UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO … e pure il falso tradizionalista: CUM SUMMI APOSTOLATUS.

Clemente XIV
Cum summi apostolatus

In questa Enciclica, scritta all’inizio del suo Pontificato, Clemente XIV, Papa Ganganelli, ricorda a se stesso ed ai Vescovi tutti, i doveri dei Pastori della Chiesa di Cristo, richiamandoli in particolare ad essere imitatori del divino Maestro nella loro opera apostolica con ogni zelo, soprattutto per contrastare le perniciose dottrine che andavano diffondendosi fin da allora e che oggi trionfano nelle sette moderniste di apostasia introdotte indecorosamente nei sacri palazzi dal “novus ordo”, spalleggiate dalle altrettanto sette eretiche e scismatiche pseudo-tradizionaliste. Lo scritto è semplice ed efficace nei richiami pieni di amore paterno verso i ministri del culto ma di altrettanto vigore nell’esortazione alla cura delle anime loro affidate con ogni dottrina e senso di responsabilità. Il culmine il Pontefice lo raggiunge quando afferma, con l’autorità del Vicario di Cristo: … Quando i popoli sapranno che il pastore, dimentico di ogni personale vantaggio, serve agl’interessi degli altri, soccorre i bisognosi, istruisce gl’ignoranti, rincuora tutti con l’impegno, il consiglio e la pietà, e preferisce alla sua propria vita la salute della comunità, allora, dolcemente attirati dal suo amore, dal suo zelo e dalla sua assiduità ascolteranno volentieri la voce del pastore che insegna, esorta e ammonisce, anche se richiama …. “Dai frutti li giudicherete”, dice la massima evangelica, è un “dovere” oltre che un diritto, giudicare nell’ambito delle cose spirituali; mentre in generale non è mai opportuno giudicare i fratelli, qui il divin Maestro è categorico: “Aprite gli occhi, giudicate dai frutti la qualità dell’albero …” e qui Clemente XIV ci offre un criterio per la valutazione dei frutti dei Pastori della Chiesa. Quando noi vediamo intorno a noi, in “presunti” prelati soprusi, immoralità, cupidigia, superbia e via dicendo, siamo certi che questi non sono i Pastori che continuano l’opera degli Apostoli né tanto meno “vicari” che custodiscono il Deposito della fede ed operano per il bene delle anime affinché possano raggiungere l’eterna felicità … sono usurpatori di cariche, servi del “nemico”. Sappiamo dunque rettamente valutare e giudicare i frutti di certe iniziative e di certi atteggiamenti .. ce lo impone il Figlio di Dio, il Signore Nostro Gesù Cristo, per facilitarci l’ascesa al suo Regno ed evitare gli inciampi che infallibilmente ci sprofonderanno la dov’è pianto e stridore di denti.


Cum summi apostolatus

Lettera Enciclica

Roma, 12 dicembre 1769

Ai Vescovi, Arcivescovi, Patriarchi e Primati.

Il Papa Clemente XIV

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

1.– Allorché Noi riflettiamo sul carico del supremo Apostolato che Ci è stato imposto, e ne consideriamo la gravità ed il peso immenso, non Ci possiamo trattenere, Venerabili Fratelli, dal risentire un’emozione profonda in vista di una missione così sublime e della Nostra personale debolezza. Ci sembra di essere venuti in pieno mare e di essere stati ritirati dalla sicurezza di una vita pacifica, come da un porto sicuro, nel vederci chiamati così d’un tratto a dirigere la nave di Pietro, sbattuta dalle onde e pressoché sommersa dalla tempesta. – Ma questa è opera del Signore, ed è ammirabile ai Nostri occhi. I giudizi imperscrutabili di Dio e non le volontà umane Ci hanno incaricati delle più gravi funzioni dell’Apostolato quando Noi eravamo ben lontani dal pensarvi. Questa persuasione Ci dà piena fiducia che Colui che Ci ha chiamati alle gravose cure del supremo ministero dissiperà i Nostri timori, aiuterà la Nostra debolezza e Ci soccorrerà nella tempesta. Pietro, che deve essere il Nostro modello, fu rassicurato dal Signore che gli rimproverò la sua poca fede quando egli credeva di restare sommerso nel mare. – Colui che nella persona del Principe degli Apostoli Ci ha affidato la cura della Chiesa Universale e le chiavi del Regno dei cieli, Colui che Ci ha comandato di pascere le sue pecore e di confermare i nostri fratelli, vuole sicuramente che il Nostro spirito non concepisca nessun timore di non ottenere i suoi soccorsi. Egli volle che Noi fossimo mossi più dalla speranza della sua grazia che dall’apprensione della Nostra debolezza. – Noi ci sottoponiamo dunque alla volontà di Colui che è Nostra forza e Nostro sostegno, e confidiamo nella sua fedeltà e nella sua potenza: Egli compirà l’opera che ha cominciato in Noi. Dal Nostro nulla, la grandezza della sua forza e della sua bontà riceverà uno splendore più grande. Se Egli ha pensato, in questi tempi, di servirsi del Nostro ministero e di utilizzare Noi, che siamo un servo inutile, per operare qualche cosa per il bene della sua Chiesa, ciascuno riconoscerà che Egli solo ne è l’autore, e che a Lui solo debbono unicamente essere resi l’onore e la gloria. Noi ci prepariamo dunque senz’altri indugi a sostenere questo gran carico, disposti a porvi tanto maggior zelo in quanto siamo appoggiati sopra un forte sostegno, convinti che l’alta importanza delle funzioni alle quali siamo stati chiamati esige cure e prudenza tali che non possono mai essere troppo grandi. – Allorché continuamente preoccupati della vastità della Nostra amministrazione, gettiamo uno sguardo dall’alto della Sede Apostolica sopra tutto l’universo cristiano, vediamo voi, Venerabili Fratelli, innalzati a posti eminenti e illustri e la vostra vista Ci riempie di gioia. Riconosciamo in voi con la maggiore soddisfazione i Nostri collaboratori, i guardiani del gregge del Signore, gli operai della vigna evangelica. A voi dunque, che dividete le Nostre cure, desideriamo innanzi tutto rivolgere la parola all’inizio del Nostro Apostolato. Nel vostro petto vogliamo diffondere i sentimenti più intimi dell’anima Nostra; e se in nome del Signore vi indirizziamo alcune esortazioni, attribuitele alla diffidenza che abbiamo di Noi stessi e pensate pure che esse procedono dalla fiducia che Ci ispirano la vostra virtù e il vostro amore filiale verso di Noi.

2. In primo luogo, Venerabili Fratelli, Noi vi domandiamo e vi scongiuriamo di non stancarvi mai di pregare Dio che sostenga la Nostra debolezza col suo divino soccorso. Ricambiate così l’amore che abbiamo per voi. Unite alle Nostre preghiere il conforto delle vostre, affinché sostenendoci scambievolmente possiamo essere più costanti e vigili. Dimostreremo per mezzo dell’unione dei cuori quell’unità per la quale noi tutti formiamo un unico corpo, poiché tutta la Chiesa non è che un solo edificio, di cui il Principe degli Apostoli ha posto le fondamenta in questa Sede. Molte pietre unite concorrono a questa costruzione; ma tutte sono appoggiate e sostenute da una sola. Il corpo della Chiesa è uno; Gesù Cristo è il suo capo, ed è in Lui che noi tutti formiamo una sola cosa. Egli ha voluto che Noi, Vicario della sua potenza, fossimo elevati al di sopra degli altri, e che Voi, uniti a Noi come al capo visibile della Chiesa, foste le parti principali del suo corpo. – Che cosa può dunque accadere all’uno che non tocchi anche gli altri, e che non colpisca ciascuno di essi? Nello stesso modo, per conseguenza, non vi può essere nulla che reclami la vostra vigilanza e che non sia nel medesimo tempo materia delle Nostre cure e non debba esserci riferita. Nello stesso modo, ancora, Voi dovete pensare che tutto ciò che Ci concerne e tutto ciò che richiede la Nostra attenzione e il Nostro concorso deve interessare in sommo grado Voi medesimi. Noi dobbiamo dunque tutti, tenendo le nostre volontà strettamente unite, essere animati da questo solo e medesimo spirito che, procedendo da Gesù Cristo, nostro Capo mistico, si spande in tutti i suoi membri per dispensare loro la vita. Noi dobbiamo fare tutti i nostri sforzi ed applicare principalmente le nostre cure affinché il corpo della Chiesa rimanga senza lesione e senza ferita, e si sviluppi e si fortifichi, lucente di tutte le virtù cristiane, senza rughe e senza macchie. – Quest’opera diverrà possibile con l’aiuto di Dio, se ciascuno di voi si sentirà infiammato di grande zelo per il gregge che gli è stato affidato, e cercherà di allontanare dal suo popolo il contagio del male e le insinuazioni dell’errore, fortificandolo con tutti i soccorsi della santità e della dottrina.

3. Se è mai stato necessario che coloro che sono preposti alla guardia della vigna del Signore siano animati da questi desideri per la salute delle anime, è soprattutto in questi tempi assolutamente indispensabile che essi ne siano convinti e infervorati. Quando mai, infatti, si videro diffondersi ogni giorno, da tutte le parti, opinioni tanto perniciose, tendenti ad affievolire ed a distruggere la Religione? Quando mai si videro gli uomini, sedotti dal fascino della novità e trasportati da una specie di avidità verso una scienza straniera, lasciarsi più follemente attirare verso di essa e cercarla con tanto eccesso? Così Noi siamo ripieni di dolore alla vista di questa pestilenziale malattia delle anime, la quale si allarga e si propaga sventuratamente sempre più di giorno in giorno. – Più il male è grande, Venerabili Fratelli, più Voi dovete attivamente operare ed impiegare tutti i mezzi della vostra vigilanza e della vostra autorità per respingere questa temeraria follia che trabocca ancora nelle cose divine e nelle più sante. Ora, Voi raggiungerete questo risultato, credetelo, non con l’aiuto corruttibile e vano della sapienza umana, ma unicamente con la semplicità della dottrina e con la parola di Dio, più penetrante di una spada a due tagli; allorché in tutte le vostre parole mostrerete e predicherete Gesù Cristo crocifisso, vi sarà facile reprimere l’audacia dei vostri nemici e respingerne i dardi. – Egli ha fabbricato la sua Chiesa come una città santa e l’ha fortificata con le sue leggi e i suoi precetti. Le ha affidato la fede come un deposito che essa deve conservare religiosamente e con purezza. Egli ha voluto che essa fosse il bastione inespugnabile della sua dottrina e della sua verità, e che le porte dell’inferno non prevalessero mai contro di lei. Messi a capo del governo e della custodia di questa santa città, difendiamo dunque gelosamente, Venerabili Fratelli, il prezioso retaggio della fede del nostro fondatore, Signore e Maestro, che i nostri Padri ci hanno affidato in tutta la sua integrità perché lo trasmettiamo puro ed integro ai nostri posteri. – Se indirizziamo i Nostri atti e i Nostri sforzi secondo questa regola che ci tracciano le sante Scritture, e se Noi seguiamo le orme infallibili dei Nostri Predecessori, possiamo essere sicuri di essere muniti di tutti i soccorsi necessari per evitare ciò che potrebbe indebolire e ferire la fede del Popolo cristiano e infrangere o dissolvere in qualche parte l’unità della Chiesa. – Soltanto dalle fonti della divina sapienza, sia da quella scritta, sia da quella della tradizione, Noi vogliamo attingere quanto occorre alla fede e al Nostro operare.

4. Questa doppia e ricca fonte di ogni verità e di ogni virtù contiene pienamente ciò che ha rapporto al culto religioso, alla purità dei costumi ed alle condizioni di una santa vita. Da essa Noi abbiamo appreso i doveri della pietà, dell’onestà, della giustizia e dell’umanità; è per essa che noi comprendiamo ciò che dobbiamo a Dio, alla Chiesa, alla patria, ai nostri concittadini e agli altri uomini. – È per tal mezzo che noi riconosciamo che nulla ha più potentemente contribuito a determinare i diritti delle città e della società quanto queste leggi della vera religione. Ecco perché giammai nessuno ha dichiarato guerra alle divine prescrizioni di Cristo, senza turbare, in pari tempo, la tranquillità dei popoli, diminuire l’obbedienza dovuta ai Sovrani e spargere ovunque incertezze. Infatti vi è una grande connessione tra i diritti della potenza divina e quelli della potenza umana; coloro che sanno che il potere dei re è sanzionato dall’autorità della legge cristiana obbediscono loro con prontezza, rispettano la loro potenza e onorano la loro dignità.

5. Tenuto conto che questa parte delle divine prescrizioni è strettamente collegata alla tranquillità dei popoli non meno che alla salute delle anime, Vi esortiamo, Venerabili Fratelli, a porre tutta la Vostra cura nell’ispirare ai popoli – dopo tutto quello dovuto a Dio ed alle sante costituzioni della Chiesa – il legittimo rispetto e l’obbedienza che devono ai re. Questi infatti sono stati posti da Dio in un posto eminente per difendere l’ordine pubblico e contenere i sudditi nei limiti dei loro diritti. Essi sono i ministri di Dio a fin di bene, ed è per questo che portano la spada, vendicatori severi contro chi opera il male. Essi, inoltre, sono i figli amatissimi e i difensori della Chiesa, che debbono amare come loro madre, difendendone la causa e i diritti. – Abbiate dunque cura di far comprendere questo divino precetto a coloro che Voi dovete istruire nella legge di Cristo. Che essi apprendano sin dalla loro infanzia che il rispetto dovuto ai re deve essere fedelmente mantenuto; che essi debbono ubbidire all’autorità e sottomettersi alla legge non solo per timore, ma anche per senso del dovere. Ispirando nei cuori dei popoli non soltanto l’obbedienza ai loro re, ma anche il rispetto e l’amore verso di loro, Voi opererete a favore di due cose che non possono essere disgiunte: la pace dei cittadini ed il bene della Chiesa. – Voi svolgerete ancora più compiutamente la vostra missione se alle preghiere quotidiane per i popoli aggiungerete preghiere particolari per i re, affinché siano sani, dirigano i loro sudditi nell’equità, nella giustizia e nella pace; affinché riconoscano che Dio comanda al di sopra dei loro troni, e piamente e santamente difendano e propaghino la sua causa. Operando in siffatto modo, Voi soddisferete non soltanto alle Vostre funzioni episcopali, ma anche a vantaggio di tutti. Che cosa, infatti, c’è di più giusto e di più conveniente che da parte di coloro che sono preposti alla custodia delle cose sante, nella loro qualità d’interpreti e di ministri, siano offerti a Dio i voti di tutti, pregandolo di sostenere chi tutela la tranquillità di tutti i cittadini?

6. Noi crediamo sia superfluo descrivere qui le altre funzioni del ministero pastorale. A che giova, infatti, enumerare in dettaglio e raccomandarvi cose di cui sappiamo che Voi avete una conoscenza profonda, e nella pratica delle quali siete fortificati per l’uso di ogni giorno e per una certa inclinazione del vostro cuore conforme alle vostre funzioni? – Tuttavia non possiamo tralasciare di ripetervi e di porre davanti ai vostri occhi un consiglio che li riassume tutti: ed è che nell’esercizio della virtù prendiate a modello Gesù Cristo, nostro Capo, Principe dei pastori, e riproduciate in Voi medesimi l’immagine della sua santità, della sua carità e della sua umiltà. – Poiché se Egli, che era lo splendore della gloria del Padre e la figura della sua sostanza, ha consentito a prendere le debolezze della nostra carne, e dallo stato di servitù farci passare, con le sue umiliazioni e col suo amore, a quello di figli adottivi di Dio; se Egli ha voluto che noi fossimo suoi coeredi, potremo noi scegliere un oggetto più nobile e più glorioso nelle nostre meditazioni e nelle nostre fatiche di quello di renderci atti, Noi che siamo gli strumenti pei quali questa unione di uomini a Cristo si mantiene e si opera, ad illuminare col Nostro esempio la via per la quale essi camminano seguendo la bontà, la clemenza e la mansuetudine di questo divino modello? E per qual altra ragione avrebbe Egli salito le altezze della montagna, Egli che evangelizza Sionne? Voi non potete ardere dal desiderio di raggiungere questa somiglianza senza trasmettere ai cuori di tutto il vostro popolo la fiamma che brucia in voi. Certamente sono meravigliose la forza e la potenza del pastore che scuote le anime del suo gregge. Quando i popoli sapranno che tutti i pensieri del loro Pastore, tutte le sue azioni sono regolate sul modello della vera virtù, quando lo vedranno evitare tutto ciò che potrebbe sapere di durezza, di alterigia, di superbia e non occuparsi che dei doveri che ispirano la carità, la dolcezza, l’umiltà; allora si sentiranno vivamente animati ad emularlo per conseguire le stesse lodi. – Quando i popoli sapranno che il pastore, dimentico di ogni personale vantaggio, serve agl’interessi degli altri, soccorre i bisognosi, istruisce gl’ignoranti, rincuora tutti con l’impegno, il consiglio e la pietà, e preferisce alla sua propria vita la salute della comunità, allora, dolcemente attirati dal suo amore, dal suo zelo e dalla sua assiduità ascolteranno volentieri la voce del pastore che insegna, esorta e ammonisce, anche se richiama. – Ma come potrà insegnare ad altri l’amore di Dio e la benevolenza verso i suoi fratelli colui che, schiavo tra i lacci e la cupidigia dei suoi interessi privati, preferisce le cose della terra a quelle del cielo? Come mai quegli che aspira alle gioie ed agli onori del mondo potrebbe condurre gli altri al disprezzo delle cose umane? Come potrebbe dare lezioni d’umiltà e di dolcezza colui che si leva nel fasto dell’orgoglio? Voi dunque, che avete ricevuto la missione d’insegnare ai popoli la morale di Gesù Cristo, ricordatevi che dovete soprattutto mettervi ad imitare la sua santità, la sua innocenza, la sua dolcezza. Sappiate che la vostra potenza non apparirà giammai più brillante che quando porterete le insegne dell’umiltà e dell’amore, più ancora di quelle della vostra dignità. – Ricordatevi che è proprio del vostro incarico, e che non appartiene che a Voi di dirigere in questo modo il popolo che vi è stato affidato; è nel compimento di questo dovere che Voi dovete cercare ogni vantaggio ed ogni lode; trascurandolo, non troverete che malore ed ignominia. Non abbiate ambizione per altra ricchezza che per la salute delle anime riscattate col sangue di Gesù Cristo, e non cercate alcuna gloria vera e solida se non propagando il culto divino ed accrescendo la bellezza della casa del Signore, estirpando i vizi, ed applicando tutte le Vostre cure a praticare la virtù con una fedeltà perseverante. Ecco ciò che Voi dovete assiduamente pensare e fare; ecco quello che deve essere l’oggetto della Vostra ambizione e dei Vostri desideri.

7. E non pensate che, nella molteplicità di questo lungo e laborioso esercizio, vi manchi il tempo per esercitarvi alla virtù. Tale è la condizione della Vostra carica, tale è la ragione della vita episcopale, ch’esse non debbano mai veder giungere il riposo né la fine delle loro fatiche. Non possono venire circoscritte da alcun limite le azioni di coloro la cui immensa carità dev’essere senza limiti; ma l’attesa della ricompensa infinita ed immortale che Vi è destinata addolcirà ed allevierà facilmente tutte le Vostre pene. Qual cosa, infatti, può sembrare pesante e dura a colui il quale pensa a quella beata ricompensa che il Signore riserva, e che la ragione delle funzioni pastorali reclama per quelli che avranno conservato e moltiplicato il loro gregge? – Ma oltre questa magnifica speranza d’immortalità, Voi proverete ancora una grande gioia pur nel peso delle fatiche della vita pastorale, quando, venendovi Dio in aiuto, vedrete il Vostro popolo unito nei legami di una mutua carità, fiorente nella pietà e nella giustizia, e quando contemplerete tutti gli altri frutti ammirabili che le Vostre fatiche e le Vostre veglie avranno prodotto nella Chiesa. – Piaccia a Dio che Noi possiamo, durante il tempo del Nostro Apostolato, e per il concorso unanime di tutte le Nostre volontà e di tutte le Nostre cure, veder ritornare quella meravigliosa felicità religiosa che fu dell’antica età. – Piaccia a Dio che Noi possiamo, Venerabili Fratelli, rallegrarcene insieme, e goderne in Gesù Cristo nostro Signore! Che questo medesimo Gesù Cristo ci sostenga sempre con la sua grazia e accenda i nostri cuori dell’amore di tutto ciò che gli può piacere!

8. Nello stesso tempo in cui scriviamo questa Lettera a Voi, Venerabili Fratelli, con altra Lettera concediamo a tutti i Cristiani il Giubileo per implorare – secondo la tradizione, all’inizio del Nostro Pontificato – l’aiuto divino per il salutare governo della Santa Chiesa Cattolica. – Chiediamo pertanto a Voi, e Vi supplichiamo, di incitare i popoli affidati alle Vostre cure ad innalzare devote preghiere con fede, pietà e umiltà. Infiammateli con le Vostre esortazioni, con i Vostri consigli e con l’esempio affinché curino sia la propria salvezza, sia i motivi di pubblico vantaggio della Cristianità.

In pegno del Nostro amore, impartiamo a Voi, Venerabili Fratelli, e ai fedeli delle Vostre Chiese, la più affettuosa Benedizione Apostolica.

Dato a Roma, presso Santa Maria Maggiore, il 12 dicembre 1769, nell’anno primo del Nostro Pontificato.

 

 

DOMENICA XIX dopo PENTECOSTE

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum [Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.]
Ps LXXVII:1
Attendite, pópule meus, legem meam: inclináte aurem vestram in verba oris mei.
[Ascolta, o popolo mio, la mia legge: porgi orecchio alle parole della mia bocca.]

Salus pópuli ego sum, dicit Dóminus: de quacúmque tribulatióne clamáverint ad me, exáudiam eos: et ero illórum Dóminus in perpétuum [Io sono la salvezza dei popoli, dice il Signore: in qualunque calamità mi invocheranno, io li esaudirò, e sarò il loro Signore in perpetuo.].

Oratio
Orémus.
Omnípotens et miséricors Deus, univérsa nobis adversántia propitiátus exclúde: ut mente et córpore páriter expedíti, quæ tua sunt, líberis méntibus exsequámur.
[Onnipotente e misericordioso Iddio, allontana propizio da noi quanto ci avversa: affinché, ugualmente spediti d’anima e di corpo, compiamo con libero cuore i tuoi comandi.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV:23-28
“Fratres: Renovámini spíritu mentis vestræ, et indúite novum hóminem, qui secúndum Deum creátus est in justítia et sanctitáte veritátis. Propter quod deponéntes mendácium, loquímini veritátem unusquísque cum próximo suo: quóniam sumus ínvicem membra. Irascímini, et nolíte peccáre: sol non occídat super iracúndiam vestram. Nolíte locum dare diábolo: qui furabátur, jam non furétur; magis autem labóret, operándo mánibus suis, quod bonum est, ut hábeat, unde tríbuat necessitátem patiénti.”

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV – Omelia XIII.– Torino 1899]

 “Rinnovatevi nello spirito della vostra mente, e rivestite il nuovo uomo, quello che fu creato secondo Dio in giustizia e santità verace. Ondechè, lasciata ogni bugia, dite la verità ciascuno col suo prossimo, perché siamo membra l’uno dell’altro. Sdegnatevi, ma senza peccato; il sole non tramonti sulla vostra ira. Non date luogo al demonio. Chi rubava, non rubi più, piuttosto colle sue mani lavori alcunché di utile, affinché abbia con che soccorrere chi “si trova in bisogno „ (Agli Efesini, IV, 23-28).

Anche queste sentenze, sì belle e sì pratiche, sono tolte dalla Epistola di S. Paolo ai fedeli della Chiesa di Efeso, e da quella parte della Epistola che si riferisce pressoché tutta alla morale. E qui torna acconcio mandare innanzi una osservazione, che mi valga di scusa in questi ed in altri commenti, che vo facendo delle Epistole. S. Paolo, scrivendo le sue lettere, in generale aveva lo scopo di provvedere ad alcuni bisogni particolari delle Chiese o delle persone, alle quali scriveva, di dar loro ammonimenti opportuni, e talora di rimuovere alcuni disordini o pericoli. In queste lettere abbondano le raccomandazioni comuni, com’è naturale, e perciò tratto tratto tornano sotto la penna dell’Apostolo le stesse verità, le stesse esortazioni, le stesse massime morali, che sono d’ogni classe di persone, di ogni tempo e di ogni luogo. Incontrandomi nelle stesse verità, e nelle stesse esortazioni e massime morali dell’Apostolo, che debbo io fare? Ometterle? No; ometterei la spiegazione di quelle verità che la Chiesa vuole inculcate ai fedeli, ed io non ho diritto di passarmene. Ma sono ripetizioni, e spesso di cose notissime. Lo so; e che perciò? Devo io correggere 1’opera della Chiesa e passare sopra ciò ch’essa vuole ricordato ai suoi figliuoli? Mai no. Se l’Apostolo nelle sue lettere credette buona cosa ripetere le stesse verità, e la Chiesa ce le fa leggere, a me non resta che seguire l’uno e l’altra, sicuro di far cosa buona e santa. Se la ripetizione delle medesime verità giovavano al tempo dell’Apostolo, perché non gioverebbero eziandio al giorno d’oggi? E tutti i giorni non mangiamo lo tesso pane, e non ci viene giammai a nausea? Similmente diamo alle anime nostre lo stesso cibo, e non ne proveranno nausea, anzi vi troveranno sostanzioso nutrimento. Ed eccomi a voi, o carissimi. –  L’Apostolo, dopo avere eccitato caldamente i suoi figliuoli spirituali ad accostarsi alla virilità perfetta di Cristo, ossia a modellarsi sopra di Lui ed a ritrarsi dalla corruzione pagana, in cui erano vissuti ed in mezzo alla quale erano costretti a vivere con grandissimo loro pericolo, li esorta a spogliare l’uomo vecchio, ossia l’uomo corrotto, l’uomo delle passioni e del peccato, ed a vestire il nuovo, quale è rifatto da Gesù Cristo; e qui comincia il nostro commento. “Rinnovatevi nello spirito della vostra mente. „ L’anima nostra si attua e si svolge in quelle due facoltà nobilissime che sono tutto l’uomo e formano tutta la sua grandezza e nobiltà, e sono la mente e la volontà; la mente, che è fatta per il vero, la volontà, che è fatta per il bene. L’anima nostra è fatta prima pel vero, e per il vero raggiunge il bene. Perché l’uomo pervenga alla sua perfezione dee anzi tutto conoscere il vero, e conosciuto questo, la sua volontà, se è retta, vi si adagia, l’ama, lo mette in pratica e allora si trova in possesso del bene. Primo dovere pertanto dell’uomo è quello di conoscere la verità: il secondo quello di operare conformemente ad essa. Ecco perché Gesù, volendo condurre gli uomini al bene, alla virtù, alla perfezione, vuole che si cominci dal far loro conoscere la verità, e perciò dice agli Apostoli: “Docete omnes gentes. Prædicate omni creaturæ — Ammaestrate tutte le genti, predicate a tutti i popoli. „ E qui il nostro Apostolo grida alto agli Efesini: ” Rinnovatevi nello spirito della vostra mente: „ in altre parole: Rinnovate la vostra mente collo spirito di verità, che Gesù Cristo vi ha portato, cioè adornate la vostra mente col conoscimento delle verità divine, e così la rinnoverete, la farete bella agli occhi di Dio. Sta bene che il corpo sia adorno di belle vesti, che ne accrescono la grazia ed il decoro: veste dell’anima e suo ornamento bellissimo è la verità, che tutta la irradia e la informa. Questa frase dell’Apostolo è quasi la ripetizione d’un’altra ai Romani, dove dice: “Riformatevi nella novità del vostro senso (XII, 2), o rinnovatevi nell’anima vostra, ricevendo in voi la verità e la grazia divina che per voi sono cose nuove. Ma il versetto seguente spiegherà meglio la mente dell’Apostolo. Ascoltiamolo. “Rivestite il nuovo uomo, quello che fu creato secondo Dio, nella giustizia e santità verace. „ Lo dissi in qualche altro luogo, ma qui è forza ripeterlo. Qual è l’uomo nuovo? Indubbiamente il primo uomo, Adamo: come nuova è la fabbrica o la casa, quando è ap pena costruita, così nuovo era l’uomo, allorché uscì dalle mani di Dio. Qual è l’uomo vecchio? Quello che divenne tale più tardi, quello che si guastò, come è vecchia la casa che col volgere del tempo va disfacendosi. – Allorché pertanto S. Paolo vuole che ci rinnoviamo, vuole che diventiamo come il primo uomo, l’uomo uscito dalle mani del Creatore Adamo. Qual era il suo stato? Esso fu creato secondo Dio, cioè tale ch’era caro a Dio, portava sulla fronte l’immagine di Dio, era suo figlio per adozione, perché adorno della giustizia, cioè della grazia santificante, e perciò veramente santo. L’opera di Gesù Cristo, che è, secondo la frase sì bella di S. Paolo, il secondo Adamo o secondo padre dell’umanità: Secundus Adam de cœlo cadestis (I. Cor. XV), si riduce a rifare tutti gli uomini sul modello del primo, ridonando loro la grazia, la vita divina e la piena signoria sulle proprie passioni, il che si ottiene col Battesimo e con tutti gli altri mezzi di salute, che compiono il lavoro della nostra rigenerazione. Vestire dunque il nuovo uomo, o rinnovarci nello spirito, vuol dire far rivivere in noi, quanto lo consente la debolezza nostra, l’Adamo innocente, ricco dei doni celesti, avente in sé l’immagine e la somiglianza di Dio. Vuol dire avere nella mente la verità, nel cuore la vita della grazia e della carità, nelle parole, negli atti e nelle opere esprimere in noi stessi la vita di Adamo, che è poi quella di Gesù Cristo redentore. Quale dignità! quale è la nostra grandezza considerata al lume di queste sì sublimi verità! Riprodurre in noi il primo uomo innocente! Essere giusti e veramente santi dinanzi a Dio: In justitia et sanctitate veritatis! – Ma ascoltiamo ancora S. Paolo: “Il perché, lasciata ogni bugia, dite la verità, ciascuno col suo prossimo. „ L’uomo vecchio, l’uomo del peccato, l’uomo della concupiscenza e della carne, è affatto contrario all’uomo nuovo, all’uomo della virtù, all’uomo dello spirito e della grazia; noi, che portiamo l’uno e l’altro in noi stessi, dobbiamo adoperarci incessantemente a deporre il primo e vestire il secondo.Dopo avere stabilito in generale il dovere che ci stringe, S. Paolo in questo versetto e nei seguenti specifica le opere del vecchio uomo, che dobbiamo smettere, e quelle del nuovo che dobbiamo esercitare. La prima opera dell’uomo vecchio, che l’Apostolo vuole sbandita, e la bugia: Deponentes mendacium. Ve lo confesso, allorché era giovane e leggevo nel Salmo quella sentenza: ” Ogni uomo è menzognero, „ io era tentato di giudicarla esagerata e pigliarla in senso molto largo: il conoscimento pratico degli uomini mi ha mostrato, che purtroppo è vera nel senso rigoroso. Dio buono! Dov’è l’uomo che non abbia mai mentito in vita sua, con la lingua, con le parole ed anche col tacere, giacché si può mentire anche tacendo? Quante volte siamo stati ingannati ed abbiamo ingannato, a seconda dell’interesse e della passione, allargando o restringendo il valore delle parole, od anche affermando con la lingua ciò che il cuore negava! E per molti non è ornai ridotto ad arte il segreto di ingannare? Educati alla scuola di Gesù Cristo, che è la stessa verità e che disse: “il vostro linguaggio sia questo è, è; no, no; „ fuggiamo ed abbominiamo qualunque menzogna. All’opera dell’uomo vecchio, che è la menzogna, S. Paolo contrappone subito, secondo il suo stile, l’opera dell’uomo nuovo, e dice: “E dite la verità ciascuno col suo prossimo o fratello. „ È un dovere imposto a tutti senza eccezione, dal quale Dio stesso non potrebbe scioglierci, Egli che è il Signore assoluto. E S. Paolo tocca tosto una ragione speciale, che ci obbliga a dire la verità, ed è questa: “Perché siamo membra l’uno dell’altro. „ Siamo tutti fratelli, membri di quel corpo, del quale Gesù Cristo è capo supremo. Con che cuore, sembra dire l’Apostolo, ingannerai tu il fratello tuo? Dov’è l’occhio che danneggi l’altro occhio? dove la mano che ferisca l’altra mano? dove il piede che non aiuti l’altro piede? Le membra tutte del nostro corpo si soccorrono a vicenda: ora se tu non dici la verità, tradisci il fratello tuo, fai oltraggio alla legge di natura, che impone alle membra dello stesso corpo di aiutarsi scambievolmente. Ma direte: Se diciamo la verità, ne avremo danno. — Forse danno nel corpo, ma non mai nello spirito. E che perciò? Se per cessare un danno, anche grave materiale, si potesse mentire, non vi sarebbe peccato, per quanto enorme, che in certi casi non si potesse commettere. Se in faccia ad un gran pericolo, al sacrificio stesso della vita e dell’onore fosse lecito mentire, noi non avremmo un solo martire, perché essi con una sola bugia potevano sfuggire alla morte, e spesso ottenere sommi onori. – A nessuno di noi il dire la verità imporrà il sacrificio della vita; e, quand’anche lo imponesse, dovremmo imitare i martiri e non stare in forse un istante a compirlo a nostra gloria eterna. — Ma ornai tutti mentiscono, e chi dice la verità troppo spesso rimane vittima dell’altrui malizia; così dicono altri. — Sia pure che tutti mentiscano: forseché il male cessa d’essere male perché tutti lo commettono? Perché la maldicenza, l’incontinenza, il furto, la bestemmia e andate dicendo, sventuratamente sono peccati comuni, non saranno più peccati, e noi saremo scusati innanzi a Dio, commettendoli? No, per fermo. La legge di Dio è là, e non si muta un apice: chi l’osserva sarà salvo, chi la trasgredisce infallibilmente sarà punito. Meglio essere vittime degli altrui inganni, che meritevoli dei divini castighi. Ma è da passare al seguente versetto. “Adiratevi, ma senza peccato. „ Questa sentenza è tolta dal Salmo (IV, 5), ed ha bisogno di spiegazione. Questa espressione contiene forse un precetto, come sembrerebbe suonare la parola: Adiratevi? Forse può essere, in un certo senso. Quando noi vediamo l’ingiustizia manifesta, l’empietà sfacciata, l’insolente oppresso e tradito, non possiamo non sentire un fremito d’ira e di sdegno; è la stessa natura che si rivolta e che altamente riprova l’iniquità e il delitto. In questo senso leggiamo che Dio stesso si sdegna e s’adira a nostro modo di intendere, cioè odia ed abomina la colpa dovunque apparisca, ed in questo senso si può dire ad un uomo: Ti adira, cioè contro il male. Ma sembra interpretazione più naturale e più piana quest’altra: Vi accade di adirarvi? Attesa la debolezza della nostra natura, sì facile all’ira, ciò accadrà soventi volte. Che fare? Se l’ira talora vi assale, tosto rintuzzatela in guisa che non abbiate a peccare. Le passioni talvolta, e specialmente l’ira, ci assaltano all’improvviso, e le sentiamo fremere e tempestare in cuore prima d’esserci accorti delle loro mosse. Quel primo bollimento, che ci suscitano nell’animo, siccome non è avvertito dalla ragione, e perciò non assentito dalla volontà, non è, né può essere peccato, perché non si pecca mai senza saperlo e volerlo. Quando adunque la passione ci sorprende, e l’ira mette sossopra il nostro spirito, appena ce ne avvediamo, la ragione, e con essa la volontà, si levino prontamente alla riscossa, la riducano all’obbedienza, ne frenino i moti incomposti e ristabiliscano la pace. Ecco perché S. Paolo, dopo quelle parole: “Adiratevi, cioè se vi adirate, vedete di non peccare, „ continua e dice: ” E il sole non tramonti sulla vostra ira — Sol non occidat super iracundiam vestram. „ È una bella e graziosa immagine per farci conoscere che l’ira vuol essere tostamente repressa e cacciata dal cuore in guisa, che non vi passi sopra un giorno. — Carissimi! uno sguardo sulla vostra coscienza. Vedete se per avventura nelle pieghe più riposte del vostro cuore si appiattasse il risentimento, il rancore o l’odio contro del vostro fratello; vedete se mai l’ira del giorno vi accompagnò alla sera, alla notte, sotto le coltri, vagheggiando e quasi assaporando il dolce della vendetta e studiando le vie per averla piena ed intera. Ohimè! allora non vi ricordaste di certo del precetto dell’Apostolo: – Che il sole non tramonti sul vostro corruccio. „ Segue questa sentenza : “Non date luogo al demonio — Nolite locum dare diabolo. „ Essa può stare da sé, e vorrebbe dire, che dobbiamo fuggire ogni male, chiudendo la porta del nostro cuore all’autore del male, che è il demonio: ma io sono d’avviso che si debba considerare come una appendice della proposizione sopra spiegata e legare con essa così: Il sole non tramonti sulla vostra collera, e, così operando, avrete chiuso ogni accesso al nemico comune, che è il demonio. Se noi coviamo in cuore l’ira, ben presto ne sentiremo le conseguenze funeste. Fate che una scintilla, una sola scintilla cada in mezzo alla paglia mista a legna; se voi tosto non la spegnete, a poco a poco si allarga il fuoco, e ben presto vedrete andare in fiamme l’intera casa. Così dell’ira: è una scintilla in fondo al nostro cuore, e se non è prontamente soffocata, divamperà in grande incendio di dispetti, di astii, di maldicenze, di calunnie, di ingiurie, di contumelie, di risse, di percosse e peggio. Fuori adunque l’ira, e con essa avremo chiuso la porta al demonio, artefice di ogni male. – L’Apostolo procede nella sua enumerazione, sempre per via di antitesi, cioè alle opere della carne o dell’uomo vecchio opponendo quelle dello spirito o dell’uomo nuovo: ” Chi rubava più non rubi. „ È un richiamo semplicissimo ad uno dei principali comandi della legge divina. E vero, molti credono di non venir meno all’osservanza di questo precetto divino, e quasi si offendono se altri loro lo ricorda. Noi, essi dicono, non tocchiamo mai la roba d’altri, — e sarà verissimo, perché non è mai che per violenza o inganno manifesto rapiscano o sottraggano cosa alcuna al prossimo. Ma se pensassero che si può violare in molte altre maniere quel precetto divino, forse troverebbero di non essere sì innocenti come mostrano di credere. Si può recar danno altrui nella roba, e gravemente, senza che ne venga in mano nostra un sol filo. Si può rubare con la lingua, screditando il prossimo; si può rubare con le usure mascherate, col prestare il lavoro, che dobbiamo, inferiore al pattuito; col vendere la merce avariata; col non restituire la roba trovata; col promettere e non mantenere la promessa; col mentire; col calunniare; col non pagare i debiti contratti, o rendersi impotenti a pagarli; col disonorare il prossimo; coll’impedire ingiustamente l’esercizio dei suoi diritti; con l’esigere un prezzo eccessivo, ingannandolo e in cento altri modi, che senza aumentare d’un soldo il nostro avere, danneggia i fratelli nostri. E in ciò possono trasgredire il gran precetto del non rubare non solo i ricchi, ma anche i poveri, e perfino i miserabili. E non sono essi derubatori quei poveri, che potendo vivere col lavoro delle proprie mani, preferiscono vivere di limosine? E simili a costoro non sono quegli operai, che sprecando alla bettola parte del guadagno, costringono le mogli a ricorrere alla carità pubblica per sfamare e vestire i figli? Ah! se il precetto “Non rubare „ fosse inteso a dovere, molti che dicono: “io non ho mai tolto nulla dell’altrui”, dovrebbero chinare vergognosa la fronte e confessare d’avere ingiustamente danneggiato altri, e non poco, e questo è pur uno dei tanti modi, coi quali si trasgredisce il settimo comandamento. Io penso che come non è esagerazione il dire che ogni uomo è bugiardo (lo dice lo Spirito Santo), così non è esagerazione il dire che ogni uomo più o meno ruba, o col togliere l’altrui o col recargli danno. – E non basta per l’Apostolo il non rubare egli esige dai suoi figliuoli prima il fuggire il male, poi fare il bene, e soggiunge questa bellissima sentenza, che è rivolta a tutti, senza eccezione, e che vorrei scolpita negli animi vostri in guisa che non la dimenticaste giammai. Sentitela: “Ciascuno fatichi con le proprie mani, lavorando in qualche opera utile per avere di che soccorrere chi soffre bisogno.„ Oh! dottrina, oh! verità sublime, promulgata da quell’Apostolo, che lavorava con le proprie mani per mangiare il suo pane senza essere di peso a chicchessia e sovvenire ai poverelli! Il lavoro, o cari, è legge naturale e divina, imposta a tutti, poveri e ricchi, uomini e donne, deboli e robusti, istruiti e non istruiti. Nessuno è dispensato da questa gran legge, fosse il maggior ricco della terra, il più possente dei monarchi. Sono e debbono essere diversi i lavori, perché così esige la natura delle cose, ma non vi è un solo uomo che sia affrancato da questa legge universale. Sapete a quale pena il nostro Apostolo condanna l’ozioso? Uditela, e non dimenticatela mai: “Chi non lavora non mangi — Qui non laborat non manducet. „ Dilettissimi! Se noi volgiamo intorno gli occhi per le nostre città, per i ritrovi, per certe sale e per certe bettole, ed anche per le nostre borgate, quanti oziosi! Quanti ricchi e quanti poveri, quanti uomini e quante donne che consumano le ore e le giornate in turpe ozio, che si corrompono nei vizi, figli dell’ozio, che muoiono nell’inerzia e nella noia! Vergogna! O uomo, chiunque tu sia, ricorda che l’uccello è nato al volo e l’uomo al lavoro, come ti grida Giobbe. A che ti son date codeste braccia, codeste mani, se non per il lavoro? Adamo innocente doveva lavorare nel luogo di delizie, in cui Dio l’aveva collocato; e tu, colpevole, tu, condannato al lavoro, divenuto anche pena ed espiazione, vorresti sottrarti? — “Io non ho bisogno del lavoro per vivere” – mi risponde taluno ricco. — Tu dunque sei un essere parassita, che vivi a spese d’altri; tu mangi il pane d’altri, e l’altrui sudore ti nutre! Vergognati! Non credere di poter fuggire alla condanna dell’Apostolo, che è condanna di Dio. Il lavoro altrui accumulò le ricchezze che hai, e l’ozio tuo le disperderà e, se non tu, i tuoi figli, come dice la Scrittura, vedranno la povertà assisa sulla soglia della casa tua. –  Non hai bisogno di lavorare per vivere; sia. Ma guardati d’intorno, e vedrai moltissimi dei fratelli tuoi, ai quali il lavoro delle loro braccia non basta a fornire uno scarso pane e un povero vestito: lavora per essi. — Io credo che prima di S. Paolo nessuno mai sulla terra abbia pensato e molto meno esortato persona a lavorare per avere di che sovvenire alle angustie dei poverelli. È un’idea alta, nobilissima, che non poteva spuntare nella mente dell’uomo che sotto la luce del Vangelo. A questa scuola di Gesù Cristo si formarono le sante Elisabetta di Turingia, le Bianche di Castiglia, le Edvigi di Slesia ed altre moltissime, che, nate in mezzo agli agi e collocate sui gradini del trono, lavoravano con le proprie mani affine di vestire i poveri. Qual cosa più bella e più degna d’un ricco e d’una signora che, non avendo bisogno di lavorare per sé, lavorano per gli orfanelli, per gli abbandonati, per gli infermi, per queste moltitudini di sofferenti, che ci circondano? Ecco un’opera di vera fratellanza ed eguaglianza, ecco un socialismo cristiano e santo, che disarmerà il socialismo violento ed iniquo, e che tutti, a qualunque partito siano ascritti, di gran cuore benediranno. Vive ancora una gran dama inglese, vedova d’un uomo di Stato, passata dal protestantesimo alla Chiesa Cattolica, che dà a pigione il vastissimo suo palazzo per mantenere con quelle rendite un centinaio di orfanelle; ed essa si è ritirata in un angolo dei palazzo e lavora con le sue mani per calzare e vestire quelle infelici, che ama come se fossero sue figlie. — Sono miracoli di carità creati dalla parola di Gesù Cristo e del suo Apostolo, che scriveva: “Ognuno lavori con le sue mani in qualche opera profittevole per avere di che sovvenire chi soffre bisogno. „- Ricapitolando l’insegnamento dell’Apostolo, noi porremo ogni studio in spogliarci dell’uomo vecchio, cessando le opere sue, che sono la bugia, l’ira, il furto e l’ozio, e in vestirci dell’uomo nuovo, praticando le opere sue che sono l’amore alla verità e la sincerità, la pazienza e la mansuetudine, il rispetto per la roba d’altri, l’amore al lavoro e la liberalità verso quelli, che lottano coi bisogni e con la miseria.

Graduale
Ps CXV:2
Dirigátur orátio mea, sicut incénsum in conspéctu tuo, Dómine.
[Si innalzi la mia preghiera come l’incenso al tuo cospetto, o Signore.]
V. Elevatio mánuum meárum sacrifícium vespertínum. Allelúja, allelúja [L’’elevazione delle mie mani sia come il sacrificio della sera. Allelúia, allelúia]
Ps CIV:1

Alleluja
Alleluja, Alleluja

Confitémini Dómino, et invocáte nomen ejus: annuntiáte inter gentes ópera ejus. Allelúja. [Date lode al Signore, e invocate il suo nome, fate conoscere tra le genti le sue opere.]

Evangelium
Sequéntia   sancti Evangélii secúndum Matthæum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt XXII:1-14
“In illo témpore: Loquebátur Jesus princípibus sacerdótum et pharisaeis in parábolis, dicens: Símile factum est regnum coelórum hómini regi, qui fecit núptias fílio suo. Et misit servos suos vocáre invitátos ad nuptias, et nolébant veníre. Iterum misit álios servos, dicens: Dícite invitátis: Ecce, prándium meum parávi, tauri mei et altília occísa sunt, et ómnia paráta: veníte ad núptias. Illi autem neglexérunt: et abiérunt, álius in villam suam, álius vero ad negotiatiónem suam: réliqui vero tenuérunt servos ejus, et contuméliis afféctos occidérunt. Rex autem cum audísset, iratus est: et, missis exercítibus suis, pérdidit homicídas illos et civitátem illórum succéndit. Tunc ait servis suis: Núptiæ quidem parátæ sunt, sed, qui invitáti erant, non fuérunt digni. Ite ergo ad exitus viárum et, quoscúmque invenéritis, vocáte ad núptias. Et egréssi servi ejus in vias, congregavérunt omnes, quos invenérunt, malos et bonos: et implétæ sunt núptiæ discumbéntium. Intrávit autem rex, ut vidéret discumbéntes, et vidit ibi hóminem non vestítum veste nuptiáli. Et ait illi: Amíce, quómodo huc intrásti non habens vestem nuptiálem? At ille obmútuit. Tunc dixit rex minístris: Ligátis mánibus et pédibus ejus, míttite eum in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium.
Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.” [In quel tempo: Gesú parlava ai príncipi dei sacerdoti e ai Farisei con parabole, dicendo: Il regno dei cieli è simile a un re, il quale celebrò le nozze del suo figlio: egli mandò i suoi servitori a chiamare gli invitati alle nozze; ma questi non volevano andare. Mandò di nuovo altri servitori a dire agli invitati: Il mio pranzo è già pronto: sono stati uccisi i miei tori e gli animali grassi, e tutto è pronto: venite alle nozze. Ma quelli non se ne curarono, e se ne andarono chi alla sua villa, chi al suo negozio. Altri poi, presi i servi di lui, li trattarono a contumelie e li uccisero. Udito ciò, il re si sdegnò: e mandate le sue milizie sterminò quegli omicidi e dette alle fiamme la loro città. Allora disse ai suoi servi: Le nozze sono pronte, ma quelli che erano stati invitati non furono degni. Andate, dunque agli angoli delle strade e quanti incontrerete chiamateli alle nozze. E andati i servi di lui per le strade, radunarono quanti trovarono, buoni e cattivi, sí che la sala del banchetto fu piena di convitati. Entrato il re per vedere i convitati, vide un uomo che non era in abito da nozze. E gli disse: Amico, come sei entrato qua, non avendo la veste nuziale? Ma quegli ammutolí. Allora il re disse ai suoi ministri: Legatelo mani e piedi, e gettatelo nelle tenebre esteriori: ivi sarà pianto e stridore di denti. Poiché molti sono i chiamati, e pochi gli eletti.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo XXII, 1-14)

Piccolo numero degli eletti

“Molti sono i chiamati, pochi gli eletti”. È questo il grave, il sentenzioso, il tremendo epifonema con cui Gesù Cristo conchiude l’evangelica parabola: “Multi sunt vocati pauci vero electi”. Molli furono infatti i chiamati da un Re che volle solennizzare le nozze del proprio figlio. Alcuni francamente negarono d’intervenirvi, altri produssero scuse di affari di campagna, di negozi di città. Uccisero altri i servi mandati ad invitarli. Uno finalmente si presentò, ma senza veste nuziale, e tutti questi furono per sempre esclusi dal regale convito. Il Re che fa le nozze al proprio figlio è l’eterno Padre, il figlio è Gesù che ha sposato l’umana nostra natura unendola con unione ipostatica alla sua divinità. Negl’invitati a queste mistiche nozze, vale a dire alla fede e alla penitenza, sono espressi gl’increduli che con franca negativa si rifiutano: in quei che allegano scuse, i peccatori che da un tempo all’altro differiscono la loro conversione: negli uccisori dei servi, quei che soffocano le sante ispirazioni e i movimenti della grazia: finalmente in colui che s’introduce senza veste nuziale, quegli infelici privi della carità e della santificante grazia.Che meraviglia perciò che pochi siano quei che si salvano, se la moltitudine dei chiamati si oppone ai disegni, ai desideri di Dio che li vuol salvi? Questa formidabile verità, che pochi sono fra i cristiani adulti quei che si salvano, io prendo a dimostrarvi con la ragione e con l’autorità. Udite, o fedeli, il soggetto del mio e del vostro salutare spavento.

I. Il Regno dei cieli ci vien rappresentato nel S. Vangelo a guisa di alta rocca da vincersi a forza d’armi, da conquistarsi con violenza d’estremo valore. “Regnum cœlorum vim patitur, et violenti rapiunt illud(Matt. XI, 12). Ora una rocca è difficile a superarsi quando vi concorre l’arduità del sito, la moltitudine dei nemici, la debolezza degli assediatori. L’arduità del sito, primamente non può esser maggiore. Si tratta di salire al cielo nel regno di Dio e dei beati, ov’essi son giunti a stento per molte tabolazioni, per il disprezzo del mondo, per l’austerità della vita, per l’esercizio della penitenza, per le sofferte persecuzioni, per lo spargimento del sangue, pel sacrificio della vita. Senza violentar se stesso non può lo spirito sollevarsi da terra. Il corpo è un peso che tira al basso. “Una pietra dice S. Tommaso, perché dall’alto d’una torre discenda a terra, non ha bisogno di forza, basta aprir la mano; ma perché da terra arrivi alla cima, onde discese, è necessaria forza di braccio e destrezza di mano”. “Facilis discensus Averni” (Virgil.), l’intese anche un Gentile, ascender su per le vie del cielo, “hoc opus, hic labor”. L’acque del fiume Giordano secondo la natural pendenza andavano a seppellirsi nel mar morto; per far che con corso retrogrado tornassero addietro fu necessaria l’arca del Signore e l’opera dei sacerdoti. Per andar dopo morte a seppellirsi nell’inferno, basta lasciare operar la natura; e la natura corrotta, i sensi e le malnate passioni ci porteranno infallibilmente laggiù; ma per tornare alla nostra sorgente, al nostro principio, che è Dio, ci vuol la forza e l’efficacia della sua grazia e la nostra cooperazione, conviene vincere le ritrosie della guasta natura, superare gli ostacoli al bene, l’inclinazione al male, mortificare l’opere della carne, vivere secondo lo spirito e menar sulla terra una vita celeste. – Cresce la difficoltà per la moltitudine dei nemici. La vita dell’uomo, dice il Santo Giobbe è una vera milizia su questa terra. “Militia est vita hominis super terram” (Cap. VII, 1). Bisogna star sempre con l’armi alla mano, ed oh con quanti nemici abbiamo a combattere! Nemici interni, nemici esterni, nemici visibili, nemici invisibili: tutti i sentimenti del nostro corpo sono altrettanti nemici, tutte le nostre passioni, l’irascibile, la concupiscibile, la superbia, l’avarizia, la gola, l’invidia, sono fiere racchiuse nel serraglio del nostro cuore, che ci fa sentire i loro ruggiti, e ci minacciano dei loro morsi: nemico l’intelletto facile a deviare dal vero, soggetto a mille impressioni malvagie, nemica la memoria fomento di perverse rimembranze, nemica la volontà inclinata ad ogni specie di male. Si aggiunge all’esercito di tanti nemici il mondo, il demonio, la carne, i mali esempi, i cattivi consigli, le false massime, l’erronee dottrine, i libri seducenti, gli scandali passati in costume. Oh Dio, quanti inciampi, quanti pericoli, quanti lacci! Di questi lacci vide S. Antonio Abate tutta sparsa la faccia della terra, e S. Agostino forse alludendo a questa visione, “ecco, dice, il mondo ha teso innanzi ai nostri piedi infiniti lacci; e chi potrà scansarli?” “Ecce ante pedes tetendit laqueos infinitas, et quis effugiet? (Apud Rossig.). – Cresce vieppiù la difficoltà di conquistare il regno dei cieli per la debolezza dei combattenti. Chi più debole ed incostante dell’uomo? Una canna è di lui men fievole, un vetro è di lui men fragile. Mirate i nostri progenitori nel terrestre paradiso, creati nell’originale giustizia, senza stimolo di passioni; e pure la vista di un pomo, due parole del demonio nascosto nel corpo di un serpente, bastarono a sedurli ed a farli prevaricare. Mirate Saul prima da Dio eletto e a Dio fedele e poi disubbidiente e riprovato. Davide santo, Profeta, uomo secondo il cuor di Dio, per uno sguardo diviene adultero e omicida; Giuda, oggi Apostolo, domani apostata; Tertulliano prima padre della Chiesa, apologista della religione cristiana, indi eretico Montanista; Lucifero, famoso Vescovo di Cagliari già difensore della fede cattolica, e dopo morto scismatico. Io vidi, dice S. Agostino, cadere a terra cedri del Libano, colonne della Chiesa, condottieri del gregge di Cristo, della rovina dei quali non avrei mai ammesso minimo dubbio, siccome mai avrei dubitato di un Gregorio Nazianzeno e di un Ambrogio. Oh Dio! quanto è grande, quanto è deplorabile l’umana fragilità! Chi si terrà sicuro? Chi si fiderà delle proprie forze? Chi in vista dell’altrui rovina non temerà della propria?

II. Che pochi siano quei che van salvi, dopo la ragione ce ne convince l’autorità. Apriamo le divine Scritture e riscontriamo prima le immagini che al dir dell’Apostolo “in figura facto, sunt nostri, (ad Cor. X, 6), poi le sentenze che comprovano questa spaventosa verità. Dal diluvio universale, che affogò tutta l’umana generazione, quanti furono gli scampati? Solo otto persone, Noè, e la sua famiglia. Dall’incendio delle popolose città di Pentapoli quanti fuggirono? Quattro soltanto. Lot con la consorte e due sue figlie. Di seicento mila Israeliti abili all’armi, senza contar le donne e i fanciulli, usciti dall’Egitto per entrare nella terra promessa, quanti vi posero piede? Due soli, Giosuè e Caleb. Molte, dice Gesù Cristo nel Vangelo di S. Luca, furono le vedove in Israele ai tempi d’Elia angustiate per la gran fame, e ad una sola, la vedova di Sarepta, fu recato soccorso. Molti furono i lebbrosi nei giorni d’Eliseo, e uno solo fu risanato, cioè Naaman Siro. La terra è infetta dai suoi abitatori, soggiunge Isaia, e perciò sulla faccia della medesima si spargerà la maledizione a sterminarla. Pochi restarono ad abitarla “relinquentur homines pauci(XXIV, 6), e saranno tanto pochi che potranno rassomigliarsi a quelle rare e poche olive che restano sull’albero dopo essere stato bene scosso e perticato, e a quegli scarsi grappoli d’uva che in un’abbondante vendemmia sfuggono all’occhio dell’attento vignaiuolo. Tutti corrono al pallio, ricorda San Paolo, ma uno solo è quello che arriverà a conseguirlo, “omnes quidem currunt, sed unus accipit bravium(1 Cor. IX, 24). E giacché di S. Paolo abbiamo fatto menzione, udite come parla di sé questo vaso di elezione, questo grande Apostolo già rapito fino al terzo cielo. “Miei cari, per grazia di Dio la mia coscienza di nulla mi rimorde”, “nihil mihi conscius sum(1 Cor. IV, 4), ma non per questo mi tengo per giusto, “sed non in hoc iustificatus sum”. Anzi castigo il mio corpo per tenérlo a guisa di schiavo insolente soggetto alla ragione ed alla fede, perché temo che procurando con la mia predicazione l’altrui salvezza, io non divenga un misero riprovato, “ne cum aliis prædìcaverim, ipse reprobus efficiar (1 Cor. IX, 27). – Ma che cercare esempi e figure quando in chiari termini precisi parla l’Incarnata Sapienza, la stessa Verità, Cristo Gesù? Interrogato Egli se pochi sono quei che si salvano, “si pauci sunt qui salvantur(Luc. XV, 24)? Rispose: “Angusta è la porta del cielo, fate ogni sforzo per entrarvi”, “contendite intrare per angustam portam”,così in S. Luca. Passate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa è la strada che mena alla perdizione, e molti son quelli che per questa si avviano, “et multi sunt qui intrant per eam. E di nuovo esclamando ripete: “oh quanto è stretta la porta e angusta la strada che conduce alla vita!” e pochi son quei che a questa si appigliano, “et pauci sunt qui inveniunt eam” (Cap. VII, 14).  Così in S. Matteo in somma conchiude, “molti sono i chiamati alla fede, alla penitenza, alla salute, ma pochi sono gli arrendevoli a queste chiamate, per conseguenza pochi sono gli eletti” “multi sunt vocati, pauci vero electi(Matt. XX, 10). A questa irrefragabile autorità appoggiati i santi Padri Agostino, Girolamo, Gregorio, Crisostomo, Anselmo, Efrem, Teodoro, Basilio, tutti concordano che dei cristiani adulti che possono con la libertà dell’arbitrio cooperare alla propria salute, il maggior numero sia dei reprobi, non degli eletti. Per non esser prolisso non vi reciterò le loro sentenze: basterà per tutti S. Giovanni Crisostomo. Predicando questi nella gran città di Costantinopoli, tutta allora cristiana, città la più numerosa di popolo dopo Roma, arrivò a dire che di una sì vasta popolazione, appena cento avrebbero nozione, e di questi cento aveva pure alcun dubbio: “Non possut in tot millibus inveniri centum qui salventur, quia et de his dubito”. Forse allora era meno corrotto il costume. E che avrebbe detto ai tempi nostri in vedere la religione derisa, la devozione schernita, la Chiesa perseguitata, la bestemmia in costume, la disonestà in trionfo, la sevizia dei mariti, l’infedeltà delle mogli, fuggita la frequenza nei divorzi, la scostumatezza dei figli, la licenza delle zitelle, la frode nei contratti, l’usura nei prestiti, la prepotenza nelle liti, la facilità negli spergiuri, la profanazione delle Chiese, lo scandalo delle mode, lo scandalo nelle pitture, lo scandalo nelle canzoni, nei libri osceni, nei libri eretici? Mio Dio, che torbido rovinoso torrente d’ogni iniquità inonda la terra! E dopo ciò; farà sorpresa il dire che pochi si salvano? Ah, miei dilettissimi, se per bene vostro io vi son cagione di spavento, perdonate per pietà, ad uno ch’è più di voi spaventato: “Territus, terreo(D. Aug.). – Misero me! mi salverò? mi perderò? Sarò nel numero dei pochi salvi? O in quello dei molti riprovati? Io son vicino alla tomba, i capelli son bianchi, le forze mancano, la vista è debole, poco mi resta di vita. Che sarà di me al tremendo giudizio di Dio? Che sentenza mi toccherà? Propizia o contraria? Se do uno sguardo alla mia coscienza aggravata di tante colpe, se rifletto alla difficoltà della salute, io mi do per perduto. La divina giustizia io l’ho irritata: la divina misericordia non me la rendo propizia. Fui peccatore, son peccatore, non rimedio al passato, non profitto del presente, non provvedo all’avvenire. Ah! che dovunque mi volgo non trovo che oggetti di spavento e di disperazione. In tanto orrore di me stesso mi resta una sola speranza: Maria, rifugio dei peccatori, mi getto aI vostri piedi, mi nascondo sotto del vostro manto, difendetemi dalla giusta collera di un Dio da me troppo indegnamente offeso! In questo giorno in cui tutto il popolo cristiano a voi ricorre e tanto vi onora, [cadeva in questa domenica la solennità di Nostra Signora del Rosario], non rigettate dal vostro cospetto un peccator ravveduto. Madre dolcissima, avvocata dei peccatori, difendete la mia causa, dite al vostro Figlio che son pentito delle mie colpe e delle sue offese, che più non peccherò, che voglio da qui innanzi vivere nel numero de1 pochi per salvarmi coi pochi. Pochi sono i cristiani timorati, casti, sobri, pii, giusti, umili, limosinieri, devoti, sarò di questo numero? Se il mondo è perverso e pervertitore, ne starò lontano; vivrò come Abramo in mezzo ai Caldei, vivrò come Tobia nella prevaricazione d’Israele, avrò sempre vivo alla mente il ricordo di S. Giovanni Climaco: “Vive cum paucis, si vii regnare cum paucis”.

Credo …

Offertorium
Orémus
Ps CXXXVII:7
Si ambulávero in médio tribulatiónis, vivificábis me, Dómine: et super iram inimicórum meórum exténdes manum tuam, et salvum me fáciet déxtera tua. [Se cammino in mezzo alla tribolazione, Tu mi dai la vita, o Signore: contro l’ira dei miei nemici stendi la tua mano, e la tua destra mi salverà.]

Secreta
Hæc múnera, quǽsumus, Dómine, quæ óculis tuæ majestátis offérimus, salutária nobis esse concéde. [Concedi, o Signore, Te ne preghiamo, che questi doni, da noi offerti in onore della tua maestà, ci siano salutari.]

Communio
Ps CXVIII:4-5
Tu mandásti mandáta tua custodíri nimis: útinam dirigántur viæ meæ, ad custodiéndas justificatiónes tuas. [Tu hai ordinato che i tuoi comandamenti siano osservati con grande diligenza: fai che i miei passi siano diretti all’osservanza dei tuoi precetti.]

Postcommunio
Orémus.
Tua nos, Dómine, medicinális operátio, et a nostris perversitátibus cleménter expédiat, et tuis semper fáciat inhærére mandátis.
[O Signore, l’opera medicinale del tuo sacramento ci liberi benignamente dalle nostre perversità, e ci faccia vivere sempre sinceramente fedeli ai tuoi precetti.]

GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO: UNITÀ DELLA CHIESA

Gregorio XVII: Il Magistero impedito

UNITÀ DELLA CHIESA

[«Renovatio», II (1967), fasc. 4, pp. 507-508]

Il discorso è opportuno, se non necessario, perché in qualche momento si fa insistente la menzione della «chiesa locale» o «particolare». Le chiese locali sono sempre esistite; pertanto se il discorso circa le medesime si fa più insistente, una ragione ci deve essere. E bisogna che la ragione sia buona. Perché sia tale, nulla c’è di meglio che richiamare la idea da Cristo lasciata circa la unità della Chiesa. Con questa idea ben chiara, diventa subito chiaro il concetto del «ruolo» nelle «chiese particolari». Anzitutto il Fondatore della Chiesa ha parlato sempre di un «solo» Regno. Pertanto la «unità» della Chiesa, ne vuole la «unicità». – Cristo non ammette moltiplicazioni del Suo Regno, nel senso vero e proprio. Ma ha voluto, non meno, la «unità» interna della Chiesa. Ciò in due modi essenziali. Il primo è la unità della «Fede». Si tratta del consenso nella stessa «idea», semplice e complessa ad un tempo, organica e ricchissima, quale Egli ha rivelato. Ha chiesto l’adesione della mente (tale è appunto l’atto di fede) ad un’unica verità, da Lui proposta, intangibile, immutabile, anche se indefinitamente sempre più intelligibile, garantita per di più dalla esistenza di un Magistero infallibile, perfettamente individuato. Il Magistero ha proprio la funzione di assicurare, nella variazione delle circostanze e nella ricchezza delle deduzioni od applicazioni, la perenne unità della fede, nel tempo e nello spazio. – Il secondo è la unità del regime. Infatti ha dato alla Sua Chiesa un Primate, un capo munito di impressionanti poteri: Pietro. Il Collegio stesso dei Vescovi trova la sua operante unità nell’essere con questo Capo. Tutto ciò significa appunto la unità del regime. E la unità interna della Chiesa, che si lega indissolubilmente con la unicità. – Messo ben chiaro il pensiero di Cristo, diventa chiaro il concetto della Chiesa locale. La Chiesa locale è «in sé», ma non è «a sé». Essa poggia sulla istituzione dell’episcopato monarchico, al punto che non esisterebbe, nella attuale costituzione della Chiesa, senza l’episcopato. La presenza del Vescovo – non di un qualunque presidente – dà alla Chiesa particolare una consistenza «in sé stessa», perché il Vescovo succede nell’apostolato e ne porta con sé, ben oltre una semplice delegazione, i poteri sufficienti a costituire una organica operante comunità, che insieme cammina verso la eterna salute. La Chiesa locale, tuttavia, non è «a sé». Ciò perché il Vescovo, ogni Vescovo, tanto come capo di una definita e limitata comunità particolare, quanto come membro del Collegio episcopale fa capo a Pietro. – Vediamo ora la Chiesa locale sotto il profilo della «unità interna» della Chiesa cattolica. La Chiesa locale, per quanto portatrice anch’essa della divina Tradizione, per quanto attrice anch’essa di un consenso esplicativo, deduttivo, applicativo delle verità della Fede, non fa da sola il Magistero infallibile. Questo, nella sua forma ordinaria, richiede un consenso e questo consenso fa capo ad un vertice necessario: Pietro. Nella forma solenne il Magistero sta in Pietro e, quando sta nel Collegio episcopale, ha bisogno di Pietro. Nell’aspetto più profondo e delicato del suo essere, in quello cioè della Fede, della idea, della concezione di tutte le cose relative alla salvezza eterna, la Chiesa locale non è valevole da sé, deve far capo a Pietro. La Chiesa locale, per quanto capace in se stessa di un regolamento disciplinare e questo a causa della nozione dell’episcopato come lo ha voluto Cristo (come stato storicamente attuato), deve far capo a Pietro. – Pietro è il centro della unità, ne è il vertice al disotto di Cristo Signore, ma è anche il limite divinamente posto alle competenze particolari, alle insofferenze particolari, quali talvolta per difetto d’uomini si possono rivelare. – La Chiesa locale non è solo elemento di «aggregazione», tanto meno è solo elemento soltanto «federativo»; essa è, per divina volontà, elemento di un organismo che si riduce alla unità in un punto solo. Esattamente come ha scritto al secolo secondo nel suo Adversus Hæreses, Ireneo, Martire e Vescovo di Lione.

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (11), capp. XX-XXI

CAPITOLO XX.

MARTIRIO DEL BUON LADRONE.

  1. Disma può egli veramente chiamarsi martire? Tre condizioni richieste per il martirio. — Sentenze di S. Cipriano, di S. Agostino, di S. Girolamo, di S. Bernardo. La rottura delle gambe e delle cosce ordinata in odio di Gesù Cristo. — Il Crurifragium o supplizio distinto dalla crocifissione. — Esempi di questo presso i pagani. — La legge dei giudei non lo comandava. — Testimonianza di Origene.—-La consuetudine non lo autorizzava.— Belle spiegazioni dei Padri. — Sapiente riservatezza della Chiesa Romana. — Essa autorizza l’ufficio del Buon Ladrone sotto il nome di confessore. — Decisione della S. Congregazione dei Riti.

Per fare di s. Disma un capolavoro compiuto della bellezza morale, sembra che manchi una perla alla sua corona. Questa perla è la più preziosa di tutte; poiché essa sola fa brillare di tutto il loro splendore le virtù eroiche del coronato atleta: noi vogliam dire il martirio. Tale e tanto ne è il valore, che esso basta a far glorioso il più umile cristiano, al di sopra di tutti i santi dottori, pontefici, anacoreti, missionari che non siano martiri. Ed una simile gloria manca forse al nostro beato? Ce lo dirà la risposta alle seguenti interrogazioni. Quali sono le condizioni richieste pel martirio? Sono esse concorse nella morte di Disma? – Secondo la Teologia Cattolica tre cose costituiscono il martirio. Soffrire la morte o i tormenti capaci di produrla; soffrirla volontariamente; soffrirla per difesa della vera fede, o di altra virtù cristiana. Data appena una tale definizione, tosto vi ha chi risponde: S. Disma non fu martire. I suoi patimenti non furono volontari, né egli li soffrì per la difesa della fede. Il gran martire di Cartagine, s. Cipriano, replica molto a proposito. « Nella passione di questo Ladrone bisogna distinguere due tempi, due uomini, ed il sangue Dell’uno da quello dell’altro. Il sangue ch’ ei versò prima della dichiarazione di sua fede fu il sangue del ladro; e dopo quella dichiarazione fu il sangue di un Cristiano. Il sangue del ladro fu la pena dei delitti; ma il sangue del ladro versato nella confessione della fede cristiana, per affermare la divinità del Figlio di Dio, fu il sangue di un confessore »  [De Cœn. Doni., apud Orilia, p. 223, et Cor. a Lapid., in Luc., XXIII, 42]. S. Agostino riporta la sentenza del suo illustre collega dicendo: « Il Ladrone, non discepolo di Nostro Signore prima della croce, ma confessore sulla croce, è posto da S. Cipriano nel numero dei martiri. In vero per aver confessato Gesù Crocifisso, egli si ebbe ugual merito che se fosse stato crocifisso per Gesù. La misura dei martire si ritrova in colui che confessa Cristo nel momento in cui lo abbandonarono coloro che un giorno sarebbero stati martiri » [De anim. et ejus orig., lib. I, n. 11, Opp., t. X, p. 700]. In altro luogo Io stesso dotto Vescovo si esprime cosi: « Il Ladrone eletto già prima di esser chiamato, non ancor servo e già amico, non ancor discepolo e già maestro, da ladro diviene confessore. Senza dubbio; da ladro incomincia il suo supplizio, ma per un prodigio ineffabile il consuma da martire » [Serm. cxx, De Tempor.] – Lo stesso pensiero troviamo in S. Girolamo « Il Ladrone, dice il gran Dottore, cangia la croce per il paradiso, e della pena dei suoi omicidi fa un martirio. » [Epist. XIII, Ad Paulin.]. – Ascoltiamo ora S. Bernardo. « O beatissimo ladro… che dissi mai? non ladro, ma martire e confessore! Egli fa liberamente della necessità virtù, e muta la pena in gloria, e la croce in trionfo. In voi fortunatissimo confessore e martire, raccoglie il Salvatore le reliquie della fede in mezzo al mondo intero, che non ne ha più. I discepoli fuggono, Pietro rinnega, e voi aveste la sorte di essere il compagno di sua passione. Sulla croce voi foste Pietro, e nella casa di Caifa Pietro fu il ladro. E Pietro fu ladro per tutto quel tempo che ascondendo interamente quel ch’egli era, esternamente rinnegava il suo divino Maestro. Or ecco perché voi avete preceduto Pietro nel Paradiso. Imperciocché Colui che abbracciandovi sulla croce, divenne vostro capo e vostra guida, il giorno stesso in cui rientrò nel suo regno, in quello seco v’introdusse suo fedele e glorioso soldato. » Eccovi delle autorità, certamente rispettabili, che non esitarono di dare al nostro Santo il titolo di martire. Glielo danno perché ha sofferto almeno in parte il supplizio della croce confessando la divinità di Nostro Signore. Per assicurare a Disma questo titolo glorioso, faremo parola di un altro supplizio che gli venne inflitto a punizione della sua professione di fede. Intendiamo parlare del crurifragium o rottura delle gambe e delle cosce. – La crocifissione e la rottura delle gambe, erano due supplizi distinti. Uno non traeva seco necessariamente l’altro. La storia profana ce ne fornisce moltissime prove. « Augusto, scrive Svetonio, avendo scoperto che Thallo, suo segretario, aveva dato una lettera e ricevuto per essa cinquecento denari, gli fece romper le gambe e le coscie l. » [In Aug., c. LXVIII] Il medesimo autore narra come Tiberio facesse romper le gambe a due giovani, perché avevano rinfacciato a quel vile tiranno un turpe delitto. In Seneca leggiamo che Silla trattò nella stessa guisa Marco Mario Gratidiano. [De ira, III, c. XVIII.] – Nè il Crurifragium era proprio dei soli romani. Questo genere di supplizio era in uso presso gli altri popoli dell’antichità. Polibio riferisce che in Africa una popolazione ribelle, essendosi impadronita dei cittadini più illustri di Cartagine, li mutilò rompendo loro le gambe, e gettandoli semivivi in un fosso. Inutile è l’aggiungere che la stessa tortura fu largamente adoperata a riguardo dei martiri. Fra gli altri molti, gli atti di s. Adriano ne offrono un esempio, che può dare un’idea della crudeltà dei tiranni imperiali e della costanza dei confessori della fede. Tutti questi fatti ci mostrano che la rottura delle gambe aveva luogo alcuna volta senza il supplizio della crocifissione; e quelli che abbiamo citati antecedentemente ci hanno mostrata la crocifissione senza la rottura delle gambe. I popoli antichi erano sì poco premurosi di affrettar la morte dei crocifissi, che li lasciavano spirar sulla croce il più lentamente possibile. Così volevasi dal legislatore che si aggravassero i loro patimenti, e si prolungasse la lezione di terrore data col loro supplizio. Per accelerare la loro morte, era necessario, dicono gli antichi giureconsulti Paolo ed Ulpiano, che ricorresse l’anniversario della nascita del principe, o la domanda dei parenti, o qualche altra grave ragione; altrimenti si lasciavano imputridire sulla croce. Come presso i pagani, così presso i Giudei, il Crurifragium non era la conseguenza necessaria della crocifissione. In alcun luogo si trova indizio del contrario, e il testo del Deuteronomio che regola il supplizio della croce, non ne fa motto. Eccolo: « Quando un uomo avrà fatto un peccato da punirsi colla morte, e condannato a morire, sarà stato appeso al patibolo, non rimarrà sul legno il suo cadavere, ma sarà sepolto lo stesso dì; perché è maledetto da Dio chiunque è appeso al legno: e tu non dei contaminar quella terra, di cui il Signore Dio tuo ti avrà dato il possesso. » [XXI, 22-23]. La legge ordinava di deporre il cadavere dei crocifissi prima della fine del giorno, ma essa punto non dice che a farli morire innanzi all’ora stabilita, si dovessero spezzar loro le gambe e le cosce. Ma almeno era forse consuetudine ricorrere a quel barbaro mezzo? Nulla ci autorizza a pensarlo; anzi sembra chiaramente risultare il contrario dal testo evangelico. Ascoltiamo Origene, così vicino al tempo di Nostro Signore, e tanto pratico degli usi dell’Oriente. Su queste parole di s. Giovanni: i Giudei pregarono Pilato che fossero ad essi rotte le gambe e fossero tolti via, egli dice: « Un tal fatto ebbe luogo il giorno della morte di Nostro Signore Gesù Cristo; ma per ordinare che ad esso fossero spezzate le gambe. Pilato non invoca la consuetudine. L’Apostolo lo fa ben rilevare, dicendo che coloro pregarono Pilato che fossero ad essi rotte le gambe e fossero tolti via. Era forse necessario di andare a chiedere una tal cosa come una grazia, se tale, fosse stata la consuetudine? » [Tract. XXXV, in Matth.]. Col domandare questo crudele supplizio, i Giudei operavano ancora contro la consuetudine. Questa consisteva nel dare al condannato, del quale si voleva accelerare la morte, un colpo di lancia sotto le ascelle verso la regione del cuore; e questa era una maniera meno barbara di togliergli la vita. Noi dobbiamo ad Origene questi dettagli, il quale vivendo al tempo delle persecuzioni, conosceva meglio degli altri i particolari dell’esecuzioni capitali. Da qui la sorpresa di Pilato venendo a conoscere la pronta morte di Nostro Signore. Dall’un canto per piacere forse ai Giudei, non aveva egli dato l’ordine dell’ordinario colpo di lancia al Salvatore; dall’altro, egli sapeva che i crocifissi vivevano sulla croce, non solo alcune ore, ma dei giorni e delle notti intere. Fu perciò grande la sua meraviglia, quando il centurione, inviato per rompere le gambe ai condannati, venne ad annunziargli che Gesù era morto prima di questo supplizio. Quanto al colpo di lancia dato al Salvatore, oltre le ragioni misteriose, con le quali il permise la provvidenza, esso si spiega per la consuetudine che abbiamo accennata. Per assicurarsi se Nostro Signore fosse veramente morto, e togliere ad esso lui l’ultimo soffio di vita che gli poteva ancor restare, il soldato fece a riguardo suo ciò che era in uso di farsi pei condannati alla croce. Sotto una forma diversa, la consuetudine di cui parla Origene erasi conservata nell’antica legislazione penale delle nazioni europee. Al reo condannato ad aver rotte le gambe, il carnefice cominciava dal dare un colpo alla parte del cuore per ammortire il dolore dello spezzamento delle gambe e delle braccia. Nel caso poi, in cui il condannato meritasse di soffrire più a lungo, il colpo al cuore non si dava che in ultimo luogo. Questo era quello che chiamasi colpo di grazia. Ora perché mai, in luogo del colpo di lancia, i capi della Sinagoga chiedono che siano spezzate le ossa? Senza dubbio per rodio che portavano a Nostro Signore, e particolarmente al Buon Ladrone. Non avevano dimenticato che se essi avevano voluto far cambiare lo scritto da soprapporsi alla croce, che dichiarava la regia condizione del Salvatore, Disma aveva dal canto suo giustificata la dichiarazione di Pilato, ed accusato perciò i Giudei del più enorme degli attentati. La rottura delle ossa doveva punire il di lui coraggio. – Che tale si fosse la intenzione degli Ebrei, i Padri della Chiesa mostrano di non dubitarne: « Andarono pertanto i soldati, dice il Vangelo, e ruppero le gambe al primo e all’altro che era stato crocifisso con lui. » Secondo Luca di Burgos il primo indica il Buon Ladrone, crocifisso alla destra di Nostro Signore, e che respirava ancora, « E perché, domanda s. Gregorio Magno, tutte queste minute particolarità? Può mai credersi ch’esse non nascondano un qualche mistero? Perché non dire semplicemente ruppero le gambe ai due ladroni, se ciò non è per indicare nelle parole del primo e dell’altro, un senso occulto? » [Omil. XXII, in Evang.]. E quale è mai questo senso? Eutimio, citato dal dotto P. Silveira, viene a dircelo: « Con questa parola di primo il Vangelo indica il Ladrone crocifisso alla destra di Nostro Signore e convertito. Siccome il giusto è sempre il primo a ricevere i colpi, i Giudei da esso lui incominciarono, irritati com’erano contro di lui per aver presa la difesa del Signore ». Da tutte queste circostanze, il celebre commentatore arditamente conclude, che Disma fu un vero martire, e che i Padri della Chiesa ben si apposero nel dargli un tal titolo. « Pieni di livore, i Giudei cominciarono da lui il crudele supplizio del crurifragium. Ed avendolo Disma sopportato senza lamenti, in continuazione della magnifica testimonianza che egli avea resa all’innocenza ed alla regia qualità di Nostro Signore, io non esito punto a chiamarlo martire coi padri della Chiesa » Non ostante tutte queste testimonianze, noi dobbiamo alla verità della storia dichiarare che, sul martirio di s. Disma, vi han due diversi pareri: l’uno che gli attribuisce la qualità di martire propriamente detto, e l’altro che gliela nega. Nel passato secolo la Congregazione dei Riti prese a discutere siffatta questione, e la sua decisione dà luogo ad ammirare sempre più la prudente riserva della Chiesa Romana. Senza biasimare la opinione dei Padri e dei Dottori che attribuiscono a Disma il titolo di vero martire, la Congregazione adottò per la liturgia la opinione contraria: ed autorizzò 1’ufficio del Buon Ladrone, sotto il titolo di confessore non pontefice. A scanso poi di ogni critica, essa pur’anche soppresse il nome tradizionale di Disma [Vedi Benedetto X I V , De Canon. SS.; lib . IV , part. II, c. XII, n. 10].

CAPITOLO XXI

IMITATORI DEL BUON LADRONE.

(Per imitatori del buon Ladrone intendiamo i grandi peccatori che lo imitarono nella prontezza e sincerità della loro conversione).

 La conversione del Buon Ladrone inspira la fiducia. — Condanna la presunzione. — Espressione di S. Agostino. — Eloquenti parole del vescovo Eusebio. — Incoraggiamenti dati da S. Ambrogio e da S. Agostino. — Esempi di grandi peccatori subitaneamente convertiti. — Il giovane ladro dell’Apostolo S. Giovanni. — Sua storia.

Dopo la riforma del Breviario Romano, l’officio del Buon Ladrone fu primamente richiesto dall’ordine Europeo, sì famoso nella storia della carità cattolica, di Nostra Signora della Mercede, pel riscatto degli schiavi. Qual migliore avvocato, qual più perfetto modello per tanti infelici incatenati nei bagni di Tunisi e di Algeri? La domanda fu appagata da Sisto V. Venne di poi nel passato secolo la Congregazione Italiana dei Pii Operai. In riconoscenza delle molte e strepitose conversioni ottenute nelle missioni, per la intercessione di s. Disma, quei zelanti apostoli domandarono nel 1724 l’autorizzazione di far l’ufficio di quel grande avvocato dei peccatori. Roma accolse la loro domanda, ed il Buon Ladrone divenne il protettore speciale del loro ordine. – Il medesimo favore venne accordato ai Padri Teatini degni figli di s. Gaetano Tiene, non che ai Servi di Maria ed agli Oblati di Marsiglia; eroici missionari dell’America Settentrionale. – Non è dunque l’ammirazione il solo sentimento che ispirar ci deve la conversione del Buon Ladrone: una dolce e salda fiducia nell’infinita misericordia di Dio deve esserne il frutto. Fondata sull’esempio di tante conversioni, questa fiducia ci sembra che sia nei voti della Chiesa. Se non fosse per ispirarla ai suoi figli, peccatori o non peccatori, perché canterebbe ella ai funerali: Qui latronem absolvisti mihi quoque spem dedisti? – Senza dubbio sarebbe sommamente imprudente il peccatore, che incoraggiato dall’esempio di Disma, rimettesse all’estremo della vita la sua conversione. Dall’un canto, chi gli dice, che in quel punto sarà in grado di conoscere il suo stato? « Quegli, dice s. Agostino, che ha promesso il perdono al peccatore, non gli ha promesso il domani. » Qui veniam promisit, crastim non promisit. Dall’altro canto la conversione del Buon Ladrone è un miracolo di prim’ordine. Ma il miracolo è sempre un fatto eccezionale, ed il governo della divina Provvidenza non si fonda sulle eccezioni. Iddio non promette né deve miracoli a chicchessia, e molto meno ancora a chi contasse su tal favore per continuare ad offenderlo. Quindi quell’altra osservazione di s. Agostino : « Dei due ladroni uno si converte, perché non abbiate a disperarvi; ma egli è solo perché non abbiate a presumere: » Unus est ne desperes, solus est ne confidas.Non è dunque, ce ne guardi Iddio, per addormentare in una funesta sicurezza gli innumerevoli peccatori dei nostri giorni, che noi citeremo la subitanea conversione di un certo numero di grandi colpevoli. Nostro fine si è di mostrare non esser mai troppo tardi per tornare a Dio; che la sua misericordia si estende a tutti i secoli, inesauribile, infinita; che non v’ha vita sì rea, la quale non possa finire con una morte santa; che nessun peccatore fosse egli al momento di render l’anima, non deve gettarsi in braccio alla disperazione; e finalmente che l’esempio del Ladrone convertito sulla croce venne lasciato come un’ancora di salute ai peccatori moribondi e prossimi a cadere nell’abisso dell’impenitenza finale. Tale si fu pure l’idea dei Padri della Chiesa. « Iddio, dice il gran vescovo Eusebio, era in Nostro Signor Gesù Cristo riconciliantesi il mondo; vale a dire la divinità operava in un corpo mortale. Appariva la umanità nella fragilità della sua natura; e la divinità si rivelava nella maestà della sua potenza. Uomo, egli muore, e scende all’inferno. Dio, ne ritorna trionfante. Per salvare i colpevoli Ei si lascia collocare in mezzo ai rei; l’uno è alla sua destra, l’altro alla sinistra. Con i patimenti della sua Croce, il Giusto merita la gloria ad uno dei ladri; ma se ci poniamo ben mente, noi vediamo che una tal grazia non fu ad esso concessa per lui solo. Perdonando ad un sì gran colpevole, condonando ad un simile debitore la immensa somma dei suoi debiti, il Dio Redentore ha decretato la salvezza del genere umano. – « Egli vuole che il perdono di un sol disperato sia la consolazione e la speranza di tutto il popolo, e che un dono personale diventi un pubblico beneficio: e perciò bisogna credere senza esitazione, che se la conversione del Buon Ladrone fu la gloria della sua fede, essa è pur anche per noi un pegno di speranza, ed una sorgente di vantaggi. L’immensa bontà del nostro Dio accorda liberalmente ciò che Egli sa dover esser utile a tutti. Se dunque pieno di fiducia in una tale misericordia, qualcuno tra noi condanna la sua vita passata, coll’intraprendere una vita migliore, e se tutta ripone la sua speranza in Gesù Crocifisso, diviene pur esso un Buon Ladrone, che apre a se stesso le porte del cielo » Scrivendo a Teodoro, sì famoso per la sua caduta, s. Gio. Crisostomo gli dice: « Tale è la clemenza di Dio per gli uomini, che non rigetta mai una sincera penitenza. Fosse pur caduto il peccatore nel profondo dell’abisso dell’iniquità, se egli vuol tornare alla virtù Dio lo riceve, lo abbraccia, e nulla tralascia per rimetterlo nel suo primiero stato. Altra prova ancora più grande della sua misericordiosa bontà: se il peccatore non ha fatta una intera penitenza, non ne disdegna Egli una incompleta e leggiera, e magnificamente la ricompensa. Osservate il ladrone. Impiega egli forse gran tempo per ottenere il paradiso? Non più che il momento da poter proferire due sole parole, e tutte le sozzure dell’intera sua vita son cancellate, e prima degli stessi Apostoli è ammesso al premio nel cielo. » – Similmente per mostrare le ricchezze della divina misericordia, confortare la nostra debolezza, e raffermare la nostra speranza, Iddio ha permesso e permette ancora le gravi cadute di molti gran santi. Questo salutare coraggio, s. Agostino ispirava ai peccatori di tutti i tempi, di tutti i paesi, di tutte la classi. « David, diceva quel gran vescovo, David profeta e re secondo il cuore di Dio, proavo del Messia, ha commesso due enormi delitti. Ecco quello che debbono gli uomini evitare. Se poi essi pur caddero, ascoltino quello che debbono imitare. Molti vogliono cadere con David, ma non vogliono rialzarsi con David. Il suo esempio non deve insegnare cadere, ma sebbene a risorgere se mai cadeste. Non sia di gioia ai deboli la caduta dei forti, ma la caduta dei forti sia di timore per i deboli. A questo fine fu scritto l’esempio di David; e solo a questo fine viene spesso ricordato e cantato dalla Chiesa. I peccatori adunque si guardino bene di cercare una scusa nell’esempio del santo re, per dire: se David poté farlo perché non lo potrò io? ».  Proporsi di fare il male perché David il fece, è un rendersi più reo di David. David peccando non si era proposto un modello. Egli cade vinto dalla passione, non già incoraggiato dall’esempio di un santo. Voi per peccare vi ponete un santo innanzi gli occhi, e non por imitarne la santità, ma la rovina. Voi amate in David ciò che David odiò tanto in se stesso. Voi leggete ed ascoltate la santa Scrittura per darvi animo a far ciò che dispiace a Dio. Non così fece David. Egli fu rimproverato dal Profeta, e non cadde per cagione del Profeta. « Se fra coloro che mi ascoltano, vi fosse alcuno che sia già caduto, ei deve sicuramente riflettere alla gravità della sua caduta, alla profondità della sua ferita, ma non disperare della potenza del medico: peccato e disperazione è morte certa. Non vi sia dunque alcuno che dica: Io ho peccato, dunque sarò dannato: Iddio non perdona sì gravi colpe. E perché mi asterrò dal peccare ancora? Mi abbandonerò a tutte le mie passioni. Non avendo più speranza di salvarmi, io voglio godere di quello che vedo, mentre non posso conseguire quello che credo. « L’esempio di David risponde ad un simile ragionamento. Coma ammonisce a stare in guardia quei che non son caduti, così ritrae dal disperarsi coloro che caddero. O voi che avete peccato, e disperando della vostra salute, non volete far penitenza della vostra prevaricazione, ascoltate David che piange. A voi non verrà mandato Nathan profeta, ma è David stesso che vien a farvi coraggio ed a servirvi di modello. Voi l’udite esclamare; esclamate con lui; gemere, gemete con lui; piangere, alle sue unite le vostre lacrime. Voi lo vedete convertito, prendete parte alla sua buona ventura. Se esso non poté impedirvi di peccare, or vi conforti colla speranza di risorgere dalla vostra caduta » [Enarrat. in ps. L, n. 3 et 5. Opp., t, IV , p. 658, 660]. – All’eloquenza delle parole è tempo di aggiungere l’eloquenza dei fatti. Noi li sceglieremo tra tutte le specie di peccatori, per dimostrare che la divina misericordia si estende a tutto ed a tutti, e forse di preferenza ai ladri, e agli assassini. Noi scriviamo la storia del più insigne fra loro, e l’abbiano dedicata ad un gran ladro; poi ci pare che in questa classe di sciagurati il Buon Ladrone debba ricercare i suoi prediletti clienti, perche è ben naturale che i santi provino un particolare interesse per coloro che vengono soggetti alle stesse malattie morali, delle quali furono essi le vittime, e che godano di una speciale virtù di soccorrerli. – Il primo che ci si presenta è il capobanda convertito da s. Giovanni. Come quella di s. Disma, la storia di esso dimostra con qual celerità operi la divina misericordia. – Tornato ad Efeso dopo la sua relegazione all’isola di Patmos, il prediletto discepolo, nonostante la sua grave età, visitava le diverse Chiese dell’Asia, delle quali egli era fondatore e padre. Venuto in una città per regolare alcuni punti di disciplina, e decidere alcune controversie, posò l’occhio su di un bel giovane pieno di vigore e di brio. E voltosi al vescovo gli disse; « Siavi a cuore quel giovane, e su di lui vegliate con la più grande sollecitudine, lo ve lo affido innanzi alla Chiesa ed a Gesù Cristo, » Il vescovo lo prende sotto la sua responsabilità, e promette di fare per lui tutto ciò che gli domanda l’apostolo. S. Giovanni ritorna ad Efeso. Il vescovo prende in sua casa il giovane, Io istruisce, lo sorveglia, lo ricolma di paterne amorevolezze; infine lo ammette al battesimo, più tardi lo conferma col sacro crisma, e credendolo ormai ben’assicurato, rimette alquanto dall’usata sorveglianza. Ne profitta il giovane per vivere con maggior libertà, e ben tosto si lega in amicizia con altri giovani dell’età sua, oziosi, infingardi e dati ad ogni maniera di vizi. Questi nuovi compagni lo invitano a conviti e stravizzi, e lo fanno suo malgrado uscir di casa la notte per renderlo complice dei loro furti, e fargli animo a commettere maggiori delitti. Egli man mano vi si abitua, e pieno di coraggio e di confidenza nelle sue forze, come il cavallo che ha rotto il morso, si getta nell’abisso di tutti i vizi. Disperando poi della sua salute, non fa più conto alcuno dei delitti ordinari, e di accordo coi suoi compagni si avvisa di diventare un eroe del delitto. Riunisce infatti intorno a se e forma una banda di ladri, dei quali per la sua audacia, abilità e crudeltà divenne il capo. In questo mezzo, s. Giovanni da diversi affari è richiamato alla città, nella quale aveva conosciuto quel giovane, e dirigendosi al vescovo; « Rendimi, gli disse, il deposito che ti affidai alla presenza di Gesù Cristo e della chiesa della quale hai il governo. » Il vescovo meravigliato Don comprese, e credé che l’Apostolo gli richiedesse qualche somma di danaro deposto nelle sue mani, del quale non aveva tenuto alcun conto. « Io ti ridomando, riprese allora a dir s. Giovanni, quel giovine che ti confidai, ti chiedo l’anima del tuo fratello. » A queste parole il vecchio pastore chinò il capo e si pose a piangere. « Egli è morto, disse. — Come e di qual genere di morte? — È morto a Dio. Coperto di delitti; immerso nei vizi, si è fatto pubblico ladro e assassino. In luogo della Chiesa, nella quale abitava, ora occupa una montagna, ov’è alla testa di una banda di briganti suoi pari. » A tale notizia l’Apostolo lacerò le sue vesti, e dato un gran sospiro battendosi il volto con ambe le mani esclamò : « Veramente ad un buon guardiano confidai l’anima di tuo fratello! Or subito, mi si prepari un cavallo ed una guida. » E frettolosamente uscì dalla Chiesa. Or vedete s. Giovanni, il ben amato discepolo, già più che nonagenario, correre dietro alla pecorella smarrita! Giunto sulla montagna, egli cade nelle mani dell’avamposto dei masnadieri che l’arrestano senza che ei pensi né a fuggire né a difendersi : « E per questo io son venuto, gridò con tutta forza, conducetemi al vostro capo. » Questi armato di tutto punto, lo attendeva, e accortosi che era s. Giovanni che veniva a lui, vinto dalla vergogna prese la fuga. Ma l’Apostolo dimentico dell’età sua si pose a correre dietro i suoi passi gridando: « Figlio mio, perché fuggi tuo padre ch’è senz’armi e rotto dagli anni? Abbi compassione del mio affanno e della mia stanchezza. Non temere, v’ha ancora per te speranza di salute. Io risponderò per te a Gesù Cristo, e se sarà d’uopo, darò di buon grado la mia vita per salvare la tua, come il Signore diede la sua per noi tutti. Fermati, abbi fiducia, perché Gesù Cristo è quegli che mi ha mandato a te. » Al sentire un tal linguaggio il brigante abbassa gli occhi e si arresta; poi getta via le armi: quindi penetrato di orrore, amaramente sospira, e cade nelle braccia del santo vecchio: poi per quanto può, con lacrime dirotte lava la sozzura delle sue colpe, e solo gelosamente nasconde la sua mano destra, ch’era stata il principale strumento dei suoi delitti. L’Apostolo di bel nuovo lo assicura ch’egli otterrà dal Signore il suo pieno e intero perdono, ed inginocchiato a lui davanti, gli bacia la mano destra, ormai lavata dalle lacrime del pentimento, e Io riconduce seco alla Chiesa. Ei prega molto, e digiuna e si mortifica per lui; nutre 1’anima sua con le salutari massime della Scrittura, vi fa discendere il balsamo della speranza, lo ristabilisce nella pace, e non se ne diparte che dopo di avergli dato un uffizio nella chiesa. – Questa solenne conversione è ad un tempo il trionfo della penitenza, la prova della risurrezione che essa opera, ed un esempio da proporsi all’imitazione dei più grandi peccatori. [Euseb., Hist. 1. III, c. XVII]. – Non ci sarà permesso di aggiungere che questo episodio della vita di s. Giovanni sarebbe per gli artisti un soggetto di un magnifico dipinto? L’importanza del fatto in se stesso, il contrasto delle figure, e come accessori, gli alberi e le rupi della montagna, e quella schiera di banditi attoniti alla scena che ha luogo tra il venerando vecchio ed il loro capo; qual ricco campo per la immaginazione, e qual ricchi elementi per la pittura! – Con la scelta di somigliami soggetti, l’arte ridiverrebbe quel che deve essere, un sacerdozio; mentre perdendosi, com’essa fa dal Risorgimento in poi, nell’impuro labirinto della pagana mitologia, essa non è che uno sterile mestiere e quasi sempre uno strumento di corruzione.

Padre Pio da Pietrelcina ai “fratelli in esilio”

“Dom.: Padre, nell’ultima vostra Messa a chi rivolgerete l’ultimo sguardo? Risposta: “Ai fratelli in esilio”. Era l’ultimo giorno della sua vita terrena e, terminata l’ultima Messa, prima di alzarsi dalla sedia ha sostato a lungo in quello sguardo persistente, così a lungo, da creare meraviglia nei sedili che si assiepavano come non mai quel mattino, la chiesa divenuta incapace di contenerli tutti. Il convegno internazionale dei gruppi di preghiera che si svolgeva in quel giorno aveva chiamato intorno al padre tutti i figli suoi, accorsi da tutto il mondo”. – [Didascalia dell’ultima foto del libro “Lettere di Pare Pio” presentate dal Card. Lercaro.]

E chi erano questi “fratelli in esilio” ai quali Padre Pio rivolse il suo ultimo sguardo dopo avere celebrato la sua ultima Messa, Messa “vera”, non la porcata satanico-massonica attuale, bensì la Messa cattolica di sempre, quella nella quale il Figlio di Dio, sotto le specie del pane e del vino, in Olocausto incruento si offre al Padre, Dio onnipotente degli Eserciti, il Creatore dei cieli e della terra, per redimerci dai nostri peccati e riconciliarci con il Giudice supremo? – “Fratelli” per Padre Pio, erano tutti i consacrati in Cristo Signore, i sacerdoti fedeli, i vescovi ed il Papa, il “vero” Santo Padre, come lui fedeli alla Chiesa Cattolica, l’unica vera Chiesa nella quale c’è grazia, redenzione e salvezza. E questi fratelli erano, e sono ancora, così come lo era lui, in esilio, allontanati dalle sedi che avrebbero dovuto legittimamente occupare. Anche Padre Pio era un perseguitato, esiliato e prigioniero dalla quinta colonna degli infiltrati “servi” della massoneria guidata dal baphomet-lucifero. Egli lo sapeva molto bene, ma per amor di Dio, e a beneficio delle anime dei fedeli, soffriva, accettava ed offriva. Era una condizione dunque che egli ben conosceva, ma nella sua generosa carità si rivolgeva con il pensiero, e noi pensiamo sicuramente anche con la preghiera e la penitenza, a quei fratelli, il piccolo resto cattolico, il “pusillus grex” perseguitato, esiliato, a cui tutto era stato usurpato, ma che pure incarnavano la promessa evangelica di N. S. Gesù-Cristo sull’indefettibilità ed sull’eternità della Chiesa, sulla quale le forze del male e l’anticristo non avrebbero mai prevalso, malgrado le apparenze di devastazione, distruzione, tabula rasa.

Qualcuno doveva tornare sul Calvario …

A proposito di Padre Pio si narra che S. S. Gregorio XVII aveva un giorno detto a chi gli chiedeva del cappuccino perseguitato, esiliato e “crocifisso”: “Un uomo che sta crocifisso per mezzo secolo? Che cosa vuol dire questo? Sapete perché Gesù Cristo è andato in croce? È andato in croce per i peccati degli uomini e quando, nella storia, compare qualche “crocifisso” … vuol dire che il peccato degli uomini è grande e che per salvarli occorre che qualcuno ritorni sul Calvario, rimonti la croce, e stia li a soffrire per i fratelli. Il nostro tempo ha bisogno di gente che soffra quello che l’Unigenito Figlio ha sofferto …. Qui c’è tutto il fatto di padre Pio”. – E qui c’è anche tutto il fatto di Gregorio XVII, il Papa “impedito”, cacciato, esiliato, tormentato, messo in croce, ed infine, quando i nemici di Dio si sono accorti che stava manovrando per dare continuità alla Chiesa di Cristo, ucciso e poi sepolto finanche nei ricordi dei fedeli, facendolo passare addirittura per uno di loro, … il Cardinale è traditore come gli altri, … il Papa è connivente … novello Liberio, accusato ingiustamente di eresie mai immaginate, mai proferite, mai appoggiate. Eccoli entrambi accomunati nella loro condizione di “Esiliati”. “Esiliati”, come il Sommo Pontefice attuale, Gregorio XVIII, deportati in terre straniere, come il popolo di Israele deportato in Egitto, e poi a Babilonia per il peccato di idolatria e per essersi allontanato dall’Alleanza ma che, una volta duramente provato, viene liberato dalla potente mano di Dio che in pochi attimi “affonda” i nemici suoi e del suo popolo. – Padre Pio tutto questo lo meditava e forse già vedeva il trionfo, dopo la prova, con quel suo sguardo penetrante le nubi per levarsi alla contemplazione delle cose divine. Dopo la Messa: la Messa che è il sacrificio di Cristo sulla croce rinnovato a riscatto del genere umano … ecco perché i “fratelli” [nella fede] sono cacciati in esilio, soffrono il Getsemani, vengo battuti e percossi, ma vivono tuttavia ancora nelle catacombe, negli anfratti, nei sotterranei, nel sepolcro di una morte apparente. Ma quando tutto sembrerà concluso e senza speranze, …  “le donne vanno al sepolcro e vedono un Angelo di bianco splendente che dice loro …”Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: è risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto” … e Gesù stesso dice loro: “Nolite timere: ite, nuntiare fratribus meis ut eant in Galilæam; ibi me videbunt.” Ci piace pensare che Padre Pio, dopo la Santa Messa, rapito meditabondo nei suoi santi pensieri, rivivesse la stessa scena di Gesù che ancora una volta dice ai pochi fedeli della “sua” Chiesa: “Nolite timere: ite, nuntiare fratribus meis ut eant in Galilæam; ibi me videbunt”. A tutti noi allora il dovere di annunziare con fede le parole riportate da S. Matteo: “Cristo Gesù non è morto nel suo Vicario, non temete, Egli ci aspetta in Galilea, nella terra di Gesù, cioè nella sua Chiesa Cattolica, sulla sua Cattedra usurpata, e “ibi me videbunt”, li lo rivedremo ancora e sempre glorioso e maestoso più che mai, guidare l’arca di coloro che desiderano entrare per la porta della salvezza eterna, perché solo Egli ne possiede le chiavi! Exsurgat Deus et dissipentur inimici ejus

MATERNITÀ DELLA B. V. MARIA

Il titolo di Madre di Dio.

Il titolo di Madre di Dio, fra tutti quelli che vengono attribuiti alla Madonna, è il più glorioso. Essere la Madre di Dio è per Maria la sua ragion d’essere, il motivo di tutti i suoi privilegi e delle sue grazie. Per noi il titolo racchiude tutto il mistero della Incarnazione e non ne vediamo altro che più di questo sia sorgente per Maria di lodi e per noi di gioia. Sant’Efrem pensava giustamente che credere e affermare che la Santissima Vergine Maria è Madre di Dio è dare una prova sicura della nostra fede. La Chiesa quindi non celebra alcuna festa della Vergine Maria senza lodarla per questo privilegio. E così saluta la beata Madre di Dio nell’Immacolato Concepimento, nella Natività, nell’Assunzione e noi nella recita frequentissima dell’Ave Maria facciamo altrettanto.

L’eresia nestoriana.

« Theotókos », Madre di Dio, è il nome con cui nei secoli è stata designata Maria Santissima. Fare la storia del dogma della maternità divina sarebbe fare la storia di tutto il cristianesimo, perché il nome era entrato così profondamente nel cuore dei fedeli che quando, davanti al Vescovo di Costantinopoli, Nestorio, un prete che era il suo portavoce, osò affermare che Maria era soltanto madre di un uomo, perché era impossibile che Dio nascesse da una donna, il popolo protestò scandalizzato. Era allora vescovo di Alessandria san Cirillo, l’uomo suscitato da Dio per difendere l’onore della Madre del suo Figlio. Egli tosto manifestava il suo stupore: « Mi meraviglia che vi siano persone, che pensano che la Santa Vergine non debba essere chiamata Madre di Dio. Se nostro Signore è Dio, Maria, che lo mise al mondo, non è la Madre di Dio? Ma questa è la fede che ci hanno trasmessa gli Apostoli, anche se non si sono serviti di questo termine, ed è la dottrina che abbiamo appresa dai Santi Padri ».

Il Concilio di Efeso.

Nestorio non cambiò pensiero e l’imperatore convocò un concilio, che si aprì ad Efeso il 22 giugno del 431 sotto la presidenza di san Cirillo, legato del Papa Celestino. Erano presenti 200 vescovi i quali proclamarono che « la persona di Cristo è una e divina e che la Santissima Vergine deve essere riconosciuta e venerata da tutti quale vera Madre di Dio ». I cristiani di Efeso intonarono canti di trionfo, illuminarono la città e ricondussero alle loro dimore con fiaccole accese i vescovi « venuti – gridavano essi – per restituirci la Madre di Dio e ratificare con la loro santa autorità ciò che era scritto in tutti i cuori ». – Gli sforzi di Satana avevano raggiunto, come sempre, un risultato solo, cioè quello di preparare un magnifico trionfo alla Madonna e, se vogliamo credere alla tradizione, i Padri del Concilio, per perpetuare il ricordo dell’avvenimento, aggiunsero all’Ave Maria le parole: « Santa Maria, Madre di Dio, pregate per noi peccatori, adesso e nell’ora della nostra morte ». Milioni di persone recitano ogni giorno quella preghiera e riconoscono a Maria la gloria di Madre di Dio, che un eretico aveva preteso negare.

La festa dell’undici ottobre.

Il 1931 ricorreva il XV centenario del Concilio di Efeso e Pio XI pensò che sarebbe stata « cosa utile e gradita per i fedeli meditare e riflettere sopra un dogma così importante » come quello della maternità divina e, per lasciare una testimonianza perpetua della sua devozione alla Madonna, scrisse l’Enciclica Lux veritatis, restaurò la basilica di Santa Maria Maggiore in Roma e istituì una festa liturgica, che « avrebbe contribuito a sviluppare nel clero e nei fedeli la devozione verso la grande Madre di Dio, presentando alle famiglie come modelli. Maria e la sacra Famiglia di Nazareth », affinché siano sempre più rispettati la santità del matrimonio e l’educazione della gioventù. – Che cosa implichi per Maria la dignità di Madre di Dio lo abbiamo già notato nelle feste del primo gennaio e del 25 marzo, ma l’argomento è inesauribile e possiamo fermarci su di esso ancora un poco.

Maria stermìnio delle eresie.

« Godi, o Vergine, perché da sola hai sterminato nel mondo intero le eresie ». L’antifona della Liturgia insegna che il dogma della maternità divina è sostegno e difesa di tutto il Cristianesimo. Confessare la maternità divina è confessare la natura divina e l’umana nel Verbo Incarnato in unità di persona ed è altresì affermare la distinzione delle Persone in Dio nell’unità di natura ed è ancora riconoscere tutto l’ordine soprannaturale della grazia e della gloria.

Maria vera Madre di Dio.

Riconoscere che Maria è vera Madre di Dio è cosa facile. « Se il Figlio della Santa Vergine è Dio, scrive Pio XI nell’Enciclica Lux veritatis, colei che l’ha generato merita di essere chiamata Madre di Dio; se la persona di Gesù Cristo è una e divina, tutti, senza dubbio, devono chiamare Maria Madre di Dio e non solamente di Cristo uomo. Come le altre donne sono chiamate e sono realmente madri, perché hanno formato nel loro seno la nostra sostanza mortale, e non perché abbiano creata l’anima umana, così Maria ha acquistato la maternità divina per aver generato l’unica persona del Figlio suo ».

Conseguenze della maternità divina.

« Derivano di qui, come da sorgente misteriosa e viva, la speciale grazia di Maria e la sua suprema dignità davanti a Dio. La beata Vergine ha una dignità quasi infinita, che proviene dal bene infinito, che è Dio, dice san Tommaso. E Cornelio a Lapide spiega le parole di san Tommaso così: Maria è la Madre di Dio, supera in eccellenza tutti gli Angeli, i Serafini, i Cherubini. È la Madre di Dio ed è dunque la più pura e più santa di tutte le creature e, dopo quella di Dio, non è possibile pensare purezza più grande. È Madre di Dio, sicché, se i santi ottennero qualche privilegio (nell’ordine della grazia santificante) Maria ebbe il suo prima di tutti ».

Dignità di Maria.

Il privilegio della maternità divina pone Maria in una relazione troppo speciale ed intima con Dio, perché possano esserle paragonate dignità create di qualsiasi genere, la pone in un rapporto immediato con l’unione ipostatica e la introduce in relazioni intime e personali con le tre persone della Santissima Trinità.

Maria e Gesù.

La maternità divina unisce Maria con il Figlio con un legame più forte di quello delle altre madri con i loro figli. Queste non operano da sole la generazione e la Santa Vergine invece ha generato il Figlio, l’Uomo-Dio, con la sua stessa sostanza e Gesù è premio della sua verginità e appartiene a Maria per la generazione e per la nascita nel tempo, per l’allattamento col quale lo nutrì, per l’educazione che gli diede, per l’autorità materna esercitata su di lui.

Maria e il Padre.

La maternità divina unisce in modo ineffabile Maria al Padre. Maria infatti ha per Figlio il Figlio stesso di Dio, imita e riproduce nel tempo la generazione misteriosa con la quale il Padre generò il Figlio nell’eternità, restando così associata al Padre nella sua paternità. – « Se il Padre ci manifestò un’affezione così sincera, dandoci suo Figlio come Maestro e Redentore, diceva Bossuet, l’amore che aveva per te, o Maria, gli fece concepire ben altri disegni a tuo riguardo e ha stabilito che Gesù fosse tuo come è suo e, per realizzare con te una società eterna, volle che tu fossi la Madre del suo unico Figlio e volle essere il Padre del tuo Figlio » (Discorso sopra la devozione alla Santa Vergine).

Maria e lo Spirito Santo.

La maternità divina unisce Maria allo Spirito Santo, perché per opera dello Spirito Santo ha concepito il Verbo nel suo seno. In questo senso Leone XIII chiama Maria Sposa dello Spirito Santo (Encicl. Divinum munus, 9 maggio 1897) e Maria è dello Spirito Santo il santuario privilegiato, per le inaudite meraviglie che ha operate in lei, « Se Dio è con tutti i Santi, afferma san Bernardo, è con Maria in modo tutto speciale, perché tra Dio e Maria l’accordo è così totale che Dio non solo si è unita la sua volontà, ma la sua carne e con la sua sostanza e quella della Vergine ha fatto un solo Cristo, e Cristo se non deriva come Egli è, né tutto intero da Dio, né tutto intero da Maria, è tuttavia tutto intero di Dio e tutto intero di Maria, perché non ci sono due figli, ma c’è un solo Figlio, che è Figlio di Dio e della Vergine. L’Angelo dice: Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te. È con te non solo il Signore Figlio, che rivestisti della tua carne, ma il Signore Spirito Santo dal quale concepisti e il Signore Padre, che ha generato colui che tu concepisti. È con te il Padre che fa si che suo Figlio sia tuo Figlio; è con te il Figlio, che, per realizzare l’adorabile mistero, apre il tuo seno miracolosamente e rispetta il sigillo della tua verginità; è con te lo Spirito Santo, che, con il Padre e con il Figlio santifica il tuo seno. Sì, il Signore è con te » (3.a Omelia super Missus est).

MESSA

Epistola (Eccli. 24, 23-31). – “Come vite diedi frutti di soave odore, e i mici fiori dànno frutti di gloria e di ricchezza. Io sono la madre del bell’amore e del timore, della scienza e della santa speranza. In me ogni grazia della via e della verità, in me ogni speranza di vita e di virtù. Venite a me, o voi tutti che mi bramate, e saziatevi dei miei frutti; perché il mio spirito è più dolce del miele, e il mio retaggio più del favo di miele. Il ricordo di me durerà nelle generazioni dei secoli. Chi mi mangia avrà ancora fame, e chi mi beve avrà ancora sete. Chi mi ascolta non sarà confuso, e chi lavora per me non peccherà; chi mi illustra avrà la vita eterna.” – A buon diritto la Chiesa anche qui applica alla Madonna un testo che è stato scritto con riferimento al Messia. Non è Maria la vera vigna, che ci ha data l’uva generosa, che riceviamo tutti i giorni nell’Eucarestia? Vi è gloria paragonabile a quella di Maria, che, essendo vergine, è divenuta Madre di Dio, senza perdere la verginità? La Chiesa la canta con gioia Madre del bell’amore e ci invita ad accostarci a Lei con confidenza, perché in Maria si incontra ogni speranza della vita e della virtù e chi l’ascolta non sarà mai confuso. Vangelo (Lc. II, 43-51). – “In quel tempo: Al ritorno il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, ma i suoi genitori non se ne accorsero. Supponendo che Egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di cammino, poi si misero a cercarlo fra i parenti e i conoscenti. Ma non avendolo trovato, tornarono a Gerusalemme in cerca di lui. E avvenne che dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto fra i dottori ad ascoltarli ed interrogarli, mentre gli uditori stupivano della sua sapienza e delle sue risposte. E, vedendolo, ne furono meravigliati. E sua madre gli disse: Figlio, perché ci hai fatto questo? Vedi, tuo padre ed io, addolorati, andavamo in cerca di te. Egli rispose loro: E perché cercarmi? non sapevate che mi devo occupare di quanto riguarda mio Padre? Ma essi non compresero quanto aveva loro detto. Poi se ne andò con loro e tornò a Nazaret, e stava loro sottomesso.”

L’amore di Gesù per la Madre.

« Se fosse permesso spingere tanto innanzi l’analisi del suo sviluppo umano, si direbbe che in Gesù, come in altri, vi fu qualcosa dell’influenza della Madre sua. La grazia, la finezza squisita, la dolcezza indulgente appartengono solo a Lui, ma proprio per tali cose si distinguono coloro, che spesso hanno sentito il cuore come addolcito dalla tenerezza materna e lo spirito ingentilito, per la conversazione con la donna venerata e amata teneramente, che si compiaceva iniziarli alle sfumature più delicate della vita. Gesù fu davvero, come lo chiamavano i concittadini, il “figlio di Maria”. » Egli tanto ha ricevuto da Maria, perché l’amò infinitamente. Come Dio, la scelse e le donò prerogative uniche di verginità, di purezza immacolata, e nello stesso tempo la grazia della maternità divina; come uomo, l’amò tanto fedelmente che sulla croce, in mezzo alle spaventevoli sofferenze, l’ultimo pensiero fu per lei: Donna, ecco tuo figlio. Ecco tua Madre. » Ma il doppio amore gli fece scegliere per la madre una parte degnissima di Lei. Il profeta aveva preannunziato lui come il Servo di Jahvè e la Madre fu la Serva del Signore nell’oblio di sé, nella devozione e nel perfetto distacco: « vi è più gioia nel dare che nel ricevere ». Cristo, che aveva presa per sé questa gioia, la diede alla Madre e Maria comprese così bene questo dono che nei ricordi d’infanzia segnò con attenzione particolare i rapporti che a un lettore superficiale sembrano duri: « Perché mi cercavate? Non sapevate che debbo occuparmi delle cose che riguardano il Padre mio? » E più tardi: « Chi è mia madre, chi sono i miei fratelli?… » Gesù vuole insegnarci il distacco che da noi esige e darcene l’esempio » (Lebreton. La Vie et Venseignement de J. C. N. S., p. 62).

Maria nostra Madre.

Salutandoti oggi col bel titolo di Madre di Dio, non dimentichiamo che « avendo dato la vita al Redentore del genere umano, sei per questo fatto stesso divenuta Madre nostra tenerissima e che Cristo ci ha voluti per fratelli. Scegliendoti per Madre del Figlio suo, Dio ti ha inculcato sentimenti del tutto materni, che respirano solo amore e perdono » (Pio XI Enc. Lux veritatis). « O Vergine tutta santa, è per i tuoi figli cosa dolce dire di te tutto ciò che è glorioso, tutto ciò che è grande, ma ciò facendo dicono solo il vero e non riescono a dire tutto quello che tu meriti (Basilio di Seleucia, Omelia 39, n. 6. P. G. 85, c. 452). Tu sei infatti la meraviglia delle meraviglie e di quanto esiste o potrà esistere, Dio eccettuato, niente è più bello di te » (Isidoro da Tessalonica. Discorso per la Presentazione di Maria P. G. 189, c. 69). Dalla gloria del cielo ove sei, ricordati di noi, che ti preghiamo con tanta gioia e confidenza. « L’Onnipotente è con te e tu sei onnipotente con Lui, onnipotente per Lui, onnipotente dopo di Lui », come dice san Bonaventura. Tu puoi presentarti a Dio non tanto per pregare quanto per comandare, tu sai che Dio esaudisce infallibilmente i tuoi desideri. Noi siamo, senza dubbio, peccatori, ma tu sei divenuta Madre di Dio per causa nostra e « non si è mai inteso dire che alcuno di quelli che sono ricorsi a te sia stato abbandonato. Animati da questa confidenza, o Vergine delle vergini, o nostra Madre, veniamo a te gemendo sotto il peso dei nostri falli e ci prostriamo ai tuoi piedi. Madre del Verbo incarnato, non disprezzare le nostre preghiere, degnati esaudirle » (San Bernardo) – (Dom Gueranger: “l’anno liturgico”, vol.  II, impr. 1957)

La Contrizione.

 La Contrizione.

[G. Bertetti: I Tesori di San TOMMASO d’Aquino”; S.E.I. Ed.Torino, 1918]

1- Che cosa è la contrizione. — 2. Di che cosa dobbiamo noi avere la contrizione. —3. Quanta dev’essere la contrizione. — 4. Quanto tempo deve durare. — 5. Quale effetto produce (Seni., 4, dist. 17, q. 2; Quól., 1, 9).

1- Che cos’è la contrizione. — È il dolore dei peccati congiunto col proponimento di confessarli e di soddisfarvi. — Principio d’ogni peccato è la superbia, per cui l’uomo attaccato alle sue voglie, si scosta dai divini comandamenti; distruggerà dunque il peccato ciò che farà allontanar l’uomo dalle sue voglie. Eigido e duro si dice colui che rimane ostinato nelle sue voglie: così si dice che s’infrange colui che finalmente si strappa dalla sua ostinazione. Ma tra l’infrangersi e lo sminuzzarsi o il contrirsi nelle cose materiali (da cui son tratti questi vocaboli a designar le cose spirituali) c’è differenza: infrangersi è spezzarsi in grandi parti, sminuzzarsi o contrirsi è spezzarsi in piccolissime parti. E poiché alla remissione del peccato si richiede che l’uomo interamente rinunci all’affetto del peccato che lorendeva duro e ostinato, per ragione di somiglianza si chiama contrizione l’atto per cui si perdona il peccato. – La contrizione deve aver con sé unito il proponimento di confessare i peccati e di soddisfarvi: sia perché non si può esser certi d’aver avuta una contrizione sufficiente per togliere tutto il peccato, sia perché la confessione e la soddisfazione son cose comandate da Dio, e sarebbe trasgressore della legge di Dio chi non confessasse i suoi peccati e non vi soddisfacesse.Nella contrizione c’è un doppio dolore dei peccati: uno nella parte sensitiva, e questo dolore non è essenzialmente contrizione in quanto è atto di virtù, ma piuttosto n’è l’effetto. Come la virtù della penitenza infligge al corpo una pena esteriore per ricompensar l’offesa fatta a Dio per mezzo delle membra, così infligge anche alla parte concupiscibile, che concorse nel peccato, la pena del dolore. Tuttavia può appartenere alla contrizione questo dolore sensibile, in quanto è parte del sacramento: perché i sacramenti son fatti per essere non solo in atti interni, ma anche in atti esterni. L’altra specie di dolore consiste nella volontà: e questo dolore non è altro che il dispiacere d’un male; e così la contrizione è un dolore per essenza e un atto della virtù della penitenza. Infatti, siccome il gonfiarsi della propria volontà per fare il male porta di per sé il male in genere, così l’annichilamento e il quasi stritolamento della volontà cattiva porta di per sé il bene in genere, perché è un detestare la propria volontà per cui s’è commesso il male. La contrizione adunque, che ciò appunto significa, porta una rettitudine di volontà; la contrizione dunque è un atto di penitenza, cioè di quella virtù che ci fa detestare e distruggere il peccato commesso.

2. Di che cosa dobbiamo noi avere la contrizione. — Dobbiamo aver la contrizione di tutti e singoli i peccati mortali da noi commessi. — Nessun peccato mortale si rimette, se il peccatore non è giustificato; ma per esser giustificati ci vuole la contrizione: dunque la contrizione è necessaria per ogni peccato mortale. — Tutti i peccati mortali convengono fra di loro nell’allontanamento da Dio. Diverse malattie richiedono medicine diverse; ed essendo la contrizione una medicina da applicarsi a ciascun peccato mortale, non basta una sola contrizione comune a tutti i peccati. Bisogna però distinguere fra il principio e il termine, della contrizione. Quanto al principio, cioè quanto al pensare ai peccati e dolersene almeno con dolore d’attrizione, è necessario che la contrizione sia di ciascun peccato mortale di cui ci si ricorda. Ma quanto al termine, cioè quanto al dolore già vivificato dalla grazia, basta che ci sia una sola contrizione comune a tutti i peccati, e ciò in virtù delle disposizioni precedenti. E se i peccati non si ricordano più?… Bisogna distinguere: — se il peccato ce lo ricordiamo soltanto in modo generale e non in modo particolare, dobbiamo farne la ricerca nella nostra memoria, essendo necessaria la contrizione speciale per ciascun peccato mortale; e posto che non ci riuscissimo nella nostra ricerca, basta che ce ne pentiamo secondo la conoscenza che ne abbiamo, e col peccato ci pentiamo pure della dimenticanza dovuta alla nostra negligenza: — se poi il peccato ci cadde interamente dalla memoria, allora l’impossibilità ci scusa dal debito, e basta una contrizione generale di tutto quello in cui abbiamo offeso Dio: ma se il peccato ci venisse poi alla memoria, allora saremmo tenuti ad averne una contrizione speciale, com’è scusato dal pagare il debito un povero che non può, ma è tenuto a pagarlo non appena lo possa.

3. Quanta dev’essere la contrizione. — Secondo S. Agostino (De civit. Dei, 21, 3) ogni dolore si fonda sull’amore. Ma l’amore di carità, su cui si fonda il dolor di contrizione, è il più grande degli amori: dunque il dolor di contrizione sarà il più grande dei dolori. – Nella contrizione c’è però un doppio dolore: uno nella volontà e l’altro nella parte sensitiva. — Il dolore della volontà, che è essenzialmente la stessa contrizione, ossia il dispiacere del peccato commesso, è tale da eccedere ogni altro dolore: perché quanto più ci piace una cosa, tanto più ci dispiace il suo contrario; ora, sovra tutte le cose piace a noi il fine per cui si desiderano tutte le cose; perciò il peccato, che ci allontana dall’ultimo fine, ci deve dispiacere sovra tutte le cose. — Il dolore della parte sensitiva, ch’è cagionato dal dolore della volontà, o per quella necessità di natura che costringe le forze inferiori a seguire il movimento delle superiori, o per elezione del penitente che spontaneamente eccita in se stesso il dolore sensibile, non è necessario che sia il più grande di tutti i dolori. Infatti le forze inferiori son mosse più fortemente dai propri oggetti che non dalla ridondanza delle forze superiori, e perciò quanto più l’opera delle forze superiori è vicina agli oggetti delle inferiori, tanto più queste ne seguono il movimento: quindi nella parte sensitiva il dolore per una lesione sensibile è più grande di quello che le possa derivare dalla ragione. Parimenti il dolore ridondante dalla ragione che delibera di cose corporali è più grande di quello che ridonda dalla medesima ragione allorché debberà intorno a cose spirituali. – Laonde il dolore che del peccato deriva nel senso dal dispiacere della ragione non è maggiore degli altri dolori sensibili. Così si dica del dolore sensibile volontariamente assunto: sia perché un affetto inferiore non ubbidisce talmente all’affetto superiore da determinarne l’impressione voluta da questo; sia perché le impressioni volute dalla ragione negli atti di virtù hanno una determinata misura, che talvolta un dolore scompagnato dalla virtù non osserva, ma oltrepassa. Anche la contrizione, essendo un atto di virtù morale può, al pari di tutti gli altri atti di virtù morale, guastarsi per sovrabbondanza o per difetto. Certo non potrà mai esser soverchia la contrizione da parte del dolore che si trova nella volontà, cioè da parte del dispiacere del peccato in quanto è offesa di Dio: come non può esser mai soverchio l’atto d’amor di Dio su cui questo dispiacere si fonda e s’espande con l’espandersi della carità. – Ma può esser soverchia la contrizione da parte del dolore sensibile, come può esser soverchia l’estenuazione del corpo nel digiuno. In ciò deve prendersi per misura il dovere di conservarci in condizioni tali che ci permettano di compiere le opere richieste dal nostro stato. Il contrito è tenuto in generale a voler patire qualsiasi pena piuttosto che peccare, perché non si può aver contrizione senza la carità per cui si rimettono tutti i peccati. Ora, la carità ci fa amare Dio più di noi stessi, mentre il peccato ci fa operare contro Dio; l’essere poi punito è soffrire qualcosa contro noi stessi; perciò la carità richiede che anteponiamo qualsiasi castigo alla colpa. Non siamo però tenuti a discendere con l’immaginazione a questa o a quell’altra pena in particolare; Anzi faremmo cosa stolta, se angustiassimo noi stessi o altri su queste pene particolari. È evidente che, siccome le cose dilettevoli più ci piacciono considerate in particolare che in generale, così le cose terribili più ci spaventano considerate in particolare. Chi è disposto a soffrir la morte per Gesù Cristo, si sentirebbe vacillare nella sua generosa risoluzione, se si facesse a considerare tutti i tormenti che potrebbero straziare il corpo. Discendere a particolarità in siffatte cose è un indurre l’uomo nella tentazione, è un offrir occasione di peccato. – Non è poi cosa difficile il voler piuttosto esser senza colpa nell’inferno, che esser con la colpa in paradiso: perché, come dice S. Anselmo (De similitud.), un innocente nell’inferno non sentirebbe alcuna pena, e l’inferno non sarebbe più per lui inferno; invece un peccatore in paradiso non sentirebbe alcun gaudio di gloria, e il paradiso per lui non sarebbe più paradiso.

4. Quanto tempo deve durare la contrizione. — Fin quando ci troviamo nella vita presente, noi detestiamo gl’incomodi che c’impediscono o ritardano il termine del nostro viaggio. Il peccato da noi commesso ci fece ritardare il corso nostro verso Dio: perché non più potremo ricuperare quel tempo ch’era designato per il nostro cammino e che abbiamo perduto per il peccato. Dunque bisogna che sempre per tutto il tempo di questa vita, detestiamo il peccato. Peccando, ci meritammo la pena eterna che Dio ha commutato per noi in pena temporale: rimanga dunque, come pena spontaneamente assunta, nell’eterno dell’uomo, e cioè nello stato di questa vita, il dolore dei nostri peccati. « Non essere senza timore circa il peccato perdonato » (Eccli., 5, 5); « dove finisce il dolore, manca la penitenza: dove manca la penitenza, nulla più rimane di perdono » (S. AGOSTINO, De vera et falsa poenit.); « Dio, mentre assolve l’uomo dalla colpa e dalla pena eterna, lo lega col vincolo d’una perpetua detestazione del peccato » (UGONE DI S. VITTORE). Benché il peccatore penitente ritorni alla grazia e all’immunità dal reato di pena, tuttavia non ritorna giammai alla primiera dignità dell’innocenza: perciò sempre rimane in lui qualche cosa del peccato commesso. Può avere un limite la soddisfazione, la quale è una pena principalmente proporzionata alla limitazione della colpa da parte della conversione verso le creature; ma il dolore di contrizione corrisponde alla quasi infinità della colpa da parte dell’allontanamento da Dio: e perciò la vera contrizione deve sempre rimanere, fino alla morte. – Fino alla morte deve rimanere in noi la contrizione: e come dolore, e come atto di virtù informata dalla grazia, e come atto meritorio, sacramentale e in certo qual modo satisfattorio. Dopo morte, le anime che sono in cielo non possono avere la contrizione, perché non può esserci dolore tra la pienezza del gaudio; quelle che son nell’inferno soffrono il dolore, ma un dolore non informato dalla grazia; quelle che sono nel purgatorio hanno bensì il dolore dei peccati, ma il loro dolore è senza merito, non trovandosi più esse nello stato di poter meritare.

5. Effetto della contrizione. — La contrizione si può considerare sotto duplice aspetto, o come parte del sacramento o come atto di virtù: nell’uno e nell’altro modo è causa della remissione del peccato, ma in modo diverso. La contrizione come parte del sacramento è causa strumentale del perdono; come atto di virtù è quasi causa materiale, essendo le dovute disposizioni una quasi necessità per la giustificazione del peccatore. Il peccato si commette per amor disordinato, e si distrugge per il dolore cagionato dall’amor ordinato di carità. – La carità può poi estendersi talmente nel suo atto, che il dispiacere derivatone d’aver offeso Dio meriti non solo la remissione della colpa, ma anche l’assoluzione da ogni pena. D’altra parte, l a volontà può eccitare tanto dolore sensibile, che questa pena possa bastare alla cancellazione d’ogni altra pena e di tutta la colpa. Se n’ha l’esempio nel ladrone, a cui, per un unico atto di penitenza, fu detto: « Oggi sarai con me in Paradiso » (Luc., XXIII, 43). – S’avverta finalmente che per quanto piccolo sia il dispiacere del peccato commesso, purché sia bastante per determinare una vera contrizione, cancella ogni colpa. La contrizione è informata dalla grazia che ci fa graditi e cari a Dio e che cancella ogni colpa mortale, non potendo stare insieme grazia e peccato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: “IAMPRIDEM CONSIDERANDO”

In questa lettera dell’ottobre del 1879, il S. P. Leone XIII, ribadisce molti concetti già espressi nella sua predente enciclica, l’immortale Æterni Patris, a proposito degli studi filosofici, dalla cui qualità dipende lo sviluppo del pensiero umano e la conduzione della società intera. Il riferimento dottrinale è naturalmente rivolto all’opera del più grande ed eccelso filosofo e teologo di ogni tempo, fondamento pure della sana e retta teologia Cattolica, che è San Tommaso d’Aquino, il Dottore Angelico. Il concetto chiave enunciato, in sostanza è questo: “Tutti sono d’accordo nel ritenere che l’umana ragione, se si allontana dalla divina autorità della fede, è necessariamente travolta nei flutti del dubbio ed esposta ad imminenti pericoli di errore, e che facilmente uscirà da questi pericoli se gli uomini troveranno rifugio nella filosofia cattolica”. È pertanto assolutamente indispensabile, in tutte le opere di scienza e cultura, attenersi ai fondamenti dell’unica “Verità”, non intercambiabile, immutabile, non soggetta a mode o a passeggeri entusiasmi dottrinali privi di sicurezza fondata e condivisa, o peggio ancora, ad infiltrazioni contrarie al retto ragionare ammantate da verbosità o farfugliamenti astratti e fantasiosi. In particolare sappiamo che da sempre le “Verità” portata dalla predicazione evangelica dal “Verbo incarnato”, è stata sempre insidiata dal pensiero e dall’opera di scaltri figuri che, modificando il significato dei termini e dei concetti, hanno alterato e contraffatto la sana e genuina filosofia scaturita da ragionamenti umani, chiari, lucidi, univoci, coerenti, aderenti alla verità. È la gnosi, questo cancro maligno, devastante e mortifero, che da sempre ha insidiato e, oggi più che mai, insidia tutto il pensiero e l’opera dell’uomo, servendosi di abili e superbi ingannatori che persuadono tanti incauti a seguire sentieri di falsità in ogni campo dell’umana espressione. Il glorioso Pontefice cercava di metterci in guardia contro i “lupi” e gli “sciacalli” del pensiero che negli ultimi secoli si sono moltiplicati a dismisura con ideologie delirati ed irrazionali, coalizzate tutte a contrapporsi all’unica “Verità”. Ricorrere al tomismo dell’Angelo della Scuola, era ed è l’unico mezzo valido per sfuggire ai lacci ed agli inganni degli gnostici “anticristo” che cercano con strategie varie in apparenza, ma sempre uguali nella sostanza, di condurre le menti all’errore con il pretesto di salvaguardare razionalità e pensiero “evoluto”. Il Santo Padre forse già presagiva, ed i segni erano già evidenti all’epoca, che le stoltezze gnostiche si sarebbero infiltrate e diffuse anche nella Chiesa Cattolica, l’unico baluardo e il bersaglio di sempre dell’invasione gnostico-satanica. Oggi tutti sappiamo come sia andata a finire e come il modernismo teologico e filosofico abbia sommerso fin nelle viscere e nei più reconditi recessi della mente di tanti uomini di cultura e soprattutto dei chierici, prima i veri, poi gli attuali “fasulli” prelati di ogni ordine e grado, dall’apice [finto e canonicamente invalido] al curato di campagna. La filosofia scolastica, la cui cima è rappresentata appunto dall’Aquinate, è oggi totalmente soppiantata dalla nuovelle théologie, da questa “bomba di profondità” che ha generato uno sconquasso senza precedenti prima nei “fondali” dello spirito dei fedeli e dei prelati un tempo cattolici, ed è poi esplosa con il falso Concilio, anzi il “conciliabolo” c. d. Vaticano II, dove si è manifestata compiutamente la setta modernista dei marrani della quinta colonna, la stessa che oggi, ingigantita senza misura, apparentemente predica bene, cioè non nega la “dismessa” del pensiero di San Tommaso, anzi la sua totale avversione, ma poi “razzola” male, anzi malissimo, applicando nei fatti teologici, liturgici, pastorali, esclusivamente la nouvelle théologie di stretta marca gnostico-massonica, oramai sconfinata in una chiara ed evidente apostasia dalla fede cristiana che non ha uguali in tutta la storia bimillenaria della Chiesa Cattolica, … basti pensare all’ecumenismo, all’indifferentismo religioso, al libero pensiero rigorosamente ateo, alla pastorale della famiglia divorziante ed allargata, all’omosessualità ed al libero amore sganciato dalle procreazione ed alle altre mille porcate indecorose che giorno dopo giorno la setta ci propina, spacciandosi per Chiesa cattolica che “si rinnova” [quindi non è più Chiesa Cattolica UNA nello spazio e nel tempo, … l’ultimo peto maleodorante e venefico del baphomet-lucifero. Basterebbe solo questo ad allertare le povere pecore ipovedenti e gli agnelli narcotizzati, che vanno al pascolo di tali “lupi” feroci assetati del sangue dei loro fratelli, per sprofondare poi tutti insieme a godere in eterno i “favori” bollenti della vera guida del modernismo e della setta vaticana del “novus ordo”: l’anticristo, il baphomet-lucifero, il serpente primordiale, il nemico di Dio e dell’uomo … e là ci sarà pianto e stridore di denti!  … Iampridem considerando experiendoque inteleximus,  …

 

Leone XIII
Iampridem considerando

Lettera

Già da gran tempo, per riflessione ed esperienza, abbiamo compreso che nulla vale a prontamente e felicemente estinguere, con il divino aiuto, l’atrocissima guerra ora mossa contro la Chiesa e la stessa umana società quanto il reintegrare ovunque, mercé le discipline filosofiche, i retti principi del comprendere e dell’operare. Perciò conviene sommamente far rifiorire in ogni parte del mondo la sana e genuina filosofia. A questo scopo abbiamo mandato recentemente a tutti i Vescovi dell’orbe cattolico una Lettera enciclica nella quale con molti argomenti abbiamo dimostrato non doversi cercare tale vantaggiosa soluzione se non nella filosofia cristiana prodotta ed accresciuta dagli antichi Padri della Chiesa: quella filosofia che non solo si accorda quanto mai con la fede cattolica, ma le porge anche opportuno ed idoneo aiuto di difesa e di luce. Abbiamo ricordato che tale filosofia, seme fecondo di grandi frutti nel volgere dei secoli, venne ricevuta quasi in retaggio da San Tommaso d’Aquino, sommo maestro degli Scolastici, e che nel darle ordine, nell’illustrarla ed accrescerla, l’acume e la virtù di quel sublime Intelletto rifulsero in tal modo che l’Angelico Dottore sembra abbia raggiunto il massimo della gloria per il suo nome. Con le più fervide parole delle quali eravamo capaci abbiamo poi esortato i Vescovi ad unire le loro forze alle Nostre affinché si adoperassero a rialzare quell’antica filosofia, ormai scossa e pressoché caduta, e a ridonarla alle scuole cattoliche ed a ricollocarla nell’onorato seggio che un giorno occupava. – Non Ci procurò poca consolazione apprendere che quella Nostra Lettera, con l’aiuto di Dio, incontrò dappertutto il deferente ossequio e il singolare consenso degli animi. Del che Ci porgono chiara testimonianza molte lettere di Vescovi a Noi pervenute, specialmente dall’Italia, dalla Francia, dalla Spagna e dall’Irlanda; esse Ci recano le espressioni di egregi sentimenti sia di persone singole, sia di gruppi della stessa provincia o della stessa nazione. Né è mancato il suffragio dei dotti, in quanto insigni Accademie di uomini eruditi si compiacquero dichiararci per iscritto intendimenti del tutto eguali a quelli dei sacri Pastori. – In tali lettere, poi, Ci torna oltremodo gradito l’ossequio prestato alla Nostra autorità e a questa Sede Apostolica; graditi Ci tornano i propositi e i giudizi espressi dagli scrittori. Una sola, infatti, è la voce di tutti; una sola è l’opinione: si nota e si indica con sicurezza in quella Nostra Lettera il luogo nel quale è riposta la radice dei mali presenti e donde debba derivare il rimedio. Tutti sono d’accordo nel ritenere che l’umana ragione, se si allontana dalla divina autorità della fede, è necessariamente travolta nei flutti del dubbio ed esposta ad imminenti pericoli di errore, e che facilmente uscirà da questi pericoli se gli uomini troveranno rifugio nella filosofia cattolica. – Pertanto, Venerabile Fratello, è nei Nostri più caldi desideri che la dottrina di San Tommaso, conforme in modo assoluto alla fede, riviva quanto prima in tutte le Scuole cattoliche, e specialmente torni a fiorire in questa Città, capitale del Cattolicesimo, la quale – appunto perché è sede del Pontefice Massimo – deve eccellere sulle altre per le migliori discipline. A questo si aggiunga che a Roma, centro dell’unità cattolica, convengono solitamente in gran numero da ogni paese i giovani per attingere meglio e più abbondantemente che altrove la vera ed incorrotta sapienza presso l’augusta cattedra del Beato Pietro. Conseguentemente, se da qui sgorgherà larga e copiosa la vena di quella cristiana filosofia di cui abbiamo detto, essa non resterà circoscritta nei confini di una sola città, ma simile a fiume in piena giungerà a tutti i popoli. – Quindi procurammo dapprima che nel Seminario Romano, nel Liceo Gregoriano, nell’Urbaniano e in altri Collegi soggetti tuttora alla Nostra autorità le discipline filosofiche, informate al concetto e ai principi del Dottore Angelico, vengano insegnate e coltivate con chiarezza, ampiamente e in profondità. E soprattutto vogliamo che la vigile cura e gli sforzi dei maestri si prefiggano quale scopo principalissimo di impartire gradevolmente e vantaggiosamente per i discepoli, spiegandole ed ampliandole, quelle ricchezze di dottrina che essi stessi avranno già raccolte con diligenza dai volumi di San Tommaso. – Ma oltre a ciò, affinché questi studi vigoreggino e fioriscano sempre più, si deve provvedere a che gli amanti della filosofia Scolastica si adoperino di continuo per farla apprezzare: soprattutto si organizzino in società e tengano di frequente adunanze nelle quali ciascuno rechi e volga a comune utilità il frutto dei propri studi. – Questi giudizi e questi Nostri concetti abbiamo voluto comunicare a Te, Venerabile Fratello Nostro che presiedi la Sacra Congregazione degli studi, confortati da sicura speranza che in un affare di tanto rilievo non Ci verranno meno la Tua operosità e la Tua prudenza. Tu non ignori certamente che le adunanze dei dotti, cioè le Accademie, furono come nobilissime palestre, nelle quali personaggi insigni per acuto ingegno e per dottrina non solo si esercitavano utilmente scrivendo e disputando delle cose della massima importanza, ma anche insegnavano ai giovani con grande vantaggio delle scienze. Da quest’ottima usanza ed istituzione di congiungere le forze e di radunare le intelligenze più vive presero origine quegli illustri Collegi di Dottori, alcuni dei quali si dedicavano collegialmente a diverse discipline, ed altri a singole scienze. – Sono ancora vive la fama e la gloria di quei Collegi i quali, col favore accordato dai Romani Pontefici per diverse ragioni, fiorirono ovunque nella nostra Italia: a Bologna, a Padova, a Salerno e altrove. Poiché tali adunanze di uomini raccoltisi volontariamente per la cultura e il lustro delle discipline umane giunsero a tanta lode e riuscirono di tanta utilità, e poiché sopravvive ancora larga parte di quella lode e di quella utilità, Noi intendiamo valerci dello stesso presidio per recare pienamente ad effetto il Nostro disegno. –

Conseguentemente decidiamo di istituire in Roma un’Accademia la quale, insignita del nome e del patronato di San Tommaso d’Aquino, indirizzi gli studi e le attività a spiegare e ad illustrare le opere di lui; ne esponga i principi e li metta a confronto con quelli degli altri filosofi, antichi o recenti; dimostri la forza e le ragioni delle sue teorie; s’impegni a propagarne la salutare dottrina e si adoperi a confutare gli errori serpeggianti e ad illustrare i nuovi ritrovati. Pertanto a Te, Venerabile Fratello Nostro, del quale conosciamo i pregi dottrinari, il pronto ingegno, lo studio e la sollecitudine per tutto ciò che appartiene alle umane discipline, affidiamo il compito di eseguire il Nostro proposito. Per ora rifletti attentamente la cosa, e non appena avrai escogitato la soluzione che corrisponda ai Nostri concetti, la sottoporrai per iscritto alla Nostra valutazione, affinché possiamo approvarla e corroborarla della Nostra autorità. – Infine, perché più ampiamente si conosca e si diffonda la sapienza del Dottore Angelico, stabiliamo che nuovamente si pubblichino tutte le sue opere, secondo l’esempio lasciatoci dal Nostro Predecessore San Pio V, illustre per gloria d’imprese e per santità di vita, al quale toccò in sorte di vedere così felicemente compiuti i suoi voti, che gli esemplari di Tommaso editi per suo ordine siano ancora assai stimati presso i dotti e vengano ricercati con somma cura. Sennonché, quanto più rara diventa quell’edizione, tanto più si è cominciato a sentire il desiderio di una nuova che, per nobiltà ed eccellenza possa essere confrontata con la Piana. D’altronde, le altre edizioni, sia le antiche, sia le più recenti, o perché non offrono tutti gli scritti di San Tommaso, o perché non contengono i commenti dei migliori interpreti ed esegeti, o infine perché mostrano minore accuratezza formale, non sembra che abbiano raggiunto la perfezione. – Si nutre una certa speranza che a tale bisogno verrà provveduto con la nuova edizione, la quale comprenderà assolutamente tutti gli scritti del Santo Dottore, stampati con i migliori caratteri possibili ed emendati accuratamente. Ci si avvantaggerà anche del sussidio di codici manoscritti che in questa nostra età sono venuti alla luce e in uso. – Oltre a ciò, avremo cura che congiuntamente si pubblichino i lavori dei suoi più illustri interpreti, come Tommaso de Vio Cardinale Gaetano e il Ferrarese: lavori dai quali, come per rivi copiosi, scorre limpida la dottrina di un così grande uomo. Per la verità, sono presenti all’animo Nostro non solo la grandezza ma anche le difficoltà dell’impresa; nondimeno esse non giungono al punto di distoglierci dal mettere mano all’opera quanto prima e con grande alacrità. Infatti, in cosa di tanto rilievo, la quale riguarda in sommo modo il comune bene della Chiesa, nutriamo fiducia che Ci conforteranno il divino aiuto, il concorde impegno dei Vescovi e la prudenza e l’operosità tua, già sperimentate e da lungo tempo conosciute. – Intanto, come pegno della Nostra speciale dilezione, dall’intimo affetto del cuore impartiamo a Te, Venerabile Fratello Nostro, l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 15 ottobre 1879, anno secondo del Nostro Pontificato.

DOMENICA XVIII dopo PENTECOSTE

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Eccli XXXVI:18
Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël [O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]
Ps CXXI:1
Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.
[Mi rallegrai per ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore.]
Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël [O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Oratio
Orémus.
Dírigat corda nostra, quǽsumus, Dómine, tuæ miseratiónis operátio: quia tibi sine te placére non póssumus.
[Te ne preghiamo, o Signore, l’azione della tua misericordia diriga i nostri cuori: poiché senza di Te non possiamo piacerti.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios
1 Cor 1:4-8
Fratres: Grátias ago Deo meo semper pro vobis in grátia Dei, quæ data est vobis in Christo Jesu: quod in ómnibus dívites facti estis in illo, in omni verbo et in omni sciéntia: sicut testimónium Christi confirmátum est in vobis: ita ut nihil vobis desit in ulla grátia, exspectántibus revelatiónem Dómini nostri Jesu Christi, qui et confirmábit vos usque in finem sine crímine, in die advéntus Dómini nostri Jesu Christi.


 Omelia I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV Omelia XI .- Torino 1899]

“Io del continuo ringrazio il mio Dio per voi, per la grazia che vi è stata data in Gesù Cristo; perché in lui siete stati arricchiti in ogni dono di parola e di scienza, essendo stata la testimonianza di Cristo ben rassodata in voi, a talché non manchi dono alcuno a voi, che aspettate la rivelazione del Signor nostro Gesù Cristo. Il quale anche vi raffermerà fino alla fine senza colpa, nella manifestazione del Signor nostro Gesù Cristo „ (I. ai Corinti, I, 4-8). La Chiesa in questa Domenica ci fa leggere nella santa Messa i cinque versetti che vi ho recitati. Essi formano l’introduzione di questa prima lettera ai fedeli di Corinto, e vengono immediatamente dopo i saluti e le parole di indirizzo, con cui l’Apostolo suole cominciare tutte le sue lettere, eccettuata quella agli Ebrei. La lettera fu scritta da Efeso, dove si trovava S. Paolo, e donde era per muovere alla volta di Gerusalemme, verso la Pasqua dell’anno 56 dell’era nostra. Non occorre che vi dica dei motivi che indussero l’Apostolo a scrivere questa lettera che, dopo quella ai Romani, per l’ampiezza e per le cose in essa contenute, è la più importante, ond’è che tiene anche, dopo quella ai Romani, il primo posto. Le poche sentenze, che abbiamo da spiegare, non sono in sostanza che un augurio od una congratulazione graziosa che fa ai Corinti, con cui si apre la via a dir loro verità assai gravi e, se volete, anche amare. L’omelia d’oggi sarà forse più breve del solito; vi domando in compenso raddoppiata attenzione. – Corinto era una delle città, per floridezza di commerci, per ricchezze e per squisita coltura letteraria, scientifica ed artistica, più celebre della Grecia. S. Paolo vi si era recato da Atene ed aveva fermato la sua dimora in casa d’un certo Aquila, che poco prima vi era giunto da Roma, con Priscilla, sua moglie, perché insieme con gli altri Ebrei n’era stato cacciato con ordine generale dell’imperatore Claudio. Iddio aveva fatto conoscere a Paolo che un gran popolo egli aveva in quella città, e confortatolo a non temere e a parlare coraggiosamente (Atti Apost., XVIII, 1 seg.). Egli vi rimase per diciotto mesi continui, e vi fondò una Chiesa numerosa e fiorente; e quantunque sorgessero in essa alcuni partiti che la turbavano, e vi fossero anche scandali gravissimi e si spargessero errori, era pur sempre una Chiesa nobilissima e meritevole degli elogi dell’Apostolo. Egli, dopo il solito saluto ed augurio, così comincia: “Ringrazio sempre il mio Dio per voi, per la grazia che vi è stata data in Gesù Cristo. „ La prima cosa che l’Apostolo dice, è quella di assicurare i suoi Corinti, che si ricorda di loro dinanzi a Dio e che gli porge i più caldi ringraziamenti per loro. L’amore che ci lega ai nostri conoscenti, amici, congiunti e benefattori ce ne tien viva la memoria nell’animo, e questa è tanto forte e cara, quanto più ardente è l’amore che ci scalda per essi. E cosa troppo manifesta per dimostrarla. Ora, questo amore, se fosse vero e puro amore secondo il Vangelo, non si dovrebbe mai disgiungere dall’idea di Dio, da cui deriva ogni cosa buona e santa, e a cui sempre ritorna. Invece che accade, o dilettissimi? Amiamo i nostri cari, e il nostro amore si ferma in loro e non è mai, o troppo raramente, che si innalzi a Dio, che ci porti a pregar loro da Lui ogni bene, o a ringraziarlo di quelli che ha loro concessi. Vedete S. Paolo: egli ama teneramente i suoi Corinti, li porta nel cuore, come suoi figli: li ha ammaestrati per lunghi mesi, non volendo da loro nemmeno il pane: lontano, pensa ancora a loro, e il suo amore, amore che si accende alla luce della fede, solleva la sua mente ed il suo cuore a Dio e lui ringrazia dei benefizi largiti a quei suoi amatissimi neofiti. E un dovere, o cari, impostoci dalla gratitudine, quello di ringraziare Iddio dei favori concessi a noi; ma è cosa bella, utile e accettevole a Dio ringraziarlo anche di quelli fatti alle persone a noi care. La ragione è chiara. L’amore scambievole fa sì che godiamo dei beni concessi altrui come dei nostri, e perciò è giusto ringraziar Dio di questi come di quelli. Ecco perché S. Paolo: ” Ringrazio, dice, il mio Dio per voi della grazia che vi è data in Gesù Cristo. „ E cosa nuova e quasi strana, che qui S. Paolo, alla parola Dio aggiunga mio, quasi fosse esclusivamente suo, mentre Gesù ci insegnò a dire: “Padre nostro”. Ma la difficoltà si dilegua da sé allorché si pensa che l’Apostolo usò la parola “mio” per significare l’affetto suo ardentissimo verso Dio, come facciamo noi pure allorché vogliamo esprimere un sentimento più vivo d’amore, e diciamo: Mio Dio! Mio bene! Mia vita! Del resto tanto è lungi l’Apostolo di pensare a Dio quasi fosse esclusivamente suo, che in questo luogo si volge a Dio pei suoi cari, ringraziandolo dei doni, onde li ha ricolmati. E notate che S. Paolo protesta di far ciò non solo spesso, ma continuamente, “semper”, e ringrazia sempre Iddio forse perché i suoi Corinti sono forniti di scienza, ricchi di beni della terra? Oh no! Di questi beni l’Apostolo non parla, non ci pensa nemmeno, egli che chiama “fatua” la scienza del mondo e “spazzatura” tutti i beni temporali, di cui gli uomini sono sì ghiotti. Egli non apprezza che i veri beni, i beni dell’anima, il possesso della verità e della grazia: per questi beni, che i Corinti hanno ricevuto in Gesù Cristo, e per Gesù Cristo, porge continue grazie a Dio. – Dilettissimi! Noi, tutti quanti, siamo raccolti in questo tempio, abbiamo ricevute grazie elette e senza numero per i meriti di Gesù Cristo: è superfluo che io ve le accenni. Ne abbiamo ringraziato l’amoroso e generoso donatore Iddio? O forse siamo vissuti dimentichi, e al maluso delle grazie ricevute abbiamo aggiunto la ingratitudine? Non ci esca dall’animo quella bellissima immagine di S. Bernardo che scrisse: “Origine di tutte le sorgenti e di tutti i fiumi è il mare: origine di tutte le virtù e d’ogni scienza è Gesù Cristo; mercé del ringraziamento e della nostra gratitudine ritorni al suo principio questo fiume celeste dei suoi doni, affinché esso continui ad irrigare la terra (In Cantic, Ser. 13). „ E pur bellissima è l’altra sentenza d’un santo (Imitaz. di Cristo), che dice: “Mezzo efficacissimo per ottenere grazie da Dio è quello di mostrarci grati per quelle che abbiamo ricevute. „ Paolo ringrazia incessantemente Dio dei doni concessi ai Corinti: ora ne specifica due di questi doni, che sono i principali, e ai quali, come conseguenze, sono legati gli altri: “Perché in Lui (Gesù Cristo) siete stati arricchiti in ogni dono di parola e di scienza — Quod in omnibus divites facti estis in illo in omni verbo et omni scientia. „ L’espressione è dura ed oscura, e ci fa sentire la difficoltà, che Paolo ebreo aveva in vestire la verità in una lingua che non era la sua, e che conosceva imperfettamente. Egli vuol dire: “ringrazio Dio che vi ha arricchiti dei suoi doni, e particolarmente e primieramente del dono di aver udita la predicazione evangelica, che riempì la vostra mente della verace scienza, la scienza della salute”. I Corinti pochi anni prima erano immersi nel paganesimo, e paganamente vivevano, ignorando Dio, la propria origine, i propri doveri, il fine per il quale erano creati, i mezzi per giungervi e, conseguenza di tanta ignoranza, era la signoria delle passioni, la corruzione massima dei costumi, tantoché san Paolo in altro luogo ebbe a dire, che vivevano “ut bruta animalia”. Come erano usciti da tanto abbrutimento? come s’erano messi sulla via della virtù e della salvezza? quale il primo principio della loro trasformazione? La parola di verità, che avevano ricevuta da Dio per mezzo di lui, Paolo. Per essa avevano cominciato a conoscere il vero Dio, Gesù Cristo, se stessi, il loro fine: per essa avevano voltate le spalle alle brutture del paganesimo, alle grettezze della legge mosaica: per essa avevano fatto acquisto di quella scienza che vale va bene tutta la scienza dei filosofi più celebrati, che li aveva fatti entrare, come diceva S. Pietro, nella luce ammirabile del suo regno. E questo il senso ovvio delle parole di S. Paolo. Dilettissimi! Questo dono preziosissimo di udire la parola di Dio in omni verbo, e di ricevere per essa la scienza delle scienze, in omni scientia, non l’abbiamo noi come e meglio dei Corinti? Questa parola di verità si fece sentire alle nostre orecchie quando eravamo ancora tra le braccia e sulle ginocchia della madre; continuò a farcisi udire in casa, in chiesa, sui libri, nelle immagini, nei riti sacri, in mille modi, in ogni tempo, in ogni modo, perché nella società privata e pubblica, in cui viviamo, tutto ci parla di Gesù Cristo, tutto ci rammenta i suoi divini insegnamenti. È dunque vero per noi, come e più che per i Corinti, che siamo stati arricchiti d’ogni istruzione e d’ogni scienza in Gesù Cristo, o per opera di Gesù Cristo. Qual uso ne abbiamo fatto? come ci siamo mostrati grati a Dio per sì alto e continuo beneficio? La risposta a voi, figliuoli carissimi. Ascoltiamo ancora l’Apostolo, che prosegue e dice: ” Essendo stata la testimonianza di Cristo ben rassodata in voi — Sicut testimonium Christi confirmatum est in vobis. „ Che significa questa parola, “la testimonianza di Cristo”? Non v’è dubbio, significa l’insegnamento. la dottrina, il Vangelo di Cristo. E perché si chiama testimonianza? Gesù Cristo dice nel Vangelo (S. Giov. III, 11), che è veduto ad attestare ciò che ha veduto nel seno del Padre suo; Egli stesso è chiamato testimonio (Apoc. III, 14); gli Apostoli sono dichiarati suoi testimoni, ed essi stessi nelle loro lettere e negli Atti Apostolici si professano testimoni di ciò che videro e di ciò che udirono da Gesù Cristo; la dottrina adunque di Gesù Cristo, ripetuta dagli Apostoli, conservata ed annunziata perennemente dalla Chiesa è una testimonianza. E meritamente è chiamata testimonianza, perché come le cose, delle quali gli uomini sono testimoni, non sono da loro inventate o foggiate, né loro è lecito aggiungere o levare alcun che, così il Vangelo e la dottrina di Cristo non è inventata o foggiata da lui, né dagli Apostoli o dalla Chiesa, né altri può aggiungervi o levarvi sillaba, perché essa viene da Dio, è opera sua, tutta sua, e come Lui immutabile. L’insegnamento evangelico pertanto è la testimonianza di Gesù Cristo, degli Apostoli e della Chiesa, e passando di bocca in bocca, di libro in libro, è sempre lo stesso, né perde, né acquista, come un raggio di sole che attraversi migliaia di cristalli. Questa testimonianza o dottrina di Cristo, dice S. Paolo, ora è stabilita e rassodata in voi, o Corinti: in altre parole, ringrazio Dio che mediante la mia predicazione, la fede di Gesù Cristo è fondata e saldamente fondata in voi, e in essa avete il massimo dei doni celesti. Ponete mente a quella frase di S. Paolo: “La testimonianza, ossia la fede di Cristo, è rassodata in voi. „ È una lode, e grande, che S. Paolo fa ai Corinti, di essere saldi nella fede. La fede è la sostanza, ossia il sostegno e la base delle cose che speriamo, ed è l’argomento, cioè la ragione che ci fa tenere come certe le cose che non vediamo, nè conosciamo col solo lume della ragione; così fu definita la fede dall’Apostolo (Heb. XI, 1). Perché ammetti tu che vi è il sole, la terra, il mare? Perché li vedi! Perchè ammetti tu che due linee parallele non si possono incontrare, che un effetto deve avere la sua causa, che due aggiunti a due ti danno quattro? Perché con la ragione vedi che è così e non può essere altrimenti! Perché ammetti tu che vi è il Giappone, un fiume che si chiama Nilo, un impero che si dice Brasile, benché non li abbia mai veduti? Perché te lo affermano a voce ed in iscritto tanti testimoni, che non ti vogliono, né ti possono ingannare. La loro affermazione è il saldo appoggio della tua persuasione e certezza. Ora Gesù Cristo, gli Apostoli e tutta la Chiesa, ti annunziano un gran numero di dottrine che tu non puoi comprendere: ma essi ti assicurano che sono verità, ti danno in prova miracoli senza numero, certissimi, e che sono come la voce di Dio: perché la loro affermazione, confortata da tante e sì magnifiche prove, non basteranno a guadagnare il tuo assenso pieno e perfetto? Credi a due o tre testimoni ciò ch’essi ti dicono, affermando d’averlo veduto od udito: e non crederai a Gesù Cristo, agli Apostoli, ai martiri, alla Chiesa ciò ch’essi ti insegnano ed affermano d’aver veduto od udito? La nostra fede adunque, appoggiandosi alla parola di Gesù Cristo, degli Apostoli, dei martiri, della Chiesa, che non possono ingannarsi né possono ingannare, deve essere ferma, salda, incrollabile. Dio l’ha detto, Gesù Cristo l’ha insegnato, la Chiesa ce lo ripete; non domandiamo altro; crediamo con tutta la fermezza! Ondeggiare nel dubbio sulla verità di ciò che m’insegna Gesù Cristo per mezzo della Chiesa sarebbe un’offesa gravissima a Lui, che è la stessa verità. Dunque, o carissimi, che la nostra fede sia ferma, immobile, fondata  sulla pietra, che nessuno potrà mai smuovere o spezzare, che è la Chiesa, che è Gesù Cristo stesso. Ma è da ritornare al nostro maestro, san Paolo, che continua, scrivendo: “A talché non manchi dono alcuno a voi — Ita ut nihìl vobis desit in ulla gratia. „ Se il Vangelo o, che è lo stesso, la fede sarà in voi saldamente stabilita, e tale da reggere ad ogni urto e ad ogni insidia, con essa avrete ogni altro bene, ogni altro dono. La ragione è chiara: la fede viva, robusta, diceva Cristo, può trasportare i monti, tutto ella può: “Omnia possibilia credenti”. Essa genera la speranza, accende la carità, germoglia le opere, forma i santi, crea i martiri; datemi un uomo che abbia la fede di Abramo, e lo troverete pronto ad immolare, se è necessario, il figlio: che abbia la fede di Pietro, e lo vedrete camminare sulle acque; che abbia la fede di Paolo, e lo vedrete ogni giorno morire per Cristo, ogni giorno soffrendo ed immolandosi per Lui. Con la fede viva non mancherà nulla a voi, scrive S. Paolo, a voi “che aspettate la rivelazione del Signor nostro Gesù Cristo. „ Noi tutti, che crediamo in Gesù Cristo, che cosa aspettiamo noi? Aspettiamo la rivelazione di Gesù Cristo, vale a dire la sua seconda venuta come Giudice supremo, che darà a ciascuno ciò che gli si deve in ragion delle opere sue. Con la prima sua venuta sulla terra, con la grazia che continuamente spande in noi, Gesù Cristo sparge il buon seme sulla terra: questa è opera grande sì, ma quasi sempre occulta: chi vede la fede, la grazia nei cuori? Nessuno; ne vediamo alcun poco i frutti, ma non sempre, né tutti, ed alcuna volta sono anche ingannevoli. Alla fine dei tempi verrà il supremo Seminatore, si manifesterà in tutta la grandezza della sua gloria, ed allora con Lui e per Lui, sotto gli splendori dell’infinita sua luce, si riveleranno tutte le opere nostre, buone o cattive, e si farà il giudizio, giudizio irrevocabile. Quella sarà la manifestazione per eccellenza, la manifestazione di Gesù Cristo, della sua grazia e della sua provvidenza, e la manifestazione della nostra vita, di maniera che né in cielo, né in terra rimarrà più cosa alcuna che non sia perfettamente manifesta. “Il quale (Gesù Cristo) vi confermerà fino all’ultimo, senza colpa, nella manifestazione del Signor nostro Gesù Cristo. „ – E l’ultimo versetto che ci resta da spiegare. Con la sua grazia, con la sua fede fermissima, Gesù Cristo vi terrà saldi in mezzo alle prove e alle battaglie di questa vita fino alla fine, fino alla morte: “Confirmabit vos usque in finem”, serbandovi mondi d’ogni colpa, sine crimine, fino al dì della ricompensa, che avrete alla venuta di Lui. – È questo il dono della perseveranza finale, che nessuno di noi può meritare, come nessuno può meritare la prima grazia. È Dio che comincia l’opera della nostra salute, e la comincia con la sua grazia, senza alcun nostro merito: Egli la prosegue con la nostra cooperazione, ed Egli la compie, coronando in noi i frutti della sua grazia. Il compire felicemente il nostro corso e finire i nostri giorni nella grazia ed amicizia di Dio è suo dono; ma è tal dono ch’Egli, nell’immensa sua misericordia, non ricusa ad alcuno dei suoi figli, purché dal canto loro facciano ciò che possono. No, Dio non fa come gli uomini, che talvolta mettono mano ad un’opera e poi la lasciano, cominciano un edilizio e poi l’abbandonano a mezzo; Egli, quando comincia un’opera, per quanto è da sé, la continua e la conduce a perfezione: se resta incompiuta, dite pure che rimane tale contro la sua volontà, e per colpa d’altri. Cominciare un’opera e lasciarla imperfetta non è da Dio che è la stessa perfezione, e perciò tutto vuole perfetto in cielo ed in terra. Ora è fuori di dubbio ch’Egli ha cominciato l’opera della nostra salvezza, perché siamo stati battezzati, e abbiamo tutti, quanti siamo qui raccolti, ricevuta la prima grazia: è dunque fuori di dubbio ch’Egli vuole proseguire quest’opera e compirla col dono ultimo e massimo della perseveranza. – L’avremo noi questo dono, corona di tutti gli altri? L’ultimo dì, l’ultimo istante di nostra vita saremo noi trovati “sine crimine”, senza colpa, adorni della grazia, amici e figli di Dio? Dio solo lo sa: ma noi pure sappiamo ch’Egli lo vuole, e che l’essere trovati veramente tali dipende da noi. Nessuno si affanni e si angusti, dicendo: “persevererò io sino alla fine? Morrò io nella grazia di Dio?” A che, cristiano, ti turbi e ti consumi in questi pensieri? Getta le tue cure in Dio, come ti dice S. Pietro; Dio ti ha creato per il cielo: Dio abbonda e sovrabbonda con la sua grazia: ti ama come un padre, anzi come una madre il loro figlio: per salvarti è morto per te. Di che dunque temi? — “Temo per me, per la mia debolezza, per le mie passioni”. — E sta bene che tu tema di te, ma non mai per guisa che il timore ti affanni soverchiamente e ti opprima. Tien sempre a mente, che Dio conosce la tua debolezza più assai che non la conosca tu stesso, e pari alla debolezza sarà l’aiuto della grazia, e che è verità certa: A nessuno che faccia dal lato suo ciò che può il buon Dio rifiuta la sua grazia.

Graduale
Ps CXXI:1; 7
Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.
V. Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. Allelúja, allelúja
Alleluja

Ps CI:16
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.
Allelúja. [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: e tutti i re della terra la tua gloria. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt IX:1-8
“In illo témpore: Ascéndens Jesus in navículam, transfretávit et venit in civitátem suam. Et ecce, offerébant ei paralýticum jacéntem in lecto. Et videns Jesus fidem illórum, dixit paralýtico: Confíde, fili, remittúntur tibi peccáta tua. Et ecce, quidam de scribis dixérunt intra se: Hic blasphémat. Et cum vidísset Jesus cogitatiónes eórum, dixit: Ut quid cogitátis mala in córdibus vestris? Quid est facílius dícere: Dimittúntur tibi peccáta tua; an dícere: Surge et ámbula? Ut autem sciátis, quia Fílius hóminis habet potestátem in terra dimitténdi peccáta, tunc ait paralýtico: Surge, tolle lectum tuum, et vade in domum tuam. Et surréxit et ábiit in domum suam. Vidéntes autem turbæ timuérunt, et glorificavérunt Deum, qui dedit potestátem talem homínibus”.
[In quel tempo: Gesú, salito su una barca, ripassò il lago, e andò nella sua città. Quand’ecco gli presentarono un paralitico giacente nel letto. Veduta la loro fede, Gesú disse al paralitico: Figlio, confida: ti sono perdonati i tuoi peccati. Súbito alcuni scribi dissero in cuor loro: Costui bestemmia. E Gesú, avendo visto i loro pensieri, rispose: Perché pensate male in cuor vostro? Cos’è piú facile dire: Ti sono perdonati i tuoi peccati, o dire: Alzati e cammina? Ora, onde sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sopra la terra di rimettere i peccati: Sorgi, disse al paralitico, piglia il tuo letto e vattene a casa tua. E quegli si alzò e se ne andò a casa sua. Vedendo ciò le turbe si intimorirono e glorificarono Iddio che diede agli uomini tanto potere.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo IX, 1-8)

Carità verso gli Infermi

Due esempi assai luminosi di carità ci presenta la odierna evangelica storia. Il primo nella persona di alcuni uomini di Cafarnao, che adoprano ogni fatica ed ogn’industria per procurare la sanità di un povero paralitico, con recarlo al cospetto di Gesù Cristo. Il secondo in Gesù Cristo medesimo, che rimette i peccati a quel misero infermo, e spiritualmente lo risana. Il primo esempio riguarda la salute corporale, il secondo la spirituale. Ed ecco in ciò tutta la nostra istruzione. Quando il Signore visita le nostre famiglie con qualche malattia, come sono trattati i nostri infermi in rapporto al corpo? Come sono trattati riguardo all’anima? Vediamo se possiamo paragonarci ai pietosi Cafarnaiti per la carità corporale, e al misericordioso Redentore per la spirituale carità. Ohimè! Uditori miei cari, che io temo invece di questa doppia carità, di riscontrare in alcuno di voi una vera e forse non conosciuta crudeltà! L’importante argomento richiede tutta la vostra attenzione.

.I. – Il primo esempio di una carità tutta singolare, ed oltre modo industriosa ci presentano i già indicati uomini di Cafarnao. Quattro di questi, come narra l’Evangelista S. Marco (II, 3), toltosi sulle braccia un paralitico disteso nel suo letticciuolo vogliono presentarlo al divin Salvatore; ma la casa, ove Egli trovavasi era così piena zeppa di popolo, che per ogni tentativo e sforzo immaginabile non fu possibile romper la folla, e farsi strada. Ma che? Si avvidero di una scala esteriore, che portava fino alla sommità della medesima casa. Ivi giunti, scoprirono il tetto e, fatta una larga apertura, calarono giù con funi il letto e l’infermo ai piedi di Gesù Cristo. – Che dite, ascoltanti, di questa carità? È tale la vostra per procurare a qualche infermo di vostra famiglia la corporale salute? Vi spinge a tentar ogni mezzo, a cercar ogni modo, onde possa ricuperare la pristina sanità? Sì, è tale; ma quando? Quando si tratta di persona a voi necessaria, che con le fatiche o con il traffico o con l’impiego sostiene la casa, e guai se venisse a mancare: soffrirebbe un rovescio la desolata famiglia. Io non condanno, lodo anzi la vostra sollecitudine, il vostro impegno per quell’infermo a voi sì caro e necessario. Ma se questa stessa persona, cotanto cara e vantaggiosa, per vecchiezza, o per altro infausto accidente, si rende inabile, come l’odierno paralitico, e divenga inutile, non è egli vero che svaniscono allora tutte le cure, le assistenze, i soccorsi, e si riguarda come un imbarazzo di casa, come un peso notevole, di cui non vedete l’ora di esserne sgravati? Così avvenne al S. Giobbe: finché come principe Idumeo colle sue ricchezze fu occhio al cieco, piede allo zoppo, padre dell’orfano e del pupillo, sostegno delle vedove, consolator dei miseri, riscosse da tutti stima, venerazione ed applausi. Quando poi spogliato di tutti i suoi beni, coperto di piaghe, lo videro steso su di vile letamaio, i falsi amici e perfino l’insultante consorte, lo abbandonarono in braccio alla sua miseria ed al suo dolore. “Fratres mei præterierunt me sicut torrens, qui raptim transit in convallibus” (Job. VI, 13). I miei più cari (se ne lagnò dolcemente quest’esemplare di pazienza), i miei più stretti congiunti mi hanno trattato in quella guisa che si usa con un torrente. Finché questo nell’aprile, o nell’autunno abbonda di acque, ad esse accorre il pastore per abbeverare la greggia, il contadino per innaffiare le piante; poi nella estate arsiccia manca e si dissecca, l’alveo suo asciutto viene calpestato dal contadino, dal viandante, dal pastore e dall’armento: “Præterierunt me sicut torrens”. – “Ma, direte voi, se vi trovaste presente a vedere quanto son tediosi e incontentabili i nostri infermi, e singolarmente i vecchi; se udiste il continuo loro brontolare, e le indiscrete loro lagnanze, degnereste di qualche compassione quei che debbono trattare con essi e loro prestare assistenza e servitù. Si rifletta inoltre che abbiamo i nostri affari, campagna, impieghi, negozi, e non possiamo trovarci sempre ad essi intorno”.E se vi dirò che quel tanto che asserite difficile, aspro, gravoso e quasi impossibile, l’avete già praticato, che risponderete? Vi sovviene di quella vostra vecchia parente a letto inferma? Per aver parte nel suo testamento, o donazione irrevocabile dei suoi beni, quanti giorni perdeste, quante notti vegliaste, quanta pazienza, quanta buona grazia usata avete per non disgustarla, per incontrare il suo genio! Non vi han ritirato dall’assisterla né le sue querele, né i mali odori, né i più bassi servigi.Confessate adunque che la brama di divenire eredi, che la mira alle sue sostanze, che, in una parola, l’interesse è quella gran molla che vi ha fatto agire, sopportare, e tutto vi ha reso facile e leggiero. Ha bel dire l’Apostolo che la carità è paziente, è benigna, e tutto soffre, e tollera tutto: “Charitas patiens est, benigna est … omnia suffert, omnia sustinet” (Ad Cor. XIII, 4. 7.) Tutto ciò nella massima parte de cristiani opera bensì l’interesse, ma non la carità. O nostra confusione!

.II. –  Il secondo esempio di carità l’abbiamo nella Persona di Gesù Cristo. Appena Egli si vide innanzi in quella strana forma il paralitico, “confida, gli disse, confide fili, remittuntur tibi peccata tua”. Figliuol mio, abbi fede, i tuoi peccati ti son rimessi. Ma come, mio buon Salvatore? Vi vien cercata la salute del corpo, e Voi cominciate a dargli quella dell’anima? Per nostra istruzione parla ed opera così il nostro divin Maestro, e ci avvisa che più della corporal sanità, ci deve star a cuore la salvezza dell’anima. – Che diremo ora di quei cristiani, i quali avendo in casa un infermo colto da grave malattia, non l’avvisano del suo pericolo, e non si curano, o neppur pensano a farlo munire dei SS. Sacramenti? Più che da dire, vi sarebbe da piangere. – Qual è l’ordinario costume del mondo, allorché giace a letto un infermo? Accorrono i congiunti, gli amici, portati da un certo dovere di parentado e di urbanità; le prime visite passano in complimenti: i discorsi sogliono aggirarsi sulle novelle della città o dei pubblici fatti; indi parlando della qualità del morbo: “Eh, dice uno, questa è una febbre effimera, il sudore è in moto, ben presto sarete franco. Il polso non mi dispiace, ripiglia un altro, la lingua è morbida, fatevi, coraggio, non c’è luogo a temere”. Si lagna però il povero infermo, che oppresso nell’animo, tormentato nel corpo non trova riposo. Ed ecco nuove lusinghe: “buon segno quanto il male si sente: avete più apprensione che male, non temete, una nuova crisi vi libera affatto, fra pochi giorni ci rivedremo al ridotto, alla caccia, alla villeggiatura”. Ad un infermo aggravato si parla, così? Sapete che parlare è questo? Ve lo dirò con tutto rispetto, ma insieme con tutta verità. Quest’è un parlare da demonio. Udite con pazienza. – Colà nel terreno paradiso disse ai nostri progenitori il grande Iddio: “In quel giorno, che voi gusterete il frutto di quest’albero, che vi proibisco, sarete colti da inevitabile morte: “Morte moriemini”. Eva parlando di quel pomo col rio serpente. “Se noi, disse, ci diamo a mangiarne, forse morremo”: “Ne forte moriamur”. Il demonio nel corpo del serpente l’assicura, che non saranno soggetti alla morte: “Nequaquim moriemini”. Osservate, Iddio parla con affermativa certezza, Eva con dubbio, il demonio con negativa sicurezza. Io non dico che parliate come Dio con affermare, che quel malato morrà: a Dio solo è noto l’avvenire; ma nemmeno dovete parlar da demonio con assicurarlo che non morrà. Parlate, se vi piace, all’umana, come Eva in senso dubbioso: non fate il profeta né per la morte, né per la vita: dite, che essendo la malattia seria, pericolosa, sarebbe bene provvedere ad ogni sinistro avvenimento: che i santi Sacramenti giovano anche alla salute del corpo, che in pericolo di morte corre stretta obbligazione di riceverli, che il male potrebbe occupare la testa, e non esser più in tempo. – Se tale sarà il vostro linguaggio, sarà da uomini sensati, sarà da buoni cristiani; ma lusinghe no, ma sicurezze … molto meno, per non parlare da demoni. – Torniamo all’infermo. Le buone parola, le buone speranze non lo fanno star meglio: cominciano i vaneggiamenti, succedono i deliqui, crescono i sintomi maligni: il medico stringe le labbra, dimena il capo, dà a conoscere che ne teme, e ne dispera. Chi si accosta intanto al letto di questo moribondo? Chi l’avvisa del suo pericolo? Chi esorta quest’anima ad aggiustar le partite di sua coscienza, a prepararsi con buona confessione al gran passaggio dal tempo all’eternità? Dove troveremo noi un altro Isaia, che si conduce alla stanza dell’infermo re di Giuda, e “via su, gli intima, disponetevi alla partenza, che la morte a voi si avvicina!” – “Dispone domui tuæ, quia morieris tu, et non vives(Is. XXXVIII, 1). Pensate: piange la moglie nell’estrema desolazione, piangono i figli e non hanno cuore, si scusano i parenti, si ritirano gli amici, il medico si affida al confessore, il confessore riposa sul medico, e intanto il povero moribondo fa strada, e se ne va, senza saperlo, in braccio alla morte ed alla eternità. – Lo so: egli è questo un tremendo castigo della divina giustizia per chi aspetta a ravvedersi in quegli estremi, castigo, per cui chi più ne abbisogna è meno avvertito. Ad un uomo dabbene, ad un buon cristiano niuno ha difficoltà di parlare di confessione, e del santo viatico. – Ad un uomo di mondo, massime di qualche qualità secondo il mondo, ognun si ritira, ognuno si scusa. Castigo di Dio per parte del moribondo, crudeltà per conto di chi l’assiste. Non si fa già così quando lo stesso infermo giace sepolto in mortale letargo. Si adopera allora ogni più violento rimedio per invogliarlo e toglierlo dalle fauci di morte; e perché non si fa altrettanto per destarlo da peggiore letargo di morte spirituale ed eterna? Avete timore di disgustarlo? “Meglio, dice S. Agostino, esser severo con carità, che ingannar con dolcezza”: “Melius est cum severitate diligere, quam cum suavitate decìpere(Lib. IX, conf.). Indorate quanto volete la pillola amara, ma non cessate di porgerla. Eppure qualche volta si avvisa. Ma chi dà la spinta all’avviso? La carità? Eh pensate: fra tanti parenti, amici o vicini, v’è finalmente chi dice: “Olà, l’infermo fa cammino, va a precipizio, e non si parla ancor di Sacramenti?” Che si dirà di voi, padre, madre, figli, consorte, se lo lasciate morir così? Tutti la colpa in faccia al parentado e presso il pubblico sarà la vostra, tutto il vostro il disonore. Ho inteso. L’umano rispetto ottiene la carità. Ma ohimè! il malato è già ai momenti estremi, presto confessori, sacerdoti, Sacramenti: ma il confessore non si trova, non si sa chi sia, o non giunge a tempo, e l’infelice se ne muore senza alcuno spirituale aiuto, senz’alcun sussidio della Chiesa, e senza neppure aver potuto salvare l’apparenza. O parenti crudeli, o nemici del proprio sangue! “Inimici hominis, domestici eius” (Matt. X, 31). – Ah! fedeli amatissimi, imitiamo i pietosi Cafarnaiti in procurare ai nostri infermi la sanità corporale, ma ad esempio di Gesù Cristo siamo assai più solleciti della salute dell’anima, e della loro eterna salvezza. Sia nostra premura l’avvertirli in tempo, acciò possano ben disporsi a ricevere salutarmente i santi Sacramenti, e a noi non resti il rancore di averli abbandonati nel maggior bisogno, la colpa di averli privati di tanto bene, il rimorso della loro forse eterna dannazione.

Credo …

Offertorium
Orémus
Exodi XXIV:4; 5
Sanctificávit Móyses altáre Dómino, ófferens super illud holocáusta et ímmolans víctimas: fecit sacrifícium vespertínum in odórem suavitátis Dómino Deo, in conspéctu filiórum Israël.
[Mosè edificò un altare al Signore, offrendo su di esso olocausti e immolando vittime: fece un sacrificio della sera, gradevole al Signore Iddio, alla presenza dei figli di Israele.]

Secreta
Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes éfficis: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur. [O Dio, che per mezzo dei venerandi scambii di questo sacrificio, ci rendi partecipi della tua sovrana e unica divinità, concedi, Te ne preghiamo, che, come conosciamo la verità, cosí la conseguiamo con degna condotta.]

Communio
Ps XCV:8-9
Tóllite hóstias, et introíte in átria ejus: adoráte Dóminum in aula sancta ejus.
[Prendete le vittime ed entrate nel suo atrio: adorate il Signore nel suo santo tempio.]

Postcommunio
Orémus.
Grátias tibi reférimus, Dómine, sacro múnere vegetáti: tuam misericórdiam deprecántes; ut dignos nos ejus participatióne perfícias.
[Nutriti del tuo sacro dono, o Signore, Te ne rendiamo grazie, supplicando la Tua misericordia di renderci degni di raccoglierne il frutto.]

FESTA DEL SANTO ROSARIO [7 ottobre 2017]

FESTA DEL SANTO ROSARIO

[Dom Guéranger, l’Anno liturgico, vol. II, ed. Paoline, Alba, impr. 1956]

Devozione della Chiesa per Maria.

La Liturgia nel corso dell’anno ci ha mostrato più volte che Gesù e Maria sono così uniti nel piano divino della Redenzione che si incontrano sempre insieme ed è impossibile separarli sia nel culto pubblico che nella devozione privata. La Chiesa, che proclama Maria Mediatrice di tutte le grazie, la invoca continuamente per ottenere i frutti della Redenzione che con il Figlio ha acquistati. Comincia sempre l’anno liturgico col tempo di Avvento, che è un vero mese di Maria, invita i fedeli a consacrarle il mese di maggio, ha disposto che il mese di ottobre sia il mese del Rosario e le feste di Maria nel Calendario Liturgico sono così numerose che non passa un giorno solo dell’anno, senza che Maria in qualche luogo della terra sia festeggiata sotto un titolo o sotto un altro, dalla Chiesa universale, da una diocesi o da un Ordine religioso.

La festa del Rosario.

La Chiesa riassume nella festa di oggi tutte le solennità dell’anno e, con i misteri di Gesù e della Madre sua, compone come un’immensa ghirlanda per unirci a questi misteri e farceli vivere e una triplice corona, che posa sulla testa di Colei, che il Cristo Re ha incoronata Regina e Signora dell’universo, nel giorno del suo ingresso in cielo. Misteri di gioia che ci riparlano dell’Annunciazione, della Visitazione, della Natività, della Purificazione di Maria, di Gesù ritrovato nel tempio; Misteri di dolore, dell’agonia, della flagellazione, della coronazione di spine, della croce sulle spalle piagate e della crocifissione; Misteri di gloria, cioè della Risurrezione, dell’Ascensione del Salvatore, della Pentecoste, dell’Assunzione e dell’incoronazione della Madre di Dio. Ecco il Rosario di Maria.

Storia della festa.

La festa del Rosario fu istituita da san Pio V, in ricordo della vittoria riportata a Lepanto sui Turchi. È cosa nota come nel secolo XVI, dopo avere occupato Costantinopoli, Belgrado e Rodi, i Maomettani minacciassero l’intera cristianità. Il Papa San Pio V, alleato con il re di Spagna Filippo II e la Repubblica di Venezia, dichiarò la guerra e Don Giovanni d’Austria, comandante della flotta, ebbe l’ordine di dar battaglia il più presto possibile. Saputo che la flotta turca era nel golfo di Lepanto, l’attaccò il 7 ottobre del 1751 presso le isole Echinadi. Nel mondo intero le confraternite del Rosario pregavano intanto con fiducia. I soldati di Don Giovanni d’Austria implorarono il soccorso del cielo in ginocchio e poi, sebbene inferiori per numero, cominciarono la lotta. Dopo 4 ore di battaglia spaventosa, di 300 vascelli nemici solo 40 poterono fuggire e gli altri erano colati a picco mentre 40000 turchi erano morti. L’Europa era salva. – Nell’istante stesso in cui seguivano gli avvenimenti, san Pio V aveva la visione della vittoria, si inginocchiava per ringraziare il cielo e ordinava per il 7 ottobre di ogni anno una festa in onore della Vergine delle Vittorie, titolo cambiato poi da Gregorio XIII in quello di Madonna del Rosario.

Il Rosario.

L’uso di recitare Pater e Ave Maria risale a tempi remotissimi, ma la preghiera meditata del Rosario come noi l’abbiamo oggi è attribuita a san Domenico. È per lo meno certo che egli molto lavorò con i suoi religiosi per la propagazione del Rosario e che ne fece l’arma principale nella lotta contro gli eretici Albigesi, che nel secolo XIII infestavano il sud della Francia. – La pia pratica tende a far rivivere nell’anima nostra i misteri della nostra salvezza, mentre con la loro meditazione si accompagna la recita di decine di Ave Maria, precedute dal Pater e seguite dal Gloria Patri. A prima vista la recita di molte Ave Maria può parere cosa monotona, ma con un poco di attenzione e di abitudine, la meditazione, sempre nuova e più approfondita, dei misteri della nostra salvezza, porta grandiosità e varietà. D’altra parte si può dire che nel Rosario si trova tutta la Religione e come la somma di tutto il Cristianesimo. – Il Rosario è una somma di fede: Riassunto cioè delle verità che noi dobbiamo credere, che ci presenta sotto forma sensibile e vivente. Le espone unendovi la preghiera, che ottiene la grazia per meglio comprenderle e gustarle. – Il Rosario è una somma di morale: Tutta la morale si riassume nel seguire e imitare Colui, che è « la Via, la Verità, la Vita » e con la preghiera del Rosario noi otteniamo da Maria la grazia e la forza di imitare il suo divino Figliolo. – Il Rosario è una somma di culto: Unendoci a Cristo nei misteri meditati, diamo al Padre l’adorazione in spirito e verità, che Egli da noi attende e ci uniamo a Gesù e Maria per chiedere, con loro e per mezzo loro, le grazie delle quali abbiamo bisogno. – Il Rosario sviluppa le virtù teologali e ci offre il mezzo di irrobustire la nostra carità, fortificando le virtù della speranza e della fede, perché « con la meditazione frequente di questi misteri l’anima si infiamma di amore e di riconoscenza di fronte alle prove di amore che Dio ci ha date e desidera con ardore le ricompense celesti, che Cristo ha conquistate per quelli che saranno uniti a Lui, imitando i suoi esempi e partecipando ai suoi dolori. In questa forma di orazione la preghiera si esprime con parole; che vengono da Dio stesso, dall’Arcangelo Gabriele e dalla Chiesa ed è piena di lodi e di domande salutari, mentre si rinnova e si prolunga in ordine, determinato e vario nello stesso tempo, e produce frutti di pietà sempre dolci e sempre nuovi » (Enciclica Octobri mense del 22 settembre 1891). – Il Rosario unisce le nostre preghiere a quelle di Maria nostra Madre. « Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi poveri peccatori ». Ripetiamo con rispetto il saluto dell’Angelo e umilmente aggiungiamo la supplica della confidenza filiale. Se la divinità, anche se incarnata e fatta uomo, resta capace di incutere timore, quale timore potremmo avere di questa donna della stessa nostra natura, che ha in eterno il compito di comunicare alle creature le ricchezze e le misericordie dell’Altissimo? Confidenza filiale. Sì, perché l’onnipotenza di Maria viene dal fatto di essere Madre di Gesù, l’Onnipotente, e ha diritto alla nostra confidenza, perché è nello stesso tempo nostra Madre, non solo in virtù del testamento dettato da Gesù sulla Croce, quando disse a Giovanni: « Ecco tua Madre » e a Maria: « Ecco tuo figlio », ma ancora perché nell’istante dell’Incarnazione, la Vergine concepì, insieme con Gesù, tutta l’umanità, che egli incorporava a sé. – Membri del Corpo mistico di cui Cristo è il capo, siamo stati formati con Gesù nel seno materno della Vergine Maria e vi restiamo fino al giorno della nostra nascita alla vita eterna. Maternità spirituale, ma vera, che ci mette con la Madre in rapporti di dipendenza e di intimità profondi, rapporti di bambino nel seno della Madre. – Qui è il segreto della nostra devozione per Maria: è nostra Madre e come tale sappiamo di poter tutto chiedere al suo amore, perché siamo suoi figli! – Ma, se la madre, appunto perché madre, pensa necessariamente ai suoi figli, i figli, per l’età, son facili a distrarsi e il Rosario è lo strumento benedetto che conserva la nostra intimità con Maria e ci fa penetrare sempre più profondamente nel suo cuore. – Strumento divino il Rosario che la Vergine porta in tutte le sue apparizioni da un secolo in qua e che non cessa di raccomandare. Strumento della devozione cattolica per eccellenza, in cui l’umile donna senza istruzione e il sapiente teologo sono a loro agio, perché vi trovano il cammino luminoso e splendido, la via mariana, che conduce a Cristo e, per Cristo al Padre. – Così considerato il Rosario realizza tutte le condizioni di una preghiera efficace, ci fa vivere nell’intimità di Maria e, essendo essa Mediatrice, suo compito è di condurci a Dio, di portare le nostre preghiere fino al cuore di Dio. Per Maria diciamo i Pater, che inquadrano le decine di Ave Maria, e, siccome quella è la preghiera di Cristo e contiene tutto ciò che Dio volle che noi gli chiedessimo,

noi siamo sicuri di essere esauditi.

MESSA

Epistola (Prov. VIII, 22-25; 32-35). – Il Signore mi possedette all’inizio delle sue opere, fin dal principio, avanti la creazione. Ab eterno fui stabilita, al principio, avanti che fosse fatta la terra. Non erano ancora gli abissi, ed io ero già concepita. Or dunque, o figli, ascoltatemi: Beati quelli che battono le mie vie. Ascoltate i miei avvisi per diventare saggi: non li ricusate. Beato l’uomo che mi ascolta e veglia ogni giorno alla mia porta, e aspetta all’ingresso della mia casa. Chi troverà me, avrà trovato la vita, e riceverà dal Signore la salute.

Maria nel compito di educatrice.

Non si può eludere il carattere mariano di questa pagina dei Proverbi, obiettando che si applica al Verbo Incarnato e solo per accomodamento la Chiesa la riferisce alla Santa Vergine. La Chiesa non fa giochi di parole e la Liturgia non si diverte a far bisticci. Trattandosi di vite, che nel pensiero di Dio e nella realtà sono unite insieme, come le vite del Signore e della Madre sua unite nello stesso decreto di predestinazione, il senso accomodatizio è in sé e deve esserlo per noi uno degli aspetti multipli del senso letterale. « Giova a noi, per onorare Maria, considerarla agente della nostra educazione soprannaturale. Noi non siamo mai grandi per Dio, né per la nostra madre, né per la Madre di Dio. Come non vi è Cristianesimo senza la Santa Vergine così se l’amore di Dio non è accompagnato da un tenero amore per la Santa Vergine qualsiasi vita soprannaturale è in qualche modo mancante. « Maria è tutto quello che Essa insegnerà a chi l’ascolta e l’ama: l’esempio, la carità, l’influenza persuasiva… – « Maria ha educato il Figlio ed educherà noi. Non si resiste ad una Madre» (Dom Delatte, Omelie sulla Santa Vergine, Plon, 1951).

Parole benedette.

Il Vangelo è quello del Santo nome di Maria del 12 settembre. È il Vangelo dell’Incarnazione del quale rileggiamo volentieri le parole. Parole benedette perché vengono da Dio: L’Angelo infatti ne è soltanto il messaggero; parole e messaggio gli sono stati affidati da Dio. Parole benedette perché vengono da Maria, che, sola, poté riferire con ferma precisione di dettagli, che rivelano un testimonio e una esperienza immediata.

Messaggio di gioia.

« Questo messaggio è un messaggio di gioia. La gioia mancava nel mondo da molto tempo: era sparita dopo il primo peccato. Tutta l’economia dell’Antico Testamento e tutta la storia dell’umanità portavano un velo di tristezza, perché era continuamente presente all’uomo la coscienza di una inimicizia nei suoi rapporti con Dio, che doveva ancora essere espiata. Il messaggio è preceduto da un saluto pieno di gioia e da una parola pacifica, carezzevole: Ave. Questo Ave, primo elemento del messaggio, detto una volta, verrà poi ripetuto per l’eternità.

La fede di Maria.

« La fede di Maria fu perfetta e non dubitò della verità divina neppure nel momento in cui chiedeva all’Angelo come si poteva compiere il messaggio. Gabriele rivelò il modo verginale della concezione promessa, sollecitando il consenso della Vergine per l’unione ipostatica, perché, per l’onore della Vergine e per l’onore della natura umana. Dio voleva avere da Maria il posto che avrebbe occupato nella sua creazione. E allora fu pronunziata con libertà e con consapevolezza la parola, che farà eco fino all’eternità: « Io sono l’umile ancella del Signore: sia fatto secondo la sua volontà » (Dom. Delatte. Opere citate).

Preghiera alla Vergine del Rosario.

Ti saluto, o Maria, nella dolcezza del tuo gioioso mistero e all’inizio della beata Incarnazione, che fece di te la Madre del Salvatore e la madre dell’anima mia. Ti benedico per la luce dolcissima che hai portato sulla terra. – O Signora di ogni gioia, insegnaci le virtù che danno la pace ai cuori e, su questa terra, dove il dolore abbonda, fa’ che i figli camminino nella luce di Dio affinché, la loro mano nella tua mano materna, possano raggiungere e possedere pienamente la meta cui il tuo cuore li chiama, il Figlio del tuo amore, il Signore Gesù. – Ti saluto, o Maria, Madre del dolore, nel mistero dell’amore più grande, nella Passione e nella morte del mio Signore Gesù Cristo. – Unendo le mie lacrime alle tue, vorrei amarti in modo che il mio cuore, ferito come il tuo dai chiodi che hanno straziato il mio Salvatore, sanguinasse come sanguinano quelli del Figlio e della Madre. Ti benedico, o Madre del Redentore e Corredentrice, nel purpureo splendore dell’Amore crocifisso, ti benedico per il sacrificio, accettato al tempio ed ora consumato con l’offerta alla giustizia di Dio, del Figlio della tua tenerezza e della tua verginità, in olocausto perfetto. – Ti benedico, perché il sangue prezioso che ora cola per lavare i peccati degli uomini, ebbe la sua sorgente nel tuo Cuore purissimo. Ti supplico, o Madre mia, di condurmi alle vette dall’amore che solo l’unione più intima alla Passione e alla morte dell’amato Signore può far raggiungere. – Ti saluto, Maria, nella gloria della tua Regalità. II dolore della terra ha ceduto il posto a delizie infinite e la porpora sanguinante ti ha tessuto il manto meraviglioso, che si addice alla Madre del Re dei re e alla Regina degli Angeli. Permetti che levi i miei occhi verso di te durante lo splendore dei tuoi trionfi, o mia amabile Sovrana, e diranno i miei occhi, meglio di qualsiasi parola, l’amore di figlio, il desiderio di contemplarti con Gesù nell’eternità, perché tu sei Bella, perché sei Buona, o Clemente, o Pia, o Dolce Vergine Maria.