e dei Quartodecimani, sta a provare quanto poteva essere pericoloso l’affetto dei giudeocristiani per i loro usi religiosi. « Con vino nuovo si riempiono otri nuovi », e la Chiesa appartiene al mondo, e non solo alla sua culla nell’angolo della Palestina. Ma a questo scopo la Provvidenza di Dio si scelse un altro uomo, Paolo; egli è il padre degli etnicocristiani, come Giacomo è la guida dei giudeocristiani; Giacomo ebbe affidata Gerusalemme, Paolo Roma. Son per questo i due degli avversari.., o piuttosto dei fratelli, con diversi compiti commessi loro dal medesimo Signore?

AVVERSARIO DI PAOLO?

Ritenere Giacomo come un « giudeocristiano d’animo angusto », cui Paolo sia stato l’uomo « inviso », contradice assolutamente ai documenti biblici. Per quanto egli personalmente abbia potuto osservare la Legge mosaica sino all’ultimo apice, tenne tuttavia ben saldo il principio cristiano, che la salvezza viene da Gesù e non da Mosè, e considerò Paolo come « fratello »; e questo in lui era eroismo, perché appunto su quel gregge di Gerusalemme, che egli doveva pascere, era un giorno piombato quel giovane lupo e « aveva trascinato via uomini e donne, e li aveva gettati in carcere». Non vogliamo però negare che fra Giacomo e Paolo esistessero delle tensioni, non per colpa personale, ma per la diversità dei loro compiti. Negli Atti degli Apostoli li incontriamo in rapporti fra loro tre volte. La prima volta nel Concilio apostolico, che doveva definire la questione più grave della storia della Chiesa: se anche gli etnicocristiani fossero obbligati a osservare la Legge mosaica. Pietro aveva già fatto uso della sua pienezza di potere per sciogliere — non solo per legare! — e aveva dichiarato: « Perché volete tentare Iddio e porre sulle spalle ai discepoli un giogo, che nè i nostri padri né noi abbiamo potuto portare? No, noi crediamo di ottenere la salvezza per mezzo della grazia del Signore Gesù, come anche loro ». In quel momento gli occhi di tutti si rivolsero a Giacomo; nell’attesa di sentire a quale concezione avrebbe dato il suo voto favorevole quell’Apostolo stimato e conservatore più di tutti, le due parti rattennero il respiro; la giudaica sperava, la favorevole agli etnici temeva. E Giacomo si alzò e parlò: «Fratelli, ascoltatemi! Simone ha esposto come Iddio abbia mosso il primo passo per conquistare al suo Nome un popolo tra i pagani. S’accordano con questo le parole dei Profeti. Sta scritto infatti: “Poi edificherò di nuovo la tenda rovinata di David, restaurerò le sue macerie, la erigerò nuovamente. Allora gli altri uomini cercheranno il Signore, tutti i popoli, sui quali è invocato il mio Nome. Così dice il Signore, che questo opera “. Questo è l’eterno decreto. Per questo, secondo il mio parere, non si deve addossare ai pagani, che si convertono a Dio, nessun carico, ma però si deve esigere da loro che si astengano dalla contaminazione per mezzo degli idoli, dalla fornicazione, dal soffocato e dal sangue. Perchè Mosè da tempo immemorabile ha i suoi predicatori in ogni città; egli è letto ogni sabbato nelle sinagoghe » Queste parole, le prime che ascoltiamo dalla bocca di Giacomo, furono di grande importanza: « Non si deve imporre ai pagani nessun peso ulteriore! ». Rigido con se stesso, egli era abbastanza generoso per aprire ai gentili la porta della libertà dei figli di Dio. Anche cinque o sei anni dopo, ricordando quell’adunata apostolica, Paolo scriverà con evidente sollievo, nella lettera ai Galati : « Giacomo, Kefas e Giovanni, ch’erano ritenuti come colonne, porsero a me e a Barnaba la mano dell’alleanza »; ove Giacomo lo ricorda al primo posto, prima ancora di Pietro, perché egli aveva temuto soprattutto il voto di Giacomo; il sì di quest’ultimo nella controversia aveva doppio peso. Giacomo e Paolo si diedero la mano! Sarebbero state incalcolabili le tristi conseguenze per la Chiesa di Cristo, se in quella circostanza i due Apostoli non fossero venuti a un accordo; ma l’amore di Cristo può far convergere nell’unità anche un Giacomo e un Paolo. Osservando più attentamente la dichiarazione del nostro Apostolo, ci accorgiamo che essa non gli dovette riuscire facile; il suo cuore propendeva per il no; ma fu così leale, che in una questione definita in senso contrario da Dio stesso, dai Profeti e dall’esperienza, votò contro se stesso; non poté certo far a meno di limitare il suo voto con quattro clausole, che per questo son dette « clausole di Giacomo>>; con esse voleva rimuovere gli urti più gravi, che i contatti con gli etnicocristiani potevano provocare nei giudeocristiani; ed esse, nell’interesse della comunità cristiana, furono accolte nel decreto apostolico e ne fu segnalata la motivazione agli etnicocristiani: « Se vi guardate da queste cose, farete bene» in ordine al fraterno accordo con i giudeocristiani. Una o due delle quattro disposizioni, quella per esempio di starsene lontani dai conviti sacrificali dei gentili e l’astinenza da ogni relazione sessuale illegittima, come era in uso presso i pagani, si capiva facilmente che doveva valere anche per gli etnicocristiani; non era invece per loro evidente ed era meno facile a tradursi in atto l’esigenza che si mangiasse sempre carne monda e la proibizione del sangue, la cui commestione dal sentimento semitico era ritenuta detestabile ormai da millenni. Sarebbe tornato di gradimento se Giacomo, nel suo discorso, avesse avuto anche solo una paroletta di riconoscimento per l’opera di Paolo, che sedeva in quella nobile assemblea ancora impolverato e stanco, si può dire, per il suo primo viaggio apostolico; ma egli si riferì solo a Simone Pietro, sebbene immediatamente prima del suo discorso «Barnaba e Paolo raccontarono quali grandi segni e miracoli Iddio aveva operato per mezzo di loro fra i gentili » . Giacomo e Paolo sono ricordati insieme una seconda volta nella lettera ai Galati, in occasione del conflitto di Antiochia, del quale abbiamo scritto più sopra . Paolo, eccitato, rimprovera a Pietro la sua condotta inconseguente: « Perchè prima che fossero giunti alcuni della compagnia di Giacomo, egli (Pietro) frequentava la mensa in comune con i pagani; dopo il loro arrivo invece si ritirò e si separò per paura dei circoncisi. Con lui simularono anche gli altri giudei; persino Barnaba si lasciò trascinare dal loro infingimento ». « Della compagnia di Giacomo » ! Questo testo non ci dà il diritto di fare Giacomo responsabile dei raggiri dei giudaizzanti nella chiesa di Antiochia, con i quali tendevano a distogliere Pietro dalla libertà e semplicità del Vangelo per ricondurlo alla ristrettezza della Legge; Giacomo pensava rettamente e lealmente; nondimeno la parola indignata di Paolo accenna a lui come a quella persona, cui i giudaizzanti, anche se a torto, si appellavano di continuo come a un teste ufficiale; rimanendo egli personalmente così fermo nella rigida osservanza della Legge, dava un esempio, che nelle mani degli avversari dell’Apostolo delle genti diveniva un’arma potente. In realtà egli non si sarebbe mai concessa la libertà di Pietro, tanto meno quella di Paolo, né mai si sarebbe seduto alla mensa con gli etnicocristiani per mangiare uccelletti arrostiti o, peggio, carne porcina; si atteneva meticolosamente alle prescrizioni, che Mosè stabilisce nel capitolo undecimo del Levitico; e non è neppure impossibile che ai giudeocristiani egli desse il consiglio di non lasciarsi sviare dall’osservanza dei costumi paterni, beneficiando delle libertà concesse agli etnicocristiani. Giacomo fu giudeo per i Giudei, ma non fu pure gentile con i gentili — minor! —, come lo fu invece Paolo, di lui più aperto e sciolto. In questo senso certo, ma solo in questo ‘senso è da Paolo messo in relazione col conflitto di Antiochia. – Paolo e Giacomo stanno di fronte l’uno all’altro per l’ultima volta nel capitolo ventunesimo degli Atti degli Apostoli. Paolo, sempre magnanimo, portò a Giacomo la grande colletta raccolta fra le comunità etnicocristiane per soccorrere la Chiesa madre di Gerusalemme. Di questa visita, ch’è l’ultima fatta dall’Apostolo delle genti alla Città Santa, Luca poté scrivere la consolante relazione: « Dopo il nostro arrivo a Gerusalemme, i fratelli ci accolsero con gioia. Il giorno seguente Paolo venne con noi da Giacomo, presso il quale si radunarono tutti gli Anziani. Egli li salutò e poi riferì loro, sin nei particolari, quello che Iddio aveva operato per mezzo del suo lavoro fra i pagani. Quand’essi ebbero appreso tutto questo, lodarono Iddio. Però gli dissero… » Però! Di nuovo dunque un «però », di nuovo un’esitazione e una limitazione e… una richiesta, certamente, diciamolo pure, con ottima e fraterna intenzione. Si trattava di questo: nel mondo giudaico s’era sparsa la voce che « tu insegni a tutti i Giudei, che si trovano fra i gentili, l’apostasia da Mosè ed esigi che non facciano circoncidere i loro figli e che non vivano più in nessun modo secondo gli usi legali »; era una esagerata e diffamatoria generalizzazione. Anche Paolo infatti aveva avuto dei riguardi per i Giudei, tanto che aveva fatto circoncidere persino il suo discepolo Timoteo; ma non poteva dissimulare, per la sua concezione fondamentale, che la Legge non era necessaria alla salvezza dei giudeocristiani più di quello che lo fosse per gli etnicocristiani; ora questa sua posizione aveva provocato nell’animo giudaico tale tensione contro di lui, che c’era da temere per la sua vita, specialmente poi in una festività così solenne come la Pentecoste, che riuniva in Gerusalemme giudei di tutto il mondo. Fu questa sollecitudine per la sua vita che spinse a fargli una proposta, la quale, se non veniva da Giacomo, fu però da lui appoggiata: « Fa quello che ti proponiamo: quattro uomini fra di noi si sono obbligati con un voto. Unisciti a loro, purificati con loro e sostieni per loro le spese, perché possano farsi tagliare i capelli. Tutti allora comprenderanno che non v’è nulla di vero nelle voci, che sul tuo conto si sono diffuse, che tu piuttosto osservi fedelmente la Legge ». La proposta era una vera pretesa materialmente e ancor più moralmente. Per sé e per gli individui, che si volevano accollare a lui, Paolo doveva offrire in sacrificio un agnello, una pecora e un montone, cui inoltre s’aggiungevano i corrispondenti sacrifici incruenti; solo dopo di questi era sciolto il voto contratto del nazireato, la cui conclusione ufficiale consisteva nel taglio dei capelli. Ma per Paolo dovette costare molto di più tutta quella messa in scena: egli non era contrario al voto in sé, ché per sua libera determinazione s’era fatto nazireo già; ma nelle circostanze del momento un simile modo di agire significava confessare un torto non commesso, una vittoria dei suoi nemici e un funesto turbamento delle sue comunità etnicocristiane. Può essere che Giacomo districasse il collega da questi scrupoli con benevoli parole; lui pure nel Concilio apostolico aveva detto un sì doloroso a favore degli etnicocristiani; non avrebbe dovuto anche Paolo sostenere un sacrificio per i giudeocristiani? La carità di Cristo e la fede nella sua unica Chiesa vinse di nuovo; « Paolo si unì agli uomini, si purificò con loro e il giorno dopo andò nel Tempio. Ivi annunziò il termine del tempo del voto; poi fu offerto il sacrificio per ciascuno di loro ». Quel consiglio buono, col quale Giacomo aveva tentato di scongiurare il pericolo, che sovrastava alla vita di Paolo, fu per questi fatale; perché proprio al momento di sciogliere il voto, egli fu preso nel Tempio e quasi quasi veniva ucciso. Dovrà dunque ringraziar di questo Giacomo? Esattamente! Giacomo appianò a Paolo la via… di Roma, poiché quella prigionia, che durò due anni, ebbe termine col viaggio di Paolo a Roma, che egli tanto aveva desiderato di vedere. Giacomo, precisamente lui apre a Paolo la via di Roma! Gerusalemme, la culla, trasmette il Cristianesimo all’altra sponda, al vasto mondo. Ma anche Paolo fu fatale per Giacomo: Eusebio riferisce che i Giudei, quando si videro delusi in forza dell’appello di Paolo all’imperatore, presero le vendette su Giacomo, uccidendolo in cambio di Paolo; così questi giunse al martirio per l’opera di Giacomo e Giacomo per quella di Paolo.

LA LETTERA DI GIACOMO

La lettera di Giacomo è la prima delle sette lettere, che son dette « cattoliche ». Esse sono chiamate « cattoliche = universali » per distinguerle da quelle di Paolo, perché non sono, come le paoline, dirette a comunità particolari o a individui, ma, almeno nella loro maggioranza, a una comunità più estesa, in forma di encicliche. Due sono di Pietro, tre di Giovanni, una di Giacomo e una di Giuda Taddeo. La loro successione nelle edizioni odierne della Bibbia si attiene all’ordine degli Apostoli, che segue Paolo nel testo addotto della lettera ai Galati: Giacomo, Kefas e Giovanni “, ai quali è da aggiungere ancora Giuda. Quest’ordine, se si eccettua la lettera di Giuda, corrisponde pure all’epoca della loro composizione. La lettera di Giacomo, la prima delle sette lettere cattoliche, è anche il primo scritto del Nuovo Testamento; risale a un’epoca anteriore allo stesso Concilio apostolico, forse all’anno 48, perché non vi s’incontrano ancora allusioni alla grave questione, che la comunità cristiana avrebbe presto sollevata: se la Legge mosaica avesse ancora valore; la sua antichità risulta pure dalla sua probabile utilizzazione da parte di Pietro; si confronti, ad esempio, Giacomo I, 3 con I Pietro I, 7, o Giacomo IV, 6 con I Pietro V, 6. L’autore presenta se stesso come « Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo »; non si dice né « apostolo » nè « fratello del Signore »; ma appunto quest’umile passar sotto silenzio titoli così eccellenti depone per la genuinità della lettera; un altro Giacomo qualsiasi infatti, di nessuna importanza, si sarebbe attribuite quelle distinzioni per sorreggere una falsificazione; « il vero Giacomo » invece — questa ben nota espressione veramente dovette essere coniata per Giacomo Maggiore, nella lite per l’autenticità delle sue reliquie — non aveva bisogno di ostentare i suoi privilegi; bastava il suo nome a conciliargli piena autorità. E l’autorità egli la rivendica a sé stesso: in una lettera non lunga, che non conta più di 108 versi, s’incontrano 54 ordini, così che a ogni secondo verso è avanzata una richiesta energica, seria, non proposti solo degli avvisi avvolti in guanti di seta, e i destinatari di quegli imperativi sono anche ricchi insociali e ingiusti. « Orsù, o ricchi, piangete e gemete per la miseria, che verrà su di voi! La vostra ricchezza è putrefatta, le vostre vesti sono state rose dalla tignuola. Il vostro oro e argento si sono arrugginiti… Ecco, la mercede, che voi avete defraudata agli operai, che han mietuto i vostri campi, grida e il grido dei mietitori è penetrato sino all’orecchio del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e nella voluttà vi siete ben nutriti nel giorno dell’occisione. Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi resiste >>. Queste espressioni tanto energiche, che rivelano di nuovo il contadino, potevano ben essere gridate da Giacomo nel suo e… nel nostro tempo, mentre lui stesso era dinanzi al popolo un modello vivente d’ogni giustizia e ascetica sobrietà. La lettera è indirizzata alle « dodici tribù nella diaspora» . Sotto questo termine s’intendono i giudeocristiani nella « dispersione », che vivevano cioè fuori della Terra Santa, quelli anzitutto della Fenicia e della Siria. La pastorale sollecitudine del Vescovo di Gerusalemme non si limitava esclusivamente al gregge custodito sotto i suoi occhi nella prima comunità, ma si estendeva anche a tutti quelli, che, essendo cristiani delle « dodici tribù », si trasferivano fra i pericoli delle regioni lontane. Al tempo dell’Apostolo i giudeocristiani non versavano in quelle tristi condizioni,nnelle quali vennero a trovarsi quindici anni più tardi, quando Paolo fece loro pervenire con la lettera agli « Ebrei » la sua parola di esortazione e di conforto, affinché rimanessero fermi in Cristo; tuttavia quei neocredenti stavano già nella crisi dell’inizio; il primo fervore era ridotto a una smorta fiamma; un tenore di vita inconseguente e le tribolazioni dall’esterno avevano fruttato l’indebolimento dell’uomo cristiano. Giacomo, con la sua lettera, volle ricondurre i compagni di origine e di fede al primo zelo: « Stimate pura gioia, fratelli miei, se incappate nelle diverse prove. Sapete che la prova della vostra fede opera la pazienza; la pazienza poi perfezionerà un’opera, affinchè diveniate perfetti e irreprensibili e sotto nessun rispetto manchevoli». La lettera di Giacomo non presenta quella nota personale, che riscontriamo, ad esempio, nelle lettere di Paolo, e per questo s’è voluto giudicarla come una raccolta semplicemente di sue pie sentenze, che sarebbero state disposte l’una accanto all’altra, secondo un filo logico, sciolto però e variante con rapidità; Lutero ne biasimò anche la forma: « La lettera getta là disordinatamente una cosa sull’altra »; l’aveva già detta « epistola di paglia » per il contenuto, perchè diametralmente opposta alla sua dottrina sulla giustificazione operata dalla semplice fede, solo dunque per difficoltà personali e aprioristiche. La lettera è invece quanto mai pratica e plastica, non certo costruita con lo studio su di un leggio; affronta uno dopo l’altro i problemi della vita cristiana. Com’è al naturale e deliziosa la descrizione del diverso comportamento dinanzi ai poveri e ai ricchi! « Fratelli miei, tenete libera la. vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo della gloria da riguardi di persona! Se nella vostra adunanza entra un uomo con anello d’oro, con vestito lussuoso e subito dopo un povero con veste sudicia, e voi guardate a colui ch’è in abito sfarzoso e gli dite: “Tu sta comodo qui “, mentre al povero dite: “Tu sta là dritto “, oppure: “Siediti giù, sotto lo sgabello dei miei piedi “, non avete pronunciato dentro di voi un giudizio parziale? ». La lettera di Giacomo è specialmente di tanta attualità per il suo carattere spiccatamente sociale; si potrebbe chiamare la Magna Charta del quarto stato, il precedente biblico delle encicliche pontificie « Rerum Novarum » e « Quadragesimo Anno ». Resterà classico per tutti i tempi il testo sull’importanza e il dominio della lingua: « Chi non manca con le parole, è un uomo perfetto, capace di tenere in freno anche tutto il corpo… La lingua è un membro piccolo, ma si vanta di grandi cose… Con essa benediciamo il Signore e Padre, e con essa malediciamo gli uomini, che sono creati a immagine di Dio. Dalla stessa bocca esce benedizione e maledizione >>. La lettera di Giacomo offre una importante testimonianza biblica, che è poi anche l’unica, per il sacramento dell’Estrema Unzione: «V’è qualcuno fra di voi ammalato? Chiami a sè i presbiteri della Chiesa; questi preghino su di lui e lo ungano con olio nel Nome del Signore. La preghiera piena di fede sarà di salvezza all’ammalato e il Signore lo solleverà. E se egli ha in sè dei peccati, gli saranno rimessi ». L’obiettivo principale della lettera, che trapela da tutte le richieste, è un cristianesimo vivo e fattivo, in opposizione a un semplice cristianesimo di chiesa rammonito; questa nefasta separazione fra fede e vita, fra teoria religiosa e pratica religiosa non potrebbe essere condannata più energicamente di quanto l’ha fatto il nostro Apostolo: «Traducete la parola in fatti e non ascoltatela solo, altrimenti ingannate voi stessi… Pietà pura, immacolata dinanzi a Dio e Padre si ha quando si aiutano gli orfani e le vedove nelle loro necessità e ci si conserva puri da questo mondo… Che giova, fratelli miei, se uno dice che ha la fede, ma non ha opere? Può forse la fede renderlo felice?… Se la fede non ha opere è morta ». Ora però ci siamo imbattuti in un altro passo, nel quale Giacomo e Paolo sembrano nuovamente in conflitto fra di loro; e di fatto le parole ora addotte sono state rilevate come una contradizione e una smentita delle profonde concezioni intorno alla fede, al peccato e alla giustificazione, che Paolo va esponendo sopratuttonnella lettera ai Romani. E in realtà non scrive egli esattamente il contrario di quanto insegna Giacomo, quando dice: « Noi siamo persuasi che l’uomo è giustificato per mezzo della fede, indipendentemente dalle opere della Legge… Chi compie opere, a costui la mercede viene computata non a titolo di grazia, ma secondo il merito >>? Ma l’opposizione di Giacomo e Paolo è anche nelle loro lettere soltanto apparente; tutti e due fanno uso delle stesse parole: fede, opere, giustificazione, ma in un senso diverso; Paolo esalta la fede viva, Giacomo biasima la fede morta; Paolo valuta come nulle le opere della legge mosaica, Giacomo esige come necessarie le opere della vita cristiana; Paolo attribuisce alla grazia la prima chiamata alla giustificazione, Giacomo esorta alla cooperazione con la grazia perchè s’accresca la giustificazione. Quello che Paolo insegna con sublimi svolgimenti di pensiero, Giacomo nelle sue semplici proposizioni non lo nega affatto; e quello che scrive Giacomo lo sottoscrive anche Paolo, perchè anch’egli esige in ogni sua lettera le opere della vita cristiana. La dottrina dunque dei due Apostoli è la medesima, solo l’accento è collocato diversamente: Paolo accentua la grazia, Giacomo le opere. Questo spostamento d’accento era già dovuto alla diversità del compito: Giacomo doveva stimolare del Cristiani, ch’erano pigri nell’operare, Paolo invece doveva reprimere dei Cristiani orgogliosi delle opere; ma esso aveva certo una radice più profonda nella diversità soggettiva di Paolo e di Giacomo: il primo, nella luce abbagliante della sua conversione nei pressi di Damasco, aveva compreso in misura più luminosa di tutti gli altri l’impotenza dell’uomo e l’onnipotenza di Dio; era stato condotto a Cristo dalla grazia, non dalla Legge, e quest’esperienza religiosa continuò poi a vibrare in tutti i suoi scritti; Giacomo invece non conobbe questo brusco passaggio, egli andò a Cristo per la via dritta e piana, per lui « la Legge era stata pedagogo a Cristo»; non aveva dunque nessun motivo di opporre l’una all’altra, la Legge alla Grazia. Così nella sua lettera, ch’è l’unico scritto che ci sia pervenuto di lui, si riflette fedelmente la personalità dell’autore: la sua condizione nella lingua e nelle immagini, e la sua spiritualità nelle concezioni. Del resto Paolo nella prima lettera ai Corinti ha scritto delle parole, che lo mettono in pieno accordo con Giacomo nella dottrina: « Io sono quel che sono per la grazia di Dio; la sua grazia però, ch’è toccata a me, non è rimasta in me inefficace; io anzi ho lavorato più di tutti gli altri; ma non io, bensì la grazia di Dio con me ».

GRANDE NEL REGNO DEI CIELI

La lettera agli Ebrei, diretta da Paolo ai giudeocristiani verso l’anno 63, un anno dopo cioè la morte di Giacomo, mostra quanto fosse grave la situazione, nella quale era venuto a trovarsi il nostro Apostolo, come vescovo di Gerusalemme, negli ultimi suoi anni. I giudeocristiani erano minacciati dal grave pericolo di ricadere nuovamente nel giudaismo; nei Giudei s’era riacceso l’odio fanatico contro Cristo; guizzavano già i primi bagliori della guerra giudaica, vicina ormai a scatenarsi sul popolo, che su di sè e sopra i suoi figli aveva invocato il Sangue di Cristo. Giacomo osservava col cuore affranto il compiersi del destino della sua gente; spirava l’ultimo termine, perché il Giudaismo nei riguardi del Messia persisteva ancora tenacemente incaponito nell’atteggiamento assunto il Venerdì Santo: « Sia tolto di mezzo! ». Eppure quanto s’era adoperato — certamente più di tutti gli altri Apostoli — perché anche quel suo gregge trovasse la via a Cristo! Quanta pazienza e quale riguardo gli aveva prodigato per non ferirlo nei suoi sentimenti religiosi! Piuttosto che mancare di attenzione verso di esso aveva chiuso un occhio su penose tensioni nei rapporti col collega Paolo. Nondimeno anche lui fu raggiunto dalla sorte, che il Signore aveva vaticinata ai suoi Discepoli: « Vi si caccerà dalle sinagoghe. Anzi viene l’ora, nella quale chiunque vi uccide crede di rendere un servizio a Dio >>; anche Giacomo, proprio lui, anzi lui solo fra tutti gli Apostoli fu ucciso dal Giudei; e in lui, l’Apostolo e il fratello di Gesù, fu rigettato una volta ancora Cristo stesso, il giorno della sua morte fu il suggello definitivo del Venerdì Santo. – Possediamo due relazioni molto antiche intorno alla morte dell’Apostolo Giacomo, una dello storico ebreo Giuseppe Flavio e l’altra dello scrittore ecclesiastico Egesippo. Nella prima si riferisce: quando, dopo la morte del procuratore Festo, non vi fu per un certo tempo nessun luogotenente nel paese, il sommo sacerdote Anano II profittò di questo tempo di vacanza per perdere Giacomo, fratello di Gesù. Invitò lui e alcuni altri dinanzi al Sinedrio, li incolpò di infrazioni alla Legge, li fece condannare e lapidare. Era l’anno 61 o 62, trent’anni circa dopo l’Ascensione; Giacomo contava allora, secondo Epifanio, 96 anni. Egesippo amplifica questa relazione oggettiva dello storico con particolari, che in parte sono leggenda, in parte sono presi a prestito dal Vangelo e dagli Atti degli Apostoli “; secondo la sua relazione dunque i Farisei avrebbero preteso che Giacomo nella festa di Pasqua spiegasse al popolo dal pinnacolo del Tempio — ci ricordiamo della storia delle tentazioni di Gesù —, « quale fosse la porta di Gesù, il crocifisso », per poter così stornare i Giudei dalla fede in Lui qual Messia; Giacomo apparentemente avrebbe consentito, ma, giunto in alto, avrebbe proclamato Gesù quale Messia e giudice del mondo dinanzi a tutto il popolo; allora i maggiorenti giudei, inquieti e furenti per timore che la moltitudine potesse essere persuasa da quella predica, avrebbero precipitato Giacomo dal tetto del Tempio e, ormai mezzo morto, l’avrebbero coperto di pietre, mentre egli, come Stefano, pregava per i suoi uccisori. Quando un sacerdote dei Recabiti, commosso da quell’eroismo, volle respingere quei furibondi, gridando: « Smettete, che fate? Il Giusto prega persino per voi », un gualchieraio avrebbe afferrato il suo rulletto e avrebbe fracassato all’Apostolo il capo. Per questo, per simboleggiare la sua passione, l’arte rappresenta Giacomo Minore con una mazza o una stanga da gualchieraio. La sua salma fu sepolta accanto al Tempio, ove al tempo ancora di Egesippo era eretto il « suo cippo)) 67. Una notizia invece di Gregorio di Tours trasferisce il suo sepolcro sul Monte degli Olivi, dove sarebbe stato deposto con Zaccaria, il padre del Battista, e col vecchio Simeone “. Quando l’imperatore Giustino II (565-578) trasportò le ossa del fratello del Signore Giacomo nella chiesa di San Giacomo, costruita nuova a Costantinopoli, avrebbero trovato ivi il loro sepolcro anche Simeone e Zaccaria; veramente Girolamo, ch’era tanto pratico dei luoghi, non sapeva nulla al suo tempo d’una tomba di Giacomo sul Monte degli Olivi. Una tradizione posteriore la mostrava nella valle di Giosafat, in direzione sud-est del Tempio; la spelonca, scavata nella roccia e divisa in più camere sepolcrali, è indicata anche oggi come « sepolcro di Giacomo ». La Chiesa latina, sino dal secolo sesto, celebra la festa dell’ascetico Giacomo insieme con quella del freddo Filippo il giorno primo maggio, così pieno di poesia! Si spiega questa festa comune ai due Apostoli, sebbene non compaiano mai uniti né nella Sacra Scrittura né negli apocrifi, col fatto che Roma nel secolo sesto eresse ai due la basilica, che oggi veramente porta il titolo « degli Apostoli>> in generale; e poichè la sua consacrazione fu fatta il primo di maggio, questo giorno nel rito romano è consacrato al ricordo dei due Apostoli. Ci inchiniamo pensosi dinanzi alla veneranda spoglia dell’Apostolo Giacomo, che giace fracassato sulla piazza del Tempio, come un sacro vaso dell’ultima grazia, un martire insieme del Vecchio e del Nuovo Testamento. Fra dieci anni anche il Tempio sarà abbattuto e ridotto in frantumi in punizione della grazia respinta; il Vangelo invece prenderà il suo libero corso, senza « clausole >> e riguardi, in tutte le direzioni del mondo, verso tutti i popoli. La Provvidenza tanto buona volle risparmiare a Giacomo il dolore di vedere il tramonto di Gerusalemme e il tramonto del tempo antico; egli però, l’Apostolo del Giudaismo morente, sta dinanzi al nostro tempo e dinanzi.., alle nostre anime e santamente ci ammonisce e ci scongiura di cambiare il tramonto di Cristo, che minaccia anche noi, in una sua ascesa; « perchè, se Iddio non ha risparmiato i rami naturali (Israele), non risparmierà neppur te. Riconosci dunque la benignità e la severità di Dio. La severità verso i caduti, la benignità di Dio verso dite, supposto che tu perseveri nella benignità di Dio, altrimenti sarai tagliato via anche tu ». La missione di Giacomo, dell’Apostolo di un’epoca, che volgeva alla fine, fu meno grande — minor! — di quella del fratello e compagno suo Paolo, dell’Apostolo delle genti, che ascendevano alla grazia del Cristianesimo; non fu però meno.difficile, e Giacomo non la condusse a termine meno fedelmente. Anch’egli, « il Minore », è un grande nel regno dei Cieli.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.