DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE (2023)

DOMENICA XXIII DOPO PENTECOSTE (2023)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

Questa Domenica negli anni in cui la Pasqua cade il 24, o il 25 Aprile si anticipa al Sabato (rispettiv. 19, 20 Nov.) con tutti i privilegi della Domenica occorrente, cioè Gloria, Credo, Prefazi della Trinità e Ite Missa est per lasciar luogo rispettivamente nei giorni 20, 21 Novembre alla Domenica ultima dopo Pentecoste. Il tempo dopo Pentecoste è simbolo del lungo pellegrinaggio della Chiesa verso il cielo; le ultime Domeniche ne descrivono profeticamente le ultime tappe. In quest’epoca si leggono nel Breviario gli scritti dei grandi e dei piccoli Profeti, che annunziano quello che accadrà alla fine del mondo. Quando i Caldei ebbero condotti gli Israeliti in cattività a Babilonia, Geremia percorse le rovine di Gerusalemme, ripetendo le sue Lamentazioni « Guarda, Signore, poiché è caduta nella desolazione la città che una volta era piena di ricchezza, la padrona delle nazioni è assisa nella tristezza. Essa amaramente piange durante la notte e le sue lagrime scorrono sulle sue gote » (3° Responsorio, 1a Dom. Nov.; Antit. del Magnificat, 2a Dom.). E profetizzò il doppio avvento del Messia che restaurerà tutte le cose. « Il Signore ha riscattato il suo popolo e lo ha liberato; e verranno ed esulteranno sul monte Sion e si rallegreranno dei beni del Signore » (1° Responsorio, lunedì 2a settimana). Fra i prigionieri condotti a Babilonia si trovava un sacerdote detto Ezechiele. Egli aveva annunziato la cattività che stava per ricadere su Israele: « Ora la fine è su di te e manderò contro di te il mio furore; e ti giudicherò secondo la tua vita e non avrò pietà » (1a Lezione, Mercoledì, 1a settimana). E nell’esilio egli profetizzò: « Le nostre iniquità e i nostri peccati sono sopra di noi; come dunque possiamo vivere? Ma il Signore ha detto: Non voglio la morte dell’empio, ma che egli si tolga dalla cattiva strada e viva. – Distoglietevi dalle vostre male vie e non morrete » (3a lezione, Lunedì 2a settimana). Dio mostrò al profeta in una visione, il futuro su di un’alta montagna e gli indicò il culto perfetto che Egli attendeva dal suo popolo quando lo condurrebbe verso i colli eterni di Sionne (7a lezione Venerdì 2a settimana). Daniele, che era pure tra i prigionieri di Babilonia, spiegò il sogno di Nabucodonosor, dicendo che la piccola pietra che, dopo aver fatto cadere la statua d’oro, d’argento, di ferro e di argilla, diventò una grande montagna, è figura di Cristo, il regno del quale, consumerà tutti gli altri regni e sussisterà eternamente (Lunedì 3° settimana). – Le guarigioni e le risurrezioni corporali, compiute dal Signore, sono la figura della nostra liberazione e della nostra risurrezione futura: Da tutte le parti ricondurrò i prigionieri » dice Geremia nell’Introito « Tu hai fatto cessare la cattività di Giacobbe » aggiunge il Versetto dell’Introito « Signore, tu ci hai liberato da coloro che ci odiavano » continua il Graduale: « Dal fondo dell’esilio le nazioni hanno infatti gridato verso il Signore, supplicandolo di ascoltare la loro preghiera » spiegano l’Alleluia e l’Offertorio e, come in Dio vi è un’abbondante redenzione, egli riscatterà il suo popolo da tutte le sue iniquità » (stesso Salmo, vers. 7 e 8). Preghiamo dunque con fiducia, poiché se Gesù risuscitò la figlia di Giairo e guarì l’emorroissa, ciò fu fatto secondo la parola del Signore: « Tutto quello che domanderete, lo riceverete ». Quale terrore quando il Giudice verrà ad esaminare rigorosamente ognuno!… dice la Sequenza dei Defunti. La tromba squillerà fra le tombe e convocherà tutti gli uomini davanti al Cristo. La morte e la natura resteranno interdette quando la creatura risorgerà per rispondere al giudizio divino. Allorché l’eterno Giudice siederà sul suo seggio, tutto quello che è nascosto sarà palesato e nulla resterà impunito. Giusto Giudice, nella tua clemenza accordami grazia e perdono prima del giorno del rendiconto ». Nelle ultime parole dell’Epistola odierna, l’Apostolo allude al libro di vita ove sono scritti i nomi dei Cristiani che la loro condotta esemplare rende degni della vita eterna. Gesù resuscita la figlia di Giairo con la stessa facilità con la quale noi svegliamo una persona che dorme. Così la sua divin virtù resusciterà i nostri corpi l’ultimo giorno.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.

V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.

Introitus

Jer XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.

[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis.

[Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Kyrie

S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.

Gloria

Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.

Oratio

Orémus.
Absólve, quǽsumus, Dómine, tuórum delícta populórum: ut a peccatórum néxibus, quæ pro nostra fraglitáte contráximus, tua benignitáte liberémur.

[Perdona, o Signore, Te ne preghiamo, i delitti del tuo popolo: affinché dai vincoli del peccato, contratti per lo nostra fragilità, siamo liberati per la tua misericordia.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Philippénses.
Phil III: 17-21; IV: 1-3

Fratres: Imitatóres mei estóte, et observáte eos, qui ita ámbulant, sicut habétis formam nostram. Multi enim ámbulant, quos sæpe dicébam vobis – nunc autem et flens dico – inimícos Crucis Christi: quorum finis intéritus: quorum Deus venter est: et glória in confusióne ipsórum, qui terréna sápiunt. Nostra autem conversátio in cœlis est: unde etiam Salvatórem exspectámus, Dóminum nostrum Jesum Christum, qui reformábit corpus humilitátis nostræ, configurátum córpori claritátis suæ, secúndum operatiónem, qua étiam possit subjícere sibi ómnia. Itaque, fratres mei caríssimi et desideratíssimi, gáudium meum et coróna mea: sic state in Dómino, caríssimi. Evódiam rogo et Sýntychen déprecor idípsum sápere in Dómino. Etiam rogo et te, germáne compar, ádjuva illas, quæ mecum laboravérunt in Evangélio cum Cleménte et céteris adjutóribus meis, quorum nómina sunt in libro vitæ.

(“Fratelli: Siate miei imitatori, e ponete mente a coloro che si diportano secondo il modello che avete in noi. Poiché ci sono molti dei quali spesse volte vi ho parlato; e adesso vene parlo con lacrime, i quali si diportano da nemici della croce di Cristo: la loro fine è la perdizione; il loro Dio è il ventre: si vantano in ciò che forma la loro confusione, e non han gusto che per le cose terrene. Noi, invece, siamo cittadini del cielo, da dove pure aspettiamo, come Salvatore, il nostro Signor Gesù Cristo, il quale trasformerà il nostro miserabile corpo, rendendolo conforme al suo corpo glorioso; per quella potenza che ha di poter anche assoggettare a sé ogni cosa. Pertanto, miei fratelli carissimi e desideratissimi, mio gaudio e mia corona, continuate a star così fermi nel Signore, o amatissimi. Prego Evodia ed esorto Sintiche ad avere gli stessi sentimenti nel Signore. E prego anche te, fedel compagno, di venir loro in aiuto: esse hanno combattuto con me per il Vangelo, insieme con Clemente e con gli altri miei collaboratori, i cui nomi sono nel libro della vita”.).

LA NUOVA IDOLATRIA.

Ecco: voi siete convinti, credo tutti, che l’idolatria abbia fatto il suo tempo; il Cristianesimo l’ha seppellita. E se io vi dicessi che v’è ancora, che vive, forse vi scandalizzereste e, scandalizzati, mi dareste su la voce. E invece ecco qua San Paolo che ci parla di una idolatria diversa da quella che adorava Giove, Saturno… ma non meno verace idolatria di quella. E ce la presenta come l’abisso nel quale precipitano i nemici della Croce di Gesù Cristo. Questi nemici sono due; singolarmente due passioni, due stati d’animo: due gruppi di persone in questi stati d’animo: il piacere e l’orgoglio. L’orgoglio odia la Croce di Gesù Cristo, perché essa è simbolo e personificazione di umiltà. « Umiliò se stesso alla obbedienza della Croce » dice San Paolo, parlando di N. S. Gesù Cristo. Ma per ciò gli orgogliosi non lo tollerano, par loro un’ignominia, un avvilimento. Parlano con sdegno della servitù o schiavitù della Croce… Abbiamo ancora nell’orecchio le frasi blasfeme del poeta pagano. Gesù, egli il pagano poeta, lo vede nell’atto di gettare una Croce sulle spalle di Roma, dicendole, intimandole: portala e servi. E coll’orgoglio fa comunella contro la Croce il piacere, contro la Croce che canta l’inno austero del dolore, che gronda lagrime, lagrime amare. C’è un mondo che vuol divertirsi, che intuisce la vita come voluttà, come piacere. La Croce a questo mondo di uomini sensuali fa paura. Non la vogliono, le si ribellano, la respingono. Ma le passioni che li allontanano dalla Croce diventano il loro castigo, la divina nemesi della loro apostasia. La sensualità vince gli uomini del piacere, che, del piacere, diventano schiavi. E allora il loro Dio, il loro padrone, colui al quale tutto sacrificano e che non sacrificherebbero mai, in nulla e per nulla, il loro Dio è il ventre. Si riducono a vivere per mangiare, invece di mangiare per vivere e vivere per Dio. O se il loro Dio, il loro tiranno, il loro ideale non è il cibo con la bevanda relativa, è l’abito, la vanità nel vestire, o la casa comoda, sfarzosa, sempre la materia. Alla quale servono proni, supinamente proni, invece di servirsene. Il loro Dio è il ventre, dice San Paolo, che ha poche nebbie al suo pensiero e pochi peli sulla lingua quando il suo pensiero nitido si tratta di esprimerlo: « quorum Deus venter est ». Bella divinità! Valeva la pena di ribellarsi a Gesù Cristo, alla sua Croce, per cadere così in basso? Per gli orgogliosi c’è un altro destino, un altro castigo. L’orgoglioso diventa lo schiavo di se stesso, rimane solo in balìa di sé, delle sue esaltazioni tumide. Il suo Dio è il suo io, l’ipertrofia del suo io. L’umanità è bella, buona, ma a posto suo, come, del resto, ogni cosa di questo mondo. Fuor di posto, messa al posto di Dio, fa pessima figura e si guasta. La domestica sta bene al posto suo proprio, la serva-padrona è ridicola e funesta a sé e agli altri. È la sorte della umanità divinizzata, e la divinizzazione dell’umanità è la logica della superbia, dell’orgoglio nemico della umile Croce di Gesù Cristo. Il confusionismo è poi la risultante di questo orgoglio, confusionismo di idee e confusionismo di opere. – E quando si contemplano i due abissi a cui mettono capo l’orgoglio e la sensualità dei nemici del Cristianesimo, viene voglia non solo di prostrarsi con rinnovato fervore di adorazione davanti alla Croce, ma di abbracciarla e baciarla ripetendo: «O Crux, ave spes unica! »

P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. (Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch. Mediolani, 1-3-1938)

 Graduale

Ps XLIII: 8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.

[Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano.]


In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in saecula. Allelúja, allelúja.

[In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno..]

Alleluja

Allelúia, allelúia

Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum.
Matt IX: XVIII, 18-26
In illo témpore: Loquénte Jesu ad turbas, ecce, princeps unus accéssit et adorábat eum, dicens: Dómine, fília mea modo defúncta est: sed veni, impóne manum tuam super eam, et vivet. Et surgens Jesus sequebátur eum et discípuli ejus. Et ecce múlier, quæ sánguinis fluxum patiebátur duódecim annis, accéssit retro et tétigit fímbriam vestiménti ejus. Dicébat enim intra se: Si tetígero tantum vestiméntum ejus, salva ero. At Jesus convérsus et videns eam, dixit: Confíde, fília, fides tua te salvam fecit. Et salva facta est múlier ex illa hora. Et cum venísset Jesus in domum príncipis, et vidísset tibícines et turbam tumultuántem, dicebat: Recédite: non est enim mórtua puélla, sed dormit. Et deridébant eum. Et cum ejécta esset turba, intrávit et ténuit manum ejus. Et surréxit puélla. Et éxiit fama hæc in univérsam terram illam.

“In quel tempo, mentre Gesù parlava alle turbe, ecco che uno de’ principali se gli accostò, e lo adorava, dicendo: Signore, or ora la mia figliuola è morta; ma vieni, imponi la tua mano sopra di essa, e vivrà. E Gesù alzatosi, gli andò dietro co’ suoi discepoli. Quand’ecco una donna, la quale da dodici anni pativa una perdita di sangue, se gli accostò per di dietro, e toccò il lembo della sua veste. Imperocché diceva dentro di sé: Soltanto che io tocchi la sua veste, sarò guarita. Ma Gesù rivoltosi e miratala, le disse: Sta di buon animo, o figlia; la tua fede ti ha salvata. E da quel punto la donna fu liberata. Ed essendo Gesù arrivato alla casa di quel principale, e avendo veduto i trombetti e una turba di gente, che faceva molto strepito, diceva: Ritiratevi; perché la fanciulla non è morta, ma dorme. Ed essi si burlavano di lui. Quando poi fu messa fuori la gente, egli entrò, e la prese per una mano. E la fanciulla si alzò. E se ne divulgò la fama per tutto quel paese”

OMELIA

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI  ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano).

LA COMUNIONE FREQUENTE (*)

(*) Comunione sacramentale o – per chi non è certo di potere accedere ad un Sacramento valido e lecito – spirituale.

Nella sala del banchetto si fece un silenzio improvviso. Un uomo, ansimando com’uno che arrivi di corsa, entrò: aveva il viso pallido e sconvolto, aveva gli occhi umidi di lacrime, aveva nella voce un singhiozzo che tremava. Era Giairo, il capo della sinagoga: e l’unica figlia dodicenne di cui era padre gli moriva in casa. Dimenticando la sua dignità personale, non pensando ai Farisei che lo potevano spiare, sospinto solo dalla bufera del suo grande dolore, cercava Gesù dovunque si fosse. L’infelice lo guardò trovava ora, a banchetto, nella casa del pubblicano Levi. Lo vide, lo guardò, sì gettò in terra, l’adorò e gli disse. « Signore! La mia bambina muore. Forse è già morta. Te ne supplico: vieni a casa mia, toccala con la tua mano e vivrà ». La fede di quell’uomo che domandava la resurrezione di sua figlia, come fosse la cosa più semplice del mondo, commosse Gesù, che lasciò la mensa e gli andò dietro. Intanto molta gente aveva saputo la cosa ed accorreva per vedere risuscitare un morto. E l’aveva saputo anche una povera donna che da dodici anni soffriva perdite di sangue. Aveva sprecato tutto un patrimonio in medici e medicine senza risultato alcuno; ché anzi il male suo era venuto aggravandosi sempre più. Se Gesù sapeva risuscitare i morti, forse che non avrebbe saputo guarirla dal suo male? Ma come parlargli in faccia a tutti, come fermarlo in quei momenti di ressa? Una gran fede la ispirò. Si gettò in mezzo all’onda fluttuante del popolo e riuscì a giungere vicino al Signore. « Oh, se riuscissi, — pensava — a toccare anche l’estremo lembo del suo mantello, sarei guarita! » Tremando s’accostò, di dietro, e protese la mano fino a sfiorare il suo vestimento. In quest’istante una commozione profonda la sconvolse fibra a fibra e comprese d’essere guarita. Gesù si rivolse e la vide: « Figlia, — le disse — confida che la tua fede, oggi ti ha guarita ». Com’è bella questa pagina di Vangelo, piena di sprazzi di fede come un cielo di marzo è pieno di raggi di sole. Non è sulla persona dell’emoroissa che ci fermeremo a pensare: a noi poco interessa sapere se fosse Marta sorella di Lazzaro come vuole S. Ambrogio, o se fosse la Veronica, quella che asciugherà il volto del Signore, quella che insorgerà nel pretorio di Pilato a difendere Gesù, come appare nei vangeli apocrifi. Non questo c’interessa: ma è il desiderio bruciante che spingeva verso il Maestro le anime di Giairo e della donna che ci deve far riflettere e forse piangere sopra la nostra freddezza. Noi siamo indifferenti verso Gesù forse perché a casa nostra non c’è nessuno che muore; ma dite, non muore l’anima nostra quando commettiamo, peccato? Forse perché noi siamo malati; ma, dite, non sono malattie quelle cattive abitudini in cui ci trasciniamo da anni e anni? E le nostre passioni non sono quei cattivi medici che hanno scialato tutto il nostro patrimonio spirituale di preghiere, di purità, di elemosine? Allora, perché non andiamo frequentemente da Gesù? Gesù si trova nella Comunione. Ci si lamenta che la fede non è più viva come una volta, come al tempo dei martiri e degli eremiti; sapete perché? Perché ai nostri tempi ci si comunica troppo poco. Ci sono due classi di persone che tendono ad allontanarsi dall’Eucaristia per diversi motivi: i buoni per falso rispetto, i cattivi per ingrato dispetto. Ed io, con l’aiuto della Madonna, vorrei convincere tutti che lontani dalla Comunione si muore: quì elongant se a te peribunt (Salmi, LXXII, 27). – 1. I BUONI PER FALSO RISPETTO. Un mattino sereno, due barche si cullavano sulla riva del mar di Genezaret, mentre gli uomini di pesca erano discesi e lavavano le reti nell’acqua. Gesù ne sale una, e prega Simone di remare al largo: e là, in mezzo al lago gli dice di gettar le reti. Fu dapprima un sorriso triste che sfiorò il volto di Simone, come uno che sospetti d’essere scherzato, ma poi si rincorò, e per ubbidienza fece. Ma quando ritirando la rete la sentì schiantarsi per troppo peso, quando s’accorse che i pesci erano così abbondanti da riempir due barche, mandò un grido: « Signore, va via da me che son peccatore » (Lc., V, 8). Un altro giorno, il Maestro, senza volerlo, si trovò circondato da una folla che lo acclamava. S’era a Cafarnao. Gesù non era contento e disse: « Voi mi cercate perché ho moltiplicato, per voi, nel deserto cinque pani e pochi pesci. Non il cibo del corpo, ma il cibo dell’anima io voglio darvi ». E disse loro che cibo dell’anima era Lui, pane vivo disceso dal cielo, e non era lontano il giorno che avrebbe dato a tutti da mangiare la sua carne, e da bere il suo sangue. Molti, anche de’ suoi discepoli, si alzarono a protestare: « Com’è possibile ciò? Le tue parole sono dure, e nessuno le può digerire ». E se ne andarono. Gesù guardò i dodici, e mormorò tristissimamente: «Anche voi volete andarvene? ». Allora Simone, quel Simone che aveva scongiurato il Signore a stargli lontano, saltò su a dire: « Da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna. Noi ti conosciamo » (Giov., VI, 69). Anime buone, che il pensiero. delle vostre miserie passate, della vostra debolezza presente, della vostra indegnità passata presente e futura, vorrebbe tener lontani dal Santo Altare, nei due gridi di Pietro non avete trovato la risoluzione dei vostri timori dubbiosi? Se dovessimo guardare i nostri peccati soltanto, giammai dovremmo comunicarci: neppure una volta. « Exi a me, quia homo peccator sum, Domine! ». Ma che sarebbe poi dell’anima nostra senza il suo Pane vivo? « Ad quem ibimus? verba vitæ aeternæ habes ». « Ma come posso io comunicarmi spesso, dicono certe. anime dubbiose, — se vivo in una casa dove non si rispetta la religione, se passo la giornata fra operai che ne dicono d’ogni colore? », Appunto per questo è necessaria la Comunione frequente: tu vivi in una fornace ardente e se non vuoi bruciare, è necessario che un Angelo ti difenda da quelle fiamme. L’angelo bianco è l’Eucaristia. — Ma io ho tante tentazioni: vi resisto, è vero; ma ritornano sempre. E sono pensieri, e sono immaginazioni… — Appunto per questo è necessaria la Comunione frequente: la vita dell’uomo è una battaglia e tu hai bisogno di armi e di coraggio per vincere. La tua arma e il tuo coraggio è l’Eucaristia. — Ma il mondo mi chiamerà ipocrita, mi accuserà di mangiar Cristo a tradimento, mi rinfaccerà i miei difetti. .. Lascia dir la gente, come Gesù lasciò dire quando mormoravano perché mangiava in casa dei peccatori. E se trovano difetti in te, nonostante la Comunione frequente, ne troverebbero dei maggiori senza di essa. — Ma io non sono mai tranquillo… ho paura. — Giusta e santa è questa paura. Consigliati col tuo confessore e poi serenamente a lui ubbidisci. E, per finire, a queste anime titubanti, ripeterò le parole del Vescovo di Ginevra: « Temete di avvicinarvi a questa adorabile mensa; ma soprattutto temete d’allontanarvene ». – 2. I CATTIVI PER INGRATO DISPETTO. Dopo la burrasca, Gesù toccò terra nel suolo di Gerasa. Nell’uscire dalla tremante barchetta, vide correre in mezzo alle tombe, scavate nei fianchi del colle, un uomo ignudo che urlava selvaggiamente. Un brivido di pietà e di spavento prese gli Apostoli. Quell’infelice era posseduto dallo spirito impuro. Invano erasi tentato di legarlo: rompeva d’un tratto le funi, e ripigliava le sue corse vagabonde fra le tombe, e si percuoteva con le pietre dei colli. Assaliva perfino i passanti sul loro cammino, e non pochi avevano sofferto per lui. Come da lontano scorse venire Gesù, cominciò a gridare: « Che vi è di comune tra me e te, o Gesù figlio dell’Altissimo? Vattene, te ne congiuro; non tormentarmi » (Mc. V, 7). Questo indemoniato mi pare una paurosa figura dell’uomo cattivo che non vuol ricevere Gesù. Era un ossesso, homo in spiritu immundo, e l’uomo che ha peccato, in certo senso, è pure posseduto dal demonio, che in lui abita come in casa sua. Era un ossesso da uno spirito immondo, homo in spiritu immundo, ecco il principale motivo che tiene lontano gli uomini dalla Comunione: chi si ciba di ghiande di porci, non ha più gusto per il pane degli Angeli. V’è di più: l’infelice abitava in mezzo alle tombe tra la corruzione dei cadaveri: qui domicilium habebat in monumentis. Certe sale di divertimento, certi ritrovi sono tombe ove si corrompe non solo il corpo, ma anche l’anima. Chi frequenta questi luoghi non ha più il tempo di ritornare alla Chiesa per la Comunione. L’indemoniato di Gerasa rompeva ogni catena, dirupisset catenas; sono le catene delle leggi di Dio, delle leggi di natura, dei doveri di famiglia che l’uomo impuro spezza, per sprofondarsi nel fango. E non si accontenta della propria rovina ma con gli scandali, trascina nel suo baratro molti incauti. Proprio come l’ossesso: sævus nimis, ita ut nemo posset transire per viam illam (Mt.; VIII, 28). Quand’è così, non fa più meraviglia, se queste persone rifiutano di comunicarsi? È una conseguenza logica della loro vita quel grido: « Che c’è di comune tra me, che grufolo nel pantano, e te, o Gesù purissimo? Vattene; non tormentarmi. Ne me torqueas. Non tormentarmi con i tuoi soavi inviti alla Comunione: io amo il piacere della disonestà e non ho voglia di riceverti. C’è pure un altro peccato che allontana dalla Eucaristia: l’avarizia. Proseguiamo il racconto dell’indemoniato e capiremo. Gesù comandò ai demoni che uscissero da quell’uomo sventurato. C’era in quei dintorni montuosi un branco di porci, e i demoni prima di lasciare quell’uomo dissero a Gesù: « Mandaci là che vogliamo entrare almeno quel gregge immondo ». Il Maestro permise. Gli animali atterriti e percossi come da un uragano improvviso, si slanciarono in gruppo verso la sommità della montagna, donde precipitarono, a picco, in mare. Accorsero i padroni e molta gente dalla città; e come conobbero il disastro pregarono Gesù di andarsene in fretta, perché la sua presenza non li rovinasse maggiormente. Et rogare cœperunt eum ut discenderet de finibus eorum (Mc., V, 19). Che umiliazione per Gesù! Quella gente preferiva, a Lui, un branco di porci. L’uomo avaro preferisce una manata di soldi, un po’ di roba, al supremo bene che è la Comunione. E lo sentirete dire che non ha tempo per comunicarsi: ha tempo solo per gli affari di questo mondo. Eppure Gesù tutti chiama e sforza a sé, come l’uomo che aveva fatto una grande cena. Compelle intrare (Lc., XIV, 23). Resisteremo ancora a questo pressante invito, dispettosamente? Passeranno ancora mesi e mesi senza comunicarci? Con questo non voglio dire che si debba ricevere la Comunione anche senza le dovute disposizioni, perché se sta scritto che chi non mangia la carne del Figlio dell’uomo dovrà morire (Giov., VI, 54), sta scritto pure che chi la mangia indegnamente, ingoia la sua condanna. Ma come ho incoraggiato con la parola di S. Francesco di Sales, a comunicarsi quelli che si astenevano per un vano rispetto, così a costoro che per dispetto non ricevono Gesù, ripeterò l’austera parola del Crisostomo: « O fratelli! se alcuno tra voi capisce d’essersi reso indegno della santa Comunione, io lo scongiuro che si renda degno ». – Torniamo all’emorroissa. Eusebio nella Storia Ecclesiastica racconta che la donna, guarita dal flusso di sangue, era oriunda da Cesarea di Filippo. In riconoscenza volle che in mezzo alla sua città si elevasse un statua a Cristo, proprio con quella veste i cui lembi aveva baciati. Si diceva che sotto a quel monumento crescesse l’erba di nessuna virtù; ma tosto che, cresciuta, toccava i lembi della veste di Gesù, acquistava il potere di sanare ogni male. Cristiani! non in mezzo alla città, ma in mezzo al nostro cuore eleviamo un trono a Gesù e su di esso poniamoci non una statua, ma la sua Persona viva e vera com’è nella santa Comunione. Ogni nostro pensiero, ogni nostro affetto, ogni nostra gioia ed ogni dolore sarà santificato, come quell’erba, dalla sua presenza ed acquisterà valore per la vita eterna. Dice ancora S. Gerolamo che Giuliano l’Apostata aveva tentato una volta di rimuovere quella statua, per sostituirla con una propria immagine. Ma un fulmine dal cielo sminuzzò la sordida figura dell’imperatore sacrilego. Se noi ricevessimo frequentemente Gesù, vi assicuro che appena il demonio tentasse di porre la sua immagine in noi (e l’immagine del demonio è il peccato) Gesù saprebbe frantumarla e ci salverebbe da ogni male. — Allora, ogni quanto tempo ci dovremo comunicare? Il più frequente possibile: ciascuno però si consigli col suo confessore. — Comprendo — direte voi — tutto questo va bene per le donne; ma per gli uomini? Ho parlato anche, e specialmente per gli uomini. Nel Vangelo di oggi non è appena una donna che ha mostrato desiderio di Gesù; fu un uomo, Giairo, che lo scongiurò a venirgli in casa.IL PECCATO VENIALE. « Non è morta — disse Gesù — ma dorme ». Entrò solo nella funebre stanza, prese la giovinetta per mano e la risuscitò. Ecco due donne ed entrambe ammalate: l’una (l’emorroissa) d’un male che tormenta per anni e anni, l’altra d’un male che in poco tempo uccide. Queste donne sono simbolo dell’anima nostra, e le loro malattie sono simbolo delle malattie dell’anima nostra. Non è il peccato mortale quel terribile morbo che in un attimo toglie la vita dell’anima, la rende nemica di Dio, maledetta in vita e nell’eternità? Ma c’è un’altra malattia, che se non l’uccide la indebolisce di volta in volta; che se non la fa nemica di Dio, la rende però a Lui nauseante; che se non la fa maledire, non la fa neppure benedire: il peccato veniale. Tutti facilmente comprendono la nefandità del peccato mortale, ma troppo spesso anche i Cristiani non sentono il dovuto orrore per il peccato veniale. « Che male c’è — dicono — ad accontentare un po’ le nostre passioni? È peccato veniale, è cosa leggera, è roba da poco ». Sì, è vero: il peccato veniale in confronto al peccato mortale, è leggero. Anche la terra intera confrontata con l’immensità del cielo è un pulviscolo, ma per questo nessuno oserà dire che i cinque continenti insieme e l’oceano che li separa siano una quantità trascurabile. Considerate con l’occhio della fede il peccato veniale, consideratelo in se stesso, nelle sue conseguenze, poi anche voi come santa Caterina da Genova esclamerete inorriditi: « Meglio qualsiasi sciagura, ma non il più piccolo peccato veniale ». – 1. IL PECCATO VENIALE È UN MALE GRAVE IN SÉ. Atalarico re dei Goti aveva comandato la strage dei Cristiani. Faceva passare per le contrade un carro con sopra la statua d’un idolo: tutti quelli che non uscivano ad adorarlo, tutti quelli che non mangiavano la carne sacrificata all’idolo, venivano uccisi. Nella regione dove dimorava S. Saba, vi erano dei pagani così affezionati per le sue virtù e per la sua carità a questo servo di Dio, che volevano ad ogni modo conservarlo in vita. Ma poiché sapevano bene che egli non si sarebbe lasciato persuadere in nessun modo ad apostatare, pensarono di recarsi dagli ufficiali imperiali per testificare che nel loro circondario non v’era neppure un Cristiano, e che risparmiassero quindi di venire con il carro e con l’idolo. Appena il Santo conobbe questo pensiero, cominciò a gridare: Sventurati, che cosa state macchinando? Volete dire una bugia per salvarmi? Volete offendere Dio per conservarmi la vita? Che cos’è la mia vita e tutto il mondo perché la si debba anteporre alla gloria del Signore? E quando giunse il carro dell’idolo, egli subito uscì fuori gridando: « Non io adorerò il demonio! Non io mangerò le carni a lui sacrificate! Sono Cristiano vero: uccidetemi » (VOGEL, Vite dei Santi). Aveva ragione di chiamarsi Cristiano Vero, perché non si può essere Cristiani se non quando alla propria vita, al proprio comodo, al proprio capriccio si preferisce la gloria di Dio. Cristiano vero fu S. Giovanni Crisostomo che piuttosto che un peccato veniale avrebbe voluto restar invasato dal demonio per tutta la vita. Cristiano vero fu S. Agostino e S. Anselmo che volentieri si sarebbero precipitati in una fornace ardente, pur di risparmiare la più piccola offesa al Signore. E in verità consideriamo il peccato veniale e riguardo all’anima che lo commette e riguardo a Dio. Riguardo all’anima il peccato veniale significa una diminuzione di bellezza e di splendore. Che direste voi di una principessa reale che indifferentemente comparisse in pubblico con la faccia lorda di fango, con le vesti smunte e sbrandellate? L’anima nostra è appunto questa principessa reale, essa che è figlia di Dio. Ed il peccato veniale è quello che macchia il suo volto e lacera il suo manto e spegne il suo splendore. Riguardo a Dio, poi, significa offesa; ma ogni offesa fatta all’Essere perfettissimo, benché minima, è sempre un male sommo. E subito ce ne convincono i castighi con cui Dio talvolta punisce il peccato veniale. Una donna, contro il divieto del Signore, si volta indietro a guardare una città in fiamme. Fu un attimo: e la moglie di Lot rimase pietrificata. Mosè ed Aronne titubarono un istante della parola di Dio, e dovettero morire senza por piede nella terra promessa, essi che per quarant’anni, sotto il sole e la pioggia, con fame e con sete, avevano guidato il popolo. Un profeta accetta un invito a colazione, e Dio glielo aveva proibito: quando riprende il cammino sbuca un leone che lo rovescia in terra e lo sgozza. Anania e Zaffira, marito e moglie, portando una grossa elemosina a San Pietro dicono una bugia. E subito, in faccia a molti Cristiani raccolti in preghiera, stramazzano ai piedi dell’Apostolo, esanimi. La loro bugia, commentano S. Gerolamo e S. Agostino, era soltanto un peccato veniale e Dio li ha puniti di morte a nostro insegnamento. E noi crediamo che gli unici mali siano le malattie, la morte, la miseria, le liti… Queste cose sono nulla in confronto del peccato: anche del più piccolo peccato veniale. – 2. IL PECCATO VENIALE È GRAVE NELLE CONSEGUENZE. Una madre, da tanto tempo lontana, ritornava alla sua famigliola ove l’aspettavano i suoi bambini e il focolare spento. Lungo la via trova un palazzo: vi entra, beata di riposarsi un poco, ella che aveva dovuto camminare tanto, camminare sempre. Abbagliata dallo splendore di quelle sale, sedotta. dai profumi e dalle vivande che la circondavano, dimenticò i suoi figliuoli che lontano la chiamavano piangendo. Rimase un giorno o un’ora? neppur ella lo seppe. Ma quando fece per andarsene sulla porta di entrata trovò distesa nel sole una ragnatela: fine, leggera, quasi invisibile. Sorrise la madre davanti a questo delicatissimo ostacolo, e con una mano la strappò. Ed ecco, dietro alla prima, una seconda ragnatela; e la seconda ne nascondeva una terza, e la terza una quarta. Strano! ce n’erano cinque, sei… venti. Ella le strappa tutte, ma ce n’è ancora; sempre. Ella continua a strapparle, e le ragnatele continuano a riapparire ancora… ancora. La povera donna è affannata, gronda di sudore, soccombe alla fatica, e si butta per terra disperatamente. Davanti a lei, in alto, luccicava e dondolava nel sole quell’ostacolo da nulla: leggero, e pure vincitore. Da lontano il vento portava il grido dei piccoli figli, che attendevano invano: « Mamma, mamma! ». È cosa da nulla il peccato veniale, è un filo di seta, è una ragnatela: ma dopo il primo ne viene un altro, poi un terzo, poi una catena lunga, non mai spezzata appunto perché si credeva fatta di cose da poco. E intanto si formano le cattive abitudini che ci tengono prigionieri, come quella povera madre, lontano dal nostro dovere. E intanto dalle cose da poco si scivola nelle cose da tanto, senz’accorgersene. Guai, dice S. Paolo, se si comincia a lasciare un posticino al diavolo! « Nolite dare locum diabolo!» (Ef. IV, 27). Da un posticino ne vuole due, tre, quattro… vuole tutto noi e ci porta via. Da lontano piangono i nostri Angeli custodi abbandonati e ci chiamano invano come quei figli piangenti chiamavano invano la loro mamma. Che male c’è stare alla finestra oziando, qualche ora alla sera? Che male c’è fissare, sorridere, parlare scioccamente con persone di sesso diverso? Domandatelo a Davide. Che male c’è, se i fanciulli rubano qualche golosità; se nel far spesa s’imbroglia di qualche lira il ricco negoziante; se il contadino si crede lecito d’allungare la mano nel campo del vicino; se l’operaio si porta via da bottega un asse, un ferro, un pezzo di cuoio? Che male c’è? Domandatelo a Giuda. Che male c’è a chiacchierare in chiesa, conservare poco raccoglimento davanti a Dio presente? Che male c’è dimenticare le orazioni mattino e sera? Che male c’è sciupare il tempo davanti allo specchio, seguire l’ambizione della moda? Oh! Vorrei che venisse a rispondervi un’anima del purgatorio; una di quelle che da anni e anni è consumata in quei tormenti indicibili forse per un solo peccato veniale! E penserete ancora che il peccato veniale sia una cosa da nulla? Cosa da nulla è un sassolino: ma se si distacca dalla montagna e precipita a valle e colpisce la statua colossale nel suo calcagno di creta, in un attimo la rovescia in pezzi. Cosa da nulla è un pugno di neve: ma se si arrotola su altra neve s’ingrossa e diventa una valanga che travolge i paesi nello sfacelo. In un serraglio stava legato con grossa fune un terribile leone. Durante il silenzio della notte uscì un minuscolo topolino e per lunghe ore rosicchiò la fune. All’alba quando il domatore entrò nella gabbia del leone legato, la belva, destandosi, s’allungò verso l’uomo. La corda rosicchiata, a quell’urto, si ruppe; dopo un istante il domatore era disteso con il petto orribilmente squarciato. Il leone son le nostre passioni: il topolino è il peccato veniale. All’erta, perché egli rosicchia la corda, ed al momento opportuno, ci troveremo sopraffatti dalle tentazioni e, abbandonati da Dio, soccomberemo. – Roma cresceva. Dalla sponda africana Cartagine intuiva che solo di là poteva giungere la sua rovina. Perciò in un giorno di festa, davanti alla folla radunata nel tempio, Asdrubale condusse il suo figlioletto Annibale e lo sollevò perché potesse arrivare all’ara fumante degli dei. Il piccolo Annibale, con negli occhi il fosco bagliore del fuoco e del fumo, distese la mano sulla fiamma e gridò nel silenzio: « Odio eterno al nemico! ». Noi pure sappiamo che la nostra rovina ci può venire solamente dal peccato. E bene: oggi, davanti all’altare del Signore vero, gridiamo anche noi con irremovibile volontà: « Odio eterno al peccato: non solo mortale, ma anche veniale ».

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps CXXIX:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.

[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta

Pro nostræ servitútis augménto sacrifícium tibi, Dómine, laudis offérimus: ut, quod imméritis contulísti, propítius exsequáris.

[Ad incremento del nostro servizio, Ti offriamo, o Signore, questo sacrificio di lode: affinché, ciò che conferisti a noi immeritevoli, Ti degni, propizio, di condurlo a perfezione.]

Præfatio

V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.

de sanctissima Trinitate


Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:

[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]

Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.

Preparatio Communionis

Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:

Pater noster,

qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.

Agnus Dei

Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.

Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Marc XI:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis.

[In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.]

Postcommunio

Orémus.
Quǽsumus, omnípotens Deus: ut, quos divína tríbuis participatióne gaudére, humánis non sinas subjacére perículis.

(Ti preghiamo, o Dio onnipotente: affinché a coloro ai quali concedi di godere di una divina partecipazione, non permetta di soggiacere agli umani pericoli.)

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

LO SCUDO DELLA FEDE (276)

LO SCUDO DELLA FEDE (276)

P. Secondo FRANCO, D.C.D.G.,

Risposte popolari alle OBIEZIONI PIU’ COMUNI contro la RELIGIONE (18)

4° Ediz., ROMA coi tipi della CIVILTA’ CATTOLICA, 1864.

CAPO XIX.

MARTIRI — PROPAGAZIONE DELLA FEDE

1. I Martiri sono in minor numero di quel che si dice. II. Sono opera del fanatismo. III. Ogni causa ha i suoi martiri. IV. L’interesse e le mene dei preti han sostenuto il Cristianesimo.

Una delle glorie più inclite della fede cristiana è la corona dei Martiri, che di ogni età e condizione hanno dato il sangue per Gesù Cristo. Fino ab antico però i persecutori del Cristianesimo che ne vedevano tutta la bellezza e la forza, le portarono invidia, e si brigarono di sottrarre le memorie di essi a’ Cristiani disperdendone i corpi e le ceneri, ed apponendo ai Martiri finti delitti, acciocché non fossero creduti morti per la causa della santa fede. – L’incredulità di questi ultimi tempi ha ritentato con altri argomenti la prova stessa, e si sforza di rapir alla Chiesa di Cristo un’aureola sì gloriosa.

I. Dicono quindi che il numero dei Martiri non è poi sì grande come il narrano le leggende devote; che però non è a farne così gran caso. Questo strale contro del Cristianesimo l’avventò pel primo il protestante Dodwello: ma in mal punto per la sua causa, poiché quel detto aguzzò l’ingegno agli eruditi, per investigar qual ne fosse il numero, e tra gli altri al dotto Ruinart, il quale con documenti di ogni fatta alle mani pose in chiaro siffattamente la sterminata moltitudine che essi sono, che mai nessuno osò più rivocarla in dubbio. Io non starò qui a raccogliere tutte le cifre, ché sarebbe lavoro eccedente affatto lo scopo di questo libretto. Dirò solo che dieci furiosissime persecuzioni si scatenarono ne’ tre pri mi secoli contro la Chiesa, e si sparsero per tutta la vastità dell’Impero romano, che abbracciava le Spagne, le Gallie, l’Africa, 1’Italia, gran parte dell’Asia e quasi tutto il mondo allor conosciuto: che in tutti questi paesi i Cristiani furono messi alla discrezione dei Cesari, de’ proconsoli, de’ pretori, de’ sacerdoti degl’idoli, i quali, per ingraziarsi col popolo che li chiedeva a morte, li dannarono alle scuri, ai capestri, ai roghi, agli anfiteatri, alle saette, alle pietre ed a tutte le carneficine che il furore combinato con la malizia seppero inventare. I soli nomi de’ loro persecutori bastano a farne prova, giacché Nerone, Domiziano, Caligola, Massimiano, Massimino, Caracalla, Eliogabalo, Diocleziano, Licinio, Decio, sono i nomi della crudeltà. – Gli storici ecclesiastici, d’accordo cogli autori profani, ne raccontano a lungo le orride spietatezze e le vittime senza numero; ma senza allegar queste testimonianze, noi abbiamo la confessione degl’increduli stessi, i quali non ricordando che altrove hanno cercato di diminuirne il numero, affermano che nei primi secoli la maggior parte dei Cristiani correva al martirio per una specie di mania epidemica, suscitata dalla predicazione dei Padri della Chiesa. Se dunque la mania aveva soprappreso il maggior numero dei Cristiani, chi potrà enumerare le vittime che essa ha fatto?

II. Il perché passiamo a vedere piuttosto la causa che essi allegano per spiegare come fossero tanti di numero. La mania, di cui favellano, non è altro che il fanatismo, e questo basta, osservano essi, a render ragione di tante vittime, polche chi non sa come si ecciti ed infiammi tra il fuoco delle persecuzioni? Infatti, ogni religione, per quanto assurda, vanta i suoi martiri. Aggiungete l’interesse che i preti trovano nel mantenere le superstizioni, le minacce che essi fanno di eterne pene a chi non accetta i loro dormi, e voi avrete compreso come tanti abbiano profusa la vita per sostenere il Cristianesimo, e come esso si mantenga in piedi fino a’ dì nostri. Ora per rispondere a costoro, chiederemo in primo luogo che cosa sia il fanatismo, il quale ha una virtù così potente sopra la terra? Il definiscano pur come vogliono, dovranno concedere che sia un esaltamento dell’animo accecato da qualche passione, per cui apprende per bene reale un oggetto che non è tale e che lo vuole procacciare a qualunque costo. Or, di grazia, chi furono i primi ad accecarsi e passionarsi così furiosamente per Gesù Cristo? Non furono certamente solo plebe indotta e moltitudine ignorante; v’ebbe anche filosofi chiari e dottori insigni che, dai primi momenti che la nuova religione apparve nel mondo, l’abbracciarono con tutto il cuore. Che anzi in tutti i tempi gli uomini più assennati e più dotti, siccome appare fino al presente dai loro volumi, ne furono i più teneri ed i più appassionati. Singolare cecità d’intelletto, la quale più si apprende a chi più vede! Inoltre, come avvenne un sì subito fanatismo? Gli uomini si andarono a riposare quest’oggi sobri, tranquilli, sani di mente, e la dimane si svegliarono pazzi e farnetici per questa nuova dottrina. E ciò nella Giudea non meno che in Roma, nell’Asia non meno che nell’Africa, in Oriente ed in Occidente, presso i popoli barbari e presso i colti; e quel che è più mirabile, quegli stessi che oggi avevano posto in croce Gesù qual malfattore, pochi giorni dopo a molte migliaia insieme son presi da tanto fanatismo per Lui, che si lasciano scannar mille volte piuttosto che rinnegarlo. Oh che è questo mai? Una febbre che ad un dato punto invade tutto l’uman genere! Avremo almeno qualche gran causa posta in atto per destare tal fanatismo. Sarà comparso qualche filosofo maraviglioso sopra la terra, qualche uomo portentoso, il quale coi fulmini della sua eloquenza, col fascino della sua dottrina, coll’autorità della sua persona e col fulgore di sua maestà avrà rapite, infiammate, travolte, trascinate le moltitudini alla sua sequela, non è vero? Eh appunto. A destare tanto fanatismo furono alcuni pochi uomini, non illustri per sangue, non ragguardevoli per scienza, di professione pescatori, di patria Giudei, senza credito, senza aderenze, senza ricchezze, senza autorità. Ora mentre i filosofi più riveriti, i savi più accreditati, gl’Imperatori più potenti non sono riusciti a destare fanatismo altro che in pochi seguaci ed aderenti, quelli l’hanno eccitato in tutte le parti della terra, fino al punto di far versare il sangue a torrenti, per mantenere quello che essi avevano annunziato. Singolare effetto di un vastissimo incendio di fanatismo, senza che si veda chi lo accenda! Ma forse il segreto di questo fanatismo sarà tutto nelle dottrine di questa nuova religione. Gli uomini corrono facilmente dove le passioni li attirano, e la sperienza mostra che non è difficile sollevar tutti gli animi offrendo oro, libertà, piaceri. Così lo mostrarono un Maometto, un Lutero; e lo mostrarono tuttodì tanti Catilini novelli, i quali fanno correre le turbe sciocche al grido di libertà, benché sempre menzognera. Avran fatto altrettanto anche i banditori dalla dottrina di Gesù Cristo? Ma voi, o lettore, sapete che non solo non offrirono nulla di tutto ciò, ma al contrario mossero la più cruda guerra che mai fosse stata mossa alle passioni del mondo. All’intelletto imponevano che si sottomettesse a credere misteri ardui, difficili, imperscrutabili; al cuore non solo non offrivano appagamenti, ma imponevano dolorosi sacrifizi; non si parlava se non di mortificazione, di abnegazione, di croce non interrotta fino alla morte. La pratica del Cristianesimo è tutt’altro che adatta a destar fanatismo. E per verità qual fanatismo può destarsi a pregare in segreto lungamente? Quale a staccarsi interiormente dai beni di questa terra? Qual fanatismo a digiunare, quale a vincersi, a mortificarsi? Quale ad imprendere seco stesso una lunga lotta per raffrenare i pensieri, per moderare gli affetti per rinnegare l’amor proprio, per vincere gli appetiti segreti dell’avversione, della collera, della lascivia, della superbia, che sempre ci pullulano in cuore? E con tutto ciò fino a qual punto non giunse egli un tal fanatismo? Fino alla perdita delle sostanze, della patria, della vita. Fino all’incontrare tormenti e stragi mille volte peggiori della morte. Or che è egli mai ciò? Non è al tutto straordinario un fanatismo che poté produrre effetti così portentosi? Dov’è dunque, lo ripeto, la causa che ha potuto destarlo? Lettore, conchiudete voi qual sia il grado di fanatismo che ci vuole per ascrivere la propagazione del Cristianesimo al fanatismo.

III. Ogni causa, continuano essi, ha i suoi martiri, e gli idolatri non meno che gli eretici li vantano, e perfino gli stupidi Indiani muoiono per le loro fallaci divinità. Qual prova è dunque questa che serve all’errore non meno che al vero? Chi così replicasse, oltre a molte altre cose, mostrerebbe anche di non aver mai compreso come sia addotta e come provi in favore del Cristianesimo la ragione tratta dai Martiri. Noi adunque non diciamo che sia vero il Cristianesimo, perché altri ha versato il sangue per Gesù Cristo, ma perché altri l’ha versato in un tal complesso di circostanze, che non era moralmente possibile a forza umana il versarlo. Concediamo che possa giungere un impeto di passione a portare un uomo mad infuriare contro sé stesso; può il fanatismo fare che altri si precipiti da una rupe, o che si dia ad infrangere alle ruote di un carro; può un amore stolido di gloria fare che altri s’investa nelle picche o nelle spade di un esercito; può persino un’impazienza portata alla disperazione fare che altri, violento contro sé stesso, si dia la morte: ciò non lo neghiamo, e non è di qua che si trae l’argomento in favore del Cristianesimo. Sono tutte le circostanze che accompagnano il martirio cristiano, che ne formano la prova così gagliarda. Imperocché non può la sola natura far che migliaia e migliaia d’uomini tutti in un punto cospirino a voler dar la vita nel tempo per riceverla nell’eternità, a perdere il presente che godono sull’espettazione di quello che solo sperano, ad incorrere mali certi e presenti, per timore di mali solo creduti e lontani. Non può la sola natura far tutto ciò, quando non vi ha passione alcuna in moto che presti le forze e risvegli, dirò così, il furore. Non può la sola natura somministrar tanto coraggio a uomini non robusti per natura, non audaci per allevamento, come vecchi cadenti, donne imbelli, fanciulle timide e giovani di prima età. Non può la sola natura fare che non solo siano non temuti i più acerbi mali della vita, ma desiderati, ma ambiti, ma cercati, ma abbracciati con tutto l’ardore. Se un impeto momentaneo di furore può precipitare alcuno a darsi una morte celere, una morte furiosa, una morte non possibile a ritrattarsi; non può la sola natura tenere volonterose in mezzo ai tormenti inauditi coteste vittime per giorni interi, settimane ed anni, e tenervele sempre contente, sempre giubilanti di una gioia sì pura e sovrumana che rapisce i carnefici, che confonde i tiranni, che persuade le intere moltitudini a seguitare quel Gesù per cui esse patiscono: mentre potrebbero ad ogni istante con una parola cessarsi le pene, anzi volgersele in delizie, in onori, in cariche che loro sono profferte. Tutto ciò nol può la natura, bisogna che v’intervenga al tutto una virtù soprannaturale che conforti l’umana debolezza. Hanno i miscredenti cercato di accozzare tutti insieme gli esempi che hanno trovato nelle storie, per dimostrare che ogni causa ha i suoi Martiri: ma non era mestieri di tal opera. Mettano in mostra una sola vittima che regga al confronto della nostra Agnese e della nostra Cecilia, e diam loro vinta la causa. E tuttavia accresce la forza di questa ragione la moltitudine dei prodigi, onde il cielo onora questi suoi eletti campioni nell’atto del martirio. Conciossiaché spesse volte le fiere invece di sbranarli si prostrano loro dinanzi con riverenza, i roghi accesi si spengono, i metalli liquefatti non bruciano, le spade perdono il taglio, le punte non feriscono; essi camminano sui carboni accesi come sopra le rose, i templi delle false divinità si diroccano alla loro presenza, gl’idoli cadono da sé infranti, e spesso sono ancora colpiti di cecità, di paralisi, di morte, i tiranni che infuriano contro di loro: e ciò alla presenza d’intere moltitudini che o l’attribuiscono alla magia, oppure si convertono al Cristianesimo. Come, dunque, non è visibile la mano di una causa superiore che li favorisce ed aiuta? Alleghino, se possono, alcun che di somigliante quelli che affermano che ogni causa ha i suoi Martiri, e poi impugnino pure la prova da noi addotta, che siamo disposti a far loro ragione: ma se noi possono fare, si contentino che noi crediamo a testimoni che si fanno scannare in favore delle verità che professano.

IV. Resta ora ad esaminare la difficoltà che tolgono dall’interesse che i preti hanno avuto nel mantenere la cristiana superstizione e dell’averla sostenuta colle minacce che hanno fatte ai popolidelle pene eterne; ma questa non è men vana dell’antecedente.Imperocché prima di tutto, come avvenne che alcuni, anzi chetanti volessero essere sacerdoti ai primi tempi del Cristianesimo?Finalmente gli uomini non sono poi tanto stupidi in quello che riguardai loro vantaggi. Ora egli è certo che il sacerdozio alloranon fruttava altro che maggiori fatiche, rischi più gravi e quasisempre la perdita della vita. Scorrete gli annali di quei tempi, etroverete che cominciando dal primo Sacerdote, il romano Pontefice,venendo giù fino all’ultimo chierico, i Sacerdoti ebbero semprela prerogativa di sopportare le più spietate carneficine. Per tresecoli niun Papa la scampò, niun Vescovo illustre ne fu esente, ed i Sacerdoti furono sempre la preda più desiderata e più cerca dai persecutori di nostra fede. Dovevano avere a quei tempi gli uomini un gusto un po’ strano, quando avevano tanta smania di farsi impendere e squartare. Inoltre, il sacerdozio è dignità spirituale non temporale; e sebbene nell’età posteriore non andasse sempre disgiunta da vantaggi anche terreni, pure erano questi allora sì tenui, ed i pesi sì gravi, che è inesplicabile l’essersi trovati tanti che così volonterosi vi si sobbarcassero. Certamente il genere di vita loro prescritto, il distacco dai beni della terra, il finanziamento alle gioie della famiglia, la obbligazione della continenza e la persecuzione continua dei figliuoli del secolo, non dovevano essere motivi che, discorrendo all’umana, ve li confortassero molto.. – Ma su via, poniamo pure che eleggessero quello stato per interesse, come avvenne poi che trovassero tanto credito presso le moltitudini da dover essere così ascoltati e così temuti? Gli uomini allora erano di una tempera diversa dalla nostra? Se venisse da noi un bramino dall’India, un agà turco, od un sacerdote qualunque degl’idoli, sarebbe creduto così fattamente che sulla sua parola gli uomini ne dovessero impallidire? Io credo che per quanto gridassero, minacciassero, strepitassero, commovessero cielo e terra, mai non riporterebbero altro che le nostre beffe e le nostre risate. E che gli antichi Romani non fossero d’altro pensiero dal nostro, voi lo potete raccogliere anche da ciò che sapevano burlarsi benissimo dei Giudei che vivevan fra loro. Or perché ciò? Perché fino a tanto che non sono allegate prove che convincano I’intelletto della verità di una religione, fintantoché non è creduta vera, essa non ha forza ad intimorire co’ suoi dorami e colle sue minacce. Ebbene, questo è che accade nel nostro caso. Quando è che un sacerdote comincia ad essere riverito ed ascoltato dagli uomini? Quando gli uomini hanno creduto alla religione che predica. Fra i Cristiani questo poi è evidentissimo. lmperocché e donde se non dalla fede traiamo che i sacerdoti sono da ascoltare? La fede sola è quella che ci ammaestra di tutto quello che li riguarda, che essi cioè sono scelti da Dio per sì alto ministero, che sono a ciò deputati con special consacrazione, che hanno una tutta propria autorità sopra il comun dei fedeli, che chi ascolta loro ascolta lo stesso Cristo. Se la fede precedendo non ci assicurasse di tutte queste verità, non vi sarebbe ragione per cui né riverirli, né temerli. Dunque, non sono i sacerdoti che rendono augusta e credibile la fede e che la sostengono, come dicono i miscredenti: è tutto il contrario; la fede è quella che dà peso ed autorità ai Sacerdoti presso il popolo cristiano. Volete vederlo ancor più chiaramente? Consultate il buon senso del popolo. Che cosa dice egli quando vede qualche Sacerdote a prevaricare? Non dice no, che non sia perciò buona la santa fede, ma afferma invece che sebben sia riprovevole quel Sacerdote per la sua condotta, pure deve rispettarsi per ragione della sua dignità. Vedete dunque quanto sia vero che non è il Sacerdote che dà credito alla fede, ma la fede invece che dà credito al Sacerdote? – E similmente vuol dirsi del timore e delle minacce, all’ombra di cui si dice stabilito il Cristianesimo. Questa sciocca ragione che fu messa in campo dall’empio Lucrezio contro ogni sorta di religione: Primus in orbe Deos fecit timor; questa ragione, io dico, si scioglie colla stessa osservazione fatta di sopra. Come non vedono costoro che, senza credere prima agli Dei, non è possibile di temerli? Chi avrebbe mai pensato a temere i ladri, la peste, il malanno, se prima non avesse saputo che esistessero il malanno, la peste ed i ladri? Oh una volta gli effetti venivano dopo le cagioni, ora sono le cagioni che vengono dietro agli effetti! E pur mirabile la Religione cristiana quando per impugnarla bisogna rinunziare, non dico alla filosofia, ma pure al senso comune. Né niun dica che un timor panico può soprapprendere le moltitudini, anche senza che vi sia un solido fondamento a temere: siccome accade agl’idolatri, i quali temono divinità che hanno occhi e non vedono, mani e non toccano; perocché questa replica non ha valore. Conciossiaché un timor panico non può incatenare tanti milioni d’uomini e tante generazioni; un timor panico non può aver luogo presso tanti savi e tanti dottori, quanti ne ha contati e ne conta il Cristianesimo; e poi gli uomini che non si rattengono dal fare il male per timore di castighi che credono certi, come si tratterrebbero per un timor panico? – Né vale l’esempio tratto dagl’idolatri, i quali temono inutilmente divinità che sono vane: perocché tanto è lungi che il così temere sia un errore, che è anzi l’unico vero che loro è rimasto. Per lume di natura non pienamente annebbiata dai vizi, e per tradizione loro provenuta dai primi padri, essi comprendono che Dio esiste e che è vindice delle iniquità; che non esercitandosi sulla terra la giustizia, questa debba senza manco veruno aver luogo pienissimo nell’altra vita. Quindi in ciò non s’ingannano. L’errore è solo nell’oggetto da cui aspettano i castighi, o nella qualità della punizione che aspettano, o nel modo che prendono per onorare e placare la divinità; ma questo appunto perché è errore, è tutt’altro che comune; mentre noi vediamo che ogni gente idolatrica si forma un’idea della divinità a proprio modo. Il timore adunque che è comune a tutti gli uomini, dimostra il sentimento che tutti hanno della divina giustizia: il timore poi di questo o quel castigo, che è speciale ad ogni gente idolatria, colla stessa sua varietà condanna il paganesimo. Appar quindi falsissimo che un errore possa impadronirsi delle intere moltitudini e per secoli interi, e quindi che dall’errore si possa ripetere il coraggio dei Martiri, che non può avere altra causa che l’aiuto del cielo.