DOMENICA XVIII dopo PENTECOSTE

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Eccli XXXVI:18
Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël [O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]
Ps CXXI:1
Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.
[Mi rallegrai per ciò che mi fu detto: andremo alla casa del Signore.]
Da pacem, Dómine, sustinéntibus te, ut prophétæ tui fidéles inveniántur: exáudi preces servi tui et plebis tuæ Israël [O Signore, dà pace a coloro che sperano in Te, e i tuoi profeti siano riconosciuti fedeli: ascolta la preghiera del tuo servo e del popolo tuo Israele.]

Oratio
Orémus.
Dírigat corda nostra, quǽsumus, Dómine, tuæ miseratiónis operátio: quia tibi sine te placére non póssumus.
[Te ne preghiamo, o Signore, l’azione della tua misericordia diriga i nostri cuori: poiché senza di Te non possiamo piacerti.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios
1 Cor 1:4-8
Fratres: Grátias ago Deo meo semper pro vobis in grátia Dei, quæ data est vobis in Christo Jesu: quod in ómnibus dívites facti estis in illo, in omni verbo et in omni sciéntia: sicut testimónium Christi confirmátum est in vobis: ita ut nihil vobis desit in ulla grátia, exspectántibus revelatiónem Dómini nostri Jesu Christi, qui et confirmábit vos usque in finem sine crímine, in die advéntus Dómini nostri Jesu Christi.


 Omelia I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV Omelia XI .- Torino 1899]

“Io del continuo ringrazio il mio Dio per voi, per la grazia che vi è stata data in Gesù Cristo; perché in lui siete stati arricchiti in ogni dono di parola e di scienza, essendo stata la testimonianza di Cristo ben rassodata in voi, a talché non manchi dono alcuno a voi, che aspettate la rivelazione del Signor nostro Gesù Cristo. Il quale anche vi raffermerà fino alla fine senza colpa, nella manifestazione del Signor nostro Gesù Cristo „ (I. ai Corinti, I, 4-8). La Chiesa in questa Domenica ci fa leggere nella santa Messa i cinque versetti che vi ho recitati. Essi formano l’introduzione di questa prima lettera ai fedeli di Corinto, e vengono immediatamente dopo i saluti e le parole di indirizzo, con cui l’Apostolo suole cominciare tutte le sue lettere, eccettuata quella agli Ebrei. La lettera fu scritta da Efeso, dove si trovava S. Paolo, e donde era per muovere alla volta di Gerusalemme, verso la Pasqua dell’anno 56 dell’era nostra. Non occorre che vi dica dei motivi che indussero l’Apostolo a scrivere questa lettera che, dopo quella ai Romani, per l’ampiezza e per le cose in essa contenute, è la più importante, ond’è che tiene anche, dopo quella ai Romani, il primo posto. Le poche sentenze, che abbiamo da spiegare, non sono in sostanza che un augurio od una congratulazione graziosa che fa ai Corinti, con cui si apre la via a dir loro verità assai gravi e, se volete, anche amare. L’omelia d’oggi sarà forse più breve del solito; vi domando in compenso raddoppiata attenzione. – Corinto era una delle città, per floridezza di commerci, per ricchezze e per squisita coltura letteraria, scientifica ed artistica, più celebre della Grecia. S. Paolo vi si era recato da Atene ed aveva fermato la sua dimora in casa d’un certo Aquila, che poco prima vi era giunto da Roma, con Priscilla, sua moglie, perché insieme con gli altri Ebrei n’era stato cacciato con ordine generale dell’imperatore Claudio. Iddio aveva fatto conoscere a Paolo che un gran popolo egli aveva in quella città, e confortatolo a non temere e a parlare coraggiosamente (Atti Apost., XVIII, 1 seg.). Egli vi rimase per diciotto mesi continui, e vi fondò una Chiesa numerosa e fiorente; e quantunque sorgessero in essa alcuni partiti che la turbavano, e vi fossero anche scandali gravissimi e si spargessero errori, era pur sempre una Chiesa nobilissima e meritevole degli elogi dell’Apostolo. Egli, dopo il solito saluto ed augurio, così comincia: “Ringrazio sempre il mio Dio per voi, per la grazia che vi è stata data in Gesù Cristo. „ La prima cosa che l’Apostolo dice, è quella di assicurare i suoi Corinti, che si ricorda di loro dinanzi a Dio e che gli porge i più caldi ringraziamenti per loro. L’amore che ci lega ai nostri conoscenti, amici, congiunti e benefattori ce ne tien viva la memoria nell’animo, e questa è tanto forte e cara, quanto più ardente è l’amore che ci scalda per essi. E cosa troppo manifesta per dimostrarla. Ora, questo amore, se fosse vero e puro amore secondo il Vangelo, non si dovrebbe mai disgiungere dall’idea di Dio, da cui deriva ogni cosa buona e santa, e a cui sempre ritorna. Invece che accade, o dilettissimi? Amiamo i nostri cari, e il nostro amore si ferma in loro e non è mai, o troppo raramente, che si innalzi a Dio, che ci porti a pregar loro da Lui ogni bene, o a ringraziarlo di quelli che ha loro concessi. Vedete S. Paolo: egli ama teneramente i suoi Corinti, li porta nel cuore, come suoi figli: li ha ammaestrati per lunghi mesi, non volendo da loro nemmeno il pane: lontano, pensa ancora a loro, e il suo amore, amore che si accende alla luce della fede, solleva la sua mente ed il suo cuore a Dio e lui ringrazia dei benefizi largiti a quei suoi amatissimi neofiti. E un dovere, o cari, impostoci dalla gratitudine, quello di ringraziare Iddio dei favori concessi a noi; ma è cosa bella, utile e accettevole a Dio ringraziarlo anche di quelli fatti alle persone a noi care. La ragione è chiara. L’amore scambievole fa sì che godiamo dei beni concessi altrui come dei nostri, e perciò è giusto ringraziar Dio di questi come di quelli. Ecco perché S. Paolo: ” Ringrazio, dice, il mio Dio per voi della grazia che vi è data in Gesù Cristo. „ E cosa nuova e quasi strana, che qui S. Paolo, alla parola Dio aggiunga mio, quasi fosse esclusivamente suo, mentre Gesù ci insegnò a dire: “Padre nostro”. Ma la difficoltà si dilegua da sé allorché si pensa che l’Apostolo usò la parola “mio” per significare l’affetto suo ardentissimo verso Dio, come facciamo noi pure allorché vogliamo esprimere un sentimento più vivo d’amore, e diciamo: Mio Dio! Mio bene! Mia vita! Del resto tanto è lungi l’Apostolo di pensare a Dio quasi fosse esclusivamente suo, che in questo luogo si volge a Dio pei suoi cari, ringraziandolo dei doni, onde li ha ricolmati. E notate che S. Paolo protesta di far ciò non solo spesso, ma continuamente, “semper”, e ringrazia sempre Iddio forse perché i suoi Corinti sono forniti di scienza, ricchi di beni della terra? Oh no! Di questi beni l’Apostolo non parla, non ci pensa nemmeno, egli che chiama “fatua” la scienza del mondo e “spazzatura” tutti i beni temporali, di cui gli uomini sono sì ghiotti. Egli non apprezza che i veri beni, i beni dell’anima, il possesso della verità e della grazia: per questi beni, che i Corinti hanno ricevuto in Gesù Cristo, e per Gesù Cristo, porge continue grazie a Dio. – Dilettissimi! Noi, tutti quanti, siamo raccolti in questo tempio, abbiamo ricevute grazie elette e senza numero per i meriti di Gesù Cristo: è superfluo che io ve le accenni. Ne abbiamo ringraziato l’amoroso e generoso donatore Iddio? O forse siamo vissuti dimentichi, e al maluso delle grazie ricevute abbiamo aggiunto la ingratitudine? Non ci esca dall’animo quella bellissima immagine di S. Bernardo che scrisse: “Origine di tutte le sorgenti e di tutti i fiumi è il mare: origine di tutte le virtù e d’ogni scienza è Gesù Cristo; mercé del ringraziamento e della nostra gratitudine ritorni al suo principio questo fiume celeste dei suoi doni, affinché esso continui ad irrigare la terra (In Cantic, Ser. 13). „ E pur bellissima è l’altra sentenza d’un santo (Imitaz. di Cristo), che dice: “Mezzo efficacissimo per ottenere grazie da Dio è quello di mostrarci grati per quelle che abbiamo ricevute. „ Paolo ringrazia incessantemente Dio dei doni concessi ai Corinti: ora ne specifica due di questi doni, che sono i principali, e ai quali, come conseguenze, sono legati gli altri: “Perché in Lui (Gesù Cristo) siete stati arricchiti in ogni dono di parola e di scienza — Quod in omnibus divites facti estis in illo in omni verbo et omni scientia. „ L’espressione è dura ed oscura, e ci fa sentire la difficoltà, che Paolo ebreo aveva in vestire la verità in una lingua che non era la sua, e che conosceva imperfettamente. Egli vuol dire: “ringrazio Dio che vi ha arricchiti dei suoi doni, e particolarmente e primieramente del dono di aver udita la predicazione evangelica, che riempì la vostra mente della verace scienza, la scienza della salute”. I Corinti pochi anni prima erano immersi nel paganesimo, e paganamente vivevano, ignorando Dio, la propria origine, i propri doveri, il fine per il quale erano creati, i mezzi per giungervi e, conseguenza di tanta ignoranza, era la signoria delle passioni, la corruzione massima dei costumi, tantoché san Paolo in altro luogo ebbe a dire, che vivevano “ut bruta animalia”. Come erano usciti da tanto abbrutimento? come s’erano messi sulla via della virtù e della salvezza? quale il primo principio della loro trasformazione? La parola di verità, che avevano ricevuta da Dio per mezzo di lui, Paolo. Per essa avevano cominciato a conoscere il vero Dio, Gesù Cristo, se stessi, il loro fine: per essa avevano voltate le spalle alle brutture del paganesimo, alle grettezze della legge mosaica: per essa avevano fatto acquisto di quella scienza che vale va bene tutta la scienza dei filosofi più celebrati, che li aveva fatti entrare, come diceva S. Pietro, nella luce ammirabile del suo regno. E questo il senso ovvio delle parole di S. Paolo. Dilettissimi! Questo dono preziosissimo di udire la parola di Dio in omni verbo, e di ricevere per essa la scienza delle scienze, in omni scientia, non l’abbiamo noi come e meglio dei Corinti? Questa parola di verità si fece sentire alle nostre orecchie quando eravamo ancora tra le braccia e sulle ginocchia della madre; continuò a farcisi udire in casa, in chiesa, sui libri, nelle immagini, nei riti sacri, in mille modi, in ogni tempo, in ogni modo, perché nella società privata e pubblica, in cui viviamo, tutto ci parla di Gesù Cristo, tutto ci rammenta i suoi divini insegnamenti. È dunque vero per noi, come e più che per i Corinti, che siamo stati arricchiti d’ogni istruzione e d’ogni scienza in Gesù Cristo, o per opera di Gesù Cristo. Qual uso ne abbiamo fatto? come ci siamo mostrati grati a Dio per sì alto e continuo beneficio? La risposta a voi, figliuoli carissimi. Ascoltiamo ancora l’Apostolo, che prosegue e dice: ” Essendo stata la testimonianza di Cristo ben rassodata in voi — Sicut testimonium Christi confirmatum est in vobis. „ Che significa questa parola, “la testimonianza di Cristo”? Non v’è dubbio, significa l’insegnamento. la dottrina, il Vangelo di Cristo. E perché si chiama testimonianza? Gesù Cristo dice nel Vangelo (S. Giov. III, 11), che è veduto ad attestare ciò che ha veduto nel seno del Padre suo; Egli stesso è chiamato testimonio (Apoc. III, 14); gli Apostoli sono dichiarati suoi testimoni, ed essi stessi nelle loro lettere e negli Atti Apostolici si professano testimoni di ciò che videro e di ciò che udirono da Gesù Cristo; la dottrina adunque di Gesù Cristo, ripetuta dagli Apostoli, conservata ed annunziata perennemente dalla Chiesa è una testimonianza. E meritamente è chiamata testimonianza, perché come le cose, delle quali gli uomini sono testimoni, non sono da loro inventate o foggiate, né loro è lecito aggiungere o levare alcun che, così il Vangelo e la dottrina di Cristo non è inventata o foggiata da lui, né dagli Apostoli o dalla Chiesa, né altri può aggiungervi o levarvi sillaba, perché essa viene da Dio, è opera sua, tutta sua, e come Lui immutabile. L’insegnamento evangelico pertanto è la testimonianza di Gesù Cristo, degli Apostoli e della Chiesa, e passando di bocca in bocca, di libro in libro, è sempre lo stesso, né perde, né acquista, come un raggio di sole che attraversi migliaia di cristalli. Questa testimonianza o dottrina di Cristo, dice S. Paolo, ora è stabilita e rassodata in voi, o Corinti: in altre parole, ringrazio Dio che mediante la mia predicazione, la fede di Gesù Cristo è fondata e saldamente fondata in voi, e in essa avete il massimo dei doni celesti. Ponete mente a quella frase di S. Paolo: “La testimonianza, ossia la fede di Cristo, è rassodata in voi. „ È una lode, e grande, che S. Paolo fa ai Corinti, di essere saldi nella fede. La fede è la sostanza, ossia il sostegno e la base delle cose che speriamo, ed è l’argomento, cioè la ragione che ci fa tenere come certe le cose che non vediamo, nè conosciamo col solo lume della ragione; così fu definita la fede dall’Apostolo (Heb. XI, 1). Perché ammetti tu che vi è il sole, la terra, il mare? Perché li vedi! Perchè ammetti tu che due linee parallele non si possono incontrare, che un effetto deve avere la sua causa, che due aggiunti a due ti danno quattro? Perché con la ragione vedi che è così e non può essere altrimenti! Perché ammetti tu che vi è il Giappone, un fiume che si chiama Nilo, un impero che si dice Brasile, benché non li abbia mai veduti? Perché te lo affermano a voce ed in iscritto tanti testimoni, che non ti vogliono, né ti possono ingannare. La loro affermazione è il saldo appoggio della tua persuasione e certezza. Ora Gesù Cristo, gli Apostoli e tutta la Chiesa, ti annunziano un gran numero di dottrine che tu non puoi comprendere: ma essi ti assicurano che sono verità, ti danno in prova miracoli senza numero, certissimi, e che sono come la voce di Dio: perché la loro affermazione, confortata da tante e sì magnifiche prove, non basteranno a guadagnare il tuo assenso pieno e perfetto? Credi a due o tre testimoni ciò ch’essi ti dicono, affermando d’averlo veduto od udito: e non crederai a Gesù Cristo, agli Apostoli, ai martiri, alla Chiesa ciò ch’essi ti insegnano ed affermano d’aver veduto od udito? La nostra fede adunque, appoggiandosi alla parola di Gesù Cristo, degli Apostoli, dei martiri, della Chiesa, che non possono ingannarsi né possono ingannare, deve essere ferma, salda, incrollabile. Dio l’ha detto, Gesù Cristo l’ha insegnato, la Chiesa ce lo ripete; non domandiamo altro; crediamo con tutta la fermezza! Ondeggiare nel dubbio sulla verità di ciò che m’insegna Gesù Cristo per mezzo della Chiesa sarebbe un’offesa gravissima a Lui, che è la stessa verità. Dunque, o carissimi, che la nostra fede sia ferma, immobile, fondata  sulla pietra, che nessuno potrà mai smuovere o spezzare, che è la Chiesa, che è Gesù Cristo stesso. Ma è da ritornare al nostro maestro, san Paolo, che continua, scrivendo: “A talché non manchi dono alcuno a voi — Ita ut nihìl vobis desit in ulla gratia. „ Se il Vangelo o, che è lo stesso, la fede sarà in voi saldamente stabilita, e tale da reggere ad ogni urto e ad ogni insidia, con essa avrete ogni altro bene, ogni altro dono. La ragione è chiara: la fede viva, robusta, diceva Cristo, può trasportare i monti, tutto ella può: “Omnia possibilia credenti”. Essa genera la speranza, accende la carità, germoglia le opere, forma i santi, crea i martiri; datemi un uomo che abbia la fede di Abramo, e lo troverete pronto ad immolare, se è necessario, il figlio: che abbia la fede di Pietro, e lo vedrete camminare sulle acque; che abbia la fede di Paolo, e lo vedrete ogni giorno morire per Cristo, ogni giorno soffrendo ed immolandosi per Lui. Con la fede viva non mancherà nulla a voi, scrive S. Paolo, a voi “che aspettate la rivelazione del Signor nostro Gesù Cristo. „ Noi tutti, che crediamo in Gesù Cristo, che cosa aspettiamo noi? Aspettiamo la rivelazione di Gesù Cristo, vale a dire la sua seconda venuta come Giudice supremo, che darà a ciascuno ciò che gli si deve in ragion delle opere sue. Con la prima sua venuta sulla terra, con la grazia che continuamente spande in noi, Gesù Cristo sparge il buon seme sulla terra: questa è opera grande sì, ma quasi sempre occulta: chi vede la fede, la grazia nei cuori? Nessuno; ne vediamo alcun poco i frutti, ma non sempre, né tutti, ed alcuna volta sono anche ingannevoli. Alla fine dei tempi verrà il supremo Seminatore, si manifesterà in tutta la grandezza della sua gloria, ed allora con Lui e per Lui, sotto gli splendori dell’infinita sua luce, si riveleranno tutte le opere nostre, buone o cattive, e si farà il giudizio, giudizio irrevocabile. Quella sarà la manifestazione per eccellenza, la manifestazione di Gesù Cristo, della sua grazia e della sua provvidenza, e la manifestazione della nostra vita, di maniera che né in cielo, né in terra rimarrà più cosa alcuna che non sia perfettamente manifesta. “Il quale (Gesù Cristo) vi confermerà fino all’ultimo, senza colpa, nella manifestazione del Signor nostro Gesù Cristo. „ – E l’ultimo versetto che ci resta da spiegare. Con la sua grazia, con la sua fede fermissima, Gesù Cristo vi terrà saldi in mezzo alle prove e alle battaglie di questa vita fino alla fine, fino alla morte: “Confirmabit vos usque in finem”, serbandovi mondi d’ogni colpa, sine crimine, fino al dì della ricompensa, che avrete alla venuta di Lui. – È questo il dono della perseveranza finale, che nessuno di noi può meritare, come nessuno può meritare la prima grazia. È Dio che comincia l’opera della nostra salute, e la comincia con la sua grazia, senza alcun nostro merito: Egli la prosegue con la nostra cooperazione, ed Egli la compie, coronando in noi i frutti della sua grazia. Il compire felicemente il nostro corso e finire i nostri giorni nella grazia ed amicizia di Dio è suo dono; ma è tal dono ch’Egli, nell’immensa sua misericordia, non ricusa ad alcuno dei suoi figli, purché dal canto loro facciano ciò che possono. No, Dio non fa come gli uomini, che talvolta mettono mano ad un’opera e poi la lasciano, cominciano un edilizio e poi l’abbandonano a mezzo; Egli, quando comincia un’opera, per quanto è da sé, la continua e la conduce a perfezione: se resta incompiuta, dite pure che rimane tale contro la sua volontà, e per colpa d’altri. Cominciare un’opera e lasciarla imperfetta non è da Dio che è la stessa perfezione, e perciò tutto vuole perfetto in cielo ed in terra. Ora è fuori di dubbio ch’Egli ha cominciato l’opera della nostra salvezza, perché siamo stati battezzati, e abbiamo tutti, quanti siamo qui raccolti, ricevuta la prima grazia: è dunque fuori di dubbio ch’Egli vuole proseguire quest’opera e compirla col dono ultimo e massimo della perseveranza. – L’avremo noi questo dono, corona di tutti gli altri? L’ultimo dì, l’ultimo istante di nostra vita saremo noi trovati “sine crimine”, senza colpa, adorni della grazia, amici e figli di Dio? Dio solo lo sa: ma noi pure sappiamo ch’Egli lo vuole, e che l’essere trovati veramente tali dipende da noi. Nessuno si affanni e si angusti, dicendo: “persevererò io sino alla fine? Morrò io nella grazia di Dio?” A che, cristiano, ti turbi e ti consumi in questi pensieri? Getta le tue cure in Dio, come ti dice S. Pietro; Dio ti ha creato per il cielo: Dio abbonda e sovrabbonda con la sua grazia: ti ama come un padre, anzi come una madre il loro figlio: per salvarti è morto per te. Di che dunque temi? — “Temo per me, per la mia debolezza, per le mie passioni”. — E sta bene che tu tema di te, ma non mai per guisa che il timore ti affanni soverchiamente e ti opprima. Tien sempre a mente, che Dio conosce la tua debolezza più assai che non la conosca tu stesso, e pari alla debolezza sarà l’aiuto della grazia, e che è verità certa: A nessuno che faccia dal lato suo ciò che può il buon Dio rifiuta la sua grazia.

Graduale
Ps CXXI:1; 7
Lætátus sum in his, quæ dicta sunt mihi: in domum Dómini íbimus.
V. Fiat pax in virtúte tua: et abundántia in túrribus tuis. Allelúja, allelúja
Alleluja

Ps CI:16
Timébunt gentes nomen tuum, Dómine, et omnes reges terræ glóriam tuam.
Allelúja. [Le genti temeranno il tuo nome, o Signore: e tutti i re della terra la tua gloria. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.
R. Gloria tibi, Domine!
Matt IX:1-8
“In illo témpore: Ascéndens Jesus in navículam, transfretávit et venit in civitátem suam. Et ecce, offerébant ei paralýticum jacéntem in lecto. Et videns Jesus fidem illórum, dixit paralýtico: Confíde, fili, remittúntur tibi peccáta tua. Et ecce, quidam de scribis dixérunt intra se: Hic blasphémat. Et cum vidísset Jesus cogitatiónes eórum, dixit: Ut quid cogitátis mala in córdibus vestris? Quid est facílius dícere: Dimittúntur tibi peccáta tua; an dícere: Surge et ámbula? Ut autem sciátis, quia Fílius hóminis habet potestátem in terra dimitténdi peccáta, tunc ait paralýtico: Surge, tolle lectum tuum, et vade in domum tuam. Et surréxit et ábiit in domum suam. Vidéntes autem turbæ timuérunt, et glorificavérunt Deum, qui dedit potestátem talem homínibus”.
[In quel tempo: Gesú, salito su una barca, ripassò il lago, e andò nella sua città. Quand’ecco gli presentarono un paralitico giacente nel letto. Veduta la loro fede, Gesú disse al paralitico: Figlio, confida: ti sono perdonati i tuoi peccati. Súbito alcuni scribi dissero in cuor loro: Costui bestemmia. E Gesú, avendo visto i loro pensieri, rispose: Perché pensate male in cuor vostro? Cos’è piú facile dire: Ti sono perdonati i tuoi peccati, o dire: Alzati e cammina? Ora, onde sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sopra la terra di rimettere i peccati: Sorgi, disse al paralitico, piglia il tuo letto e vattene a casa tua. E quegli si alzò e se ne andò a casa sua. Vedendo ciò le turbe si intimorirono e glorificarono Iddio che diede agli uomini tanto potere.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

(Vangelo sec. S. Matteo IX, 1-8)

Carità verso gli Infermi

Due esempi assai luminosi di carità ci presenta la odierna evangelica storia. Il primo nella persona di alcuni uomini di Cafarnao, che adoprano ogni fatica ed ogn’industria per procurare la sanità di un povero paralitico, con recarlo al cospetto di Gesù Cristo. Il secondo in Gesù Cristo medesimo, che rimette i peccati a quel misero infermo, e spiritualmente lo risana. Il primo esempio riguarda la salute corporale, il secondo la spirituale. Ed ecco in ciò tutta la nostra istruzione. Quando il Signore visita le nostre famiglie con qualche malattia, come sono trattati i nostri infermi in rapporto al corpo? Come sono trattati riguardo all’anima? Vediamo se possiamo paragonarci ai pietosi Cafarnaiti per la carità corporale, e al misericordioso Redentore per la spirituale carità. Ohimè! Uditori miei cari, che io temo invece di questa doppia carità, di riscontrare in alcuno di voi una vera e forse non conosciuta crudeltà! L’importante argomento richiede tutta la vostra attenzione.

.I. – Il primo esempio di una carità tutta singolare, ed oltre modo industriosa ci presentano i già indicati uomini di Cafarnao. Quattro di questi, come narra l’Evangelista S. Marco (II, 3), toltosi sulle braccia un paralitico disteso nel suo letticciuolo vogliono presentarlo al divin Salvatore; ma la casa, ove Egli trovavasi era così piena zeppa di popolo, che per ogni tentativo e sforzo immaginabile non fu possibile romper la folla, e farsi strada. Ma che? Si avvidero di una scala esteriore, che portava fino alla sommità della medesima casa. Ivi giunti, scoprirono il tetto e, fatta una larga apertura, calarono giù con funi il letto e l’infermo ai piedi di Gesù Cristo. – Che dite, ascoltanti, di questa carità? È tale la vostra per procurare a qualche infermo di vostra famiglia la corporale salute? Vi spinge a tentar ogni mezzo, a cercar ogni modo, onde possa ricuperare la pristina sanità? Sì, è tale; ma quando? Quando si tratta di persona a voi necessaria, che con le fatiche o con il traffico o con l’impiego sostiene la casa, e guai se venisse a mancare: soffrirebbe un rovescio la desolata famiglia. Io non condanno, lodo anzi la vostra sollecitudine, il vostro impegno per quell’infermo a voi sì caro e necessario. Ma se questa stessa persona, cotanto cara e vantaggiosa, per vecchiezza, o per altro infausto accidente, si rende inabile, come l’odierno paralitico, e divenga inutile, non è egli vero che svaniscono allora tutte le cure, le assistenze, i soccorsi, e si riguarda come un imbarazzo di casa, come un peso notevole, di cui non vedete l’ora di esserne sgravati? Così avvenne al S. Giobbe: finché come principe Idumeo colle sue ricchezze fu occhio al cieco, piede allo zoppo, padre dell’orfano e del pupillo, sostegno delle vedove, consolator dei miseri, riscosse da tutti stima, venerazione ed applausi. Quando poi spogliato di tutti i suoi beni, coperto di piaghe, lo videro steso su di vile letamaio, i falsi amici e perfino l’insultante consorte, lo abbandonarono in braccio alla sua miseria ed al suo dolore. “Fratres mei præterierunt me sicut torrens, qui raptim transit in convallibus” (Job. VI, 13). I miei più cari (se ne lagnò dolcemente quest’esemplare di pazienza), i miei più stretti congiunti mi hanno trattato in quella guisa che si usa con un torrente. Finché questo nell’aprile, o nell’autunno abbonda di acque, ad esse accorre il pastore per abbeverare la greggia, il contadino per innaffiare le piante; poi nella estate arsiccia manca e si dissecca, l’alveo suo asciutto viene calpestato dal contadino, dal viandante, dal pastore e dall’armento: “Præterierunt me sicut torrens”. – “Ma, direte voi, se vi trovaste presente a vedere quanto son tediosi e incontentabili i nostri infermi, e singolarmente i vecchi; se udiste il continuo loro brontolare, e le indiscrete loro lagnanze, degnereste di qualche compassione quei che debbono trattare con essi e loro prestare assistenza e servitù. Si rifletta inoltre che abbiamo i nostri affari, campagna, impieghi, negozi, e non possiamo trovarci sempre ad essi intorno”.E se vi dirò che quel tanto che asserite difficile, aspro, gravoso e quasi impossibile, l’avete già praticato, che risponderete? Vi sovviene di quella vostra vecchia parente a letto inferma? Per aver parte nel suo testamento, o donazione irrevocabile dei suoi beni, quanti giorni perdeste, quante notti vegliaste, quanta pazienza, quanta buona grazia usata avete per non disgustarla, per incontrare il suo genio! Non vi han ritirato dall’assisterla né le sue querele, né i mali odori, né i più bassi servigi.Confessate adunque che la brama di divenire eredi, che la mira alle sue sostanze, che, in una parola, l’interesse è quella gran molla che vi ha fatto agire, sopportare, e tutto vi ha reso facile e leggiero. Ha bel dire l’Apostolo che la carità è paziente, è benigna, e tutto soffre, e tollera tutto: “Charitas patiens est, benigna est … omnia suffert, omnia sustinet” (Ad Cor. XIII, 4. 7.) Tutto ciò nella massima parte de cristiani opera bensì l’interesse, ma non la carità. O nostra confusione!

.II. –  Il secondo esempio di carità l’abbiamo nella Persona di Gesù Cristo. Appena Egli si vide innanzi in quella strana forma il paralitico, “confida, gli disse, confide fili, remittuntur tibi peccata tua”. Figliuol mio, abbi fede, i tuoi peccati ti son rimessi. Ma come, mio buon Salvatore? Vi vien cercata la salute del corpo, e Voi cominciate a dargli quella dell’anima? Per nostra istruzione parla ed opera così il nostro divin Maestro, e ci avvisa che più della corporal sanità, ci deve star a cuore la salvezza dell’anima. – Che diremo ora di quei cristiani, i quali avendo in casa un infermo colto da grave malattia, non l’avvisano del suo pericolo, e non si curano, o neppur pensano a farlo munire dei SS. Sacramenti? Più che da dire, vi sarebbe da piangere. – Qual è l’ordinario costume del mondo, allorché giace a letto un infermo? Accorrono i congiunti, gli amici, portati da un certo dovere di parentado e di urbanità; le prime visite passano in complimenti: i discorsi sogliono aggirarsi sulle novelle della città o dei pubblici fatti; indi parlando della qualità del morbo: “Eh, dice uno, questa è una febbre effimera, il sudore è in moto, ben presto sarete franco. Il polso non mi dispiace, ripiglia un altro, la lingua è morbida, fatevi, coraggio, non c’è luogo a temere”. Si lagna però il povero infermo, che oppresso nell’animo, tormentato nel corpo non trova riposo. Ed ecco nuove lusinghe: “buon segno quanto il male si sente: avete più apprensione che male, non temete, una nuova crisi vi libera affatto, fra pochi giorni ci rivedremo al ridotto, alla caccia, alla villeggiatura”. Ad un infermo aggravato si parla, così? Sapete che parlare è questo? Ve lo dirò con tutto rispetto, ma insieme con tutta verità. Quest’è un parlare da demonio. Udite con pazienza. – Colà nel terreno paradiso disse ai nostri progenitori il grande Iddio: “In quel giorno, che voi gusterete il frutto di quest’albero, che vi proibisco, sarete colti da inevitabile morte: “Morte moriemini”. Eva parlando di quel pomo col rio serpente. “Se noi, disse, ci diamo a mangiarne, forse morremo”: “Ne forte moriamur”. Il demonio nel corpo del serpente l’assicura, che non saranno soggetti alla morte: “Nequaquim moriemini”. Osservate, Iddio parla con affermativa certezza, Eva con dubbio, il demonio con negativa sicurezza. Io non dico che parliate come Dio con affermare, che quel malato morrà: a Dio solo è noto l’avvenire; ma nemmeno dovete parlar da demonio con assicurarlo che non morrà. Parlate, se vi piace, all’umana, come Eva in senso dubbioso: non fate il profeta né per la morte, né per la vita: dite, che essendo la malattia seria, pericolosa, sarebbe bene provvedere ad ogni sinistro avvenimento: che i santi Sacramenti giovano anche alla salute del corpo, che in pericolo di morte corre stretta obbligazione di riceverli, che il male potrebbe occupare la testa, e non esser più in tempo. – Se tale sarà il vostro linguaggio, sarà da uomini sensati, sarà da buoni cristiani; ma lusinghe no, ma sicurezze … molto meno, per non parlare da demoni. – Torniamo all’infermo. Le buone parola, le buone speranze non lo fanno star meglio: cominciano i vaneggiamenti, succedono i deliqui, crescono i sintomi maligni: il medico stringe le labbra, dimena il capo, dà a conoscere che ne teme, e ne dispera. Chi si accosta intanto al letto di questo moribondo? Chi l’avvisa del suo pericolo? Chi esorta quest’anima ad aggiustar le partite di sua coscienza, a prepararsi con buona confessione al gran passaggio dal tempo all’eternità? Dove troveremo noi un altro Isaia, che si conduce alla stanza dell’infermo re di Giuda, e “via su, gli intima, disponetevi alla partenza, che la morte a voi si avvicina!” – “Dispone domui tuæ, quia morieris tu, et non vives(Is. XXXVIII, 1). Pensate: piange la moglie nell’estrema desolazione, piangono i figli e non hanno cuore, si scusano i parenti, si ritirano gli amici, il medico si affida al confessore, il confessore riposa sul medico, e intanto il povero moribondo fa strada, e se ne va, senza saperlo, in braccio alla morte ed alla eternità. – Lo so: egli è questo un tremendo castigo della divina giustizia per chi aspetta a ravvedersi in quegli estremi, castigo, per cui chi più ne abbisogna è meno avvertito. Ad un uomo dabbene, ad un buon cristiano niuno ha difficoltà di parlare di confessione, e del santo viatico. – Ad un uomo di mondo, massime di qualche qualità secondo il mondo, ognun si ritira, ognuno si scusa. Castigo di Dio per parte del moribondo, crudeltà per conto di chi l’assiste. Non si fa già così quando lo stesso infermo giace sepolto in mortale letargo. Si adopera allora ogni più violento rimedio per invogliarlo e toglierlo dalle fauci di morte; e perché non si fa altrettanto per destarlo da peggiore letargo di morte spirituale ed eterna? Avete timore di disgustarlo? “Meglio, dice S. Agostino, esser severo con carità, che ingannar con dolcezza”: “Melius est cum severitate diligere, quam cum suavitate decìpere(Lib. IX, conf.). Indorate quanto volete la pillola amara, ma non cessate di porgerla. Eppure qualche volta si avvisa. Ma chi dà la spinta all’avviso? La carità? Eh pensate: fra tanti parenti, amici o vicini, v’è finalmente chi dice: “Olà, l’infermo fa cammino, va a precipizio, e non si parla ancor di Sacramenti?” Che si dirà di voi, padre, madre, figli, consorte, se lo lasciate morir così? Tutti la colpa in faccia al parentado e presso il pubblico sarà la vostra, tutto il vostro il disonore. Ho inteso. L’umano rispetto ottiene la carità. Ma ohimè! il malato è già ai momenti estremi, presto confessori, sacerdoti, Sacramenti: ma il confessore non si trova, non si sa chi sia, o non giunge a tempo, e l’infelice se ne muore senza alcuno spirituale aiuto, senz’alcun sussidio della Chiesa, e senza neppure aver potuto salvare l’apparenza. O parenti crudeli, o nemici del proprio sangue! “Inimici hominis, domestici eius” (Matt. X, 31). – Ah! fedeli amatissimi, imitiamo i pietosi Cafarnaiti in procurare ai nostri infermi la sanità corporale, ma ad esempio di Gesù Cristo siamo assai più solleciti della salute dell’anima, e della loro eterna salvezza. Sia nostra premura l’avvertirli in tempo, acciò possano ben disporsi a ricevere salutarmente i santi Sacramenti, e a noi non resti il rancore di averli abbandonati nel maggior bisogno, la colpa di averli privati di tanto bene, il rimorso della loro forse eterna dannazione.

Credo …

Offertorium
Orémus
Exodi XXIV:4; 5
Sanctificávit Móyses altáre Dómino, ófferens super illud holocáusta et ímmolans víctimas: fecit sacrifícium vespertínum in odórem suavitátis Dómino Deo, in conspéctu filiórum Israël.
[Mosè edificò un altare al Signore, offrendo su di esso olocausti e immolando vittime: fece un sacrificio della sera, gradevole al Signore Iddio, alla presenza dei figli di Israele.]

Secreta
Deus, qui nos, per hujus sacrifícii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes éfficis: præsta, quǽsumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur. [O Dio, che per mezzo dei venerandi scambii di questo sacrificio, ci rendi partecipi della tua sovrana e unica divinità, concedi, Te ne preghiamo, che, come conosciamo la verità, cosí la conseguiamo con degna condotta.]

Communio
Ps XCV:8-9
Tóllite hóstias, et introíte in átria ejus: adoráte Dóminum in aula sancta ejus.
[Prendete le vittime ed entrate nel suo atrio: adorate il Signore nel suo santo tempio.]

Postcommunio
Orémus.
Grátias tibi reférimus, Dómine, sacro múnere vegetáti: tuam misericórdiam deprecántes; ut dignos nos ejus participatióne perfícias.
[Nutriti del tuo sacro dono, o Signore, Te ne rendiamo grazie, supplicando la Tua misericordia di renderci degni di raccoglierne il frutto.]

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.