Gregorio XVII: Il Magistero impedito
UNITÀ DELLA CHIESA
[«Renovatio», II (1967), fasc. 4, pp. 507-508]
Il discorso è opportuno, se non necessario, perché in qualche momento si fa insistente la menzione della «chiesa locale» o «particolare». Le chiese locali sono sempre esistite; pertanto se il discorso circa le medesime si fa più insistente, una ragione ci deve essere. E bisogna che la ragione sia buona. Perché sia tale, nulla c’è di meglio che richiamare la idea da Cristo lasciata circa la unità della Chiesa. Con questa idea ben chiara, diventa subito chiaro il concetto del «ruolo» nelle «chiese particolari». Anzitutto il Fondatore della Chiesa ha parlato sempre di un «solo» Regno. Pertanto la «unità» della Chiesa, ne vuole la «unicità». – Cristo non ammette moltiplicazioni del Suo Regno, nel senso vero e proprio. Ma ha voluto, non meno, la «unità» interna della Chiesa. Ciò in due modi essenziali. Il primo è la unità della «Fede». Si tratta del consenso nella stessa «idea», semplice e complessa ad un tempo, organica e ricchissima, quale Egli ha rivelato. Ha chiesto l’adesione della mente (tale è appunto l’atto di fede) ad un’unica verità, da Lui proposta, intangibile, immutabile, anche se indefinitamente sempre più intelligibile, garantita per di più dalla esistenza di un Magistero infallibile, perfettamente individuato. Il Magistero ha proprio la funzione di assicurare, nella variazione delle circostanze e nella ricchezza delle deduzioni od applicazioni, la perenne unità della fede, nel tempo e nello spazio. – Il secondo è la unità del regime. Infatti ha dato alla Sua Chiesa un Primate, un capo munito di impressionanti poteri: Pietro. Il Collegio stesso dei Vescovi trova la sua operante unità nell’essere con questo Capo. Tutto ciò significa appunto la unità del regime. E la unità interna della Chiesa, che si lega indissolubilmente con la unicità. – Messo ben chiaro il pensiero di Cristo, diventa chiaro il concetto della Chiesa locale. La Chiesa locale è «in sé», ma non è «a sé». Essa poggia sulla istituzione dell’episcopato monarchico, al punto che non esisterebbe, nella attuale costituzione della Chiesa, senza l’episcopato. La presenza del Vescovo – non di un qualunque presidente – dà alla Chiesa particolare una consistenza «in sé stessa», perché il Vescovo succede nell’apostolato e ne porta con sé, ben oltre una semplice delegazione, i poteri sufficienti a costituire una organica operante comunità, che insieme cammina verso la eterna salute. La Chiesa locale, tuttavia, non è «a sé». Ciò perché il Vescovo, ogni Vescovo, tanto come capo di una definita e limitata comunità particolare, quanto come membro del Collegio episcopale fa capo a Pietro. – Vediamo ora la Chiesa locale sotto il profilo della «unità interna» della Chiesa cattolica. La Chiesa locale, per quanto portatrice anch’essa della divina Tradizione, per quanto attrice anch’essa di un consenso esplicativo, deduttivo, applicativo delle verità della Fede, non fa da sola il Magistero infallibile. Questo, nella sua forma ordinaria, richiede un consenso e questo consenso fa capo ad un vertice necessario: Pietro. Nella forma solenne il Magistero sta in Pietro e, quando sta nel Collegio episcopale, ha bisogno di Pietro. Nell’aspetto più profondo e delicato del suo essere, in quello cioè della Fede, della idea, della concezione di tutte le cose relative alla salvezza eterna, la Chiesa locale non è valevole da sé, deve far capo a Pietro. La Chiesa locale, per quanto capace in se stessa di un regolamento disciplinare e questo a causa della nozione dell’episcopato come lo ha voluto Cristo (come stato storicamente attuato), deve far capo a Pietro. – Pietro è il centro della unità, ne è il vertice al disotto di Cristo Signore, ma è anche il limite divinamente posto alle competenze particolari, alle insofferenze particolari, quali talvolta per difetto d’uomini si possono rivelare. – La Chiesa locale non è solo elemento di «aggregazione», tanto meno è solo elemento soltanto «federativo»; essa è, per divina volontà, elemento di un organismo che si riduce alla unità in un punto solo. Esattamente come ha scritto al secolo secondo nel suo Adversus Hæreses, Ireneo, Martire e Vescovo di Lione.