GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO – 2° corso di Esercizi Spirituali (4)

IL MAGISTERO IMPEDITO

2° corso di ESERCIZI SPIRITUALI

Nostra conversatio in cœlis est

[G. SIRI: Esercizi spirituali, Ed. Pro Civitate Christiana, Assisi, 1962] –

4. Il peccato

Vi invito a fare la meditazione sul peccato. È tradizionale, ed è uno di quei punti dai quali non si può mai prescindere, qualunque sia il tema generale che si scelga per gli Esercizi Spirituali. Però noi questo argomento lo dobbiamo trattare, per una ragione di logica e di coerenza, dal punto di vista nostro, cioè mettendoci al livello di lassù, perché nostra conversatio est in cœlis. Bisognerebbe che in questi santi Esercizi noi imparassimo un punto di vista particolare da cui guardare quaggiù, che poi divenisse un modo abituale di guardare tutte le cose della nostra vita. Dobbiamo abituarci a vedere tutte le cose dall’alto, da un livello superiore. In altri termini, vi invito a vedere quello che si può presumere si veda non dal cielo, perché siamo ancora quaggiù, ma da quella conversatio in cœlis che può essere data a noi, cioè dal livello più alto, che non pretende di avere la saggezza di chi è in cielo, ma si sforza di adeguarsi il più possibile a quella saggezza. Voi sapete che il peccato è la trasgressione libera della legge di Dio; sapete che presuppone una legge, una legge obbligante. Sapete che la trasgressione non è libera se manca un atto di intelligenza sufficientemente chiaro e se manca l’atto di volontà. Se vengono a mancare questi due elementi, non abbiamo più la trasgressione libera; avremo il peccato materiale, ma non il peccato formale. Qualora uno di questi due elementi si attutisca, non potremmo avere la colpa grave, ma la colpa che dovrebbe essere obiettivamente grave diventa perciò leggera. Voi sapete che di peccati ve ne sono di due sorta: il peccato grave e quello leggero o veniale. Il peccato grave ha la conseguenza di togliere la grazia santificante dall’anima, e pertanto si chiama mortale. Vi è pure noto che il peccato è grave perché viola sostanzialmente l’ordine divino. Vi è poi il peccato leggero, che non toglie la grazia santificante; diminuisce però l’ardore della carità e può disporre a cadere gravemente. È leggero perché non consuma una sostanziale violazione dell’ordinamento posto da Dio. – Queste nozioni era necessario premetterle, ma ora bisogna meditarle. A meditare sul peccato guardando di lassù, perché si vede meglio, di lassù che cosa si vede? La santità di Dio. Di quaggiù si vedranno in primo piano altre cose, ma di lassù si vede la santità di Dio. Quando il profeta Isaia, come egli narra nella sua visione di investitura, vide Iddio sedere sul trono, lo contemplò col manto di tale latitudine che copriva il pavimento del tempio e i Serafini dalle sei ali, il cui cantico era : « Santo, Santo, Santo è il Signore, Iddio degli eserciti ». Se rileggerete la pagina dell’Apocalisse in cui si vedono raccolte nello stesso cantico tutte le creature, vi trovate questo: i seniori che stanno intorno, il mare di cristallo che sta davanti al trono di Dio e che simboleggia le intelligenze le quali, come il cristallo, accolgono la luce e possono fil trare la luce e riflettere la luce; e poi tutti gli altri. È il cantico che riassume l’eternità. Bisogna vedere la santità di Dio, questa santità che, quando viene adombrata nelle S. Scritture, ha accenti solenni e grandiosi. Quando Giobbe fa una certa contestazione a Dio, nel colmo del suo dolore, la risposta che riceve è questa (era una risposta “ad hominem”): « Guarda bene la magnificenza dei cieli e della terra…; osserva e senti le forze che si agitano in esse, l’impeto dei venti, la meraviglia delle cose che sono state disposte nell’orbe, e poi vedi se tu, dinanzi a questo spettacolo che ti dice chi sia Io, puoi trovare il coraggio di parlare ». E Giobbe, che era logico, appunto perché logico ha chinato la testa e non ha più contestato a Dio il dolore che l’infinita e amorosa provvidenza divina, a gloria di Giobbe in terra, e possiamo pensare a ben più alta gloria in cielo, aveva permesso. Quando si tratta della santità di Dio, pare che si debba trattenere il respiro. Tutta l’armonia di quaggiù, la precisione delle leggi, la loro inderogabilità, la loro costruzione in un unico disegno, e quindi l’armonia grande come il nostro cosmo, profonda come possono essere profonde le anime, le ragioni delle cose, le cause seconde che si dispongono fin dove noi non sappiamo e dove incontreremo la Causa prima; tutto questo fa pensare alla santità di Dio. Noi siamo impressionati dalla luce del sole e non lo possiamo guardare. Eppure è una cosa materiale che brucia, che effonde calore e luce e dà effetti meravigliosi e nutrienti. Ma il sole non è altro che una piccola creatura, e lo splendore del sole è un lontanissimo paragone di quella eterna santità e maestà di Dio. « In sole posuit tabernaculum suum »; e il tabernacolo era un simbolo. Anche il sole, astro del giorno, nutrizione della terra, è là anzitutto e soprattutto per parlare di Dio, che è ben altra luce e ben altro nutrimento. L’ultima scoperta della scienza riguarda la funzione clorofilliana che, fino a poco tempo fa, credevamo servisse soltanto per ciò che tutti conoscono. Da pochi anni è stato scoperto che la funzione clorofilliana è forse la più meravigliosa che si conosca, al di sotto dell’uomo. Essa trasforma il raggio solare in materia che entra ad animare le cose terrestri. Fino a poco tempo fa questo non si sapeva, e questa scoperta spiega perché anche dove le piante si abbarbichino sulla roccia, riescano a vivere. E tutto questo ordine è già nel sole. « In sole posuit tabernaculum suum ». Il tabernacolo non è che un significato, un simbolo, perché si pensi a quello che è Iddio, la santità, la maestà di Dio. Quando noi consideriamo questo Essere supremo, questo Atto Puro, e quando attraverso l’indagine metafisica noi pensiamo a quello che di potenziale viene escluso dal concetto che lo rappresenta sicché sia semplicemente Atto Puro; e per avere un dipanarsi migliore di questo Atto Puro nella nostra piccola intelligenza dobbiamo procedere contro luce e per forza di contrasti e vedere come mai quello che è opposto all’Atto Puro, cioè l’atto potenziale, misto di perfezione e di imperfezione, si vada dipanando nel tempo, nel moto, nel carattere effimero di tutte le cose, allora sentiamo di diventare immensamente piccoli, e i termini della luce di Dio diventano immensamente grandi. Allora si sente una irradiazione di potenza, d’amore e di eterna saggezza, e la nostra mente si perde.Quando vogliamo pensare al peccato, ricordiamoci della santità di Dio e dell’infinita incompossibilità del disordine con questo infinito ordine; dell’incompossibilità delle tenebre con questa infinita luce; dell’assoluta incompossibilità della negazione con questa infinita affermazione, la quale, causando, fece sì che altre potenziali e limitate cose fossero, esistessero, affermative e positive. È necessario guardare a questa santità di Dio e sentirsi davvero in questa luce per scoprire, attraverso il raggio che di là a noi si protende e ci investe e colora variamente, secondo il merito, le macchie che portiamo nell’anima nostra. È necessario sentire questa santità di Dio la quale, riflessa in un così mirabile ordine nel creato, mette in causa la negazione e la contraddizione di qualsiasi nostro atto irregolare, imperfetto, negatore del dominio di Dio, se è peccato grave; mette in mostra quelle macchie che la crepuscolarità della luce di questo mondo facilmente copre e allontana dal nostro sguardo, forse anche illudendoci di esservi una sorta di perfezione, d’onestà là dove invece c’è soltanto la tessitura, anche attraverso piccole imperfezioni, di una mostruosa ingratitudine a Dio. Lasciate che ripeta queste parole: anche attraverso il disegno di piccole venialità e imperfezioni quotidiane, si traccia il profilo di una mostruosa ingratitudine a Dio. Il peccato bisogna guardarlo di lassù, di dove si vede il bene e il male, la vita e la morte, il tempo e l’eternità, la luce e le tenebre, l’affermazione e la negazione, l’Atto Puro (che è unicamente Iddio) e l’essere potenziale. Le creature partecipano a qualche cosa di derivato, di creato dalla eterna realtà di Dio, la loro piccola realtà non può non essere presuntuosa quando si leva al di sopra della anche più piccola legge del Signore. Bisogna arrivare a quel punto per vedere l’armonia e la disarmonia, l’ordine e il disordine, il dramma spaventevole di questo ergersi del desiderio, ridicolo nella sua realtà, mostruoso nel suo effetto. Di lassù il peccato lo si vede così. Se conversatio nostra in caelis est, non si può ricavare dal rottame di naufragio che è il peccato contorni di sorriso, lineamenti di piacere, vibrazioni e palpiti di vita. Sarà, se mai, illusione nostra e dei nostri fratelli, se pensiamo che nel peccato si nasconda qualcosa che possa rassomigliare al limpido sorriso e al vigoroso palpito di vita, definendolo esperienza umana che completa il nostro pellegrinaggio e lo rende avventuroso, valido e virile. Non è vero, non è vero! È la realtà rovesciata! Ma di lassù si vede dell’altro, molte cose! Si abbraccia un panorama grande come la storia e più grande del mondo, del nostro piccolo pianeta che non è poi di quella grandezza che forse si credevano gli antichi! Di lassù si vede il dramma del peccato. Si vede qualcosa da cui si ricava con logica impreteribile e tremenda una conclusione: c’è voluto il Figlio di Dio Incarnato, vissuto, morto e sepolto per aggiustare tutta questa faccenda. E sarebbe stato necessario tutto ciò anche se il peccato nel mondo fosse stato uno solo e i figli di Adamo nulla avessero aggiunto al fardello del loro disgraziato genitore. Non ci sarebbe stata sostanziale diversità. Sarebbe occorso ugualmente per salvare il principio fondamentale della giustizia, posto che Dio avesse voluto salvare il criterio di giustizia, che nell’ordine spirituale e morale risponde al criterio di ordine, che è il fondamento di tutte le leggi determinate e determinanti di natura. Questo si vede, ed è tremendo! Alla Croce noi pensiamo poco, forse perché ci siamo abituati a vederla; ma essa dice che cosa ci sia di profondo e di terribile in un solo peccato: i dolori del Figlio di Dio, la sua agonia, spinta al punto non solo di sudare sangue ma di fargli mormorare con le sue labbra di uomo: « Se è possibile, passi da me questo calice! ». E il giorno appresso gli ha fatto intonare, quasi a ricordare ai presenti il dramma che allora si concludeva: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? ». È tragico, è tremendo. I lineamenti della profondità della colpa, della sua ingratitudine, della sua negatività mostruosa, noi non li dobbiamo vedere negli atti dell’uomo ma nelle piaghe di Gesù crocifisso, nella sua agonia, quella spirituale nell’orto, quella spirituale e materiale sulla croce. Noi l’avvertiamo quando sentiamo quel grido fermissimo che lanciò prima di deporre l’anima sua, quasi a indicare quale fosse la veemenza di quanto allora sopportava, e nello stesso tempo la maestosa libertà con cui lui, sempre Figlio di Dio anche se moriva in quanto uomo, liberamente deponeva la sua anima umana e moriva. Per vedere il peccato dobbiamo meditare la passione di N. S. Gesù Cristo e ricordare che tutti i termini di quella passione hanno la profondità dell’unione ipostatica, ossia dell’Incarnazione, ossia del fatto che la natura umana non è sostentata da una personalità creata, come avviene per tutti gli altri uomini, ma è sostentata direttamente dall’Io divino, ricevendo una causalità di sussistenza nel modo proprio col quale Dio causa. Se ci proviamo a rileggere la Passione secondo S. Giovanni, che è la più immediata, toccante, divina delle narrazioni, diventiamo piccoli, ci perdiamo. Se a ogni parola noi presentiamo la profondità che viene dal mistero dell’Incarnazione, ossia dell’unione ipostatica, è difficile che arriviamo in fondo. Io comprendo perché diversi santi, quando avevano il presentimento che si avvicinava per loro il momento di tirare i remi in barca e andarsene, hanno chiesto di essere accompagnati verso la morte ascoltando la lettura della Passione di N. S. Gesù Cristo secondo S. Giovanni. Quando voi guarderete il Crocifisso, ricordatevi che non è solo una rappresentazione drammatica di Gesù che ha sofferto, ha temuto, è stato anche triste, una rappresentazione tale da evocare vibrazioni riposte del cuore cristiano. No, la Croce riassume, documenta che cosa sia la colpa. Perché la vera meditazione sulla colpa non la si fa guardando a noi, analizzando i termini teologici della violazione della legge che ci portano solo a una comprensione in termini umani di cosa sia il peccato. Per sentire con maggiore profondità quella verità che dà veramente il nodo del pianto, bisogna considerare Gesù Cristo crocifisso. Allora si capisce che cosa voglia dire il peccato. E poiché Gesù non ha patito soltanto per i peccati mortali degli uomini, ma anche per i loro peccati veniali e per tutte le più piccole deformazioni, sfumature, nelle quali entrasse, anche solo per riflesso o per ombra, la colpa, ritorna un’altra volta il pensiero a quella tessitura di scialbe vite che non hanno la preoccupazione della perfezione, che non impegnano le proprie forze per togliere la colpa veniale, per superare anche quella, riuscendo a comporre il profilo di una mostruosa ingratitudine a Dio Padre, che ci ha creati e che ha posto per noi un ordine di Redenzione e di Grazia nel Figlio suo unigenito, il Verbo Eterno che si è fatto uomo per noi, e nell’Eterno Spirito, al quale tutta la Sacra Scrittura del Nuovo Testamento, per ragioni misteriose e profonde che in gran parte sfuggono a noi e ci trascendono, è attribuita tutta la santificazione degli uomini. – Bisogna guardare di lassù; ma di lassù si vede anche dell’altro. Si vede che la Redenzione, tutta quanta, è stata fatta attraverso un dolore umano, cioè è stata fatta attraverso un piano sul quale si trovano anche gli uomini. Ed è stata fatta su quel piano, oltre che per tutte le altre ragioni, anche per questa: perché gli uomini sapessero che anche essi dovevano collaborare a questa Redenzione con la loro sofferenza, con la loro rinuncia, con l’accettare l’aridità della croce, senza fronde, senza fiori e senza foglie; con l’accettare la trasudazione del sangue nell’orto; con l’accettare l’abbandono, le tenebre, la notte oscura; con l’accettare tutto per trovarsi su quel terreno accanto a Colui che ci ha eternamente amati. – Di lassù si vede ancora che non si deve considerare solamente il peccato nostro, ma il peccato degli uomini, e che a tutti gli uomini incombe l’onere di pagare per il peccato di tutti. Perché per tutti bisogna pagare. Volesse Iddio che ognuno capisse che deve pagare almeno per sé! Ma quando hanno pagato per sé, non hanno ancora risposto all’appello che chiaramente si intende quando ci si mette a considerare la cosa di lassù, e cioè che si deve pagare anche per gli altri uomini. Ancora una volta la conversatio in cælis mette l’uomo davanti a un dovere, quello della penitenza, che non si può scindere dalla considerazione del peccato. È letterario fermarsi al dramma del peccato; potrà essere artistico indugiare sul suo supremo contrasto; potrà essere allettante dal punto di vista della espressione fantastica, della sua contraddizione con l’armonia della vita. Ma tutto questo non è sufficiente. Bisogna pagare. Bisogna salire sulla croce, accettare la croce e desiderare la croce. Quando si pensa a queste cose — ricordatevene il giorno in cui doveste soffrire —; quando ci si pensa sul serio, se non si riflettesse che siamo deboli, verrebbe fatto di chiedere a Dio la croce, e quella più grande. È difficile chiederla, perché siamo talmente deboli che sarebbe un atto di presunzione; ma se, non chiesta, vi capitasse, in quel momento ricordatevene, e avrete la liberazione perché la troverete infinitamente bella. Potrete dire: Non la chiedo io, non faccio un atto di presunzione o un atto di vanteria: ma, dato che c’è, l’accetto, sia benedetto Iddio, e a questo modo vado in croce e con lui.- A questo modo, proprio perché conversatio nostra in cœlis est, cose che possono sembrare terribili diventeranno portabili; cose che potranno sembrarvi mostruose, terrorizzanti, potranno diventare amene. Certamente! Perché i passi difficili dovremo percorrerli tutti, più o meno; rinunce anche estreme potrà essere che ne dobbiamo fare; oneri terribili potranno cadere sulle nostre spalle. Ma quando questo accadesse, ricordatevi che vi verrà bene pensare quello che in altri momenti non so se si possa chiedere sempre con ciglio asciutto o evitando la presunzione. Ma allora troverete bello andare con Gesù Cristo in croce. È qui dove voi sentite che cosa voglia dire questa croce. Ricordatevene, se un giorno vi capitasse. Tutti noi un giorno dovremo fare il sacrificio ultimo. Quando verrà l’ora, chiediamo a Dio di potere almeno fare il sacrificio liberamente, come Gesù Cristo l’ha fatto. Leggendo la vita di un grande vescovo morto qualche decennio fa, mi impressionò molto l’apprendere che quando venne destinato a una sede molto importante, la prima cosa che fece fu quella di chiedere quanti monasteri di clausura ci fossero. « Perché? » gli fu chiesto. « Per avere della gente che patisca con me quando ci saranno dei peccati » fu la sua risposta. Miei cari, il peccato bisogna vederlo così. Non è una questione personale soltanto, da liquidarsi nella piccola contabilità, per cui ci si va a confessare, poi si fa una piccola penitenza e poi, e poi si tira avanti. Qualche volta ci si aggiunge, per superiore generosità, qualche piccola mortificazione, qualche piccola rinuncia. No, se nostra conversatio in cœlis est, guardate che le cose stanno diversamente e bisogna avere il fegato di guardare le cose in faccia. Questo è il peccato. Di lassù si vedono tante cose. Si vede come in realtà tutti i guai della terra siano legati alla superbia degli uomini, alla loro sensualità, ai peccati capitali. La colleganza con quelli, in tutte le guerre, in tutti i deragliamenti, in tutto lo scivolare che gli uomini fanno verso i peggiori loro destini è chiara. Non ne circolano ancora, almeno meritevoli di stima, di libri sulla teologia della storia, e Dio voglia che i teologi se ne occupino un po’ di più. Se di queste cose fosse meglio illuminata la nostra intelligenza, noi capiremmo come ciò che decide veramente degli avvenimenti della terra è la situazione degli uomini rispetto alla legge di Dio. E di lassù si vede questo. Ecco perché i politici puri sbagliano tutto, a un certo momento. Se indovinano nel momento prima, 50 anni dopo ci si accorge che hanno sbagliato tutto. Perché i politici puri non sanno la ragione teologica che domina la storia, non possono capire da che parte stia il meglio e da che parte stia il peggio. Di lassù si vede il grande uragano che va dilagando qua e là per la terra e che prende ora questi, ora quegli uomini e li incoglie a solo, e inonda le loro anime e crea i grandi drammi interiori. Questo grande uragano di lassù, come dall’alto di un aereo, lo si vede vagare per la terra, si vede la ragione per cui gli uomini inutilmente soffrono. E questo è quello che più stringe il cuore: che non vedono l’utilità del dolore. In fondo non si è mai nella più nera desolazione quando muore un amico che è vissuto bene e che è morto bene, perché si sa che è andato a star meglio. Si soffre quando non si sa e bisogna chiudere la partita con una girata alla misericordia di Dio che, per fortuna, è infinitamente maggiore della nostra. La prospettiva giusta del peccato la si ha quando ci si mette lassù, guardando da quel livello, quando cioè nostra conversatio in cœlis est. Ma non dimenticate, se dovessero incogliervi grandi dolori, che essi sono il trionfo dell’anima che ritrova il miglior momento della sua generosità e può dire: pago per me e, se Dio lo permette, anche per gli altri.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.