DOMENICA III DOPO PASQUA (2019)

DOMENICA TERZA DOPO PASQUA (2019)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps LXV: 1-2. Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja. [Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Ps LXV: 3 Dícite Deo, quam terribília sunt ópera tua, Dómine! in multitúdine virtútis tuæ mentiéntur tibi inimíci tui. [Dite a Dio: quanto sono terribili le tue òpere, o Signore. Con la tua immensa potenza rendi a Te ossequenti i tuoi stessi nemici.]

Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio 

Orémus. – Deus, qui errántibus, ut in viam possint redíre justítiæ, veritátis tuæ lumen osténdis: da cunctis, qui christiána professióne censéntur, et illa respúere, quæ huic inimíca sunt nómini; et ea, quæ sunt apta, sectári. [O Dio, che agli erranti mostri la luce della tua verità, affinché possano tornare sulla via della giustizia, concedi a quanti si professano cristiani, di ripudiare ciò che è contrario a questo nome, ed abbracciare quanto gli è conforme.]

 Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli: 1 Pet II: 11-19

“Caríssimi: Obsecro vos tamquam ádvenas et peregrínos abstinére vos a carnálibus desidériis, quæ mílitant advérsus ánimam, conversatiónem vestram inter gentes habéntes bonam: ut in eo, quod detréctant de vobis tamquam de malefactóribus, ex bonis opéribus vos considerántes, gloríficent Deum in die visitatiónis. Subjécti ígitur estóte omni humánæ creatúræ propter Deum: sive regi, quasi præcellénti: sive dúcibus, tamquam ab eo missis ad vindíctam malefactórum, laudem vero bonórum: quia sic est volúntas Dei, ut benefaciéntes obmutéscere faciátis imprudéntium hóminum ignorántiam: quasi líberi, et non quasi velámen habéntes malítiæ libertátem, sed sicut servi Dei. Omnes honoráte: fraternitátem dilígite: Deum timéte: regem honorificáte. Servi, súbditi estóte in omni timóre dóminis, non tantum bonis et modéstis, sed étiam dýscolis. Hæc est enim grátia: in Christo Jesu, Dómino nostro.”

OMELIA I

[A. Castellazzi: Alla Scuola degli Apostoli; Sc. Tip. Artigianelli, Pavia, 1929 – imprim.]

SOGGEZIONE ALLE AUTORITÀ

“Carissimi: Io vi scongiuro che da stranieri e pellegrini vi asteniate dai desideri sensuali, che fanno guerra all’anima. Tenete una buona condotta fra i gentili, affinché, mentre sparlano di voi quasi foste malfattori, considerando le vostre buone opere, diano gloria a Dio nel giorno in cui li visiterà. Per amor di Dio siate, dunque, sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Poiché questa è la volontà di Dio, che, operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Diportatevi da uomini liberi, che non fate della libertà un mantello per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio. Onorate tutti, amate la fratellanza, temete Dio, rendete onore al re. Servi, siate con ogni rispetto sottomessi ai padroni, e non soltanto ai buoni e benevoli, ma anche agli indiscreti; poiché questa è cosa di merito; in Gesù Cristo Signor nostro” (1 Piet. II, 11-19).

La lezione è tolta dalla prima lettera di S. Pietro. Precede immediatamente quella che abbiamo considerato la domenica scorsa. Vi si parla dei doveri sociali e in modo particolare dei doveri verso l’autorità civile. Dobbiamo essere soggetti all’autorità e a quelli che dall’autorità suprema sono incaricati di amministrare la giustizia, punendo i cattivi e premiando i buoni. Così, piaceremo a Dio e faremo tacere l’ignoranza dei cattivi. La nostra ubbidienza, poi, all’autorità dev’essere fatta da veri servi di Dio; cioè, per dovere di coscienza. Vediamo appunto, come la nostra soggezione all’autorità:

1. È  voluta da Dio,

2. Fa chiudere la bocca ai nemici del nome Cristiano,

3. Deve procedere da semplicità di cuore.

1.

 Per amor di Dio siate, dunque, soggetti a ogni autorità umana. S. Pietro chiama autorità umana l’autorità civile, perché la designazione degli individui, che rivestono questa autorità, generalmente, viene dagli uomini. Che un governo sia repubblicano, monarchico, federalista; che la suprema autorità sia designata per elezione o per successione, è cosa che dipende dalla volontà degli uomini. Ma non dipende dalla volontà degli uomini l’istituzione della autorità. È tanto naturale alla società il concetto di moltitudine e di autorità, di chi dirige e di chi è diretto, che non è neppur possibile immaginabile una società, senza chi la governi. Vuol dire dunque, che la natura stessa esige che nella società ci sia chi comandi, chi presieda, chi diriga. Vuol dire, infine, che l’autorità è voluta da Dio stesso, autore della natura. Perciò S. Paolo ci ammonisce:« Ogni persona sia soggetta alle autorità costituite, perché non vi ha potestà se non da Dio» (Rom. XIII, 1). Basterebbero considerazioni umane per indurci all’obbedienza verso le autorità. Senza l’ubbidienza dei sudditi sarebbe impossibile qualunque governo. Si avrebbe una piena anarchia con la conseguente perdita di ogni diritto, di ogni libertà, di ogni idea di giustizia. Ma i Cristiani devono ubbidire per un motivo più nobile. Devono ubbidire per piacere a Dio. Se ogni potestà viene da Dio, non è cosa indifferente che ad essa si ubbidisca o non si ubbidisca. Quando l’autorità costituita emana delle leggi e impone degli obblighi che non sono contrari alla legge naturale e alla legge di Dio e della Chiesa, rifiutando la nostra ubbidienza, offendiamo Dio, del quale le legittime autorità sono rappresentanti. Gesù Cristo stesso ricorda i doveri del cittadino quando dice : «Date a Cesare ciò che è di Cesare» (Matt. XXII, 21). La soggezione che dobbiamo all’autorità suprema dello Stato, la dobbiamo anche a coloro che ne fanno le veci, la rappresentano o, in qualunque modo, sono investiti di poteri in suo nome. Anche in questo, l’insegnamento è molto chiaro. Siate dunque sottomessi a ogni autorità umana; sia al re, che è sopra di tutti, sia ai governatori come da lui mandati a far giustizia dei malfattori e a premiare i buoni. Ma se il principe, se i suoi incaricati sono cattivi, siamo noi obbligati ugualmente a star loro soggetti? Quando non esigono cose ingiuste e non escono dai limiti della propria autorità, noi siamo obbligati a stare loro soggetti, anche se sono cattivi. Anche qui la soggezione ci riuscirà facile, se opereremo per amor di Dio. I Cristiani ai quali S. Pietro scriveva, si assoggettavano nientemeno che a Nerone.

2. 

S. Pietro adduce un altro motivo che deve indurre i Cristiani a essere ossequenti alle autorità. Poiché questa è la volontà di Dio, che operando il bene, chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Col nome di stolti sono qui designati i pagani, i quali accusavano i Cristiani con la più grande leggerezza, e li condannavano con la più grande facilità. La dottrina dei seguaci di Gesù Cristo, tanto sublime e differente da quella dei gentili; la loro condotta, che doveva esser l’opposto da quella tenuta nel gentilesimo, attiravano su di loro lo sguardo diffidente e malevolo dei pagani. «Vi basti — dice San Pietro — di aver fatto la volontà dei gentili nel tempo passato, camminando nelle libidini, nelle concupiscenze, nelle vinolenze, nelle gozzoviglie nelle ubriachezze e nelle abbominevoli idolatrie» (1 Pietr. IV, 3). Questo mutamento di condotta doveva spingere i pagani a trovare a ogni costo un pretesto per accusare i Cristiani. Non senza motivo, dopo aver inculcato il buon esempio in generale, S. Pietro insiste in modo speciale sulla soggezione alle autorità. Una delle accuse che si facevano ai Cristiani, tanto per aver pretesto di perseguitarli, era appunto l’accusa di ribellione contro lo stato. L’accusa era gratuita, ma non era inutile insistere sulla necessità di non dar nessun pretesto ai pagani di mettere in discredito la r Religione cristiana. – Il contegno dei Cristiani di fronte all’autorità fu sempre pretesto a biasimi e a persecuzioni da parte di persone di sentimenti opposti. Per coloro che all’autorità non vogliono assegnato alcun limite, i buoni Cristiani sono dei ribelli, dei nemici dello Stato, dei cospiratori, se hanno la fortezza di anteporre la legge di Dio alla legge degli uomini. Per i nemici dell’autorità essi sono degli schiavi dei fautori del dispotismo e della tirannia. Giudizi sbagliati gli uni e gli altri. I Cristiani nell’autorità vedono il rappresentante di Dio, e nella soggezione a essa il volere di Dio. Perciò, ubbidiscono ai suoi comandi, e vogliono essere esempio agli altri nell’adempimento di questo dovere. «I Cristiani ubbidiscono alle leggi stabilite e nella loro condotta avanzano le leggi » (Lett. a Diogneto 5, 10) leggiamo in uno dei primi apologisti. I Cristiani che seguono l’insegnamento di Gesù Cristo quando dice: «Date a Cesare ciò che è di Cesare», lo seguono anche quando dice: «E date a Dio ciò che è di Dio » (Matt. XXII, 21). E la cosa è tanto giusta che non dovrebbe far meraviglia a nessuno. S. Cipriano è processato davanti al proconsole Galerio Massimo. Questi dice al santo Vescovo: « I sacratissimi imperatori hanno ordinato di render culto agli dei ». Cipriano risponde: « Non lo faccio ». Invitato dal Proconsole a rifletter bene, dichiara: « In cosa tanto giusta non c’è di riflettere » (Acta proc. S. Cipriani. Ep. et Mart.). Quando si tratta di obbedire a Dio i buoni Cristiani non hanno un momento di titubanza. E nella soggezione a Lui, come nella soggezione alle autorità da Lui costituite, sono sempre i primi.

3.

L’ubbidienza poi all’autorità dev’essere fatta non tanto per timore delle sanzioni quanto per obbligo di coscienza. Comportatevi— dice S. Pietro da vimini liberi che non fate della libertà un manto per coprire la nequizia, ma quali servi di Dio.Quindi, non l’ubbidienza forzata dello schiavo, ma l’ubbidienza spontanea dell’uomolibero, che è stato liberato bensì dalla schiavitù del peccato e dalla servitù della legge mosaica; ma non dall’obbligo di ubbidire a Dio, e quindi anche ai suoi rappresentanti. Nella soggezione all’autorità il Cristiano non deve essere guidato dallo spirito di parte. Prestare ossequio all’autorità perché chi ne è rivestito viene dal mio partito; rifiutarle il dovuto ossequio perché chi ne è rivestito viene da un partito che non è il mio; ubbidire quando chi comanda ci è persona simpatica, disubbidire quando chi comanda ci è persona antipatica, non è un diportarsi secondo coscienza. Così, non è un diportarsi secondo coscienza, quando ci si assoggetta in ciò che piace, e ci si ribella in ciò che non piace. Il nostro ossequio non è sincero quando si hanno secondi fini. Profondersi in inchini davanti all’autorità, proclamarne altamente i meriti, innalzarle inni di lode, son cose che si fanno ben frequentemente anche da chi nutre nel proprio interno una forte avversione. Non si sa mai: potrebbe venirne qualche onorificenza, qualche aiuto, qualche protezione, qualche posto. Giù, dunque, lodi smaccate e a buon mercato. Costoro si devono chiamare, non ossequenti; ma striscianti e servili. Sono i seguaci di coloro, che un giorno si presentarono a Gesù dichiarandogli:« Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità e non badi a nessuno, e che non guardi in faccia agli uomini ». E Gesù che leggeva nell’interno diede loro una risposta, che nessuno vorrebbe rivolta a sé: « Ipocriti, perché mi tentate? » (Matt. XXII, 16 18). Infatti, noi dobbiamo essere soggetti ai nostri superiori «in semplicità di cuore per timor di Dio» (Col. III, 22). « Ma il fare una cosa e averne nell’animo un’altra, non è semplicità, sebbene ipocrisia e simulazione» (S. Giov. Grisost. In Epist. ad Col. Hom. 10, 2). – L’autorità ha i propri pesi da portare, e noi abbiamo da portare i nostri, e tutti concorriamo a far della società una famiglia felice, quanto è possibile tra coloro che su questa terra sono stranieri e pellegrini. Se da una parte non si deve fare abuso dell’autorità propria, o farla sentire più del necessario; dall’altra non si deve disconoscerla o contrariarla; si deve anzi renderle facile il proprio compito con l’ubbidienza. L’ubbidienza dei sudditi rende felice il governare. I Cristiani devono fare ancor di più, pregare Dio che assista l’autorità. Gli Ebrei, schiavi in Babilonia, per mezzo del profeta Baruch, mandano a dire agli Ebrei di Gerusalemme: « Pregate per la conservazione di Nabucodonosor, re di Babilonia e per la conservazione di Baldassarre, suo figliuolo » (Baruch 1, 11). I Cristiani non devono essere da meno degli Ebrei, che pregano e fanno pregare per un tiranno, al quale la Provvidenza li aveva assoggettati. Essi devono accettare, ciascuno per sé, le parole di S. Paolo a Timoteo: «Raccomando che si facciano preghiere, suppliche, domande, ringraziamenti, per tutti gli uomini; per i re e per tutti quelli che stanno in dignità, affinché possiamo condurre una vita tranquilla e quieta con tutta pietà e onestà» (1 Tim. II, 1-2).

Alleluja

Allelúja, allelúja. Ps CX: 9 Redemptiónem misit Dóminus pópulo suo:alleluja. [Il Signore mandò la redenzione al suo pòpolo. Allelúia.]

Luc XXIV: 46 Oportebat pati Christum, et resúrgere a mórtuis: et ita intráre in glóriam suam. Allelúja. [Bisognava che Cristo soffrisse e risorgesse dalla morte, ed entrasse così nella sua gloria. Allelúia.]

Evangelium

Joannes XVI: 16; 22

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Módicum, et jam non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: quia vado ad Patrem. Dixérunt ergo ex discípulis ejus ad ínvicem: Quid est hoc, quod dicit nobis: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me, et quia vado ad Patrem? Dicébant ergo: Quid est hoc, quod dicit: Modicum? nescímus, quid lóquitur. Cognóvit autem Jesus, quia volébant eum interrogáre, et dixit eis: De hoc quaeritis inter vos, quia dixi: Modicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me. Amen, amen, dico vobis: quia plorábitis et flébitis vos, mundus autem gaudébit: vos autem contristabímini, sed tristítia vestra vertétur in gáudium. Múlier cum parit, tristítiam habet, quia venit hora ejus: cum autem pepérerit púerum, jam non méminit pressúræ propter gáudium, quia natus est homo in mundum. Et vos igitur nunc quidem tristítiam habétis, íterum autem vidébo vos, et gaudébit cor vestrum: et gáudium vestrum nemo tollet a vobis.” [In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre. Dissero perciò tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che significa ciò che dice: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre? Cos’è questo poco di cui parla? Non comprendiamo quel che dice. E conobbe Gesù che volevano interrogarlo, e disse loro: Vi chiedete tra voi perché abbia detto: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete. In verità, in verità vi dico che voi piangerete e gemerete, laddove il mondo godrà, sarete oppressi dalla tristezza, ma questa si muterà in gioia. La donna, allorché partorisce, è triste perché è giunto il suo tempo: quando poi ha dato alla luce il bambino non si ricorda più dell’affanno, a motivo della gioia perché è nato al mondo un uomo. Anche voi siete adesso nella tristezza, ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà, e nessuno vi toglierà il vostro gàudio.]

Omelia II

[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino,  1921]

SPIEGAZIONE XXIV.

“In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: Un pochettino, e non mi vedrete; e di nuovo un pochettino, e mi vedrete: perché io vo al Padre. Dissero però tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che è quello che egli ci disse: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto e mi vedrete, e me ne vo al Padre? Dicevano adunque che è questo che egli dice: Un pochetto? non intendiamo quel che egli dica. Conobbe pertanto Gesù che bramavano d’interrogarlo, e disse loro: Voi andate investigando tra di voi il perché io abbia detto: Non andrà molto, e non mi vedrete; e di poi, non andrà molto, e mi vedrete. In verità, in verità, vi dico, che piangerete e gemerete voi, il mondo poi godrà: voi sarete in tristezza, ma la vostra tristezza si cangerà in gaudio. La donna, allorché partorisce, è in tristezza, perché è giunto il suo tempo, quando poi ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’affanno a motivo dell’allegrezza, perché è nato al mondo un uomo. E voi dunque siete pur adesso in tristezza; ma vi vedrò di bel nuovo, e gioirà il vostro cuore, e nessuno vi torrà il vostro gaudio”. (Jo. XVI, 16-22).

Prima della dolorosa sua passione e morte il divin Redentore aveva più volte annunziato ai suoi Apostoli, come presto si sarebbe da loro dipartito. Così appunto ci fa sapere il Vangelo di questa Domenica, Gesù aver detto a’ suoi discepoli: Ancor un poco di tempo, e non mi vedrete più. Ed in vero dopo la sua passione e morte Egli sarebbe scomparso dalla loro presenza col lasciarsi calar dalla croce e racchiudere dentro al sepolcro. Ma il divin Salvatore, come ci riferisce lo stesso Vangelo, aveva soggiunto: E di nuovo ancor un poco di tempo e mi rivedrete. Ed anche questa parola di Gesù Cristo si sarebbe verificata pienamente; poiché il terzo giorno, risorgendo gloriosamente da morte, sarebbe più volte riapparso ai suoi discepoli. Tuttavia in seguito alla sua risurrezione Gesù non si sarebbe fermato più a lungo su questa terra e gli Apostoli sarebbero quindi rimasti soli quaggiù e ne avrebbero sofferto assai. Ora Gesù volle predire loro anche questo e confortarli con queste parole: In verità, in verità, vi dico, che voi piangerete e gemerete, mentre invece il mondo godrà; ma la vostra tristezza si convertirà in gaudio. A somiglianza della madre, che dapprima soffre, ma poi si rallegra, perché è nato al mondo un uomo, così sarà di voi. che dapprima soffrirete, ma poi quando io verrò di nuovo, gioirà il vostro cuore, e nessuno torrà da voi il vostro gaudio. Ecco adunque, o miei cari, da queste parole di Gesù Cristo ben determinata la sorte dei suoi seguaci e dei seguaci del mondo. I primi dovranno su questa terra soffrire e spargere lagrime; i secondi invece sembreranno abbandonarsi ad ogni sorta di godimenti; ma alla fine cambiate le sorti, mentre i poveri mondani andranno a soffrire per sempre nell’inferno! I veri Cristiani andranno invece a godere per tutta l’eternità in cielo. Ed ecco i pensieri, che per spiegazione del Vangelo di questa domenica intendo di imprimere nella vostra mente.

1. Gesù Cristo adunque assegna per porzione ai suoi seguaci i patimenti e le lagrime. Ora, domanderete voi, non sembra, che in questo il divin Redentore manchi di tenerezza e di giustizia per i suoi fedeli amici? No, vi rispondo subito. E sapete perché! Perché le lagrime ed i patimenti, che Iddio assegna ai buoni, come loro porzione, sono una delle più belle prove dell’amore, che Iddio nutre in cuore per essi, poiché sono uno dei più validi mezzi, di cui Iddio si serve per operare la nostra santificazione. Così appunto l’Arcangelo S. Raffaele nel congedarsi da Tobia gli disse: Quia acceptus eras Deo, necesse fuit ut tentatio probaret te: Perché eri caro a Dio, fu necessario che fossi provato dalla tribolazione (Tob. XII, 13). E di fatti che cosa si fa per ripulire l’oro della sua scoria? Lo si getta, dentro al crogiuolo e lo si fonde nell’intenso calore della fornace. Così per cavar fuori da un sasso informe una bella statua, lo si percuote con ripetuti colpi di scalpello. E così pure affinché una pianta apporti numerosi frutti, durante la stagione invernale si procura di potarla ben bene. Non altrimenti i buoni diventano tali e tali si mantengono, che sotto all’azione penosa dei patimenti e delle lagrime. La virtù, ha scritto l’Apostolo Paolo, si perfeziona nel patire: virtus in infirmitate perficitur (2 Cor. XII. 8): e S. Giacomo ha soggiunto che la pazienza rende perfetta l’opera intorno a cui si travaglia: patientia opus perfectum habet (Jac. I, 4). Gettate lo sguardo sopra i Santi, siano dell’antico, siano del nuovo Testamento, e sempre riconoscerete come Iddio mise alla prova la loro virtù e la rese in loro perfetta per mezzo dei patimenti. Giobbe era uomo ricchissimo di ogni bene di fortuna. Aveva numerosa famiglia, migliaia di pecore, di cammelli e di buoni servi in quantità straordinaria. Ma era anche giusto, ed ogni giorno offriva sacrifici al Signore per sé e per la sua figliolanza. Iddio per altro lo provò e perfezionò con le più acerbe tribolazioni, permettendo al demonio di affliggerlo quanto sapeva, salva solo la vita. Ed in un giorno Giobbe perdette i suoi greggi, ì suoi pastori, e tutta la sua figliolanza. In seguito il demonio lo piagò in tutto il corpo con un’ulcerazione sì fetente, che divenuto insoffribile agli stessi parenti ed amici; fu portato sopra un letamaio. In questo lagrimevole stato era ancora insultato dalla moglie e dagli amici, che lo reputavano colpevole di qualche grave peccato. Ma il santo Giobbe, benché afflittissimo, non si turbò e mantenne inalterabile la sua pazienza in mezzo a tutte quelle calamità, aspettando umilmente, e non invano, che Iddio lo liberasse Egli da quelle tribolazioni. Or chi sa dire i grandi meriti che in tale circostanza si fece il santo Giobbe! Osservate Giuseppe, figliuolo di Giacobbe. Perché egli era fornito di ottime qualità, i suoi fratelli, pieni di invidia e di odio contro di lui, lo calarono prima nel fondo di una cisterna e poscia lo vendettero ad un signore di nome Putifarre. Ed anche nella casa di questo signore a cagione della sua virtù fu colpito dall’avversità, e benché innocente fu condannato al carcere. Osservate il giovane Davide. Quanto dovette soffrire per causa del suo bel cuore da parte di Saul. Così dovette soffrire l’innocentissimo Daniele, e così soffrirono molti altri santi Profeti dell’antico testamento. E dopo la venuta di Gesù Cristo, secondo che Gesù Cristo stesso aveva profetato, non andarono incontro ai più gravi patimenti gli Apostoli, i martiri e in seguito tutti gli altri Santi? Sì, ed appunto col patire, specialmente col patire si fecero santi; così che tanti fra di loro, quando non avevano da patire, non erano contenti, e chiamavano in grazia al Signore che mandasse loro dei patimenti. Or dunque se è così, come ardiremo ancora di lamentarci, quando Iddio ci manda da soffrire? Ah si! soffriamo volentieri: e quando la nostra natura tanto rifugge dai patimenti, che pure Iddio per nostro bene ci manda, non dimentichiamo che questi sono la porzione delle anime giuste, ed animiamoci pensando a quel che Gesù Cristo ha patito Egli anzitutto per amor nostro, e adattiamoci volentieri anche noi a portare la croce per amor suo. Oh! l’amore al Crocifisso, ecco il vero segreto per accettare ogni patimento, per esservi rassegnati, per esserne anzi contenti. È a questo divin Crocifisso che guardava Maria, quando immersa nel più grave dei dolori gioiva nell’anima sua di partecipare alle pene del figlio. È a questo Crocifisso che pensavano gli Apostoli, quando se ne andavano gaudenti dal cospetto del concilio, perché erano stati fatti degni di patire contumelie per suo amore. È alla croce di questo divin Crocifisso che si configgeva S. Paolo per sovrabbondare di gaudio in ogni sua tribolazione. È a questo Crocifisso che applicavano tutto il loro cuore San Francesco Zaverio, quando gridava: Ancora di più; o Signore, ancora di più; S. Giovanni della Croce, quando esclamava: Soffrire ed essere disprezzato; S. Teresa, quando ripeteva: O soffrire o morire; S. Maddalena de Pazzi, quando diceva: “Soffrire e non morire”. Oh! attingiamo tutti a questa ineffabile sorgente. Che la santa carità di Gesù Cristo ci spinga, c’investa, ci consumi. Ed allora quando verranno le tribolazioni ne saremo contenti, quando non verranno le cercheremo, quando fuggiranno da noi le inseguiremo. Il patire sarà il nostro compagno di giorno, il nostro compagno di notte, il nostro compagno per tutta la vita. In esso riconosceremo la manna nascosta, la scienza dei Santi, il gran dono di Dio, il suo regno terrestre, la libertà perfetta dei suoi figliuoli, la porta della vita eterna. E voi, o giovani, se finora non avete ancor provato davvero che voglia dire patire, disponetevi tuttavia a provarlo, che i patimenti non tarderanno ad esservi anche per voi; anzi non vi mancheranno neppure adesso. se siete veramente virtuosi, poiché, sono massimamente i giovani virtuosi, che si prendono di mira dai malvagi, ed ai quali si muove la persecuzione. Ma allora ancor voi ricordatevi di essere nel numero dei seguaci di Gesù Cristo e patite volentieri; rallegratevi anzi di poter patire per Lui, che questa sarà la vostra più bella gloria.

2. Ma il divino Maestro mentre assegnò come speciale porzione ai buoni il patire, disse per contrapposto che i seguaci del mondo avrebbero avuto i godimenti. E l’esperienza conferma la parola di Gesù Cristo nel santo Vangelo. I malvagi il più delle volte quaggiù trionfano fortunatamente nelle loro iniquità: essi ricchezze, essi onori, essi piaceri, essi insomma tutto ciò che sembra rendere felici gli uomini sopra di questa terra, « E perché mai, si domanda lo stesso profeta Geremia, perché mai il peccatore viene prosperato nelle sue vie? Perché l’ingiustizia ottiene un esito così fortunato?» (Jer. XII). Perché? Anzitutto, o miei cari, perché la giustizia di Dio non si compie quaggiù, perché dopo il tempo verrà l’eternità, perché il Signore alle volte con questi godimenti terreni vuol premiare quel po’ di bene, che quei malvagi fanno in mezzo a tanto male, perché vuol castigarli lasciandoli in una felicità che li acceca, li insuperbisce, e li lascia nell’abisso delle loro colpe senza che se ne avveggano. Ma poi anche perché la sorte dei mondani, benché felice in apparenza non lo è in realtà. E credete voi che il mondo con tutti i suoi tesori, con tutte le sue dignità, e con tutti i suoi piaceri possa dare ai suoi seguaci dei godimenti veri, che riescano a pienamente soddisfarli? No, o miei cari, non è possibile. Il mondo con tutti i suoi beni non può contentare il cuore dell’uomo, perché l’uomo non è creato per questi beni, ma solo per Iddio, ond’è che solo Dio può contentarlo. Le bestie, che son create per i diletti dei sensi, esse si trovano la pace nei beni di terra; date ad un giumento un fascio di erba, date ad un cane un pezzo di carne, sono contenti, non desiderano niente più. Ma l’anima, che è creata solo per amare e star unita con Dio, con tutti i piaceri del mondo non potrà mai trovare la sua pace; solo Dio può renderla appieno contenta. S. Bernardo dice di aver veduto diversi pazzi con diverse pazzie. Tutti questi pativano una gran fame, ma altri si saziavano di terra, figura degli avari; altri di aria, figura di quei che ambiscono onori; altri d’intorno ad una fornace imboccavano le faville, che da quella svolavano, figura degli iracondi; altri finalmente d’intorno ad un fetido lago bevevano quell’acque fracide, figura dei disonesti. Quindi ad essi rivolto il Santo, diceva loro: O pazzi, non vedete che queste cose più vanno accrescendo, che togliendo la vostra fame? I beni del mondo sono beni apparenti, e perciò non possono saziare il cuore dell’uomo. Di fatti l’avaro quanto più acquista, tanto più cerca di acquistare e non si accontenta mai per quanto venisse a possedere tutto il mondo. Il disonesto quanto più si rivolge tra le sordidezze, tanto più resta nauseato insieme e famelico; e come mai il fango e le sozzure sensuali possono contentare il cuore? Lo stesso avviene all’ambizioso, che vuol saziarsi di fumo, poiché l’ambizioso più mira quel che gli manca, che quello che ha. Alessandro Magno, dopo aver acquistati tanti regni, piangeva, perché gli mancava il dominio degli altri. Oh! Se i beni di questa terra contentassero l’uomo, i ricchi, i monarchi sarebbero appieno felici; ma la esperienza fa vedere l’opposto. Salomone, il quale asserisce egli stesso di non aver negato niente ai suoi sensi, con tutto ciò dovette confessare che i beni del mondo sono vanità delle vanità, ed afflizione di spirito.Sì, oltre al non restarne soddisfatto, chi si abbandona ai piaceri di peccato non trova che amarezza, agitazione, spavento e rimorso. Chi sta in peccato ha paura per niente. Ogni fronda che si muova lo spaventa. Il suono del terrore è sempre nelle sue orecchie. Fugge sempre, senza veder chi lo perseguita. E chi lo perseguita? Il medesimo suo peccato. Caino dopo che uccise il fratello Abele, diceva: “Ora chiunque mi trovi, mi ucciderà”. E sebbene il Signore l’avesse assicurato che niuno l’avrebbe offeso, pure come dice la Scrittura, Caino andò sempre fuggendo da un luogo ad un altro. Chi era dunque il persecutore di Caino se non il suo peccato? Per di più il peccato porta seco il rimorso della coscienza, ch’è quel verme tiranno, che sempre rode. Vada pure il misero peccatore al teatro, al festino, al banchetto; ma tu, gli dice la coscienza, stai in disgrazia di Dio; se muori, vai all’inferno! Epperò il rimorso della coscienza è una pena sì grande anche in questa vita, che taluni per liberarsene son giunti a darsi volontariamente la morte. Uno di costoro fu Giuda, che come si sa, per disperazione da se stesso si appiccò. Ah! Che cosa è un’anima, che sta senza Dio? Dice lo Spirito Santo, ch’è un mare in tempesta. Se taluno fosse portato ad un lautissimo e splendido pranzo, ma ivi fosse appeso coi piedi, costretto a mangiare con la testa in giù, potrebbe godere di quel pranzo? Tal è quell’uomo, che sta con l’anima sottosopra, stando in mezzo ai beni di questo mondo, ma senza Dio. Egli mangerà, beverà, si divertirà, porterà indosso ricche vesti, riceverà quegli onori, otterrà quel posto, farà quella vendetta, ma non avrà mai pace ed allegrezza vera. La pace solo da Dio si ottiene, e Dio la dà agli amici, non già ai nemici suoi. La felicità adunque dei mondani non è che una felicità apparente, vana e ingannevole. Ed ecco perché Dio lascia godere a costoro una tale felicità.

3. Ma quand’anche questa felicità della terra fosse reale e valesse a rendere davvero soddisfatti tanti miseri uomini, quale sarà il suo termine? Il termine di una tale felicità è l’inferno con gli orribili suoi tormenti. Eravi un uomo, racconta lo stesso Gesù Cristo nel Vangelo, eravi un uomo, il quale andava fastosamente vestito, ed ogni giorno si dilettava in apparecchiar lauti banchetti. Eravi eziandio un mendico per nome Lazzaro, il quale tutto coperto di piaghe giaceva alla porta del ricco, e sentivasi così travagliato dalla fame, che desiderava saziarsi delle briciole che cadevano dalla mensa di quel ricco e non le poteva avere; sicché i cani, più compassionevoli del padrone, andavano a leccare le sue piaghe. Ma non molto dopo Lazzaro morì e dagli angioli fu portato nel seno di Abramo. E morì anche il ricco, ma l’anima sua fu seppellita giù nell’inferno. Allora in mezzo agli acerbissimi tormenti, ch’ivi si soffrono, permise Iddio all’Epulone di levare lo sguardo e vedere Lazzaro nel seno di Abramo. “Padre Abramo, si mise ad esclamare, ti chiedo una grazia; per pietà mandami Lazzaro, che col dito intinto nell’acqua venga a me e ne lasci cadere una goccia sulla mia lingua, perché in questa fiamma son cruciato orribilmente” . Ma Abramo alla domanda di quel dannato rispose dicendo: Ricordati che hai già ricevuto dei beni durante la tua vita. E con questa risposta lo lasciò immerso in maggiore tristezza. Ecco adunque, o carissimi, ecco il fine della felicità mondana. Quel cattivo ricco visse quaggiù in mezzo ad ogni sorta di godimenti ed oramai da diciannove secoli si trova fra i tormenti dell’inferno, e vi starà per tutta l’eternità col più crudo rimorso di aver tanto goduto nel mondo. E tale sarà la sorte di tutti i mondani, se a tempo non si convertiranno e non faranno penitenza dei loro peccati. E vi pare questa una sorte invidiabile? Ah non è mille volte più desiderabile la sorte dei servi di Dio? Il discepolo del Salvatore quaggiù incontra delle difficoltà e delle prove. Egli ha da mortificare i suoi sensi, ha da resistere alle sue cattive inclinazioni, ha da frenare le sue malvagie passioni, ha da piegare sempre docilmente la sua testa alla volontà di Dio, anche in mezzo alle avversità, alle contraddizioni, ai patimenti ed alle lagrime. Ma tutto ciò quanti meriti gli acquista e qual ricompensa gli prepara in cielo! Tutto quanto egli fa, tutto quello che egli soffre, tutto è da Dio contato e tutto sarà da Lui ricompensato per tutta l’eternità. Gesù Cristo lo ha detto e la sua parola non fallirà mai: Ora piangete e siete nell’afflizione, ma la vostra tristezza un giorno si convertirà in gaudio; e questo gaudio, quand’io vi vedrò in cielo, nessuno toglierà da voi in eterno. Or se è così adunque, perché non ci animeremo a sostenere volentieri e con coraggio i travagli di una vita veramente cristiana? Negli stenti e nei sudori, che soffre il contadino affidando il suo seme alla terra, non si anima forse pensando al copioso raccolto, che farà un giorno? E non si anima il soldato tra i pericoli della battaglia pensando alla corona, che gli sta preparata? Così ancor noi volgendo lassù il nostro pensiero, ripetiamo spesso con l’Apostolo Paolo: Non sunt condignæ passiones huius temporis ad futuram gloriam, quæ revelabitur in nobis: È un nulla il patire di questo mondo, in confronto all’eterno godere che Iddio tiene apparecchiato per coloro che lo amano e lo servono fedelmente (Rom. VIII. 18). E ciò ripetiamoci con tanto maggior animo, quanto più siamo certi di conseguire l’eterno gaudio per la fedeltà di Gesù Cristo nelle sue divine promesse. Il contadino, benché si travagli a lavorare la terra, non è sempre sicuro di fare un raccolto copioso, che da un momento all’altro una grandine furiosa può disertarlo. Il soldato nell’atto stesso che espone la sua vita, la può perdere e con essa l’ambita corona. Ma non è così di noi soffrendo e lavorando per il cielo. Gesù Cristo ha detto chiaro: La vostra tristezza si convertirà in gaudio e questo gaudio nessuno mai re lo potrà rapire . E la parola di Gesù Cristo non verrà meno in eterno.

Credo…

Offertorium

Orémus

Ps CXLV: 2 Lauda, anima mea, Dóminum: laudábo Dóminum in vita mea: psallam Deo meo, quámdiu ero, allelúja. [Loda, ànima mia, il Signore: loderò il Signore per tutta la vita, inneggerò al mio Dio finché vivrò, allelúia.]

Secreta

His nobis, Dómine, mystériis conferátur, quo, terréna desidéria mitigántes, discámus amáre coeléstia. [In virtú di questi misteri, concédici, o Signore, la grazia con la quale, mitigando i desiderii terreni, impariamo ad amare i beni celesti.]

Communio

Joannes XVI: 16 Módicum, et non vidébitis me, allelúja: íterum módicum, et vidébitis me, quia vado ad Patrem, allelúja, allelúja. [Ancora un poco e non mi vedrete più, allelúia: ancora un poco e mi vedrete, perché vado al Padre, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

Orémus.

Sacramenta quæ súmpsimus, quæsumus, Dómine: et spirituálibus nos instáurent aliméntis, et corporálibus tueántur auxíliis. [Fai, Te ne preghiamo, o Signore, che i sacramenti che abbiamo ricevuto ci ristòrino di spirituale alimento e ci siano di tutela per il corpo.]

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.