GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO – CHIESA, FEDELI, MONDO (II)

GREGORIO XVII

IL MAGISTERO IMPEDITO:

CHIESA – FEDELI – MONDO – II –

Ortodossia III

[Lettera pastorale del 5 agosto 1962; «Riv. Dioc. Genovese», 1962, pp. 208-248].

Sincerità verso i fedeli

Si domanda: dobbiamo continuare a proporre ai fedeli tutto quello che è nel messaggio di Cristo, con tutto quello che in esso sotto la garanzia e la guida di un legittimo Magistero vivo può essere via via inteso o da esso dedotto o con esso connesso obiettivamente? Questo dobbiamo farlo mantenendo la stessa distinzione netta e fermissima che ha fatto Gesù Cristo tra verità ed errore, tra bene e male, tra Dio e mammona, qualunque possa essere la reazione a questa netta fermezza e a questa chiarezza? Dobbiamo accettare tutta la logica di immutabilità dinamica che è nella Rivelazione? Dobbiamo continuare ad esigere la stessa morale, con la stessa distinzione dal mondo, con la croce, la povertà di spirito, la umiltà, la obbedienza? Dobbiamo ancora affermare che «niente serve all’uomo, se guadagna anche tutto il mondo, ma reca danno all’anima sua» (Lc. IX, 25), stabilire così un principio di assoluto primato contro tutto e tutti, se occorresse, della parola di Dio, della opera di Dio, del Regno di Dio? – Oppure tutto questo dobbiamo aggiustare, decurtare, rammollire od anche solo dire sottovoce, pudicamente, per non guastare l’orgia delle intelligenze e dei costumi, per adattarsi al mondo, per poter dialogare con il blasfemo, per presentare un volto dolce ed accessibile al messaggio di Cristo? Questa la domanda. Essa riguarda l’ortodossia globalmente intesa. È evidente, e pertanto siamo nell’argomento di questa lettera. Tale domanda sembrerà a molti inutile, perché la questione messa nei suoi chiari e duri termini non ammette per un Cattolico che una risposta: «no». Ma basta diluirla, basta farla filtrare attraverso stati d’animo, con evocazioni emotive e con la perenne garanzia di una sorta di amore verso i fratelli, perché sembri diversa nella forma (e per questa sia palliata), sia invece identica nella sostanza (e in tale modo venga di fatto accettata). Fin dalla prima nostra lettera sull’Ortodossia, noi abbiamo messo i nostri sacerdoti in guardia contro questo modo sottile di comportare gli errori. Un’altra volta siamo a quello stesso punto. Del resto non c’è bisogno di giustificare: i fatti parlano. Gli elogi di molti vanno a coloro che sanno rendersi graditi ai «lontani», senza tener conto che spesso per rendersi graditi bisogna mentire. La questione della salvezza delle anime non è questione sentimentale che possa essere posta e risolta in termini emotivi, accomodanti e a tutti i costi concilianti. Qui sta l’errore: essa va posta nei termini di fede, di penitenza e di rinuncia nei quali l’ha posta Gesù Cristo. La sincerità verso i fedeli ci obbliga a predicare a loro con estrema chiarezza e continua ripetizione le verità dure che ha insegnato nostro Signore Gesù Cristo e che noi dobbiamo portare a tutti. Notate bene: anzitutto, sempre, chiaramente. Perché Gesù Cristo ha portato verità dure, per l’intelletto. Enumeriamo le più salienti.

Il mistero trinitario. Gesù, anche prima di darne la sintesi e la formula, siccome accade in Matteo XXVIII, ne ha parlato continuamente, perché è continuo il riferimento al Padre, a sé Figlio e – almeno da un certo punto nei discorsi – allo Spirito Santo. Non aveva importanza per Gesù che il continuo richiamo al Padre nei discorsi degli ultimi tempi suoi mandasse veramente in bestia i suoi oppositori. Più andavano in bestia e più ne parlava. E strano che taluni non sentano la significazione del dramma continuo che accompagna questi discorsi! Il mistero della Trinità lo si penetra attraverso un raffinamento della intelligenza e dei suoi strumenti, mai lo si esaurisce; ma tanto più lo si intende quanto più si arriva a vedere che tutto il rimanente della rivelazione cristiana non ha significato senza il mistero trinitario.

La incarnazione del Verbo. Essa, con quello che la contorna, è il fatto più interessante di tutta la storia umana. Lasciando le porte aperte per la buona volontà che intende sottrarsi al terrore delle contraddizioni, questa verità fa veramente curvare la schiena. Gesù Cristo ne ha fatto il motivo continuo, il punto di riferimento, la pietra di saggio per provare la fede di quelli che voleva beneficare, per provare la convinzione dei discepoli. Non aveva importanza che quella verità spezzasse qualcosa, soprattutto in un ambiente dove erano proibite tutte le rappresentazioni antropomorfiche della divinità e dove Egli si presenta invece «uomo». Gesù non ha posto il problema di rendere la verità «dolcificata» e «passabile»; ha pianto su Gerusalemme, ma non ha ritirato o ridotto i termini della Rivelazione ed ha annunciato come castigo l’eccidio del suo popolo e a distruzione della città e del tempio.

La redenzione attraverso la Croce. Gli apostoli e i discepoli (essi sono stati i soli a sentirne parlare) si torcevano ad udire le profezie della passione, che si incalzavano come a non lasciarli tranquilli e ad impedire che si costruissero i termini di un comodo avvenire. Il dramma della Croce si stende su tutto il pellegrinaggio terreno del Redentore, ne diviene il fatto caratteristico che ha, come bene illustra la lettera agli Ebrei, un tratto eterno, anche per la rinnovazione eucaristica.

La rigenerazione. Gesù ne parlò chiaro a Nicodemo (cfr. Gv. III, 5-7), il quale diede prova di capire poco. Su questo punto il discorso si fa sempre più esplicito e più grave, passando attraverso la trattazione di Cafarnao (cfr. Gv. VI, 27 sgg.) ed arrivando al grande discorso dell’ultima cena. Come Nicodemo ha dimostrato (lui, uomo piuttosto fine, intelligente, intuitivo e probabilmente più colto di altri discepoli), tutti debbono avere provato una certa vertigine ad udire parlare del mistero della rigenerazione e della grazia. Ma Cristo non ha avuto riguardi nel mettere una posta fondamentale e nell’invitare l’uomo a raccogliere tutte le sue forze per arrivare a porre un atto di fede. Quell’atto fa valicare il cosmo e tutte le cose che il cosmo può insegnare o mostrare, anzi tutto un ordine», che è ben più grande del cosmo stesso. Dietro al mistero della rigenerazione si vedono i Sacramenti, il Battesimo.

L’Eucarestia. Una attenta lettura del discorso eucaristico di Cafarnao, preparato intenzionalmente dal miracolo della moltiplicazione dei pani, dal discorso sulla fede e sulla azione della grazia da parte del Padre, rivela per le sue ripetizioni e i suoi rincalzi lo stato d’animo di coloro che lo ascoltarono: si torcevano veramente, dichiarano secco che è un discorso duro quello che intendevano; se ne vanno; c’è aria drammatica di sommossa, al punto che — evidentemente non erano del tutto immuni neppur essi dallo stato d’animo della folla – Gesù ai discepoli pone il problema di fiducia. In extremis la professione di Pietro, stupenda eppur rivelatrice, salva la posizione dei discepoli che si sono sentiti dire – questa volta – non «venite», ma «volete andarvene anche voi?» (Gv. VI, 67). Per capire qualcosa di più di questo mistero la teologia ha lavorato mille anni!

Il giudizio finale e la dannazione eterna. I capitoli del Vangelo dedicati a questa verità, in un certo senso conclusiva, sono tra i più difficili e pare portino con sé il travaglio ed il freddo del supremo contestato destino degli uomini liberi e peccatori. La immagine dell’inferno eterno resta ferma, irremovibile ed implacabile al punto stesso in cui possono cessare l’amore e la obbedienza perfetti e totali degli uomini verso chi li ha creati e redenti. Che l’inferno costituisca un mistero nessuno lo può negare, come tutto rimane mistero la vita di Dio e la incarnazione. Ma che esso sia un termine di grandezza, senza del quale si sminuirebbe tutta la rimanente grandezza di questa Rivelazione, nessuno vorrà negarlo, se capisce qualcosa.

La Chiesa. È una società immessa ab extrinseco nell’ordine terreno; è fatta condizione di ogni salvezza; dei diritti suoi non deve dir grazie a nessuno; lasciando a tutti la responsabilità terribile di non riconoscerglieli, è compaginata di cose divine, indefettibili e di uomini defettibili e tuttavia essa è la «sua», di Cristo. Se ci sono «chiavi divine» per aprire un arcano tesoro ed un altro ordine, esse sono date a questa Chiesa, e quello che la Chiesa legherà o scioglierà sarà legato o sciolto dal cielo. Dobbiamo dire che qui non è stata usata alcuna diplomazia umana, nessun attutimento, e neppure è stato tenuto conto del fatto che spesso gli uomini dormono e fraintendono. La verità qui è colpo diretto inderogabile. – Molti potranno trovare a ridire su questo o sul quel fatto di uomini accaduto nella Chiesa, anche nei suoi alti gradi, potranno comportarsi dinanzi ad essi come se fossero sconvolti. Stiamo tranquilli; lo sconvolgimento è assai più grande a sentirci dire quello che ha detto Gesù Cristo a proposito della Chiesa. Che, se il primo sconvolgimento non è incommensurabilmente più grande del secondo, ciò è segno che non leggono il Vangelo e non lo intendono anche leggendolo ed anatomizzandolo. Bella novità che gli uomini lasciati liberi da Cristo si servano della libertà medesima e facciano anche del male! Quello che sconvolge, se mai, è il fatto che a tali uomini nel volgere dei tempi, Dio abbia messo nelle mani cose divine! Le difficoltà non possono farle gli uomini col loro corto metro, le deve fare Iddio col suo metro infinito. Ma è Dio! Qualche eresiarca ha dimostrato spavento della curia romana, strumento pur necessario ad un uomo, che deve essere e fare il Vicario di Cristo restando uomo, come se la curia fosse la bestia dell’Apocalisse! Nessuno può negare che uno strumento umano possa anche in qualche momento sentire il caldo e il freddo, come accade persino ai metalli. Ma la cosa che sconvolge è che Gesù Cristo abbia dato a Pietro un potere tale e, munendolo di un carisma e di tutta la grazia, lo abbia lasciato libero di combinare quello che ha combinato nell’atrio del principe dei sacerdoti, lo abbia lasciato libero di avere in qualche momento paura e di sentire il peso di tutto, obbligandolo da uomo a servirsi di tutti gli strumenti dei quali si debbono servire gli uomini per fare qualcosa. Certo gli ha dato il dono dei miracoli, ma non per i suoi comodi. Sanno questo taluni letterati che si scandalizzano di Dio? Non è un buon gioco per loro. Qui le cose umane non possono vedersi altro che da una travatura divina. Certo, coloro che hanno servito i potenti piuttosto che Gesù Cristo non hanno avuto tempo, vivendo con una fede comoda e assopita, di vedere la travatura divina ed esserne sostenuti più che da ogni altra ragione umana. – Ora guardiamo il quadro di queste verità dure. Gesù sapeva che per aderire veramente alla fede, se era necessaria la grazia, era necessario si rispettasse l’ordine di natura, e cioè il modo col quale gli uomini arrivano raziocinando a delle convinzioni certe. Per questo il Salvatore ha trattato dei prerequisiti alla fede e li ha ampiamente forniti, anzitutto esterni (siccome domanda la natura umana) e non solo per allora, ma per tutti i tempi (cfr. Mt. XXVI,17 sgg.). Gesù ha voluto ci fossero delle dimostrazioni accessibili ed esaurienti, ma che imponevano pazienza, sforzo, lavoro, studio, umiltà e spesso purezza di cuore (cfr. Gv. III,19-21). Non ha elargito la evidenza immediata delle verità rivelate. Tra la evidenza immediata (che non è stata concessa) e lo sforzo razionale per arrivare alla fede ci sta in mezzo il «merito» della fede, quanto la possibilità di non raggiungere la fede ed anche di perderla. In questo breve tratto sta il vero dramma degli uomini, almeno il dramma fondamentale. Il percorso razionale verso la fede può essere tutto coperto, ma occorrono strumenti di precisione senza leghe dubbie e senza scorie infiltrate. La lega dubbia e la scoria infiltrata compromettono la prosecuzione del cammino e fermano generalmente il motore. – Il problema della fede è il problema di compiere un cammino, di usare uno strumento di precisione, di non pretendere che un’automobile di cartone divori una salita e, finalmente, di insistere sul motore. Molti non lo fanno e si lamentano a torto. È in questo modo che Dio ha conciliato, perché fossimo anche noi liberi e meritevoli nell’atto di fede, la crepuscolarità della nostra cognizione e la luce della verità, la stessa libertà nostra e la pienezza della convinzione. – In talune pubblicazioni si direbbe che si ha paura della apologetica. Ma è Gesù Cristo che l’ha voluta, come elemento di questo magnifico incontro, tra la luce e le tenebre, tra la libertà e la obbedienza intellettuale, tra la fede (pur sempre atto di intelletto) e la coscienza di un uomo che, credendo, sa di non essere irragionevole. La ragione per la quale si cerca di tacere dell’apologetica sta nel fatto che già si è slittati, almeno in qualche modo, nel soggettivismo filosofico, nel relativismo idealistico. Questo lascia la porta aperta a pensare e dire e fare quello che si vuole. Ma, premesso ciò, Gesù Cristo ha enunciato verità dure. Diciamo «dure» per significare che sono superiori alla portata della nostra intelligenza. Si tratta di verità che potremo in qualche modo intendere, ma non comprendere; penetrare, ma non esaurire. Lo sforzo di ridurle, a mezzo di un trattamento istintivo e sentimentale, ad essere extra razionali è lo sforzo autentico per rinnegarle. Guardiamo bene in faccia Cristo; con Lui non si gioca. Per dire queste cose, Gesù Cristo ha accettato: il ripudio del suo popolo, lo strazio del medesimo, il deicidio, la croce. – Questa croce ha dato alla sua Chiesa da portare come segno delle genti fino al giorno in cui la medesima non lo precederà per l’ultimo giudizio. – Noi dunque cercheremo di tarpare queste verità per instaurare un dialogo più umano con quelli che non obbediscono interamente a Dio? Noi, ai quali è stato dato l’ordine di «predicare sopra i tetti» (Mt. XX, 27), ci lasceremo cogliere da un falso pudore e, per questo, cercheremo di raccomandare tali verità alla cultura umana, affinché le protegga, o le affideremo ai giullari di una fantasiosa letteratura perché ne diventino i desiderati accomodatori? Gesù ha lasciato distruggere Gerusalemme… – Le verità dure per la debolezza umana sono quelle che riguardano i costumi e che domandano un comportamento totale, degno di figli adottivi di Dio. – La verità più dura è una verità generale. Nessuna norma, nessuna ragione, nessuna istanza terrena può prevalere sulla legge data da Cristo; nessuna ragione umana o di Stato o di famiglia o d’altro può limitare comunque la obbedienza dovuta a Dio. Non c’è posto per un’altra legge che non sia subordinata a quella di Cristo; non c’è posto per una coscienza morale civile, che sia parallela e indipendente da una coscienza morale cristiana. Vogliate meditare bene i seguenti testi: «Non sono venuto a mettere la pace, ma la spada. Perché sono venuto a dividere l’uomo dal padre e la figliola dalla madre e la nuora dalla suocera sua; e nemici dell’uomo (saranno) i suoi famigliari. Chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me e chi ama il figliolo o la figliola più di me non è degno di me; e chi non prende la sua croce e non viene dietro di me non è degno di me. Chi avrà Trovato la sua vita la perderà e chi avrà perduta la sua vita per amor mio la ritroverà» (Mt. X, 34-39).

«Se dunque la tua mano o il tuo piede ti è causa di peccato, mozzalo o gettalo via da te; meglio è per te entrare alla vita monco o zoppo, che aver due mani o due piedi ed essere gettato nel fuoco eterno. E se il tuo occhio ti è causa di peccato, cavatelo e gettalo via da te, meglio è per te entrare alla vita con un occhio solo, che averne due ed essere gettato nella Geenna del fuoco» (Mt. XVIII, 6-9).

Questi testi non sono che un saggio. Sono chiari e rivelano una fermezza che è costante. Altra verità dura è pure una verità generale. Gesù Cristo domanda una perfezione, la domanda interiore, la domanda estesa ai più piccoli atti dell’uomo ed alle loro sfumature, tanto che siamo invitati tutti ad essere «perfetti come il Padre che sta nei Cieli» (Mt. V, 48), tanto che « . . . ogni parola oziosa che gli uomini dicono, di questa parola renderanno conto nel giorno del giudizio» (Mt. XII,36). Si tratta di una verità che sta sotto tutto il discorso della montagna, per tacere di altri innumerevoli testi neotestamentari. – La legge dell’amore è sublime, ma è una verità dura, perché sostanzia l’amore a Dio con la osservanza della sua parola (cfr. Mt. VII, 21-23) e cioè lo vuole «concreto», perché lo collega all’amore del prossimo, dimostrando chiaramente che non ama Dio chi non ha amato i fratelli (cfr. Mt. XXV, 40); perché garantisce l’amore del prossimo con la misura stessa con la quale possiamo amare noi stessi e con la inderogabile ed assoluta legge del perdono. Prima di essere una poesia ed una infinita commozione, la carità è una cosa incredibilmente seria. Chi non perdona, non sarà perdonato. E facile dirlo, non è altrettanto facile farlo. Eppure è necessario. Si legga la stupenda sintesi che san Paolo fa della carità nella seconda Lettera ai Corinti al capitolo XIII e si avrà la testimonianza di tutto questo: la carità non è elemento ad uso puramente romantico o decorativo. – Il distacco del cuore dai beni terreni, dei quali il più vicino quaggiù siamo noi stessi, si realizza con l’umiltà e la semplicità, che ne sono inscindibili, alla base di tutta la vera e solida costruzione morale. Gesù ha detto: «Beati i poveri in spirito perché di questi è il regno dei cieli» (Mt. V, 3); «Non accumulate tesori sulla terra, dove tignola e ruggine corrodono e dove i ladri perforano e rubano; accumulate invece tesori in Cielo dove né tignola né ruggine corrodono e dove i ladri né perforano, né rubano… Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure all’uno si attaccherà e l’altro disprezzerà. Non potete servire a Dio e a Mammona… Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt. VI, 19-33). La penitenza, il sacrificio, la rinuncia e la croce, il tutto riassunto nella proposizione ed esaltazione continua della croce stessa, danno una qualificazione necessaria ed inconfondibile alla morale evangelica ed è per questo che «la porta è stretta ed angusta è la strada» (Mt. VII, 14). Su questo sfondo autentico e forte si vedono tutte le altre virtù morali, alle quali danno carattere, qualificazione e sostegno le virtù teologali della fede, della speranza e della carità. Nessuno può dubitare della preminenza che nella Rivelazione cristiana hanno queste virtù teologali. Abbiamo parlato solamente dei precetti e non abbiamo parlato dei consigli evangelici. Fatta anche questa precisazione, si capisce perché la morale cristiana non è una dilettazione cerebrale, non è una costruzione letteraria e soprattutto non è una cosa umanamente comoda. Con questa sua potenza, presentando agli uomini una ascesa ardua e faticosa, fa loro intendere che sono chiamati a cose grandi ed eterne. – Il pretendere di far passare come abbastanza comoda la morale cristiana è ingiuriosa deformazione. Al popolo dobbiamo dire quello che Cristo ci ha incaricato di dire e non dobbiamo né correggere, né attenuare nulla sulle labbra di Dio. Questa è la sincerità dovuta al popolo fedele. – Anche qui cerchiamo di guardare il quadro generale, per non essere fraintesi od accusati di una severità eccessiva. Questa legge divina è accompagnata da tre grandi cose: la speranza della felicità eterna, la azione della grazia, la sovrannaturale provvidenza. Dio chiede lo sforzo, ma resta Padre per accompagnare in modi anche mirabili, per sostenere e per donare le condizioni con le quali si alimenta la letizia. Anche qui si può verificare e si dovrebbe verificare sempre quello che accadde in Cristo sofferente, Salvatore nostro e nello stesso tempo «tipo supremo» della nostra vicenda terrena. In croce Egli sperimentò il dolore in una misura che nessuno ha mai lontanamente eguagliato. Nello stesso tempo ebbe la visione beatifica nella sua anima umana. Queste due operazioni simultanee sono state possibili perché Egli non ebbe solo la scienza sperimentale (legata al corpo e da questo coartata ad una sola operazione, siccome la esperienza nostra dimostra), ma ebbe anche la scienza infusa e la scienza beatifica, entrambe non coartate dalla presenza del corpo. Questa coesistenza della pace e della lotta, del dolore e del gaudio in Cristo sofferente sono uno degli aspetti più interessanti della passione in Lui. Ma sono anche la rivelazione di quello che, fatte le proporzioni ed in senso meramente analogico, può accadere nell’anima di coloro che lo servono. In essi l’azione della grazia, la illuminazione dello Spirito Santo può arrivare a rendere in qualche senso possibile la pace interiore e la letizia anche coi maggiori dolori, ed ordinariamente, nei veri servitori di Dio, stempera la vita affaticata e sofferente con una luce di conforto e di suprema presenza. Allora cambia sfondo e tono alla peregrinazione terrena. – La morale che abbiamo voluto chiamare «dura» non è dunque né tristezza, né una condanna, né una ossessione, né una esagerazione; è solo la prova dell’amore e la condizione del balzo verso l’Infinito, soprannaturalmente inteso. Come prima, parlando delle verità «dure» per l’intelletto, abbiamo fatto osservare che Cristo ha provveduto ad una documentazione capace di risolvere i problemi razionali di fronte alla fede, così ora dobbiamo una seconda volta invitare a vedere la compitezza divina. Infatti, accanto alla legge ferma e poderosa, Dio ha messo altre cose, ha donato un intero quadro. Per tal modo quello che, visto da solo, può essere chiamato «duro», visto nel quadro appare luminoso e grande. Ma nessuno ha diritto di stare a suo agio nel «quadro», se non accetta le verità dure. Lutero volle il quadro e non le verità dure: gli è accaduto quello che tutti sanno. Pertanto il «quadro» non autorizza nessuno a tacere delle verità «dure». Sarebbe insincerità verso dei fedeli, anzi sarebbe inganno perpetrato contro di essi. – A questo punto sorge un quesito che bisogna affrontare e risolvere con equilibrio e con chiara fermezza. Esso può formularsi così: i fedeli sono oggi sotto una continua azione frastornante quanto all’equilibrio, allettante quanto ai beni e ai piaceri sensibili, anzi materiali, debilitante quanto a tutte le loro riserve spirituali. – Per la prima azione, tende ad apparire loro strano quello che dovrebbe essere pacifico e normale; per la seconda azione, si attua la perenne tentazione della materia contro lo spirito con ogni mala ed ovvia conseguenza possibile; per la terza causa, si ha la vera usura quale consegue, nella capacità e nella azione, al peccato e al disordinato uso sia dei beni interni che dei beni esteriori. Ne viene una situazione di abituale difficoltà con riflessi sulla fede, sulla osservanza della legge di Dio, sulla ordinaria ascesi delle anime, sullo stato emotivo irrazionale che abbiamo voluto intenzionalmente chiamare nel titolo «situazione depressa». – È perfettamente inutile negare una tale situazione e sottrarsi con insinceri espedienti ai problemi che essa pone. Bisogna freddamente prenderne atto e meditare. Sarebbe perfettamente stolto impaurirsi di questa situazione depressa, che risponde ad un particolare tornante della storia, perché nel Vangelo Gesù Cristo su queste avventure, su quella finale, ha parlato crudamente, ma ha anche assicurato che sarebbe stato «ogni giorno con noi fino alla consumazione dei secoli» (Mt. XXVIII,20), e che «cielo e terra passeranno, ma le sue parole non passeranno» (Lc. XXI,33). – Le epoche di maggiore difficoltà diventano così con certezza le epoche di maggiore grazia e di maggiore gloria. Il che è accaduto, in forme diverse, altre volte. – Fin qui una constatazione. Essa però pone, come abbiamo detto, il quesito. Eccolo. Non dobbiamo, noi, indirizzarci a questa gente sbattuta e talvolta sbalordita dal parossismo, dalla fretta e dalla suggestione moderna, con una tattica nuova, la quale faccia sintesi della dottrina con termini preferibilmente nuovi e più generici, tali da permettere interpretazioni più elastiche e pertanto meno forti per la debolezza umana; sfumi talune parti più difficili e meno simpatiche a stati d’animo artificiali; ponga nel silenzio le verità che a qualche titolo possono sembrare più dure e meno digeribili; faccia una ripulitura del patrimonio dottrinale e storico, dando la colpa ai teologi di affermazioni che potrebbero sembrare troppo precise o troppo ingombranti e ciò per averle, essi, arbitrariamente introdotte nel patrimonio comune, giungendo quindi ad una maggiore semplificazione? Alla grave domanda bisogna dare una risposta seria. Per poterla dare abbiamo fatto delle premesse che il benigno lettore, a questo punto, farà probabilmente bene a rileggersi. Tuttavia bisogna pure, prima di rispondere, fare delle considerazioni, le quali restringano il campo della risposta e impediscano che essa appaia equivoca e superficiale. Nell’esibire qualsiasi proposizione e pertanto nel fare qualsiasi catechesi, niente vieta che ci si attenga a:  una gradualità nelle cose e nel tempo; a una esigenza di «traduzione», per cui le cose da dirsi, senza alterazione, vengono presentate nella forma più rispondente ad un ingegno letterario, ad un ciclo culturale, a specifiche situazioni psicologiche, via via mutanti; e infine a un «ordine» congegnato coll’intendimento di raggiungere un determinato onesto scopo. Su questo non si può ragionevolmente discutere, perché queste sono norme elementari di metodo, valevoli sempre ed ovunque, a seconda delle circostanze in cui si applicano. E per questo che resta buona regola sapere usare tempestivamente il linguaggio letterario, il linguaggio psicologicamente attivo, il contegno saggiamente rispondente alle esigenze del momento in cui si vive. – Veniamo alla risposta sui quesiti esposti. Essa è e deve essere pienamente negativa. Su questo punto non si può rimanere in alcun modo con delle esitazioni, le quali sarebbero colpevoli. Vediamo partitamente. –

a) – I termini volutamente nuovi (perché come tali possono essere intesi «altrimenti» dalle verità esposte), i termini intenzionalmente generici, le interpretazioni elastiche (per poter non differire da posizioni deformi) sono sempre altrettanto intenzionalmente e almeno potenzialmente degli oltraggi alla verità di Dio. C’è di più: costituiscono un aver vergogna di quello che ha detto e fatto Gesù Cristo, un irrazionale tentativo di correggere Dio stesso. Talune modulazioni generiche e sfuggenti possono essere certamente usate, quando non si intende «diluire» la verità, ma, si intende, usando una tattica, arrivare a presentarla intera e nuda come è in se stessa, prendendo le precauzioni occorrenti a che non si finisca col declassare la verità, prima di averla detta.

b) – Sfumare le parti più difficili e meno simpatiche a certi stati d’animo, o prima o poi diventa tradimento alla verità. Che se la sfumatura è solo tattica prudente e consiste nel dire solo in parte o dire successivamente, potrà essere usata come «metodo», per arrivare alla pienezza della proposizione.

c) Il silenzio su qualche verità ci metterebbe subito in contrasto coll’Evangelo: «Insegnate loro ad osservare tutto quello che vi ho comandato…» (Mt. XXVIII,20). Il silenzio momentaneo può essere tattica e gradualità. Il silenzio intenzionale è deformazione del messaggio evangelico.

d) Circa la ripulitura del patrimonio dottrinale e storico, si è già anticipata la risposta nel capitolo primo di questa lettera. Nulla c’è da ripulire. Infatti le opinioni personali dei teologi valgono quanto loro, ossia quanto gli argomenti che adducono, e nessuno mai è stato obbligato a seguire l’opinione personale di un teologo fino a che questa è rimasta personale. Credo Deo Revelanti et non theologo opinanti! Quindi per questo aspetto niente da ripulire, ma piuttosto sufficiente scienza per accorgersi che si tratta di opinioni personali discutibili e per nulla certe e definitive. Detto questo, è altrettanto giusto affermare che questo lavoro di opinioni costituisce il mezzo delle «ipotesi di lavoro» col quale si fa progredire la scienza teologica, perché sia sempre maggiore la intelligenza della verità divina, più feconda, più utile alle circostanze e più capace di generare maggiore ammirazione verso la eterna saggezza in essa manifestata. – Accade talvolta che una proposizione passa dal livello delle opinioni personali a quello del consenso comune, il quale porta in causa il Magistero infallibile della Chiesa, oppure al livello diretto dello stesso Magistero. Questo non è soltanto solenne, ma ordinario, anche di tutti i giorni. E per questo che ci siamo fatti premura di parlare della Chiesa e del Magistero «vivi». Dunque anche qui niente da ripulire. – Il concetto che qui si debba ripulire suppone l’idea erronea che il Magistero della Chiesa sia solamente solenne, che non esista un vero Magistero Ordinario, che si debba bruciare tutto il trattato de locis theologicis, che la Chiesa sia un museo di cose divine e non un organismo vivo a tutti i titoli ed a tutti gli effetti. Le quali idee erronee menano dritti dritti fuori della ortodossia. – La conclusione è chiara e deve venire, appoggiata come è ad un motivo di fedeltà all’Evangelo, prima di qualsivoglia altra considerazione contingente: noi dobbiamo dare ai fedeli la verità, tutta la verità, soltanto la verità, siccome è nel mandato divino, e dobbiamo darla con tutta la chiarezza e fermezza con la quale l’ha data Gesù Cristo, sacrificando noi per trovare le migliori procedure di merito, ma mai tacendo o riducendo e mettendo sotto diversa luce il contenuto della Rivelazione. Dobbiamo darla, finalmente con quella giusta e controllata ricchezza che da sé ha saputo trarre nel corso dei secoli. – Abbiamo sentito che taluno ha radiato dalle prediche degli esercizi quella relativa al peccato, perché ritiene la questione del peccato una questione patologica e psicoanalitica; quella relativa all’inferno eterno, perché è cosa incompossibile con la mentalità moderna. Questo non è accaduto, che noi sappiamo, nella nostra diocesi, ma è accaduto. Ci sono molte ragioni per dimostrare che tali motivi addotti non esistono; ma ne basta una sola: questo è sotto la condanna di Cristo. Del resto, nessuna età ha avuto tanta paura come la nostra, e la vera ragione per cui non si vuol parlare dell’inferno è che lo si sente piuttosto vicino. – Di fronte ad una «situazione depressa», quale era quella del suo stesso popolo, succube di passioni e di sette, irretito dalla posizione economica e politica, Gesù Cristo non ha attutito nulla ed ha scelto di fronte alla posizione negativa i criteri estremi: per sé la croce, per i1 popolo giudeo il rigore della giustizia. Non è dunque sulla linea della verità che si va incontro alle situazioni depresse transigendo o tacendo di essa. Incontro alle situazioni depresse si agisce in un altro modo, come Lui: si va in Croce! Nessuno si spaventi: non sarà questione del patibolo, sarà questione di maggiore sacrificio da parte nostra. Non da parte della verità. – Del resto: è poi vero che il popolo desidera che noi facciamo degli attutimenti o delle riduzioni, mettiamo il silenziatore su questa o quella verità, cerchiamo di limare i margini della legge di Dio? Neghiamo che il popolo voglia questo. Infatti, chi è il popolo? La risposta è difficile, perché le manifestazioni che lo rivelano sono eterogenee e per dire: «Questo vuole, questo dice il popolo», bisogna scegliere una linea mediana, ossia i momenti in cui di esso non parla la passione, l’indettamento, a sciocca imitazione, la leggera avventura, la infatuazione boriosa e presuntuosa; ma solo la umanità semplice, compresa della serietà ielle cose e della profondità del dolore. Per sapere, adunque, in una questione come questa, non ci si può rivolgere a cerchie ristrette e cerebrali, ad interessati, forse neppure a inchieste e statistiche. Il «momento» in cui il popolo è tale probabilmente viene reso dalla «casistica» paziente e continuata. Ecco perché la questione è difficile, impone pazienza e prudenza, accortezza e indipendenza da mode e da pose. – Questi «momenti» sono spesso su opposte chine. Osservate i ladri: quando sono in vena e in possibilità di rubare (stato attivo) dicono: «Non è vero settimo non rubare». Gli stessi quando sono in stato di debolezza (situazione passiva) e stanno per venire essi derubati affermano: «Settimo, non rubare». Sono i diversi «momenti»; nel primo non li posso ascoltare, nel secondo, sì. – Abbiamo dovuto più volte occuparci di questioni morali gravi ed abbiamo visto padri inferociti per la penosa e colpevole situazione di qualche figlia; abbiamo davanti alla mente i casi in cui avremmo potuto osservare a questi padri: «Avete dunque cambiato parere; prima dicevate che tutto questo era lecito, ora che siete voi i colpiti (situazione passiva) dite il contrario». In un momento parlavano male, in un altro momento parlavano bene. Se ci fosse un pericolo comune, grave, terribile, imminente, si chiuderebbero forse molti luoghi di incontrollato divertimento e si riempirebbero in domenica e fuori di domenica le chiese. E già successo tante volte. Sono diversi ì momenti… – Naturalmente, se io vado a scegliere i momenti in cui parla la piccola cerchia, la passione, la suggestione, la paura, non saprò probabilmente mai che cosa veramente vuole o pensa il popolo. Sappiamo tutti benissimo che, davanti ad uomini i quali nella umiltà e nella rinuncia servono veramente Dio ed i fratelli, il popolo non ha mai da obiettare. Sono i momenti diversi… In alcuni è esso, il popolo, in altri è una folla, una passione che urla, un piacere che seduce… – Il popolo lo trovo più facilmente ad un funerale che ad un matrimonio, più nell’umile casa guidata da un saggio ordine che al caffè. Perché popolo e opinione pubblica, nel senso moderno, non sempre coincidono. Forse raramente. – Attenti dunque a dire «Il popolo esige, il popolo vuole…». Mettetevi, al giovedì santo, davanti al pretorio di Pilato e poi vedete – a sentire quella folla che chiede crucifigatur — quale effetto vi fa questo modo di parlare: il popolo vuole… Attenti, qui si sbaglia facilmente. Una volta in sacra visita un parroco ci disse: «Qui il popolo non vuol sentir parlare di Azione Cattolica». Sul momento abbiamo taciuto. Siamo tornati anni dopo nello stesso posto ed osservavamo una costruzione che stava sorgendo sul terreno della Chiesa. Domando: «che è quella?». – Risposta: «La sede delle associazioni; il popolo se la fa da sé». Infatti non avevano chiesto un soldo alla curia. – Riprendiamo ora opportunamente il filo del discorso. Che vuole il popolo?

Vuole che ci mostriamo con la nostra faccia. E per nostra faccia, con una precisazione impressionante, testimone di quello che hanno filtrato secoli di catechismo, intende quella del Vangelo. Non vuole sapere di imbellettamenti e, peggio, di chirurgie plastiche. Mal diranno, contraddiranno, insulteranno talvolta; ma se vedranno che riduciamo i toni per paura delle loro paure, faranno di peggio: ci disprezzeranno. Il rachitismo è oggetto di pietà, mai stimolo d’avanguardia e trofeo di potenza. Questo lo capiscono tutti, meno i cerebrali insipienti.

Cerca i coraggiosi. E i coraggiosi li individua in quelli che sanno superare anzitutto i propri interessi ed affrontano, così, liberi, i loro rischi. Non ammira i soldati che vanno all’avanzata solo dopo che le artiglierie hanno ucciso tutto il nemico. Ha ancora tanta umanità per capire il valore di chi salta sull’argine e, dove un dovere chiama, offre il proprio petto all’avversario. Ricordiamo, subito dopo l’ultima guerra, qualche paese dalla situazione spirituale penosissima in cui tutto fu cambiato per qualche atto di coraggio di un sacerdote. – Questa è capitata a noi. In una libera conversazione religiosa con un gruppo di persone molto istruite e per nulla appartenenti ad associazioni cattoliche, qualcuno volle far dello spirito facendoci entrare sul tema dell’inferno e dei diavoli. Si accettò l’argomento. Quella notte nessuno di quella brava gente andò a dormire. Il fatto si ripeté diverse volte e ha per noi tolta ogni credibilità alla asserzione che ai nostri giorni sia difficile parlare dell’inferno. Ma più profonda restò la convinzione che in genere, per chi non ama sinceramente e concretamente Dio, manca il coraggio di guardare nell’abisso della sua verità; il coraggio, diciamo, non la voglia.

Vuole sentire la nostra convinzione. Tutti sanno che la convinzione è la dote essenziale, dal punto di vista apostolico, della predicazione. Generalmente essa, quando è viva, è capace di far perdonare anche altri difetti. La retorica è spregevole per la nostra gente, perché è il segno che denuncia nel modo più sicuro la mancanza di convinzione o la convinzione senza colore.

Vuole sentire la parola di Cristo e non pretende che quella parola sia fatta su misura. Preferisce sapersi peccatore che trattato come un debole al quale non si può dire la verità. – Quand’anche tutte queste ed altre ragioni non esistessero, non cambierebbe la entità del dovere di annunciare Cristo come è, di scandalizzare col mistero della Croce, di irritare con la verità dell’amore e della misericordia divina, di eccitare reazioni col mistero Trinitario e col mistero dell’inferno, di ottenere anche canzonature col dogma della santissima Eucaristia. – Da trent’anni noi ci occupiamo di catechizzare gente soprattutto lontana. Abbiamo avvicinato ed avviciniamo tutti i ceti di persone, soprattutto i più difficili; miscredenti assopiti, coltissimi. Riteniamo che un ministero di oltre trent’anni abbia il diritto di dare la sua testimonianza. Ebbene, essa è questa: l’aver sempre detto con assoluta chiarezza tutta la verità e la verità più dura senza molti fronzoli ci ha fatto toccare con mano che questo era quello che si attendeva e quello che ci ha permesso di ringraziare umilmente la divina bontà. Dietro le apparenze più scoraggianti, abbiamo prima o poi sempre trovato fame e sete della verità intera, del dogma, della sua profondità, dei suoi aspetti solenni ed assoluti; se abbiamo trovato difficoltà, non gravi peraltro, ciò è accaduto con gente di fede, ma intellettualmente male indirizzata. – Esiste una letteratura che insinua affermazioni contrarie a quelle qui espresse. Abbiamo preso la penna in mano per dir al nostro clero: guardatevene, credete a Cristo e non a gente la quale per non aver obbedito ai Papi, ai Vescovi, al genuino senso della Tradizione cristiana e dei Santi si è vista sfuggire le anime, ha constatato terribili vuoti e non ha avuto né la onestà, né la umiltà, né in definitiva la intelligenza di capire che lo scempio delle anime non è il frutto della verità assoluta. Hanno invece creduto che lo scempio delle anime fosse il frutto di uno sbaglio di Dio e tentano miseramente di correggere l’assurdo errore. E questa tremolante ed equivoca metodica ha generato i cristiani che contestano a Gesù Cristo il fatto di essere veramente il Re dei re ed il Signore dei signori, raccomandandogli di farsi sufficientemente moderno, popolare e democratico. La incerta fede – non d’altro si tratta – ha permesso a sedicenti cristiani di affermare che esistono due verità, due coscienze e due ordini, uno cristiano e l’altro anodino, perfettamente paralleli e compossibili anche se intrinsecamente contradditori. Poiché questo è dato di leggere anche in questi giorni, nei quali con l’animo amareggiato scriviamo, facendo appello al coraggio antico, alla integrità dei tempi migliori ed alla piena sudditanza verso il Romano Pontefice e la Chiesa. [Continua … ]