DOMENICA XVIII dopo PENTECOSTE

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Eccli XXXVI:18
Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël [O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]
Ps CXXI:1
Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.
[Mi rallegrai per ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore.]
Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël [O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Oratio
Orémus.
Dírigat corda nostra, quǽsumus, Dómine, tuæ miseratiónis operátio: quia tibi sine te placére non póssumus.
[Te ne preghiamo, o Signore, l’azione della tua misericordia diriga i nostri cuori: poiché senza di Te non possiamo piacerti.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios
1 Cor 1:4-8
Fratres: Grátias ago Deo meo semper pro vobis in grátia Dei, quæ data est vobis in Christo Jesu: quod in ómnibus dívites facti estis in illo, in omni verbo et in omni sciéntia: sicut testimónium Christi confirmátum est in vobis: ita ut nihil vobis desit in ulla grátia, exspectántibus revelatiónem Dómini nostri Jesu Christi, qui et confirmábit vos usque in finem sine crímine, in die advéntus Dómini nostri Jesu Christi.


 Omelia I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV Omelia XI .- Torino 1899]

“Io del continuo ringrazio il mio Dio per voi, per la grazia che vi è stata data in Gesù Cristo; perché in lui siete stati arricchiti in ogni dono di parola e di scienza, essendo stata la testimonianza di Cristo ben rassodata in voi, a talché non manchi dono alcuno a voi, che aspettate la rivelazione del Signor nostro Gesù Cristo. Il quale anche vi raffermerà fino alla fine senza colpa, nella manifestazione del Signor nostro Gesù Cristo „ (I. ai Corinti, I, 4-8). La Chiesa in questa Domenica ci fa leggere nella santa Messa i cinque versetti che vi ho recitati. Essi formano l’introduzione di questa prima lettera ai fedeli di Corinto, e vengono immediatamente dopo i saluti e le parole di indirizzo, con cui l’Apostolo suole cominciare tutte le sue lettere, eccettuata quella agli Ebrei. La lettera fu scritta da Efeso, dove si trovava S. Paolo, e donde era per muovere alla volta di Gerusalemme, verso la Pasqua dell’anno 56 dell’era nostra. Non occorre che vi dica dei motivi che indussero l’Apostolo a scrivere questa lettera che, dopo quella ai Romani, per l’ampiezza e per le cose in essa contenute, è la più importante, ond’è che tiene anche, dopo quella ai Romani, il primo posto. Le poche sentenze, che abbiamo da spiegare, non sono in sostanza che un augurio od una congratulazione graziosa che fa ai Corinti, con cui si apre la via a dir loro verità assai gravi e, se volete, anche amare. L’omelia d’oggi sarà forse più breve del solito; vi domando in compenso raddoppiata attenzione. – Corinto era una delle città, per floridezza di commerci, per ricchezze e per squisita coltura letteraria, scientifica ed artistica, più celebre della Grecia. S. Paolo vi si era recato da Atene ed aveva fermato la sua dimora in casa d’un certo Aquila, che poco prima vi era giunto da Roma, con Priscilla, sua moglie, perché insieme con gli altri Ebrei n’era stato cacciato con ordine generale dell’imperatore Claudio. Iddio aveva fatto conoscere a Paolo che un gran popolo egli aveva in quella città, e confortatolo a non temere e a parlare coraggiosamente (Atti Apost., XVIII, 1 seg.). Egli vi rimase per diciotto mesi continui, e vi fondò una Chiesa numerosa e fiorente; e quantunque sorgessero in essa alcuni partiti che la turbavano, e vi fossero anche scandali gravissimi e si spargessero errori, era pur sempre una Chiesa nobilissima e meritevole degli elogi dell’Apostolo. Egli, dopo il solito saluto ed augurio, così comincia: “Ringrazio sempre il mio Dio per voi, per la grazia che vi è stata data in Gesù Cristo. „ La prima cosa che l’Apostolo dice, è quella di assicurare i suoi Corinti, che si ricorda di loro dinanzi a Dio e che gli porge i più caldi ringraziamenti per loro. L’amore che ci lega ai nostri conoscenti, amici, congiunti e benefattori ce ne tien viva la memoria nell’animo, e questa è tanto forte e cara, quanto più ardente è l’amore che ci scalda per essi. E cosa troppo manifesta per dimostrarla. Ora, questo amore, se fosse vero e puro amore secondo il Vangelo, non si dovrebbe mai disgiungere dall’idea di Dio, da cui deriva ogni cosa buona e santa, e a cui sempre ritorna. Invece che accade, o dilettissimi? Amiamo i nostri cari, e il nostro amore si ferma in loro e non è mai, o troppo raramente, che si innalzi a Dio, che ci porti a pregar loro da Lui ogni bene, o a ringraziarlo di quelli che ha loro concessi. Vedete S. Paolo: egli ama teneramente i suoi Corinti, li porta nel cuore, come suoi figli: li ha ammaestrati per lunghi mesi, non volendo da loro nemmeno il pane: lontano, pensa ancora a loro, e il suo amore, amore che si accende alla luce della fede, solleva la sua mente ed il suo cuore a Dio e lui ringrazia dei benefizi largiti a quei suoi amatissimi neofiti. E un dovere, o cari, impostoci dalla gratitudine, quello di ringraziare Iddio dei favori concessi a noi; ma è cosa bella, utile e accettevole a Dio ringraziarlo anche di quelli fatti alle persone a noi care. La ragione è chiara. L’amore scambievole fa sì che godiamo dei beni concessi altrui come dei nostri, e perciò è giusto ringraziar Dio di questi come di quelli. Ecco perché S. Paolo: ” Ringrazio, dice, il mio Dio per voi della grazia che vi è data in Gesù Cristo. „ E cosa nuova e quasi strana, che qui S. Paolo, alla parola Dio aggiunga mio, quasi fosse esclusivamente suo, mentre Gesù ci insegnò a dire: “Padre nostro”. Ma la difficoltà si dilegua da sé allorché si pensa che l’Apostolo usò la parola “mio” per significare l’affetto suo ardentissimo verso Dio, come facciamo noi pure allorché vogliamo esprimere un sentimento più vivo d’amore, e diciamo: Mio Dio! Mio bene! Mia vita! Del resto tanto è lungi l’Apostolo di pensare a Dio quasi fosse esclusivamente suo, che in questo luogo si volge a Dio pei suoi cari, ringraziandolo dei doni, onde li ha ricolmati. E notate che S. Paolo protesta di far ciò non solo spesso, ma continuamente, “semper”, e ringrazia sempre Iddio forse perché i suoi Corinti sono forniti di scienza, ricchi di beni della terra? Oh no! Di questi beni l’Apostolo non parla, non ci pensa nemmeno, egli che chiama “fatua” la scienza del mondo e “spazzatura” tutti i beni temporali, di cui gli uomini sono sì ghiotti. Egli non apprezza che i veri beni, i beni dell’anima, il possesso della verità e della grazia: per questi beni, che i Corinti hanno ricevuto in Gesù Cristo, e per Gesù Cristo, porge continue grazie a Dio. – Dilettissimi! Noi, tutti quanti, siamo raccolti in questo tempio, abbiamo ricevute grazie elette e senza numero per i meriti di Gesù Cristo: è superfluo che io ve le accenni. Ne abbiamo ringraziato l’amoroso e generoso donatore Iddio? O forse siamo vissuti dimentichi, e al maluso delle grazie ricevute abbiamo aggiunto la ingratitudine? Non ci esca dall’animo quella bellissima immagine di S. Bernardo che scrisse: “Origine di tutte le sorgenti e di tutti i fiumi è il mare: origine di tutte le virtù e d’ogni scienza è Gesù Cristo; mercé del ringraziamento e della nostra gratitudine ritorni al suo principio questo fiume celeste dei suoi doni, affinché esso continui ad irrigare la terra (In Cantic, Ser. 13). „ E pur bellissima è l’altra sentenza d’un santo (Imitaz. di Cristo), che dice: “Mezzo efficacissimo per ottenere grazie da Dio è quello di mostrarci grati per quelle che abbiamo ricevute. „ Paolo ringrazia incessantemente Dio dei doni concessi ai Corinti: ora ne specifica due di questi doni, che sono i principali, e ai quali, come conseguenze, sono legati gli altri: “Perché in Lui (Gesù Cristo) siete stati arricchiti in ogni dono di parola e di scienza — Quod in omnibus divites facti estis in illo in omni verbo et omni scientia. „ L’espressione è dura ed oscura, e ci fa sentire la difficoltà, che Paolo ebreo aveva in vestire la verità in una lingua che non era la sua, e che conosceva imperfettamente. Egli vuol dire: “ringrazio Dio che vi ha arricchiti dei suoi doni, e particolarmente e primieramente del dono di aver udita la predicazione evangelica, che riempì la vostra mente della verace scienza, la scienza della salute”. I Corinti pochi anni prima erano immersi nel paganesimo, e paganamente vivevano, ignorando Dio, la propria origine, i propri doveri, il fine per il quale erano creati, i mezzi per giungervi e, conseguenza di tanta ignoranza, era la signoria delle passioni, la corruzione massima dei costumi, tantoché san Paolo in altro luogo ebbe a dire, che vivevano “ut bruta animalia”. Come erano usciti da tanto abbrutimento? come s’erano messi sulla via della virtù e della salvezza? quale il primo principio della loro trasformazione? La parola di verità, che avevano ricevuta da Dio per mezzo di lui, Paolo. Per essa avevano cominciato a conoscere il vero Dio, Gesù Cristo, se stessi, il loro fine: per essa avevano voltate le spalle alle brutture del paganesimo, alle grettezze della legge mosaica: per essa avevano fatto acquisto di quella scienza che vale va bene tutta la scienza dei filosofi più celebrati, che li aveva fatti entrare, come diceva S. Pietro, nella luce ammirabile del suo regno. E questo il senso ovvio delle parole di S. Paolo. Dilettissimi! Questo dono preziosissimo di udire la parola di Dio in omni verbo, e di ricevere per essa la scienza delle scienze, in omni scientia, non l’abbiamo noi come e meglio dei Corinti? Questa parola di verità si fece sentire alle nostre orecchie quando eravamo ancora tra le braccia e sulle ginocchia della madre; continuò a farcisi udire in casa, in chiesa, sui libri, nelle immagini, nei riti sacri, in mille modi, in ogni tempo, in ogni modo, perché nella società privata e pubblica, in cui viviamo, tutto ci parla di Gesù Cristo, tutto ci rammenta i suoi divini insegnamenti. È dunque vero per noi, come e più che per i Corinti, che siamo stati arricchiti d’ogni istruzione e d’ogni scienza in Gesù Cristo, o per opera di Gesù Cristo. Qual uso ne abbiamo fatto? come ci siamo mostrati grati a Dio per sì alto e continuo beneficio? La risposta a voi, figliuoli carissimi. Ascoltiamo ancora l’Apostolo, che prosegue e dice: ” Essendo stata la testimonianza di Cristo ben rassodata in voi — Sicut testimonium Christi confirmatum est in vobis. „ Che significa questa parola, “la testimonianza di Cristo”? Non v’è dubbio, significa l’insegnamento. la dottrina, il Vangelo di Cristo. E perché si chiama testimonianza? Gesù Cristo dice nel Vangelo (S. Giov. III, 11), che è veduto ad attestare ciò che ha veduto nel seno del Padre suo; Egli stesso è chiamato testimonio (Apoc. III, 14); gli Apostoli sono dichiarati suoi testimoni, ed essi stessi nelle loro lettere e negli Atti Apostolici si professano testimoni di ciò che videro e di ciò che udirono da Gesù Cristo; la dottrina adunque di Gesù Cristo, ripetuta dagli Apostoli, conservata ed annunziata perennemente dalla Chiesa è una testimonianza. E meritamente è chiamata testimonianza, perché come le cose, delle quali gli uomini sono testimoni, non sono da loro inventate o foggiate, né loro è lecito aggiungere o levare alcun che, così il Vangelo e la dottrina di Cristo non è inventata o foggiata da lui, né dagli Apostoli o dalla Chiesa, né altri può aggiungervi o levarvi sillaba, perché essa viene da Dio, è opera sua, tutta sua, e come Lui immutabile. L’insegnamento evangelico pertanto è la testimonianza di Gesù Cristo, degli Apostoli e della Chiesa, e passando di bocca in bocca, di libro in libro, è sempre lo stesso, né perde, né acquista, come un raggio di sole che attraversi migliaia di cristalli. Questa testimonianza o dottrina di Cristo, dice S. Paolo, ora è stabilita e rassodata in voi, o Corinti: in altre parole, ringrazio Dio che mediante la mia predicazione, la fede di Gesù Cristo è fondata e saldamente fondata in voi, e in essa avete il massimo dei doni celesti. Ponete mente a quella frase di S. Paolo: “La testimonianza, ossia la fede di Cristo, è rassodata in voi. „ È una lode, e grande, che S. Paolo fa ai Corinti, di essere saldi nella fede. La fede è la sostanza, ossia il sostegno e la base delle cose che speriamo, ed è l’argomento, cioè la ragione che ci fa tenere come certe le cose che non vediamo, nè conosciamo col solo lume della ragione; così fu definita la fede dall’Apostolo (Heb. XI, 1). Perché ammetti tu che vi è il sole, la terra, il mare? Perché li vedi! Perchè ammetti tu che due linee parallele non si possono incontrare, che un effetto deve avere la sua causa, che due aggiunti a due ti danno quattro? Perché con la ragione vedi che è così e non può essere altrimenti! Perché ammetti tu che vi è il Giappone, un fiume che si chiama Nilo, un impero che si dice Brasile, benché non li abbia mai veduti? Perché te lo affermano a voce ed in iscritto tanti testimoni, che non ti vogliono, né ti possono ingannare. La loro affermazione è il saldo appoggio della tua persuasione e certezza. Ora Gesù Cristo, gli Apostoli e tutta la Chiesa, ti annunziano un gran numero di dottrine che tu non puoi comprendere: ma essi ti assicurano che sono verità, ti danno in prova miracoli senza numero, certissimi, e che sono come la voce di Dio: perché la loro affermazione, confortata da tante e sì magnifiche prove, non basteranno a guadagnare il tuo assenso pieno e perfetto? Credi a due o tre testimoni ciò ch’essi ti dicono, affermando d’averlo veduto od udito: e non crederai a Gesù Cristo, agli Apostoli, ai martiri, alla Chiesa ciò ch’essi ti insegnano ed affermano d’aver veduto od udito? La nostra fede adunque, appoggiandosi alla parola di Gesù Cristo, degli Apostoli, dei martiri, della Chiesa, che non possono ingannarsi né possono ingannare, deve essere ferma, salda, incrollabile. Dio l’ha detto, Gesù Cristo l’ha insegnato, la Chiesa ce lo ripete; non domandiamo altro; crediamo con tutta la fermezza! Ondeggiare nel dubbio sulla verità di ciò che m’insegna Gesù Cristo per mezzo della Chiesa sarebbe un’offesa gravissima a Lui, che è la stessa verità. Dunque, o carissimi, che la nostra fede sia ferma, immobile, fondata  sulla pietra, che nessuno potrà mai smuovere o spezzare, che è la Chiesa, che è Gesù Cristo stesso. Ma è da ritornare al nostro maestro, san Paolo, che continua, scrivendo: “A talché non manchi dono alcuno a voi — Ita ut nihìl vobis desit in ulla gratia. „ Se il Vangelo o, che è lo stesso, la fede sarà in voi saldamente stabilita, e tale da reggere ad ogni urto e ad ogni insidia, con essa avrete ogni altro bene, ogni altro dono. La ragione è chiara: la fede viva, robusta, diceva Cristo, può trasportare i monti, tutto ella può: “Omnia possibilia credenti”. Essa genera la speranza, accende la carità, germoglia le opere, forma i santi, crea i martiri; datemi un uomo che abbia la fede di Abramo, e lo troverete pronto ad immolare, se è necessario, il figlio: che abbia la fede di Pietro, e lo vedrete camminare sulle acque; che abbia la fede di Paolo, e lo vedrete ogni giorno morire per Cristo, ogni giorno soffrendo ed immolandosi per Lui. Con la fede viva non mancherà nulla a voi, scrive S. Paolo, a voi “che aspettate la rivelazione del Signor nostro Gesù Cristo. „ Noi tutti, che crediamo in Gesù Cristo, che cosa aspettiamo noi? Aspettiamo la rivelazione di Gesù Cristo, vale a dire la sua seconda venuta come Giudice supremo, che darà a ciascuno ciò che gli si deve in ragion delle opere sue. Con la prima sua venuta sulla terra, con la grazia che continuamente spande in noi, Gesù Cristo sparge il buon seme sulla terra: questa è opera grande sì, ma quasi sempre occulta: chi vede la fede, la grazia nei cuori? Nessuno; ne vediamo alcun poco i frutti, ma non sempre, né tutti, ed alcuna volta sono anche ingannevoli. Alla fine dei tempi verrà il supremo Seminatore, si manifesterà in tutta la grandezza della sua gloria, ed allora con Lui e per Lui, sotto gli splendori dell’infinita sua luce, si riveleranno tutte le opere nostre, buone o cattive, e si farà il giudizio, giudizio irrevocabile. Quella sarà la manifestazione per eccellenza, la manifestazione di Gesù Cristo, della sua grazia e della sua provvidenza, e la manifestazione della nostra vita, di maniera che né in cielo, né in terra rimarrà più cosa alcuna che non sia perfettamente manifesta. “Il quale (Gesù Cristo) vi confermerà fino all’ultimo, senza colpa, nella manifestazione del Signor nostro Gesù Cristo. „ – E l’ultimo versetto che ci resta da spiegare. Con la sua grazia, con la sua fede fermissima, Gesù Cristo vi terrà saldi in mezzo alle prove e alle battaglie di questa vita fino alla fine, fino alla morte: “Confirmabit vos usque in finem”, serbandovi mondi d’ogni colpa, sine crimine, fino al dì della ricompensa, che avrete alla venuta di Lui. – È questo il dono della perseveranza finale, che nessuno di noi può meritare, come nessuno può meritare la prima grazia. È Dio che comincia l’opera della nostra salute, e la comincia con la sua grazia, senza alcun nostro merito: Egli la prosegue con la nostra cooperazione, ed Egli la compie, coronando in noi i frutti della sua grazia. Il compire felicemente il nostro corso e finire i nostri giorni nella grazia ed amicizia di Dio è suo dono; ma è tal dono ch’Egli, nell’immensa sua misericordia, non ricusa ad alcuno dei suoi figli, purché dal canto loro facciano ciò che possono. No, Dio non fa come gli uomini, che talvolta mettono mano ad un’opera e poi la lasciano, cominciano un edilizio e poi l’abbandonano a mezzo; Egli, quando comincia un’opera, per quanto è da sé, la continua e la conduce a perfezione: se resta incompiuta, dite pure che rimane tale contro la sua volontà, e per colpa d’altri. Cominciare un’opera e lasciarla imperfetta non è da Dio che è la stessa perfezione, e perciò tutto vuole perfetto in cielo ed in terra. Ora è fuori di dubbio ch’Egli ha cominciato l’opera della nostra salvezza, perché siamo stati battezzati, e abbiamo tutti, quanti siamo qui raccolti, ricevuta la prima grazia: è dunque fuori di dubbio ch’Egli vuole proseguire quest’opera e compirla col dono ultimo e massimo della perseveranza. – L’avremo noi questo dono, corona di tutti gli altri? L’ultimo dì, l’ultimo istante di nostra vita saremo noi trovati “sine crimine”, senza colpa, adorni della grazia, amici e figli di Dio? Dio solo lo sa: ma noi pure sappiamo ch’Egli lo vuole, e che l’essere trovati veramente tali dipende da noi. Nessuno si affanni e si angusti, dicendo: “persevererò io sino alla fine? Morrò io nella grazia di Dio?” A che, cristiano, ti turbi e ti consumi in questi pensieri? Getta le tue cure in Dio, come ti dice S. Pietro; Dio ti ha creato per il cielo: Dio abbonda e sovrabbonda con la sua grazia: ti ama come un padre, anzi come una madre il loro figlio: per salvarti è morto per te. Di che dunque temi? — “Temo per me, per la mia debolezza, per le mie passioni”. — E sta bene che tu tema di te, ma non mai per guisa che il timore ti affanni soverchiamente e ti opprima. Tien sempre a mente, che Dio conosce la tua debolezza più assai che non la conosca tu stesso, e pari alla debolezza sarà l’aiuto della grazia, e che è verità certa: A nessuno che faccia dal lato suo ciò che può il buon Dio rifiuta la sua grazia.

Graduale
Ps CXXI:1; 7
Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.
V. Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. Allelúja, allelúja
Alleluja

Ps CI:16
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.
Allelúja. [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: e tutti i re della terra la tua gloria. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt IX:1-8
“In illo témpore: Ascéndens Jesus in navículam, transfretávit et venit in civitátem suam. Et ecce, offerébant ei paralýticum jacéntem in lecto. Et videns Jesus fidem illórum, dixit paralýtico: Confíde, fili, remittúntur tibi peccáta tua. Et ecce, quidam de scribis dixérunt intra se: Hic blasphémat. Et cum vidísset Jesus cogitatiónes eórum, dixit: Ut quid cogitátis mala in córdibus vestris? Quid est facílius dícere: Dimittúntur tibi peccáta tua; an dícere: Surge et ámbula? Ut autem sciátis, quia Fílius hóminis habet potestátem in terra dimitténdi peccáta, tunc ait paralýtico: Surge, tolle lectum tuum, et vade in domum tuam. Et surréxit et ábiit in domum suam. Vidéntes autem turbæ timuérunt, et glorificavérunt Deum, qui dedit potestátem talem homínibus”.
[In quel tempo: Gesú, salito su una barca, ripassò il lago, e andò nella sua città. Quand’ecco gli presentarono un paralitico giacente nel letto. Veduta la loro fede, Gesú disse al paralitico: Figlio, confida: ti sono perdonati i tuoi peccati. Súbito alcuni scribi dissero in cuor loro: Costui bestemmia. E Gesú, avendo visto i loro pensieri, rispose: Perché pensate male in cuor vostro? Cos’è piú facile dire: Ti sono perdonati i tuoi peccati, o dire: Alzati e cammina? Ora, onde sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sopra la terra di rimettere i peccati: Sorgi, disse al paralitico, piglia il tuo letto e vattene a casa tua. E quegli si alzò e se ne andò a casa sua. Vedendo ciò le turbe si intimorirono e glorificarono Iddio che diede agli uomini tanto potere.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo IX, 1-8)

Carità verso gli Infermi

Due esempi assai luminosi di carità ci presenta la odierna evangelica storia. Il primo nella persona di alcuni uomini di Cafarnao, che adoprano ogni fatica ed ogn’industria per procurare la sanità di un povero paralitico, con recarlo al cospetto di Gesù Cristo. Il secondo in Gesù Cristo medesimo, che rimette i peccati a quel misero infermo, e spiritualmente lo risana. Il primo esempio riguarda la salute corporale, il secondo la spirituale. Ed ecco in ciò tutta la nostra istruzione. Quando il Signore visita le nostre famiglie con qualche malattia, come sono trattati i nostri infermi in rapporto al corpo? Come sono trattati riguardo all’anima? Vediamo se possiamo paragonarci ai pietosi Cafarnaiti per la carità corporale, e al misericordioso Redentore per la spirituale carità. Ohimè! Uditori miei cari, che io temo invece di questa doppia carità, di riscontrare in alcuno di voi una vera e forse non conosciuta crudeltà! L’importante argomento richiede tutta la vostra attenzione.

.I. – Il primo esempio di una carità tutta singolare, ed oltre modo industriosa ci presentano i già indicati uomini di Cafarnao. Quattro di questi, come narra l’Evangelista S. Marco (II, 3), toltosi sulle braccia un paralitico disteso nel suo letticciuolo vogliono presentarlo al divin Salvatore; ma la casa, ove Egli trovavasi era così piena zeppa di popolo, che per ogni tentativo e sforzo immaginabile non fu possibile romper la folla, e farsi strada. Ma che? Si avvidero di una scala esteriore, che portava fino alla sommità della medesima casa. Ivi giunti, scoprirono il tetto e, fatta una larga apertura, calarono giù con funi il letto e l’infermo ai piedi di Gesù Cristo. – Che dite, ascoltanti, di questa carità? È tale la vostra per procurare a qualche infermo di vostra famiglia la corporale salute? Vi spinge a tentar ogni mezzo, a cercar ogni modo, onde possa ricuperare la pristina sanità? Sì, è tale; ma quando? Quando si tratta di persona a voi necessaria, che con le fatiche o con il traffico o con l’impiego sostiene la casa, e guai se venisse a mancare: soffrirebbe un rovescio la desolata famiglia. Io non condanno, lodo anzi la vostra sollecitudine, il vostro impegno per quell’infermo a voi sì caro e necessario. Ma se questa stessa persona, cotanto cara e vantaggiosa, per vecchiezza, o per altro infausto accidente, si rende inabile, come l’odierno paralitico, e divenga inutile, non è egli vero che svaniscono allora tutte le cure, le assistenze, i soccorsi, e si riguarda come un imbarazzo di casa, come un peso notevole, di cui non vedete l’ora di esserne sgravati? Così avvenne al S. Giobbe: finché come principe Idumeo colle sue ricchezze fu occhio al cieco, piede allo zoppo, padre dell’orfano e del pupillo, sostegno delle vedove, consolator dei miseri, riscosse da tutti stima, venerazione ed applausi. Quando poi spogliato di tutti i suoi beni, coperto di piaghe, lo videro steso su di vile letamaio, i falsi amici e perfino l’insultante consorte, lo abbandonarono in braccio alla sua miseria ed al suo dolore. “Fratres mei præterierunt me sicut torrens, qui raptim transit in convallibus” (Job. VI, 13). I miei più cari (se ne lagnò dolcemente quest’esemplare di pazienza), i miei più stretti congiunti mi hanno trattato in quella guisa che si usa con un torrente. Finché questo nell’aprile, o nell’autunno abbonda di acque, ad esse accorre il pastore per abbeverare la greggia, il contadino per innaffiare le piante; poi nella estate arsiccia manca e si dissecca, l’alveo suo asciutto viene calpestato dal contadino, dal viandante, dal pastore e dall’armento: “Præterierunt me sicut torrens”. – “Ma, direte voi, se vi trovaste presente a vedere quanto son tediosi e incontentabili i nostri infermi, e singolarmente i vecchi; se udiste il continuo loro brontolare, e le indiscrete loro lagnanze, degnereste di qualche compassione quei che debbono trattare con essi e loro prestare assistenza e servitù. Si rifletta inoltre che abbiamo i nostri affari, campagna, impieghi, negozi, e non possiamo trovarci sempre ad essi intorno”.E se vi dirò che quel tanto che asserite difficile, aspro, gravoso e quasi impossibile, l’avete già praticato, che risponderete? Vi sovviene di quella vostra vecchia parente a letto inferma? Per aver parte nel suo testamento, o donazione irrevocabile dei suoi beni, quanti giorni perdeste, quante notti vegliaste, quanta pazienza, quanta buona grazia usata avete per non disgustarla, per incontrare il suo genio! Non vi han ritirato dall’assisterla né le sue querele, né i mali odori, né i più bassi servigi.Confessate adunque che la brama di divenire eredi, che la mira alle sue sostanze, che, in una parola, l’interesse è quella gran molla che vi ha fatto agire, sopportare, e tutto vi ha reso facile e leggiero. Ha bel dire l’Apostolo che la carità è paziente, è benigna, e tutto soffre, e tollera tutto: “Charitas patiens est, benigna est … omnia suffert, omnia sustinet” (Ad Cor. XIII, 4. 7.) Tutto ciò nella massima parte de cristiani opera bensì l’interesse, ma non la carità. O nostra confusione!

.II. –  Il secondo esempio di carità l’abbiamo nella Persona di Gesù Cristo. Appena Egli si vide innanzi in quella strana forma il paralitico, “confida, gli disse, confide fili, remittuntur tibi peccata tua”. Figliuol mio, abbi fede, i tuoi peccati ti son rimessi. Ma come, mio buon Salvatore? Vi vien cercata la salute del corpo, e Voi cominciate a dargli quella dell’anima? Per nostra istruzione parla ed opera così il nostro divin Maestro, e ci avvisa che più della corporal sanità, ci deve star a cuore la salvezza dell’anima. – Che diremo ora di quei cristiani, i quali avendo in casa un infermo colto da grave malattia, non l’avvisano del suo pericolo, e non si curano, o neppur pensano a farlo munire dei SS. Sacramenti? Più che da dire, vi sarebbe da piangere. – Qual è l’ordinario costume del mondo, allorché giace a letto un infermo? Accorrono i congiunti, gli amici, portati da un certo dovere di parentado e di urbanità; le prime visite passano in complimenti: i discorsi sogliono aggirarsi sulle novelle della città o dei pubblici fatti; indi parlando della qualità del morbo: “Eh, dice uno, questa è una febbre effimera, il sudore è in moto, ben presto sarete franco. Il polso non mi dispiace, ripiglia un altro, la lingua è morbida, fatevi, coraggio, non c’è luogo a temere”. Si lagna però il povero infermo, che oppresso nell’animo, tormentato nel corpo non trova riposo. Ed ecco nuove lusinghe: “buon segno quanto il male si sente: avete più apprensione che male, non temete, una nuova crisi vi libera affatto, fra pochi giorni ci rivedremo al ridotto, alla caccia, alla villeggiatura”. Ad un infermo aggravato si parla, così? Sapete che parlare è questo? Ve lo dirò con tutto rispetto, ma insieme con tutta verità. Quest’è un parlare da demonio. Udite con pazienza. – Colà nel terreno paradiso disse ai nostri progenitori il grande Iddio: “In quel giorno, che voi gusterete il frutto di quest’albero, che vi proibisco, sarete colti da inevitabile morte: “Morte moriemini”. Eva parlando di quel pomo col rio serpente. “Se noi, disse, ci diamo a mangiarne, forse morremo”: “Ne forte moriamur”. Il demonio nel corpo del serpente l’assicura, che non saranno soggetti alla morte: “Nequaquim moriemini”. Osservate, Iddio parla con affermativa certezza, Eva con dubbio, il demonio con negativa sicurezza. Io non dico che parliate come Dio con affermare, che quel malato morrà: a Dio solo è noto l’avvenire; ma nemmeno dovete parlar da demonio con assicurarlo che non morrà. Parlate, se vi piace, all’umana, come Eva in senso dubbioso: non fate il profeta né per la morte, né per la vita: dite, che essendo la malattia seria, pericolosa, sarebbe bene provvedere ad ogni sinistro avvenimento: che i santi Sacramenti giovano anche alla salute del corpo, che in pericolo di morte corre stretta obbligazione di riceverli, che il male potrebbe occupare la testa, e non esser più in tempo. – Se tale sarà il vostro linguaggio, sarà da uomini sensati, sarà da buoni cristiani; ma lusinghe no, ma sicurezze … molto meno, per non parlare da demoni. – Torniamo all’infermo. Le buone parola, le buone speranze non lo fanno star meglio: cominciano i vaneggiamenti, succedono i deliqui, crescono i sintomi maligni: il medico stringe le labbra, dimena il capo, dà a conoscere che ne teme, e ne dispera. Chi si accosta intanto al letto di questo moribondo? Chi l’avvisa del suo pericolo? Chi esorta quest’anima ad aggiustar le partite di sua coscienza, a prepararsi con buona confessione al gran passaggio dal tempo all’eternità? Dove troveremo noi un altro Isaia, che si conduce alla stanza dell’infermo re di Giuda, e “via su, gli intima, disponetevi alla partenza, che la morte a voi si avvicina!” – “Dispone domui tuæ, quia morieris tu, et non vives(Is. XXXVIII, 1). Pensate: piange la moglie nell’estrema desolazione, piangono i figli e non hanno cuore, si scusano i parenti, si ritirano gli amici, il medico si affida al confessore, il confessore riposa sul medico, e intanto il povero moribondo fa strada, e se ne va, senza saperlo, in braccio alla morte ed alla eternità. – Lo so: egli è questo un tremendo castigo della divina giustizia per chi aspetta a ravvedersi in quegli estremi, castigo, per cui chi più ne abbisogna è meno avvertito. Ad un uomo dabbene, ad un buon cristiano niuno ha difficoltà di parlare di confessione, e del santo viatico. – Ad un uomo di mondo, massime di qualche qualità secondo il mondo, ognun si ritira, ognuno si scusa. Castigo di Dio per parte del moribondo, crudeltà per conto di chi l’assiste. Non si fa già così quando lo stesso infermo giace sepolto in mortale letargo. Si adopera allora ogni più violento rimedio per invogliarlo e toglierlo dalle fauci di morte; e perché non si fa altrettanto per destarlo da peggiore letargo di morte spirituale ed eterna? Avete timore di disgustarlo? “Meglio, dice S. Agostino, esser severo con carità, che ingannar con dolcezza”: “Melius est cum severitate diligere, quam cum suavitate decìpere(Lib. IX, conf.). Indorate quanto volete la pillola amara, ma non cessate di porgerla. Eppure qualche volta si avvisa. Ma chi dà la spinta all’avviso? La carità? Eh pensate: fra tanti parenti, amici o vicini, v’è finalmente chi dice: “Olà, l’infermo fa cammino, va a precipizio, e non si parla ancor di Sacramenti?” Che si dirà di voi, padre, madre, figli, consorte, se lo lasciate morir così? Tutti la colpa in faccia al parentado e presso il pubblico sarà la vostra, tutto il vostro il disonore. Ho inteso. L’umano rispetto ottiene la carità. Ma ohimè! il malato è già ai momenti estremi, presto confessori, sacerdoti, Sacramenti: ma il confessore non si trova, non si sa chi sia, o non giunge a tempo, e l’infelice se ne muore senza alcuno spirituale aiuto, senz’alcun sussidio della Chiesa, e senza neppure aver potuto salvare l’apparenza. O parenti crudeli, o nemici del proprio sangue! “Inimici hominis, domestici eius” (Matt. X, 31). – Ah! fedeli amatissimi, imitiamo i pietosi Cafarnaiti in procurare ai nostri infermi la sanità corporale, ma ad esempio di Gesù Cristo siamo assai più solleciti della salute dell’anima, e della loro eterna salvezza. Sia nostra premura l’avvertirli in tempo, acciò possano ben disporsi a ricevere salutarmente i santi Sacramenti, e a noi non resti il rancore di averli abbandonati nel maggior bisogno, la colpa di averli privati di tanto bene, il rimorso della loro forse eterna dannazione.

Credo …

Offertorium
Orémus
Exodi XXIV:4; 5
Sanctificávit Móyses altáre Dómino, ófferens super illud holocáusta et ímmolans víctimas: fecit sacrifícium vespertínum in odórem suavitátis Dómino Deo, in conspéctu filiórum Israël.
[Mosè edificò un altare al Signore, offrendo su di esso olocausti e immolando vittime: fece un sacrificio della sera, gradevole al Signore Iddio, alla presenza dei figli di Israele.]

Secreta
Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes éfficis: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur. [O Dio, che per mezzo dei venerandi scambii di questo sacrificio, ci rendi partecipi della tua sovrana e unica divinità, concedi, Te ne preghiamo, che, come conosciamo la verità, cosí la conseguiamo con degna condotta.]

Communio
Ps XCV:8-9
Tóllite hóstias, et introíte in átria ejus: adoráte Dóminum in aula sancta ejus.
[Prendete le vittime ed entrate nel suo atrio: adorate il Signore nel suo santo tempio.]

Postcommunio
Orémus.
Grátias tibi reférimus, Dómine, sacro múnere vegetáti: tuam misericórdiam deprecántes; ut dignos nos ejus participatióne perfícias.
[Nutriti del tuo sacro dono, o Signore, Te ne rendiamo grazie, supplicando la Tua misericordia di renderci degni di raccoglierne il frutto.]

FESTA DEL SANTO ROSARIO [7 ottobre 2017]

FESTA DEL SANTO ROSARIO

[Dom Guéranger, l’Anno liturgico, vol. II, ed. Paoline, Alba, impr. 1956]

Devozione della Chiesa per Maria.

La Liturgia nel corso dell’anno ci ha mostrato più volte che Gesù e Maria sono così uniti nel piano divino della Redenzione che si incontrano sempre insieme ed è impossibile separarli sia nel culto pubblico che nella devozione privata. La Chiesa, che proclama Maria Mediatrice di tutte le grazie, la invoca continuamente per ottenere i frutti della Redenzione che con il Figlio ha acquistati. Comincia sempre l’anno liturgico col tempo di Avvento, che è un vero mese di Maria, invita i fedeli a consacrarle il mese di maggio, ha disposto che il mese di ottobre sia il mese del Rosario e le feste di Maria nel Calendario Liturgico sono così numerose che non passa un giorno solo dell’anno, senza che Maria in qualche luogo della terra sia festeggiata sotto un titolo o sotto un altro, dalla Chiesa universale, da una diocesi o da un Ordine religioso.

La festa del Rosario.

La Chiesa riassume nella festa di oggi tutte le solennità dell’anno e, con i misteri di Gesù e della Madre sua, compone come un’immensa ghirlanda per unirci a questi misteri e farceli vivere e una triplice corona, che posa sulla testa di Colei, che il Cristo Re ha incoronata Regina e Signora dell’universo, nel giorno del suo ingresso in cielo. Misteri di gioia che ci riparlano dell’Annunciazione, della Visitazione, della Natività, della Purificazione di Maria, di Gesù ritrovato nel tempio; Misteri di dolore, dell’agonia, della flagellazione, della coronazione di spine, della croce sulle spalle piagate e della crocifissione; Misteri di gloria, cioè della Risurrezione, dell’Ascensione del Salvatore, della Pentecoste, dell’Assunzione e dell’incoronazione della Madre di Dio. Ecco il Rosario di Maria.

Storia della festa.

La festa del Rosario fu istituita da san Pio V, in ricordo della vittoria riportata a Lepanto sui Turchi. È cosa nota come nel secolo XVI, dopo avere occupato Costantinopoli, Belgrado e Rodi, i Maomettani minacciassero l’intera cristianità. Il Papa San Pio V, alleato con il re di Spagna Filippo II e la Repubblica di Venezia, dichiarò la guerra e Don Giovanni d’Austria, comandante della flotta, ebbe l’ordine di dar battaglia il più presto possibile. Saputo che la flotta turca era nel golfo di Lepanto, l’attaccò il 7 ottobre del 1751 presso le isole Echinadi. Nel mondo intero le confraternite del Rosario pregavano intanto con fiducia. I soldati di Don Giovanni d’Austria implorarono il soccorso del cielo in ginocchio e poi, sebbene inferiori per numero, cominciarono la lotta. Dopo 4 ore di battaglia spaventosa, di 300 vascelli nemici solo 40 poterono fuggire e gli altri erano colati a picco mentre 40000 turchi erano morti. L’Europa era salva. – Nell’istante stesso in cui seguivano gli avvenimenti, san Pio V aveva la visione della vittoria, si inginocchiava per ringraziare il cielo e ordinava per il 7 ottobre di ogni anno una festa in onore della Vergine delle Vittorie, titolo cambiato poi da Gregorio XIII in quello di Madonna del Rosario.

Il Rosario.

L’uso di recitare Pater e Ave Maria risale a tempi remotissimi, ma la preghiera meditata del Rosario come noi l’abbiamo oggi è attribuita a san Domenico. È per lo meno certo che egli molto lavorò con i suoi religiosi per la propagazione del Rosario e che ne fece l’arma principale nella lotta contro gli eretici Albigesi, che nel secolo XIII infestavano il sud della Francia. – La pia pratica tende a far rivivere nell’anima nostra i misteri della nostra salvezza, mentre con la loro meditazione si accompagna la recita di decine di Ave Maria, precedute dal Pater e seguite dal Gloria Patri. A prima vista la recita di molte Ave Maria può parere cosa monotona, ma con un poco di attenzione e di abitudine, la meditazione, sempre nuova e più approfondita, dei misteri della nostra salvezza, porta grandiosità e varietà. D’altra parte si può dire che nel Rosario si trova tutta la Religione e come la somma di tutto il Cristianesimo. – Il Rosario è una somma di fede: Riassunto cioè delle verità che noi dobbiamo credere, che ci presenta sotto forma sensibile e vivente. Le espone unendovi la preghiera, che ottiene la grazia per meglio comprenderle e gustarle. – Il Rosario è una somma di morale: Tutta la morale si riassume nel seguire e imitare Colui, che è « la Via, la Verità, la Vita » e con la preghiera del Rosario noi otteniamo da Maria la grazia e la forza di imitare il suo divino Figliolo. – Il Rosario è una somma di culto: Unendoci a Cristo nei misteri meditati, diamo al Padre l’adorazione in spirito e verità, che Egli da noi attende e ci uniamo a Gesù e Maria per chiedere, con loro e per mezzo loro, le grazie delle quali abbiamo bisogno. – Il Rosario sviluppa le virtù teologali e ci offre il mezzo di irrobustire la nostra carità, fortificando le virtù della speranza e della fede, perché « con la meditazione frequente di questi misteri l’anima si infiamma di amore e di riconoscenza di fronte alle prove di amore che Dio ci ha date e desidera con ardore le ricompense celesti, che Cristo ha conquistate per quelli che saranno uniti a Lui, imitando i suoi esempi e partecipando ai suoi dolori. In questa forma di orazione la preghiera si esprime con parole; che vengono da Dio stesso, dall’Arcangelo Gabriele e dalla Chiesa ed è piena di lodi e di domande salutari, mentre si rinnova e si prolunga in ordine, determinato e vario nello stesso tempo, e produce frutti di pietà sempre dolci e sempre nuovi » (Enciclica Octobri mense del 22 settembre 1891). – Il Rosario unisce le nostre preghiere a quelle di Maria nostra Madre. « Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi poveri peccatori ». Ripetiamo con rispetto il saluto dell’Angelo e umilmente aggiungiamo la supplica della confidenza filiale. Se la divinità, anche se incarnata e fatta uomo, resta capace di incutere timore, quale timore potremmo avere di questa donna della stessa nostra natura, che ha in eterno il compito di comunicare alle creature le ricchezze e le misericordie dell’Altissimo? Confidenza filiale. Sì, perché l’onnipotenza di Maria viene dal fatto di essere Madre di Gesù, l’Onnipotente, e ha diritto alla nostra confidenza, perché è nello stesso tempo nostra Madre, non solo in virtù del testamento dettato da Gesù sulla Croce, quando disse a Giovanni: « Ecco tua Madre » e a Maria: « Ecco tuo figlio », ma ancora perché nell’istante dell’Incarnazione, la Vergine concepì, insieme con Gesù, tutta l’umanità, che egli incorporava a sé. – Membri del Corpo mistico di cui Cristo è il capo, siamo stati formati con Gesù nel seno materno della Vergine Maria e vi restiamo fino al giorno della nostra nascita alla vita eterna. Maternità spirituale, ma vera, che ci mette con la Madre in rapporti di dipendenza e di intimità profondi, rapporti di bambino nel seno della Madre. – Qui è il segreto della nostra devozione per Maria: è nostra Madre e come tale sappiamo di poter tutto chiedere al suo amore, perché siamo suoi figli! – Ma, se la madre, appunto perché madre, pensa necessariamente ai suoi figli, i figli, per l’età, son facili a distrarsi e il Rosario è lo strumento benedetto che conserva la nostra intimità con Maria e ci fa penetrare sempre più profondamente nel suo cuore. – Strumento divino il Rosario che la Vergine porta in tutte le sue apparizioni da un secolo in qua e che non cessa di raccomandare. Strumento della devozione cattolica per eccellenza, in cui l’umile donna senza istruzione e il sapiente teologo sono a loro agio, perché vi trovano il cammino luminoso e splendido, la via mariana, che conduce a Cristo e, per Cristo al Padre. – Così considerato il Rosario realizza tutte le condizioni di una preghiera efficace, ci fa vivere nell’intimità di Maria e, essendo essa Mediatrice, suo compito è di condurci a Dio, di portare le nostre preghiere fino al cuore di Dio. Per Maria diciamo i Pater, che inquadrano le decine di Ave Maria, e, siccome quella è la preghiera di Cristo e contiene tutto ciò che Dio volle che noi gli chiedessimo,

noi siamo sicuri di essere esauditi.

MESSA

Epistola (Prov. VIII, 22-25; 32-35). – Il Signore mi possedette all’inizio delle sue opere, fin dal principio, avanti la creazione. Ab eterno fui stabilita, al principio, avanti che fosse fatta la terra. Non erano ancora gli abissi, ed io ero già concepita. Or dunque, o figli, ascoltatemi: Beati quelli che battono le mie vie. Ascoltate i miei avvisi per diventare saggi: non li ricusate. Beato l’uomo che mi ascolta e veglia ogni giorno alla mia porta, e aspetta all’ingresso della mia casa. Chi troverà me, avrà trovato la vita, e riceverà dal Signore la salute.

Maria nel compito di educatrice.

Non si può eludere il carattere mariano di questa pagina dei Proverbi, obiettando che si applica al Verbo Incarnato e solo per accomodamento la Chiesa la riferisce alla Santa Vergine. La Chiesa non fa giochi di parole e la Liturgia non si diverte a far bisticci. Trattandosi di vite, che nel pensiero di Dio e nella realtà sono unite insieme, come le vite del Signore e della Madre sua unite nello stesso decreto di predestinazione, il senso accomodatizio è in sé e deve esserlo per noi uno degli aspetti multipli del senso letterale. « Giova a noi, per onorare Maria, considerarla agente della nostra educazione soprannaturale. Noi non siamo mai grandi per Dio, né per la nostra madre, né per la Madre di Dio. Come non vi è Cristianesimo senza la Santa Vergine così se l’amore di Dio non è accompagnato da un tenero amore per la Santa Vergine qualsiasi vita soprannaturale è in qualche modo mancante. « Maria è tutto quello che Essa insegnerà a chi l’ascolta e l’ama: l’esempio, la carità, l’influenza persuasiva… – « Maria ha educato il Figlio ed educherà noi. Non si resiste ad una Madre» (Dom Delatte, Omelie sulla Santa Vergine, Plon, 1951).

Parole benedette.

Il Vangelo è quello del Santo nome di Maria del 12 settembre. È il Vangelo dell’Incarnazione del quale rileggiamo volentieri le parole. Parole benedette perché vengono da Dio: L’Angelo infatti ne è soltanto il messaggero; parole e messaggio gli sono stati affidati da Dio. Parole benedette perché vengono da Maria, che, sola, poté riferire con ferma precisione di dettagli, che rivelano un testimonio e una esperienza immediata.

Messaggio di gioia.

« Questo messaggio è un messaggio di gioia. La gioia mancava nel mondo da molto tempo: era sparita dopo il primo peccato. Tutta l’economia dell’Antico Testamento e tutta la storia dell’umanità portavano un velo di tristezza, perché era continuamente presente all’uomo la coscienza di una inimicizia nei suoi rapporti con Dio, che doveva ancora essere espiata. Il messaggio è preceduto da un saluto pieno di gioia e da una parola pacifica, carezzevole: Ave. Questo Ave, primo elemento del messaggio, detto una volta, verrà poi ripetuto per l’eternità.

La fede di Maria.

« La fede di Maria fu perfetta e non dubitò della verità divina neppure nel momento in cui chiedeva all’Angelo come si poteva compiere il messaggio. Gabriele rivelò il modo verginale della concezione promessa, sollecitando il consenso della Vergine per l’unione ipostatica, perché, per l’onore della Vergine e per l’onore della natura umana. Dio voleva avere da Maria il posto che avrebbe occupato nella sua creazione. E allora fu pronunziata con libertà e con consapevolezza la parola, che farà eco fino all’eternità: « Io sono l’umile ancella del Signore: sia fatto secondo la sua volontà » (Dom. Delatte. Opere citate).

Preghiera alla Vergine del Rosario.

Ti saluto, o Maria, nella dolcezza del tuo gioioso mistero e all’inizio della beata Incarnazione, che fece di te la Madre del Salvatore e la madre dell’anima mia. Ti benedico per la luce dolcissima che hai portato sulla terra. – O Signora di ogni gioia, insegnaci le virtù che danno la pace ai cuori e, su questa terra, dove il dolore abbonda, fa’ che i figli camminino nella luce di Dio affinché, la loro mano nella tua mano materna, possano raggiungere e possedere pienamente la meta cui il tuo cuore li chiama, il Figlio del tuo amore, il Signore Gesù. – Ti saluto, o Maria, Madre del dolore, nel mistero dell’amore più grande, nella Passione e nella morte del mio Signore Gesù Cristo. – Unendo le mie lacrime alle tue, vorrei amarti in modo che il mio cuore, ferito come il tuo dai chiodi che hanno straziato il mio Salvatore, sanguinasse come sanguinano quelli del Figlio e della Madre. Ti benedico, o Madre del Redentore e Corredentrice, nel purpureo splendore dell’Amore crocifisso, ti benedico per il sacrificio, accettato al tempio ed ora consumato con l’offerta alla giustizia di Dio, del Figlio della tua tenerezza e della tua verginità, in olocausto perfetto. – Ti benedico, perché il sangue prezioso che ora cola per lavare i peccati degli uomini, ebbe la sua sorgente nel tuo Cuore purissimo. Ti supplico, o Madre mia, di condurmi alle vette dall’amore che solo l’unione più intima alla Passione e alla morte dell’amato Signore può far raggiungere. – Ti saluto, Maria, nella gloria della tua Regalità. II dolore della terra ha ceduto il posto a delizie infinite e la porpora sanguinante ti ha tessuto il manto meraviglioso, che si addice alla Madre del Re dei re e alla Regina degli Angeli. Permetti che levi i miei occhi verso di te durante lo splendore dei tuoi trionfi, o mia amabile Sovrana, e diranno i miei occhi, meglio di qualsiasi parola, l’amore di figlio, il desiderio di contemplarti con Gesù nell’eternità, perché tu sei Bella, perché sei Buona, o Clemente, o Pia, o Dolce Vergine Maria.

LA BATTAGLIA DI LEPANTO

La battaglia di Lepanto.

[da: C. Castiglioni: Storia dei Papi, II vol. – UTET ed. Torino, 1957, impr.]

Una grave minaccia incombeva da oltre un secolo sul cattolicesimo e su tutta l’Europa cristiana, l’invasione turca. Pio V fu uno dei papi che più energicamente ed efficacemente diedero opera a sventare quella minaccia. Nel secondo mese del suo pontificato scriveva a Giovanni La Vallette, Gran Maestro de’ Cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, per incitarlo a resistere in Malta che era assalita dai Turchi. Gli prometteva soccorsi da parte del re cattolico; metteva a disposizione per l’impresa 57.000 scudi d’oro e autorizzava il La Vallette a chiedere in Francia un prestito di 50.000 scudi d’oro, permettendo di garantirlo sulle commende di Francia e di Spagna. Il Gran Maestro poté così rinnovare tutte le fortificazioni di Malta, e costruirvi una cittadella ben munita. – Fallita la conquista di Malta, i Turchi si gettarono sull’arcipelago greco, e si impadronirono delle isole di Chio, di Nasso, di Andro e Ceo (1566). Navi turche comparvero anche nell’Adriatico e minacciavano Ancona. Pio V si affrettò ad inviare Truppe e artiglierie, e in brevissimo tempo allestiva anche un corpo di 4000 uomini per la difesa della costa. Non fidando nei soli mezzi terreni, il Pontefice invitava tutta la cristianità a supplicare i divini aiuti, ed indiceva il 21 luglio 1566 il giubileo per il buon successo della guerra contro i Turchi. –

 

Stendardo dell’armata cristiana

Pio V fu il campione della cristianità contro l’Islam. Per quanto fosse alieno per natura e per sentimento dalle armi e dalle guerre, se ne occupò con tutto l’animo, e non si dette pace finché non riuscì ad organizzare una lega di popoli cristiani contro il Turco. – Egli valutava la situazione reale meglio che non la stessa repubblica veneta, la quale si trovava in continui contatti coi Turchi. Venezia chiedeva al Papa aiuto e specialmente di danaro, ma Pio V era convinto che la repubblica da sola sarebbe stata impotente. Voleva ad ogni costo formare una lega quanto più larga possibile, mentre i Veneziani invece sembravano diffidenti e gelosi degli altri stati cristiani. – A Solimano il Magnifico era successo (1566) il figlio Selim II, brutto, piccolo, dedito ai vini e ai liquori, tanto che lo soprannominarono l’Ubbriacone. Odiava il nome « cristiano », e per quanto fosse molto lontano dall’avere la virtù militare del padre, vagheggiava di estendere ancor più il potere della Mezzaluna. Nel 1570 inviava una potentissima squadra ad impadronirsi dell’isola di Cipro. Dopo un’eroica resistenza di due mesi, la capitale Nicosia si arrendeva: vi perirono 15.000 cristiani, oltre 2000 che vennero ridotti in schiavitù (15 agosto 1570). I vincitori si dirigevano contro Famagosta, la seconda città dell’isola, che era governata da Marc’Antonio Bragadino. La ferocia dei Musulmani, per spaventare l’eroico difensore, gli aveva inviato la testa di Niccolò Dandolo, il governatore di Nicosia. Ma il Bragadino non si sbigottì, e incominciò quella memorabile resistenza, « che resterà sempre monumento di gloria negli annali militari ». Pio V, con l’opera sua insistente, nel frattempo stringeva in lega Venezia, Genova, il ducato di Savoia, il granducato di Toscana, Filippo II, nonché lo Stato pontificio e i cavalieri di Malta (maggio 1571). Purtroppo i collegati furono tardi nelle loro mosse; la Spagna diffidava di Venezia. Il visir Mustafà ebbe tempo di ridurre agli estremi la città di Famagosta, e il Bragadino, dopo due mesi di lotta accanita, venuti meno le munizioni e i viveri, dovette trattare la resa (2 agosto). L’ottenne onorevole: i soldati cristiani sarebbero stati trasportati su navigli turchi all’isola di Candia; libertà parimenti agli abitanti di Famagosta per espatriare, salva la vita, e libertà di religione a quanti volevano rimanere. – Ma il barbaro vincitore, appena ebbe nelle mani la fortezza, beffandosi dei patti sottoscritti, ordinò che i capi fossero trucidati, i soldati tratti in servitù e il popolo spogliato. Il Bragadino, dopo che l a soldataglia l’ebbe sfregiato in volto coi pugnali, fu gettato in prigione, dove fu tormentato in ogni guisa per undici giorni. Trascinato quindi sulla piazza della città, i carnefici lo denudarono, lo stesero su di una pietra e lo scuoiarono vivo. Il martire spirò mormorando le parole del salmo della penitenza: Miserere mei, Deus. La pelle del Bragadino fu riempita di paglia, e per volere di Mustafà sospesa come trofeo di guerra all’antenna della nave capitana. L’ultimo baluardo cristiano nel Levante era caduto. Alla ferale notizia pianse a calde lagrime il Pontefice, e con voce di rimprovero si rivolse ai collegati cristiani, che erano stati spettatori inerti della perdita dell’asilo di Cipro. – I Turchi, imbaldanziti per la vittoria, minacciavano di prendere l’offensiva su più vasta scala. Non c’era tempo da perdere; bisognava agire subito. La flotta cristiana contava 243 legni tra grandi e piccoli, con 1800 cannoni e 80.000 uomini. Comandante supremo era Don Giovanni d’Austria, fratello naturale di Filippo II; più della metà delle navi erano italiane. Al governo dell’ala destra fu posto il genovese Giovanni Andrea Doria, della sinistra il provveditore veneto Agostino Barbarigo, del centro il veneto Sebastiano Venier e Marc’Antonio Colonna romano. Vi erano anche Andrea Provana di Leynì con tre navi dei Savoia, il Commendatore dell’Ordine di Malta pure con tre navi, e molti nobili venturieri, Alessandro Farnese di Parma, il duca d’Urbino, Ettore Spinola, Giovanni Cardona, Onorato Gaetani e Michele Cervantes di Saavedra. Il sultano opponeva complessivamente 282 legni con 90.000 persone e 750 cannoni, al comando del Capudan-pascià Ali, del serraschiere Pertaù, del governatore di Alessandria d’Egitto Maometto Scirocco e del re di Algeri, Lucciali, il Tignoso, rinnegato calabrese.

– BARTOLOMEO SERENO (autore dei Commentari alla guerra di Cipro e della Santa Lega dei Prìncipi cristiani contro il Turco) si introduce a parlare della grandiosa vicenda, che domina incontrastata nella storia navale e religiosa dell’età moderna, con queste parole di sapore epico: « Nessun giorno fu mai tanto tremendo né tanto ricordevole e glorioso, dopo che Dio operò in terra l’umana salute, quanto il 7 ottobre 1571 ». Il Sereno prese parte alla battaglia combattendo sulla galea pontificia Curzolari, la mattina del 7 ottobre 1571. Era mezzogiorno, quando dalla nave di Ali partì il primo colpo; il sole splendeva alto sull’orizzonte; il mare in bonaccia; il vento taceva. Le due flotte distavano fra loro un tiro di cannone; per la vasta distesa del mare non vedevasi che una selva di alberature, dalle quali pendevano vele e bandiere dai colori più svariati. In breve ora il sole fu offuscato dal furibondo cannoneggiare delle due parti: le flotte vogarono a tutta forza l’una contro l’altra; si mescolarono in un furioso corpo a corpo. – La nave di Ali investì la nave ammiraglia dei cristiani: Sebastiano Venier mosse con la sua nave contro la capitana nemica; un fracasso orrendo per il cozzar delle armi, che dai ponti accostati scagliavano i combattenti. Maestosa e sublime era la figura del vegliardo di S. Marco, che, a capo scoperto, con una zagaglia in mano, elevato sulla corsìa della nave, incitava e dirigeva i suoi all’arrembaggio. Fu colpito da una freccia ad un piede, ma non si mosse; cadevano colpiti a morte davanti ai suoi occhi Giovanni Loredano e Caterino Malpiero, e il nipote Lorenzo Venier rimaneva ferito da tre frecce. Ali perdeva la vita, e la battaglia, durata poco più di cinque ore e ritenuta la più grande delle battaglie navali nei tempi antichi e nei moderni, l’ultima e più gloriosa battaglia della cristianità.

Giovanni d’Austria – M. Colonna – S. Vernier

All’ala sinistra, fronteggiando Maometto Scirocco, Agostino Barbarigo compi prodigi di valore. Una freccia nemica lo colpì all’occhio destro mortalmente, e cadde rovescioni sul ponte. Pregato a ritirarsi per medicare la ferita, non acconsentì, ma rizzatosi in piedi, continuò ad impartire gli ordini finché non vide debellata l’ala nemica che gli stava di fronte. Scese allora nella sua camera: estrasse con la propria mano la scheggia di ferro dall’occhiaia e si pose a giacere per morire. Quando gli annunciarono la vittoria dei cristiani, levate le braccia al cielo, ringraziò Iddio e spirò. La vittoria dei cristiani fu piena e completa; era costata loro ottomila vittime, ma al nemico ne uccisero più di venticinquemila; gli affondarono ed incendiarono ottanta galere oltre i semplici fusti; gli catturarono altri centodiciassette legni; e liberarono parecchie decine di cristiani, che erano addetti ai remi, come schiavi, delle navi nemiche. Sulla nave ammiraglia, all’ombra dello stendardo benedetto da Pio V e che recava l’immagine di Cristo crocifisso, si raccolsero i capitani attorno all’ammiraglio: Marc’Antonio Colonna, Don Giovanni d’Austria e Sebastiano Venier si baciarono l’un l’altro, fieri d’aver salvato in quella giornata l’Europa cristiana dalla Mezzaluna. – A coronare l’impresa e a completare la vittoria non rimaneva che drizzare le vele verso Costantinopoli, dove il panico era universale; là avrebbero potuto vendicare la memoria del Bragadino; ma Genova e la Spagna temettero che Venezia ne guadagnasse troppo, e non vollero saperne di navigare verso l’oriente. Presero la via del ritorno, a ricevere le felicitazioni di tutti i popoli, che tripudiavano alla notizia della strepitosa vittoria. –

Visione di S. Pio V

Il sommo Pontefice il giorno della battaglia, nel fervore della preghiera, ebbe la visione del trionfo cristiano, e stette in ansia alcuni giorni, perché la fausta notizia sembrava tardasse a giungere. Un messaggero veneto giunse a Roma a mezzanotte; il Papa l’accolse in quell’ora, e inginocchiatosi esclamò: « Iddio ha ascoltato la preghiera degli umili; queste cose vengono scritte per la posterità, ed i popoli futuri loderano il Signore ». Grandi feste furono celebrate a Venezia e a Roma, dove l’ammiraglio della flotta pontificia entrava a guisa di un antico trionfatore romano. Perché non si avesse coll’andar del tempo a perdere il ricordo della vittoria, Pio V introdusse nelle Litanie lauretane l’invocazione: Auxilium Christianorum, ed istituì la festa di Maria Santissima della Vittoria da celebrarsi il 7 ottobre, giorno della battaglia di Lepanto. E siccome attribuiva la vittoria a Maria Santissima invocata con la devozione del santo Rosario, il successore Gregorio XIII ordinò che in tutta la di ottobre. A Venezia, durante le feste di ringraziamento per l a conseguita vittoria, Paolo Paruta recitò l’orazione solenne a gloria e a suffragio degli eroi caduti per la patria e per la fede.

Che l’Auxilium Christianorum, per intercessione di S. Pio V ci liberi dalla barbarie musulmana odierna che ormai ci soffoca e vuole ancora una volta opprimere i Cristiani fin nelle proprie terre e nelle proprie abitazioni.

Vergine del Rosario, ora pro nobis!