MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO -V- di mons. J. J. Gaume [capp. XVI-XIX]

CAPITOLO XVI

EUROPA.

I.

I privilegi di cui godevano i Druidi, attiravano loro una infinità di discepoli che venivano da tutte parti. Gli uni erano mandati dai genitori; gli altri venivano da per loro stessi. Tutti, durante i loro studi, menavano una vita separata dal mondo; perché i Druidi tenevano le loro scuole, e dimoravano nelle foreste di querce, e qualche volta negli antri.

II.

II loro insegnamento religioso consisteva in quattro punti principali: l’adorazione degli dèi, l’immortalità dell’anima, il divieto di far male ad alcuno, e l’obbligo d’essere coraggiosi. Quanto alle dottrine umane, insegnavano la medicina, l’astronomia, il corso della luna, e insegnavano a conoscere dal moto degli astri la volontà degli dèi. La dottrina dell’immortalità dell’anima faceva che i Galli, in bruciare i loro morti, mettessero nel rogo o nell’urna funerea, un conto esatto degli affari del defunto, affinché se ne potesse servire per essere più felice nel cielo, o meno infelice nell’inferno. Era anche una costumanza assai ordinaria fra essi quella di prestarsi l’argento in questo mondo, con obbligazione di restituirlo nell’altro. Di più scrivevano lettere ai morti, convinti che i defunti le avrebbero lette nei loro ozi.

III.

Le loro lezioni, come quelle dei Germani, consistevano principalmente nel fare imparare a memoria ai loro discepoli una gran quantità di versi senza scriverli. Ciò richiedeva molto tempo, e non si permetteva di mettere in iscritto alcuna cosa. Così alcuni dei loro discepoli passavano sino a venti anni, occupati unicamente in questo genere di studi. – « Io credo, dice Cesare, che essi proibiscano di scrivere per due ragioni; la prima, affinché la loro dottrina non fosse conosciuta da nessuno, e sembrasse più misteriosa. La seconda, affinché coloro che sono obbligati ad apprendere questi versi, non avendo l’aiuto dei libri, siano più solleciti nel coltivare la loro memoria. »

IV.

Oltre alcune verità apprese dalla tradizione, i Druidi insegnavano delle superstizioni, che aveva comunicato loro il padre della menzogna. Ne riferiamo qui due ridicole e celebri sia l’una che l’altra. I Galli si servivano della verbena per trarre le sorti e formare i responsi. I Druidi erano pressoché pazzi per quest’erba. Pretendevano che stropicciandosela addosso, si ottenesse tutto ciò che si voleva, che fugasse le febbri, riconciliasse i nemici, e guarisse ogni sorta di malattie. – Ma bisogna coglierla nel momento della canicola, avanti il levar del sole e della luna, e dopo aver offerto alla terra fave e miele in sacrificio espiatorio. Bisognava nel coglierla scavar la terra all’intorno con un coltello nella mano sinistra, facendo saltare la terra per aria; quindi far seccare all’ombra stelo, foglie e radice, separatamente.

V.

Questo relativamente alle guarigioni. Quanto poi al successo degli affari, i Druidi vantavano soprattutto una specie d’uovo, conosciuto da essi soli e dai loro iniziati. Quest’uovo, dicevano, era formato da una quantità prodigiosa di serpenti, i quali vi deponevano sopra della bava e della schiuma che usciva loro dal corpo. Gli si dava perciò il nome d’anguinum. – Al sibilo dei serpenti, l’uovo si sollevava in aria, e bisognava raccoglierlo per aria, per timore che non cadesse a terra. Quegli che aveva avuto il bene di raccoglierlo, doveva prender tosto un cavallo e fuggire, perciocché i serpenti correvano tutti dietro a lui, fino a che fossero arrestati da una fiumana che loro impedisse il cammino.

VI.

Per farlo valere sempre più, i Druidi dicevano che bisognava raccoglierlo in un dato giorno della luna. Colui che aveva la gran fortuna di soddisfare a tutte queste condizioni, era sicuro di vincere in tutte le liti, e d’aver sempre libero l’accesso ai re. Il demonio, sempre geloso di farsi onorare nel serpente, aveva, pare incredibile, messo in voga questa superstizione, e le aveva conciliato credenza. « L’è una superstizione sì grande, dice Plinio il naturalista, che l’imperatore Claudio fece morire un cavaliere romano del Delfinato, solo perché portava uno di queste uova in seno per vincere una causa. »

VII.

Ogni anno i Druidi tenevano un’assemblea generale in un luogo sacro del paese di Chartres, il qual luogo era un’immensa ed oscura foresta di querce. I Galli vi si portavano da tutte le provincie, per sottometter le loro liti ai Druidi che le giudicavano senza appello. Siccome Dio ha lasciato sempre qualche testimonianza di se, i Druidi furono alcune volte quel che erano le Sibille dell’Oriente: annunziarono cioè alcuni dei grandi misteri dell’avvenire. È più che probabile aver essi in una di queste riunioni generali in mezzo alle oscure foreste di Chartres, che fu come il loro quartier generale, annunziato il divin parto della santissima Vergine. E infatti tra quei boschi famosi, fu trovata la celebre iscrizione: « Virgini parituræ, Druides: Alla Vergine che deve partorire, i Druidi. »

VIII.

Nelle Gallie, non vi erano solo i Druidi, vi erano anche le Druidesse. Queste vergini o donne ammaestrate dai Druidi, partecipavano alla loro autorità religiosa e civile, e davano dei responsi. Più ancora degli uomini, sottoposte all’influenza del demonio, facevano cose straordinarie, che non si possono negare senza negar la storia. Vi erano tre sorte di Druidesse: le une custodivano sempre la verginità, come quelle dell’isola di Sain sulle coste della Bretagna; altre sebbene maritate, erano obbligate alla continenza ed a restar sempre nei templi, al cui servizio erano addette. Quelle della terza classe non si separavano affatto dai loro mariti, allevavano i loro figliuoli, ed attendevano agli affari della famiglia.

IX.

Secondo che rapporta Tacito, i Germani credevano che le giovani della loro nazione fossero dotate di santità e di conoscere l’avvenire. I Galli avevano la stessa opinione rispetto alle loro. Di qui l’immensa autorità, onde godevano le Druidesse. Vi fu un tempo, anteriore alla conquista romana, in cui le Druidesse decidevano della pace e della guerra, e dei più importanti affari dello Stato. Godevano ancora di questo potere sovrano, e rendevano la giustizia, allorché Annibale passò le Alpi, per portar la guerra in Italia.

X.

Uno degli articoli dell’alleanza conchiusa tra lui e i Galli era, che se un Gallo avesse da lagnarsi d’un Cartaginese, il Gallo porterebbe la sua lagnanza davanti ai magistrati che il senato di Cartagine avrebbe stabiliti in Ispagna; ed allorché un Gallo arrecasse qualche torto a un Cartaginese, la causa sarebbe portata davanti al tribunale delle donne dei Galli. – La reputazione delle Druidesse non era punto ristretta nei confini della Gallia; essa si estendeva dappertutto e faceva sì che le Druidesse rappresentassero una grande figura nel mondo. Tutti premurosamente le consultavano, e tenevano per oracoli le loro decisioni.

XI.

Sacerdotesse degli idoli, le Druidesse avevano il dritto d’offrire sacrifici, ed oimè! offrivano sacrifici umani. Vestite d’una tunica bianca, che attaccavano con borchie, e stringevano con una cintura di rame, con i piedi scalzi accompagnavano gli armati al combattimento. Appena i Galli avevan fatto dei prigionieri, esse attraversavano l’armata, con alla mano una spada snudata, volavano addosso ai prigionieri, li gettavano a terra, li strascinavano a un labrum, che era una vasca della capacità di venti anfore. Vicino al labrum era un rialto, sul quale montava la Druidessa sacrificatrice; immergeva un coltello nella gola di ciascuna vittima, e toglieva i suoi auguri dal sangue che colava nel labrum. A misura che scannava quegl’infelici, altre Druidesse gli afferravano, gli sparavano, frugavano nelle loro viscere, e ne ricavavano predizioni sugli affari della nazione.

XII.

Le Druidesse erano vere maliarde, la cui generazione s’è perpetuata lungo tempo nelle Gallie. Bisogna rimontare ad esse per trovar 1’origine di quelle assemblee notturne, a cielo scoperto, presiedute dal demonio, il cui spirito di lussuria si pasceva di abominazioni tali da far impallidir la luna. Un dotto canonista del dodicesimo e tredicesimo secolo, Burchard, riferisce i numerosi decreti che si erano fatti sino ai suoi giorni, per condannar queste assemblee notturne. Quindi si leva con energia contro le donne del suo tempo, tratte dai demoni, trasformati in uomini, dæmonum turba, in similitudinem hominum transformata, i quali entravano in società con tutte le femmine disposte a seguirli. « Demonii e donne, dice egli, sen vanno durante la notte a cavallo a far grandi corse nell’aria, avendo alla loro testa Diana, da cui bisogna dipendano senza riserva, obbedendole ciecamente. La frotta o società appellasi Olila. Le donne tuttora coricate al fianco dei mariti, escono à porte chiuse, sì sollevati nelle nuvole, attraversano l’aria, uccidono senza arma visibile uomini battezzati e riscattati dal sangue di Gesù Cristo; fan cuocere le loro carni e le mangiano. Queste corse sono alcune volte intraprese per combattere altre donne simili, e ferirsi scambievolmente. Del resto, esse affermano che non possono dispensarsi dal trovarsi a queste assemblee nel modo che è detto: Se affirmant necessario et exprecepto facere debere. »

XIII.

Alcuni statuti manoscritti dell’ antico vescovado di Conserans, del tredicesimo o quattordicesimo secolo, fanno anche menzione delle femmine che facevano il mestiere d’andare a cavallo durante la notte con Diana, e facevano iscrivere i loro nomi nel catalogo di tutte quelle del loro sesso, le quali passavano per dee.

XIV.

Ecco l’origine delle Tregende, la cui realtà è messa fuor di dubbio, non solamente dalle costituzioni dei nostri re, dalle testimonianze dei teologi; ma ancora dalle recenti opere de’ signori de Mireville, Des Mousseux, Bizouard, de Lancre, e particolarmente dal fatto giuridicamente provato, che ha avuto luogo in Isvezia alcuni anni sono. Se affermare non è provare, anche negare non è rispondere; e il negar senza ragione è una stoltezza. [Vedi Relig. des Gaulois t. II. Lib. IV. e. XIII.]

CAPITOLO XVII.

I DRUIDI. — IL VISCHIO.

I.

Due fatti principali distinguevano la religione dei Druidi, e per conseguenza dei Galli: la cerimonia del vischio e il sacrificio umano. Il solo vischio della quercia era l’oggetto del loro culto. Perché e donde questa strana superstizione? Prima di tutto richiamiamo alla mente che la quercia è stata tenuta da tutti i popoli antichi come un albero sacro, e come tale onorato d’un culto fiducioso ad un tempo e terribile. Non è difficile spiegare un mistero di tal fatta.

II.

Satana è la scimmia di Dio. Tutto quel che Dio fa per la sua gloria, egli lo contraffa a suo prò. Oracoli, prestigi, templi, altari, sacrifici, pellegrinaggi, non v’ ha cosa santa, di cui non si sia impadronito. L’antica memoria della quercia di Mambre, all’ombra della quale Abramo accolse, sotto la figura di tre angeli, le tre persone della santa Trinità, era un mezzo favorevolissimo per attirare alla quercia di Mambre prima, e poi alle querce ordinarie, la venerazione de’ suoi ciechi seguaci per non conservarne la memoria.

III.

La quercia di Mambre, che vedevasi ancora al quarto secolo, al tempo di san Basilio, fu da tempo immemorabile oggetto di un gran concorso d’ogni sorta genti che venivano dalle diverse parti del mondo, fin dalle più lontane. Questo concorso si cangiò in fiere; e, per dirlo di passaggio, fu in queste fiere che venne venduta una moltitudine d’Ebrei, i quali s’erano ribellati contro i Romani, al tempo dell’imperatore Adriano. (S. Hier. in Jerem., XXXI; et in Zach. X).

IV.

La venerazione che i cristiani portavano a questa quercia, fu tosto cangiata dai pagani in ree superstizioni ed in abominevoli sacrifici. Non poteva essere altrimenti. Da una parte Satana si sforzava di far profanare quel sacro luogo; dall’altra, tutta la contrada era pagana, anche ai tempi d’Abramo. Onde seguì, mercé le ispirazioni gelose dello spirito di menzogna, che i pagani fecero di quella quercia oggetto principale del loro culto, di cui tutto il fondamento era che il Dio del Cielo s’era mostrato ad Abramo e gli aveva parlato sotto quell’albero. Quindi dal credere al far credere agli altri che il Dio del Cielo abitasse sotto quella quercia, era facile il passo: e questo passo fu fatto.

V.

Col progresso del tempo e dell’idolatria trasformandosi e corrompendosi le nozioni primitive, avvenne che in mancanza della quercia di Mambre, presero il costume di riguardare la quercia ordinaria, gli uni come un albero dove il Dio del cielo si compiaceva di far suo soggiorno: gli altri come la figura del Dio del cielo; ed altri finalmente come un albero consacrato per sua natura al Dio del cielo. Siccome tutte le nazioni pagane convenivano che Giove fosse il Dio del cielo, cosi tutti convennero che la quercia fosse la dimora, o la figura, o l’albero di Giove.

VI.

Cosi spiegasi la religiosa venerazione di tutti i popoli dell’antichità verso la quercia, la quale fu presso i nostri antenati più grande che altrove. Nessun di loro, uomo o donna, osava toccar la quercia colla mano. L’uso costante era di lasciarla infracidire sul suo tronco, di non impiegarla ad uso alcuno, neppure a quello del fuoco, e d’esser presi al suo cospetto da un sacro terrore. Quanto si è detto provasi, tra gli altri, dal fatto seguente. Cesare aveva alcuni Galli nel suo esercito. Un giorno ordinò loro d’abbattere alcune querce. Dovettero obbedire; ma con mani tremanti, e penetrati sì vivamente dalla maestà del luogo, da temere che tutti i colpi dati contro le querce non si rivolgessero contro di loro. (Lucan. Lib. III).

VII.

Ciò non è tutto. I Druidi portavano la loro venerazione alla quercia tant’ oltre, che non osavano offrire alcun sacrificio senza la quercia, o senza le foglie, o senza i rami di essa. Giungevano a tale che appendevano e crocifiggevano alle querce e mai ad altri alberi, se non in mancanza di esse, i prigionieri fatti ai nemici, in modo che il loro supplizio era un sacrifìcio in onore dell’albero sacro.

VIII.

Per sempre più dimostrare il loro rispetto per quest’albero misterioso, i Druidi s’erano, come noi abbiamo già notato, fatta una legge di stabilire la loro dimora nei boschi di querce, di tenervi le loro assemblee, di piantarvi i loro tribunali per render giustizia, d’avervi i loro collegi per l’educazione della gioventù gallica; e tutto ciò col fine di non perder mai di vista la quercia, d’essere ognora in grado di potervi fare i sacrifìci o di meditar con maggior raccoglimento sulla divinità, di cui la quercia era il rappresentante.

IX.

Quindi è che i Galli non avevano altri templi che le foreste, e particolarmente le foreste di quercie. « Essi non hanno, dice Tacito, per tempio che una foresta, dove adempiono tutti i doveri della religione. Niuno può avere ingresso nella foresta, se non porta una catena in testimonianza della sua dipendenza da Dio e del sovrano dominio di Dio su lui. – « Se gli avviene di cadere, non gli è permesso di rialzarsi, né è permesso a chicchessia di prestargli aiuto; fa d’ uopo che si strisci sul suo ventre.» [De morib. Germ.]

X.

Veniamo ora alle cerimonie osservate dai Druidi in cogliere il vischio della quercia. Plinio ce ne ha lasciata la descrizione. « I Druidi, dice egli, che sono presso i Galli quel che sono i maghi altrove, non hanno nulla di più sacro quanto la quercia ed il vischio da essa prodotto. Scelgono dunque sempre un legno di quercia. Hanno di quest’albero una sì alta idea, che non fanno la più piccola cerimonia senza portare una corona di foglie di quercia. Stimano che tutto ciò che nasce su quest’ albero venga dai cieli, e che sia un segno evidente che Dio lo ha scelto.

XI.

« Il vischio è difficilissimo a trovarsi. Quando lo si è trovato, i Druidi vanno a prenderlo con profondo rispetto. E ciò fan sempre nel sesto giorno della luna, giorno sì celebre per loro, che 1’han preso pel principio dei loro mesi, dei loro anni ed anche dei loro secoli, i quali non sono che di trenta anni. La scelta che fanno di questo giorno, viene da ciò che la luna ha allora molta forza, benché non sia giunta al suo completo accrescimento; finalmente sono tanto prevenuti in favore di questo giorno, che gli danno nella loro lingua un nome che significa: medico di tutti i mali.

XII.

« Allorché i Druidi han preparato sotto l’albero quanto serve al sacrificio ed al banchetto che debbono celebrarvi, fanno avvicinare due buoi bianchi, cui per la prima volta legano insieme per le corna. Poscia un sacerdote rivestito di un abito bianco, sale sull’albero, taglia con una falciuola d’oro il vischio e lo riceve in un sagum (tela bianca). Quindi seguono i sacrifici, che i Druidi offrono a Dio, chiedendogli che il vischio formi la felicità di coloro che lo ricevono. – « Perché credono che l’acqua del vischio renda fecondi gli animali sterili, e che sia uno specifico contro ogni sorta di veleni. » [Hist. Nat., lib. XVI, c. XLIV].

XIII.

Pare certo che la cerimonia del vischio non si facesse che nelle foreste del paese di Chartres, e quando v’era l’assemblea generale dei Druidi. Ora i Druidi non si riunivano che una volta all’anno, e nel paese di Chartres. La cerimonia del vischio era la più solenne della religione. E dunque naturalissimo che i Druidi scegliessero, per compierla, il momento in cui i Galli di tutte le provincie eran riuniti. Infine, quanto a quel che dice Plinio, che il vischio della quercia era difficile a trovarsi, non poteva ciò verificarsi che ne boschi del paese di Chartres, dove i Druidi si radunavano, e dove senza dubbio era sì raro, perchè eravi una legge che vietava di prenderlo altrove che là. – Passiamo ora al secondo punto, più importante ancora, della religione dei Galli: il sacrificio.

CAPITOLO XVIII

IL SACRIFICIO UMANO PRESSO I GALLI.

I.

La Santa Scrittura ci dice che tutti gli dèi dei pagani erano demoni: Omnes dii gentium dæmonia (Ps. XCV). Ora i Galli ne adoravano quattro dei principali, ossia quattro grandi demonii, conosciuti sotto i nomi d’Eso, Tettiate, Taranis, e Beleno. Il primo era il più celebre e il più temuto. Come il suo nome lo indica, sembra essere il Zeus, o il Giove, deus pater, dei Greci e dei Romani. In onore di questi quattro demoni, il sangue umano inondò, durante molti secoli, tutte le Provincie Galliche.

II.

La crudeltà era il carattere dei Galli; quindi quel costume barbaro d’offrire agli dèi quasi esclusivamente vittime umane. Tutti gli autori son d’accordo su questo punto. «Quando v’ha deiGalli, dice Cesare, aggravati da malattie, ed avvolti in guerre ed in pericoli, o immolano per vittime altri uomini, o fan voto d’immolarli. Credono essi che gli dèi si compiacciano di tali sacrifici, come più perfetti; e son persuasi non potersi altrimenti placare la possanza degli immortali dèi, se non se col sacrificare per la vita d’un uomo quella d’un altro uomo.

III.

« Hanno essi istituito pubbliche cerimonie, che quando si compiono questi sacrifici vi ha obbligo di osservare. Hanno simulacri di smisurata grandezza, intessuti di vinchi, i quali riempiono d’uomini vivi, a cui mettono fuoco. Le fiamme subitamente si apprendono, e quei miseri tosto soffocati, esalano lo spirito. Il supplizio degli uomini colti in furto, ladroneccio, od altro delitto, il tengono pel più accetto agli dèi immortali; ma, ove non abbiano vittime fra cotale gente, non lasciano di eleggerne anche fra gli innocenti.

IV.

« I funerali, sono magnifici; e tutto ciò che in vita credono essere stato caro agli estinti gettano sul rogo, non esclusi gli animali; anzi anche i servi e clienti, che sapevasi essere stati loro prediletti, erano gettati sul rogo; e si trovavano ancora parenti del defunto che si gettavano volontariamente nel fuoco, sperando vivere con lui nell’ altro mondo. » [De bell. Gall., lib. VI].

V.

Un’altra maniera di sacrificare gli uomini era quella di trafiggerli con frecce, o d’inchiodarli in croce, o di farne un olocausto con un certo numero d’ogni sorta di bestie, che facevano bruciare entro una gran macchina col fieno, attaccata ad un piolo. Alcune volte riservavano i rei per lo spazio di cinque anni. Quindi li attaccavano ai pali, costruivano all’intorno un gran rogo, che coprivano delle primizie dei loro frutti, e facevano d’ogni cosa un sacrificio ai loro dèi [Strab., lib. IV; Diod., lib. VI, c. IX].

VI.

Per garantirsi dalla peste, quando ne erano minacciati o assaliti, prendevano un povero, che presentavasi volontariamente ed lo nutrivano un anno intero molto delicatamente e sontuosamente, a spese del pubblico tesoro. Dopo il qual tempo, lo rivestivano d’ornamenti sacri, l’ornavano di verbene, e dopo averlo condotto per tutta la città caricandolo di maledizioni, e pregando che tutti i mali, da cui erano afflitti o minacciati, cadessero sopra lui, era precipitato dall’alto d’una roccia. Chi può dire quante volte le grandi rocce della cittadella di Besançon furono testimoni di questo spettacolo?

VII.

Non erano sempre i poveri quelli che servivano per siffatte vittime; procuravasi ancora in tutti i modi di guadagnar qualche persona delle più avvenenti e meglio conformate aliquis de elegantissimis, a forza di denaro, di ricompense e con la prospettiva dell’immortalità fra gli dèi, perché si sacrificasse per la salute della città o della provincia. E in tal caso si osservavano le medesime cerimonie che si osservavano per i poveri; ed alla fine d’un anno si ammazzavano fuori le mura a colpi di pietre.

VIII.

I sacrificii che si facevan per la nazione, per la provincia o per la città, si rinnovavano due volte il giorno, a mezzodì ed a mezzanotte. Gli altari erano formati di grandi e larghe pietre or quadrate in tutti i sensi, or più lunghe che larghe. La parte superiore era incavata a guisa di bacino o di canale, per ricevere il sangue delle vittime. Questi altari che si trovano ancora nelle foreste della maggior parte delle nostre provincie, portano il nome di dolmens. Confesso che non si può vederli senza dire: forse su questa pietra venne immolato uno degli avi miei! forse io stesso, senza il Cristianesimo, vi sarei stato disteso, legato e sgozzato dalle mani d’un drudo.

IX.

Ho detto legato; invero se la vittima doveva esser strozzata od accoppata, incominciavansi dal legarla fortemente, per impedirle di muoversi, temendo che il colpo mortale non andasse fallito, perché era essenziale nel sacrificio che le vittime sembrassero volontarie. Erano tanto rigorosi su questo punto, che allorquando tratta-vasi d’immolar fanciulli, le madri li tenevano fra le loro braccia colmandoli di carezze per soffocar le loro grida [Tertull. ApoL, IX]. –

X.

Abbiam veduto i Galli offrire vittime umane, sia in espiazione dei pubblici delitti, sia per allontanare i castighi meritati: eran le Targelie de’ Greci. Non è da far le meraviglie se le troviamo a Marsiglia, fondata da una colonia di Focesi. Solamente un lungo soggiorno nelle Gallie avea lor fatto adottare il dio principale dei Galli. Anche dopo la conquista dei Romani, essi adoravano, più o meno pubblicamente, il terribile Eso, con la sanguinaria superstizione delle primitive età.

XI.

« Fuori del ricinto di Marsiglia, dice Lucano, vi era un bosco sacro, sul quale non si era mai osato portar la scure, sin dall’origine del mondo. Gli alberi coronavano coi loro rami la terra ov’erano piantati; e dappertutto formavano de’pergolati, dove i raggi del sole non potevano penetrare, e dove regnava una frescura ed un’oscurità perpetua. Questo luogo era destinato a barbari misteri. In ogni canto non si vedevano che altari, sui quali si scannavano vittime umane, il cui sangue zampillando sugli alberi metteva ribrezzo.

XII.

« Le quercie, che mai agitansi al soffio d’un leggiero zefiro, infondon nell’animo un sacro orrore, non altrimenti che l’acqua oscura serpeggiante e scorrente pei diversi canali. Le forme del dio che vi si adora sono senz’arte, e consistono in tronchi rozzi ed informi; il muschio giallo che li copre da capo a pie’ ispira quella tristezza, che vedesi impressa sulla loro scorza. È proprio dei Galli non compenetrarsi di rispetto che verso quei dèi che son rappresentati in strane forme, e il loro timore aumenta in proporzione che ignorano gli dèi che adorano.

XIII

« La tradizione vuole, che questo bosco spesso si agiti e tremi; che allora escano dalle caverne voci strepitose; che i tassi abbattuti si raddrizzino; che il bosco sembri andar tutto in fuoco senza consumarsi, e che le querce siano attorcigliate da mostruosi dragoni. Nessun Gallo, pel gran rispetto che ne hanno, oserebbe abitar questo luogo si temuto; essi il lasciano tutto quanto al Dio. Soltanto a mezzogiorno ed a mezzanotte vi si porta un sacerdote tutto tremante per celebrare i suoi terribili misteri ; ei teme ognora che un qualche dio, a cui il bosco é consacrato, gli si abbia a presentar dinanzi» Ecco una foresta come tanti altri luoghi frequentata.

XIV.

Sotto una forma più espressiva ancora, quei di Marsiglia avevano le loro Targelie. In tempo di peste, prendevano un povero e il nutrivano delicatamente durante un intero anno; desso era una vittima che ingrassavano per satana. Alla fine dell’anno, prendevan quel poveretto, lo conducevan per la città; e caricandolo di anatemi, gli dicevano: Sii tu la nostra espiazione: Esto nostrum peripsema, e lo gettavano nel mare. [Vedi CORX. a LAP., in I cor., IV, 13]. – Questo avveniva in Francia, nella nostra cara e bella patria, prima della predicazione del Clericalismo. Ed oggi vogliono sterminare il clericalismo! E dicono, che tutte le religioni sono egualmente buone!

[N.d.r.- Così abbiamo capito anche da dove deriva l’uso di donare il vischio augurale e di quale augurio si tratti, da chi è stato istituito e ripreso! – E poi la quercia divenuta simbolo di partiti politici … è chiaro adesso di chi sono servi, no?]

CAPITOLO XIX.

EDITTI CONTRO IL SACRIFICIO UMANO. — IL SACRIFICIO UMANO PRESSO GL’INGLESI.

I.

L’ecatombe umane, che da tanti secoli duravano nella Gallia, avevano preso tali proporzioni, che gl’imperatori romani Claudio e Tiberio fecero parecchi editti per farli cessare; ma non vi riuscirono completamente. Solo il sacrificio divino poteva abolire il sacrificio umano. Questo continuò dunque ad offrirsi in segreto, non solo presso i Galli, ma a Roma stessa. Il fatto ci vien rivelato da Tertulliano: Sed et nunc in occulto perseverat sacrum facinus, e dagli altri storici cristiani e profani. Tutti affermano, che i sacrifici umani han continuato, e presso i Galli, e presso gli altri popoli, sino al terzo ed anche al quarto secolo: vale a dire sino a che l’influenza del cristianesimo non si fece sentire in una maniera efficace.

II.

Ond’è che provasi non so quale indignazione, al sentire gli scrittori di Roma pagana inveire contro la barbarie dei nostri padri, come se potessero esserne assoluti i Romani. Non solo noi potevano quanto al tempo anteriore, ma soprattutto quanto a quello in cui essi scrivevano. Questo tempo è quello che nei collegi sì chiama il secolo d’oro. I Romani, dicono Tertulliano, Lattanzio, Minuzio Felice ed altri scrittori del secondo e del terzo secolo, non si sono meno abbandonati a tale barbarie che gli altri popoli, perciocché ancora oggi giorno immolano vittime umane a Giove Laziale » [“Nec Latini quidem huius immanitatis expertes fuerunt; siquidem latialis Jupiter etiam nunc sanguine colitur humano”. Apol.tÌX; Scorp., VIII]. E che cosa possono essi addurre per colorire il terribile sacrificio, che Plutarco descrive coi seguenti termini? « All’appressarsi della guerra dei Galli, sotto la condotta di Viridomare, i Romani si videro costretti obbedire a certi oracoli, contenuti nei libri delle Sibille, e si portarono a sotterrar vivi nel mercato dei buoi due Greci, un uomo ed una donna, e due Galli all’istesso modo; e a causa di questi oracoli fanno ancora di presente, nel mese di novembre, sacrifici tenuti occulti agli occhi del popolo. » [In Marcel.].

III.

Tito Livio e Plinio mostransi di assai buona fede, quando confessano, che questo sacrificio fu ordinato e compito più d’una volta nel medesimo luogo, specialmente al cominciar della guerra punica, che segui quella di Viridomare. [Tit. Liv., XXII, c. LVI; Plin. ; lib. XXVIII, c. II]. – Esempi di tal fatta si moltiplicherebbero sotto la mia penna, s’io non dovessi tenermi breve. Per quel che resta all’Europa antica, mi contenterò dunque di parlare del sacrificio umano presso gli Inglesi.

IV.

Secondo antiche tradizioni, l’Inghilterra fu popolata dai demoni e dalle druidesse. Checché sia di ciò, l’Inghilterra addivenne per i Galli, quel che era la Toscana o l’Etruria per i Romani: il focolare dell’idolatria. A quella guisa che i Romani spedivano regolarmente in Etruria taluni figliuoli delle migliori famiglie, per farli istruire nei misteri della religione; così secondo le relazioni di Cesare, i Galli si recavano in folla nell’Inghilterra, a perfezionarsi nella conoscenza della religione.

V.

Come i Galli, gl’Inglesi avevano in gran numero druidi e druidesse. Ma neppur essi, come i Galli, avevan templi. I loro orrendi misteri si compievano nelle oscurità delle foreste. Tacito, descrivendo la discesa dei Romani nell’isola di Mona, oggi Anglesey, così si esprime: «Posciachè i Romani se ne resero signori, loro prima cura fu d’abbattere i boschi che i druidi e le druidesse macchiavano sempre col sangue d’umane vittime.» Se quegl’isolani avessero avuto dei templi, i Romani non avrebbero mancato di distruggerli, per quella medesima ragione onde avevano distrutto i boschi. Or, siccome Cesare non fa menzione dei viaggi dei Galli in Inghilterra, che per mostrare che essi si conformavano agl’Inglesi su tutti i particolari della religione, se ne conchiude a ragione che neppure i Galli avevano templi.

VI.

Abbiamo veduto che i Druidi delle Gallie godevano di grandi privilegi; or non così i Druidi d’Inghilterra, almeno quanto a ciò che concerne la guerra. I Druidi delle Gallie ne erano esenti, quei d’Inghilterra v’erano obbligati. N’è prova il fatto seguente, riportato da Tacito: « Sotto l’impero di Nerone, Paolino Svetonio prese a rendersi padrone dell’isola di Mona, situata al nord della Bretagna. « Egli trovò sul lido un fonte, difeso da uomini ben armati. Nelle loro file correvano qua e là donne scapigliate, con in mano la face, e vestite a lutto.

VII.

« D’altra parte, i Druidi giravano attorno l’armata, levando le mani verso il cielo e vomitando imprecazioni contro i Romani. Questo spettacolo spaventò i nostri soldati, sino a lasciarsi uccidere senza difendersi. Ma alla fine riprendendo coraggio ed animati dalle parole del generale, fanno avanzar le schiere, uccidono quanti si fan loro avanti, e li bruciano. In seguito fu loro imposto un tributo, e distrutto il bosco sacro, perché si recavano a dovere di religione di sacrificarvi i prigionieri e di consultare gli dèi nelle viscere degli uomini. » [Annal., lib. XIV, e. XXX. Per tutti i particolari sopra di ciò, vedi Histoir de la relig. de Gaulois. 1 vol. in 4]. Fa d’uopo aggiungere, che in Inghilterra, come nelle Gallie ed in tutte le parti del mondo antico, il serpente vivo, il serpente in carne ed ossa era religiosamente adorato. Il suo culto stesso era il principio del sacrificio umano. Ecco ov’era arrivata l’Inghilterra avanti la predicazione del Clericalismo. Ed oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

[Nota d. r.: Oggi il sacrificio umano sta riprendendo nuovamente piede, mascherato da integralismo islamico, da attentati suicidi, da omicidi etnici di massa, da sacrifici rituali nelle logge massoniche, da omicidi indotti dalle droghe liberalizzate, da aborto ed eutanasia, reclamati addirittura dai satanisti come diritti … certo hanno ragione: è il diritto che lucifero vanta sui popoli scristianizzati, sui quali domina nuovamente addirittura facendosi adorare nella falsa chiesa come “signore dell’universo”!]

MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO -IV- di mons. J. J. Gaume [capp. XIV-XV]

CAPITOLO XIV.

EUROPA – I ROMANI

I.

Dopo la nostra rapida escursione nell’antica Asia, dirigiamo il nostro viaggio verso l’Europa. Senza dubbio questa parte del mondo privilegiata fra tutte, non ci offrirà lo spaventevole spettacolo dei sacrifici umani. I Romani almeno, oggetto d’ammirazione per i collegi, per i licei ed anche per certi piccoli seminari, ebbero costantemente in orrore una simigliante barbarie. La educazione classica non li accusa mai d’avervi preso parte, è vero; ma l’educazione classica non è la storia. Questa ci aprirà i sanguinosi annali, e ci mostrerà che cosa fossero, non solo sotto il rapporto dei costumi, ma anche della crudeltà, quei Romani cosi vantati, che un cristiano non teme di scrivere, doversene adorar le reliquie.

II

È noto che i Romani avevan ricevuto dai Greci una parte delle loro istituzioni, tra le quali quella del sacrificio umano. I Romani dunque avevano, come i Greci, i loro pubblici espiatori, vittime, cioè, scelte e consacrate anticipatamente agli dèi. Nelle pubbliche calamità andavano a prenderle, affin di sgozzarle, nel luogo dove erano nutrite, come il beccaio a prendere nel pascolo il bue per condurlo al macello [“Romani et Græci tempore communis pestis aut luis homines pecullares seligebant, eosque nefando diis devuvebant ad cladem avertendam” – Cor. a Lap. in Levit.  c. XVI]

III.

Ecco, secondo Dionisio d’Alicarnasso, in qual modo andavan le cose: « Gli antichi Romani offrivano a Saturno delle vittime conforme a quelle che i Cartaginesi non cessarono di offrire per tutto il tempo che stette in piedi la loro repubblica, e conforme a quelle ancora offerte ai nostri giorni presso i Galli ed altri popoli dell’occidente, cioè a dire immolavano vittime umane, fanciulli. – « Non so per qual ragione, questa specie di sacrificio fu surrogata dalla seguente: invece degli uomini, che legati piedi e mani, erano precipitati nel Tevere per placare la collera degli dèi, fecero delle immagini simili ai medesimi uomini, rivestite nella stessa maniera. Poco dopo l’equinozio della primavera, agli idi di maggio, i pontefici, le vestali, i pretori e quelli che hanno il diritto d’ assistere ai sacrificii religiosi, gettano nel Tevere dall’alto del ponte sacro trenta immagini o fantocci rappresentanti uomini che essi chiamano Argivi o Greci. Quest’uso i Romani han conservato sino a’ tempi miei. » [Dionigi d’Alicarnasso viveva venticinque anni avanti Nostro Signore. Apud Euseb., Præp. vang., lib, IV, c. XVI].

IV.

I Romani non si contentaron mai di questi simboli di vittime umane, né di alcune vittime isolate. Primieramente, ogni volta che davansi nell’anfiteatro i giuochi in onore di Giove Laziale [“Latialis Iupiter et nunc sanguine colitur humano”. De divin. instit., lib. I, 13] o Laziare, la festa cominciava col sacrificio d’una vittima umana. La festa si rinnovava ogni anno, e durava quattro giorni. « Anche adesso, dice Lattanzio, Giove Laziale è onorato col sangue umano. » – Prudenzio, Dione Cassio e Tertulliano testificano il medesimo fatto. Il grande apologista cosi si esprime : « Ecco che in quella religiosissima città dei pietosi figli d’Enea, havvi un certo Giove, cui nei loro giuochi essi bagnano di sangue umano. » [“Ecce in Illa religiosissima urbe Æneadorum piorum est Iupiter quidam, quem Ludis suis humano proluunt sanguine”. Apol, IX]. – S. Cipriano conferma il fatto, e descrive la maniera con cui si fa l’immolazione. Il sacerdote scannava la vittima, ne raccoglieva ancor caldo il sangue in una coppa, e lo gettava in faccia all’idolo sitibondo. [“Cruor etiam de jugulo calidus exceptus patera, cum adirne fervet, et quasi sitienti idolo, in faciem jactatur crudeliter propinatur”. De spectaculis. Vedi le note sopra Euseb., Praep. evang.» lib. IV, c XV, nota 2].

V.

Secondariamente, i combattimenti de’ gladiatori nell’anfiteatro non erano altro che ecatombe umane offerte agli dèi, in rendimento di grazie per qualche vittoria, o per qualche grande avvenimento favorevole alla Repubblica. Era l’adempimento della promessa fatta dai generali romani, allorquando assediavano una città. Loro prima cura era di pronunciar la formula d’evocazione, colla quale pregavano le divinità protettrici della città, d’abbandonarla e di venire nel loro campo. A questa condizione promettevano loro dei templi e dei giuochi, vale a dire, combattimenti d’uomini, ovvero immolazioni di vittime umane. Per render grazie agli dèi della presa di Gerusalemme, Tito diede cinquemila coppie di gladiatori; vuol dire che egli fece immolare, nello spazio di venti giorni, dieci mila vittime umane.

VI.

Ottavio, che fu poi l’imperatore Augusto, gliene aveva dato l’esempio. Dopo la presa di Perugia, offri egli in sacrificio a’ mani di Cesare trecento cavalieri o senatori romani. [“Trecentus ex diditiis electos, utriusque ordinis ad aram divo Iulio extructam, idibus Martìi hustiarum more mactatos”.— Svet., in Octav. n. 10]. E con ciò non faceva che seguir l’esempio dello stesso Cesare, « Dopo i giuochi che fece egli celebrare pel suo trionfo riportato sopra Vercingetorige (che fu scannato), i suoi soldati s’ammutinarono. Il disordine non cessò che allorquando Cesare presentatosi nel mezzo di loro, afferrò di sua mano uno degli ammutinati per darlo al supplizio. Questi fu punito per tal motivo; ma due altri uomini furono inoltre scannati a mo di sacrificio. E furono immolati nel campo di Marte dai pontefici e dal flamine di Marte. Del resto, continua Tito Livio, era permesso al console, al dittatore ed al pretore, quando maledivano le legioni de’nemici, consacrare alla morte non solo sé stessi, ma anche uno de’cittadini scelto in mezzo ad una legione romana.»

VII.

Quel medesimo “spirito” che ordinava un dì nel mondo pagano i sacrifici umani, gli ordina anche oggidì in tutti i paesi, ove esso continua a regnare senza controllo: là sotto il nome di Marte, di Giove e d’Apollo: qui sotto il nome di Fetisci, o di Manitu. Cosi l’antropofagia sotto una o sotto un’altra forma continua il sacrificio. Gli abitatori dell’Oceania mangiano le loro vittime coi denti, mentre ché i Romani le divoravano cogli occhi, e le assaporavano con gusto. Quelli sono selvaggi incolti, questi erano inciviliti. Presso gli uni e presso gli altri tu trovi la sete, naturalmente inesplicabile, di umano sangue.

VIII.

Guardata attraverso la Roma cristiana, dice il Sig. L. Veuillot, la Roma antica ispira subito ribrezzo. Quei grandi Romani, quei padroni del mondo non appaiono che letterati selvaggi. V’ha forse tra i cannibali cosa di più atroce, di più abominevole, o di più abietto che la più parte dei costumi religiosi, politici, o civili dei Romani? V’ha forse una lussuria più sfrenata, una crudeltà più infame, un culto più stupido? Qual differenza, fosse pur di semplice forma, può farsi tra i Fetisci e gli dèi Lari? Qual differenza tra il capo dell’orda antropofaga, che mangia il vinto suo nemico, ed il patrizio che compra dei vinti, perché combattano sotto i suoi occhi, o si uccidano nei banchetti? » – Questo accadeva presso i Romani avanti la predicazione del Clericalismo! Ed oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

CAPITOLO XV.

EUROPA — UNIVERSALITÀ DEL SACRIFICIO UMANO.—

GALLI — DRUIDI.

I.

Per non ripetere nella storia di ciascun popolo i sanguinosi particolari, di cui abbiam rapidamente delineato un quadro, diremo in generale che il sacrificio, siccome l’adorazione del serpente, ha fatto il giro del mondo antico, e che ha duralo fino alla predicazione del clericalismo. Ci basterà studiarlo più a fondo presso i popoli che c’interessano particolarmente: i Galli ed i Germani.

II

Quanto alla generalità del sacrificio umano, satana, re e dio del mondo antico, lo ha voluto su tutta la faccia della terra. La sua sete di sangue umano, insaziabile come il suo odio, non fu giammai spenta. Sotto mille forme differenti, presentasi alle adorazioni dei figli di Adamo, e domanda il loro sangue, il sangue di ciò che essi han di più caro. Per non ripetere nella storia di ciascun popolo i sanguinosi particolari, di cui abbiamo rapidamente delineato un quadro, diremo in generale che il sacrificio, siccome l’adorazione del serpente, ha fatto il giro del mondo antico, e che ha durato fino alla predicazione del Clericalismo. Ci basterà studiarlo più a fondo presso i popoli che c’interessano particolarmente: i Galli ed i Germani. – Gli Ebrei, i Fenici, i Moabiti, i Siri, i Giapponesi, i Tartari, gli Arabi, gli Egiziani, i Ciri, i Cartaginesi, gli Ateniesi, gli Spartani, gl’Ioni, i Pelasgi, gli Sciti, i Traci, i Taurini, i Germani, i Romani, gli Spagnuoli, gl’Inglesi ed i Galli hanno, per lunghi secoli, portati agli altari i loro simili ed i loro proprii figli.

III.

Tutti gli storici, pagani e cristiani, fan testimonianza di questo fatto mostruoso ed affatto inesplicabile al di fuori delle idee cristiane. Possiamo tra gli altri citare Manetone, Sanconiatone, Filone di Biblo, Erodoto, Platone, Pausania, Giuseppe, Filone l’Ebreo, Diodoro di Sicilia, Dionigi d’Alicarnasso, Cicerone, Cesare, Porfirio, Strabone, Macrobio, Plutarco, Quinto Curzio, Plinio, Lattanzio, Arnobio, Minuzio Felice, S. Cipriano; la più parte dei poeti greci e latini: Ennio, Virgilio, Sofocle, Silio Italico ed altri; e di più alcuni Padri della Chiesa: Tertulliano, Lattanzio, S. Agostino, S. Girolamo.

IV.

Veniamo ai Galli. La loro conoscenza ha per noi un interesse particolare, atteso che furono i nostri padri. Nel vedere la sanguinosa barbarie, nella quale essi erano immersi avanti la predicazione del Clericalismo, la parola ci verrà meno per qualificare quei tra i loro discendenti, che grandemente rei contraccambiano oggi con moneta d’ingiurie, d’odio, di calunnie e di persecuzioni, il Cristianesimo, cui son debitori dei lumi, della libertà, della civiltà e fin della vita.

V.

Presso i Galli esisteva una casta famosa, formidabile tanto per la sua potenza, quanto per la sua crudeltà; la casta dei Druidi, che è pregio dell’opera far conoscere. – I Druidi erano i sacerdoti dei Galli. Scelti tra i nobili della nazione, tutto dipendeva da essi. Formavano un corpo numeroso, distribuito in quasi tutte le province della Gallia, dove avevano collegi per istruir la gioventù, sopratutto la più nobile, la quale spesso abbracciava la loro professione. Fra tutti i privilegi di cui godevano, il principale era di creare ogni anno, in ciascuna città, quello che doveva governarla coll’autorità, e qualche volta col titolo di re. Il potere che continuavano ad esercitare sopra di lui era tale che egli niente poteva fare senza di loro, neppure convocare il suo consiglio. Cosicché a vero dire i Druidi regnavano, ed i re, benché assisi su troni d’oro, tra le pareti di superbe magioni, e nutriti splendidamente, non erano che ministri dei Druidi.

VI.

A loro apparteneva esclusivamente il dritto di regolare tutto ciò che riguardava la religione. Essendo la religione presso i Galli, come lo era presso tutti gli antichi, l’anima della vita pubblica non meno che della vita privata, i Druidi esercitavano un’autorità indipendente. Essi erano giudici nati ed arbitri assoluti dei diversi interessi della nazione, sì pubblici, che privati. Se mai insorgeva questione per qualche delitto, uccisione, eredità, i Druidi erano quelli che vi pronunziavano sopra senza appello. Se qualcuno, fosse anche dei più nobili, si rifiutava di stare alla loro sentenza, gli interdicevano i sacrifica, nel che presso i Galli consisteva la maggior pena. Colui che era così scomunicato, veniva ritenuto siccome un empio ed uno scellerato. Non era più ammesso a far da testimonio nelle cause; gli erano interdette tutte le cariche o dignità; ciascuno lo fuggiva, per timore che il suo incontro o la sua conversazione non gli arrecasse disgrazia.

VII.

I Galli non facevano sacrifici, senza chiamare i Druidi che li offrissero. Questo, non solamente perché i Druidi erano per condizione sacrificatori, e sacerdoti; ma eziandio perché erano stimati siccome perfettamente istruiti intorno alla volontà degli dèi, coi quali si credeva tenessero un intimo commercio. Quindi, allorché i Druidi volevano por termine a una guerra, bastava si presentassero. Fosse anche stato in mezzo alla mischia, essi arrestavano immantinente l’ardor dei soldati.

VIII.

Potentissimi ad arrestare i combattimenti, non lo erano meno ad eccitare alla guerra. La storia ne ha conservato un esempio memorabile. I Druidi non potevano soffrire il giogo dei Romani, che avevano fatto perdere alla nazione la libertà, e ad essi l’autorità. La morte dell’imperatore Vitellio parve loro un’occasione favorevole per rialzarsi. Il perché fan sollevare tutta la Gallia, promettendo, sulla fede d’un oracolo, che ricupererebbe la libertà. Oracolo funesto di cui si conobbe la falsità pel triste successo della rivolta.

IX.

Nulladimeno i Druidi non andavano mai alla guerra. Ne erano essi esenti come dai tributi. Ma dipendevano da un capo supremo, o gran sacerdote scelto tra essi e che godeva della piena autorità. Dopo la sua morte il più degno gli succedeva. Se v’erano più concorrenti, l’elezione si faceva per mezzo dei suffragi, dove solamente i Druidi davano il voto. Se accadeva che non si potessero accordare, si veniva alle armi, ed il più forte era nominato.

X.

Pare che i Druidi vestissero di stoffe dorate, rigate di porpora, e portassero collari e braccialetti alle mani ed alle braccia, come tutti i Galli sollevati alle prime dignità. È almeno certo che nelle cerimonie religiose, erano sempre bianco vestiti, con una corona di quercia sul capo, ed ai piedi sandali di legno pentagoni per distinguersi.

S. PIETRO, PAPA OCCULTO?

S. PIETRO, PAPA OCCULTO?

… Come i primi 40 Papi … secondo i sedevacantisti,  ed i teologi “faidate”!

Dal momento che la presenza del Papa legittimo, Gregorio XVIII, canonizzato validamente dai “veri” cardinali di Gregorio XVII [per i pagani e massonizzati: il Cardinal Siri], costituisce una situazione che di colpo cancella la falsa chiesa del novus ordo, le deliranti e sconce elucubrazioni sacrileghe di eretici sedevacantisti, sedeprivazionisti, fallibilisti e cani sciolti vari in libera uscita, si è cominciata ad insinuare l’idea balzana che il Papa “occulto” non abbia nulla di lontanamente cattolico. Questo è assolutamente vero, e a ben vedere è un’etichetta che ben si addice ed è applicabile esattamente ai papaclown dell’attuale Vaticano, ove il Papa c’è [… secondo loro!] ma non si vede, o meglio: si vede, ma non c’è! Effettivamente trattasi di “papa” occulto, una definizione che solo a sentirla fa accapponare la pelle. Ma non è finita qui, perché a sostegno di questa idea strampalata, si fa riferimento addirittura al divin Maestro Gesù-Cristo che avrebbe proclamato S. Pietro Capo della Chiesa pubblicamente! Questa è un’asserzione evidentemente vera per la Chiesa, ma falsa per coloro che non appartengono ad essa, come i modernisti conciliari e i sedevacantisti di ogni tipologia. Evidentemente i nostri “teologi fai da te”, essendosi svenati a consultare tutte le opinioni teologiche, si sono dimenticati di aprire il Vangelo, in particolare quello di S. Matteo, di S. Giovanni, e gli Atti degli Apostoli, mostrando pure una ignoranza colossale della storia della Chiesa. Ed allora diamo una bella rinfrescata alla mente annebbiata di questi intellettualoidi che giocano al “piccolo teologo”. “Dixit Ei: Pasce oves meas” [s. Jon. XXI, 17]; in S. Matteo al cap. XVI abbiamo con più particolari: “[13] Venit autem Jesus in partes Cæsareæ Philippi: et interrogabat discipulos suos….(…) [18] Et ego dico tibi, quia tu es Petrus, et super hanc petram ædificabo Ecclesiam meam, et portæ inferi non prævalebunt adversus eam.  Et tibi dabo claves regni cælorum. Et quodcumque ligaveris super terram, erit ligatum et in cælis: et quodcumque solveris super terram, erit solutum et in cælis. Tunc præcepit discipulis suis ut nemini dicerent quia ipse esset Jesus Christus. [XVI; 13, 18-20]. Questa sarebbe la proclamazione ufficiale del primo Pontificato fatta personalmente dal Capo della Chiesa Gesù-Cristo. La domanda che si pone ora è questa: “Ma sembra questa essere una proclamazione pubblica?” Le risposte possibili sono: 1) “Si, certamente – direbbe un Apostolo presente al fatto – essa fu conosciuta da noi tutti Apostoli, compreso la “canaglia” di Kariot, presenti sulla via di Cesarea e sulle rive del mare di Tiberiade [dove la canaglia non c’era più], all’apparizione di Gesù risorto, notizia che abbiamo poi man mano, quando ne abbiamo avuto la possibilità, estesa a tutti i credenti, ai Cristiani, che hanno saputo in un secondo momento che il Vicario di Cristo fosse s. Pietro, pur non avendolo mai potuto vedere direttamente”. – 2) No, essa non è mai stata pubblica – direbbe il fariseo ed il sadduceo, lo scriba, il pagano romano o greco – noi non l’abbiamo mai veduta, … la proclamazione andava fatta pubblicamente e solennemente, magari nel tempio o nel sinedrio a Gerusalemme, o nel senato a Roma. Quindi s. Pietro bar-Iona, sarebbe stato un pontefice “occulto” perché non visibile e non proclamato ufficialmente in un luogo pubblico frequentato da pagani, ebrei, atei, agnostici e gnostici, cabalisti, filosofi greci, e [aggiungerei …] oggi, dai sedevacantisti! Sembrerebbe avviarsi così l’ennesima diatriba, ma l’inghippo si supera con estrema facilità, come si può ben vedere già dalla stessa narrazione evangelica. La proclamazione del Pontefice è un affare che riguarda e compete alla Chiesa Cattolica, e va fatta con tutti i crismi e i canoni comandati dalla Chiesa stessa, stabiliti cioè da un Santo Padre [si guardi ad es. la XIX tesi della XIV questione del Cardinal Billot in De Ecclesia Christi], sia per i tempi di pace, che per i tempi di persecuzione; pertanto una volta eletto il Cardinale designato, la proclamazione avviene davanti agli stessi cardinali elettori ed alla parte [il piccolo gregge] della Chiesa presente, e non c’è scritto da nessuna parte che ci debba essere una rete televisiva che diffonda, tra una pubblicità e l’altra di pannolini e profilattici, la notizia a pagani, atei, massoni, eretici, protestanti o sedevacantisti, liberi pensatori che interpretano malamente scritture e magistero “pro domo sua”, a servizi segreti o ad indifferenti curiosi. La proclamazione va fatta davanti agli “Apostoli” designanti, e se i tempi lo permettono, davanti al mondo “fuori dalla Chiesa”. A quel punto l’elezione è valida a tutti gli effetti e nessuno potrà obiettare alcunché, anche se l’esercizio del Mandato pontificale non potrà essere costatato immediatamente da tutti, perché impedito. Tra i fedeli la notizia viene diffusa poi, come già accennato, con prudenza dagli stessi “Apostoli” designanti o dal clero e dai laici di comprovata fedeltà! Il Papa “occulto” è quindi argomento ozioso per atei, eretici, massoni, fallibilisti e tesisti, sedevacantisti apocalittici o monasteriali, e dementi vari fuori ospizio, in buona o cattiva fede; il Cattolico della Chiesa di Cristo sa di essere perseguitato e sa pure che il Santo Padre ancor più è perseguitato ed impedito nel suo Ufficio Apostolico, “Carica” che è legittima e reale, spiritualmente efficace e garante di tutta la Gerarchia in esilio e di tutti i veri Sacramenti, della Santa Messa “una cum” [Gregorio, nel nostro caso], l’unica Messa su tutto il pianeta terra attualmente valida ed operante come Sacrificio di Cristo offerto al Padre, unico culto a Lui gradito, come è sempre stato nella storia della Chiesa. I poverini, i “sede-occultisti” si dicono … in difficoltà … nella situazione attuale della Chiesa. Falso! Essi sanno ben guazzare in questo fango da loro alimentato e voluto per confondere tanti fedeli onde perderne l’anima per sempre, ed in questo si mostrano servi di satana, venduti per un piatto di putride lenticchie, quattro banconote o per insana vanità! – Ma torniamo alla storia della Chiesa, volutamente obliata: qui di Papa “occulto” [secondo il loro modo di dire modernista], oltre a S. Pietro ce n’è a iosa, ricordiamo per brevità San Clemente I, finito -pensate- in Crimea, S. Evaristo, S. Cornelio, etc, tutti proclamati in catacombe senza che ci fosse nemmeno un cronista dell’epoca a riportare la notizia a tribuni, sinagoghe, circhi massimi o minimi, al senato o al sinedrio, o nelle terme dei patrizi! Tutti questi Papi, martiri e santi confessori, non avrebbero nemmeno una … parvenza di “cattolicità”! Al momento non erano conosciuti da nessuno fuori dalla Chiesa, e la maggioranza dei Cristiani hanno saputo finanche dopo secoli, chi era stato il loro Papa, o il Papa dei loro genitori o nonni! A questo punto non sappiamo se ridere scompisciati, o piangere afflitti per questi fratelli marci nell’anima, ma pure nella mente. Preghiamo per essi perché siano ricondotti nella Chiesa Cattolica, l’unica Arca di salvezza, nella quale si ostinano con ogni sofisma e cavillo a non volere entrare. Chiediamo a tutti gli iscritti all’Arciconfraternita del Cuore Immacolato di Maria di pregare per la loro conversione … a noi no, ma alla Vergine Immacolata tutto è possibile ottenere da Dio, anche la conversione degli eretici e degli stolti! Ad ogni buon conto per i Cattolici [il piccolo resto], riportiamo per completezza le disposizioni che Papa Gregorio XVII in vista delle elezioni papali in tempi di persecuzione, ha scritto in un documento ben noto e ben “conservato” dalla Gerarchia da lui legittimamente creata.

Papa Gregorio XVIII ha ricevuto il potere secondo le norme determinate da Papa Gregorio XVII: Proclamazione del Papa davanti alla Chiesa e, quando possibile, davanti al mondo profano e pagano!

I. In tempi di pace:

1) Conclave – a) Elezione e b) Ricezione della Giurisdizione da parte del Cardinale eletto che diventa immediatamente Papa in presenza di una piccola parte della Chiesa;

2) fumata bianca. – Annuncio “Habemus Papam”,

3) Il Papa appare prima davanti a tutta la Chiesa, poi davanti al mondo sulla “balconata” di piazza S. Pietro. 

I. In tempi di persecuzioni:

1) Conclave – a) Elezione e b) Ricezione della Giurisdizione da parte del Cardinale eletto che diventa immediatamente Papa in presenza di una piccola parte della Chiesa, 2) Il Papa appare davanti agli elettori, quindi passo dopo passo davanti alla Chiesa intera. Nessuna fumata bianca dalla Cappella Sistina, né l’apparizione sulla “balconata” di piazza San Pietro in tempi di persecuzioni, perché la Chiesa è eclissata.

La differenza che oggi esiste tra il N.O. e la Chiesa Cattolica è che il N.O. è in “tempi pacifici”, mentre la Chiesa Cattolica è in tempi di persecuzioni.

Papa Gregorio XVIII agisce “in eclissi” e non può apparire davanti al mondo intero e perfino davanti a tutta la Chiesa. Così è sempre stato in tempi di persecuzioni. Tanti Papi perseguitati e in esilio sono stati conosciuti dopo secoli … ma per gli eretici, erano Papi “occulti”, in cui non c’era neppure l’ombra della Cattolicità! – Che Dio ci scansi!

 

IL GIURAMENTO ANTIMODERNISTA

Il giuramento antimodernista fu introdotto da papa Pio X con il motu proprio Sacrorum Antistitum il 1 settembre 1910. – Il giuramento obbligava i modernisti, come spiega Civiltà Cattolica [quando ancora era un giornale cattolico], a riconoscere “l’errore e convertirsi, o almeno, di gettare la maschera e scoprirsi {…} riconducendoli ad una sincera adesione e ad una professione schietta delle dottrine della fede”. Il Santo Padre aveva compreso molto bene che l’attacco alla Chiesa veniva soprattutto dalla quinta colonna dei modernisti infiltrati che con astuzia ed inganno, andavano occupando le “poltrone” più ambite e le “leve di comando” della gerarchia e delle istituzioni della Chiesa Cattolica. Con questo giuramento egli voleva mettere quantomeno un argine al diluvio di empietà che montava nei sacri palazzi e che sarebbe sfociato incontenibile nel “conciliabolo roncallo-montiniano”. Come sappiamo, poi, la cosa fu gestita da autorità deboli ed ondeggianti nella fermezza del loro operato, così ché addirittura il giuramento fu una prima volta eliminato, poi ripristinato da Pio XII e naturalmente, in pieno marasma conciliare e post conciliare, venne definitivamente abolito da sua satanità, il marrano omosessuale antipapa ultramodernista, pontefice degli Illuminati, la “ruspa” demolitrice delle fondamenta della Chiesa, da colui che intronizzò il suo mandante: satana, in Vaticano nella Cappella Palatina il 29 giugno del 1963 con una doppia messa nera. Questo documento però non è semplicemente un reperto di antiquariato storico, bensì un’appendice al Credo di S. Atanasio, per cui il “vero” cattolico dovrebbe recitarlo insieme al “simbolo” per comprendere bene i confini della fede cattolica, l’unica che appartiene alla Chiesa di Cristo, l’unica fede che da salvezza eterna; quindi oltre che un documento da studiare e meditare con grande attenzione, esso deve essere recitato come una preghiera in appendice al “Simbolo atanasiano”, anzi come integrazione in chiave antimodernista dello stesso, sperando così di dare un piccolo ma significativo contributo alla eradicazione del modernismo oggi in doppia versione: 1) a marcia rapida [il Novus ordo mondialista], ed 2) a “marcia apparentemente ridotta” e doppiamente ingannevole dei movimenti “tradizionalisti”, puntello oramai irrinunciabile del primo, del quale critica tanti aspetti evidenti [giusto per dare un pò di fumo negli occhi di fedeli deboli ed ignoranti della dottrina cattolica], ma in realtà poi sempre pronto a sostenerli con arguzie ed artifici pseudo-teologici [si pensi solo di passaggio alla buffa ed antitomistica Tesi del domenicano, falso vescovo francese della linea dello psico instabile Thuc, o alle eresie di Fenney e sedevacantisti vari, di ridicoli monasteri, di fittizi istituti e di cani sciolti in libero scorrazzamento]. Con tali intenzioni, proponiamo ai fedeli “veri” cattolici in unione con Papa Gregorio XVIII [Papa ben noto e visibile alla Gerarchia Cattolica, e attraverso questa fatto conoscere per fede ai pochi residui “veri” cattolici, ma per ovvi motivi di sicurezza non noto al mondo profano, pagano, ateo, massonico, finto-tradizionalista, mondialista novus-ordista, ai servizi segreti ed ai curiosi sfaccendati attuali. Appena il mondo tornerà nella pace e la persecuzione della Chiesa di Cristo sarà finita, magari dopo i tre giorni di buio profetizzati da tante voci in tempi e luoghi diversi, tutti concordanti e rigorosamente approvati dalla Chiesa, allora anche i curiosi beffardi ed i dilettanti del gioco “i piccoli teologi” [se ce ne saranno ancora!!!], potranno essere accontentati. Per il momento leggiamo [in italiano] e preghiamo [in latino].

GIURAMENTO ANTIMODERNISTA

Io N. N. fermamente accetto e credo in tutte e in ciascuna delle verità definite, affermate e dichiarate dal magistero infallibile della Chiesa, soprattutto quei principi dottrinali che contraddicono direttamente gli errori del tempo presente. – Primo: credo che Dio, principio e fine di tutte le cose, possa essere conosciuto con certezza e possa anche essere dimostrato con i lumi della ragione naturale nelle opere da Lui compiute (cf Rm I,20), cioè nelle creature visibili, come causa dai suoi effetti. – Secondo: ammetto e riconosco le prove esteriori della rivelazione, cioè gli interventi divini, e soprattutto i miracoli e le profezie, come segni certissimi dell’origine soprannaturale della religione cristiana, e li ritengo perfettamente adatti a tutti gli uomini di tutti i tempi, compreso quello in cui viviamo. – Terzo: con la stessa fede incrollabile credo che la Chiesa, custode e maestra del verbo rivelato, è stata istituita immediatamente e direttamente da Cristo stesso vero e storico mentre viveva fra noi, e che è stata edificata su Pietro, capo della gerarchia ecclesiastica, e sui suoi successori attraverso i secoli. – Quarto: accolgo sinceramente la dottrina della fede trasmessa a noi dagli Apostoli tramite i Padri ortodossi, sempre con lo stesso senso e uguale contenuto, e respingo del tutto la fantasiosa eresia dell’evoluzione dei dogmi da un significato all’altro, diverso da quello che prima la Chiesa professava; condanno similmente ogni errore che pretende sostituire il deposito divino, affidato da Cristo alla Chiesa perché lo custodisse fedelmente, con una ipotesi filosofica o una creazione della coscienza che si è andata lentamente formando mediante sforzi umani e continua a perfezionarsi con un progresso indefinito. – Quinto: sono assolutamente convinto e sinceramente dichiaro che la fede non è un cieco sentimento religioso che emerge dall’oscurità del subcosciente per impulso del cuore e inclinazione della volontà moralmente educata, ma un vero assenso dell’intelletto a una verità ricevuta dal di fuori con la predicazione, per il quale, fiduciosi nella sua autorità supremamente verace, noi crediamo tutto quello che il Dio personale, Creatore e Signore nostro, ha detto, attestato e rivelato. – Mi sottometto anche con il dovuto rispetto e di tutto cuore aderisco a tutte le condanne, dichiarazioni e prescrizioni dell’enciclica Pascendi e del decreto Lamentabili, particolarmente circa la cosiddetta storia dei dogmi. Riprovo altresì l’errore di chi sostiene che la fede proposta dalla Chiesa può essere contraria alla storia, e che i dogmi cattolici, nel senso che oggi viene loro attribuito, sono inconciliabili con le reali origini della religione cristiana. – Disapprovo pure e respingo l’opinione di chi pensa che l’uomo cristiano più istruito si riveste della doppia personalità del credente e dello storico, come se allo storico fosse lecito difendere tesi che contraddicono alla fede del credente o fissare delle premesse dalle quali si conclude che i dogmi sono falsi o dubbi, purché non siano positivamente negati. – Condanno parimenti quel sistema di giudicare e di interpretare la Sacra Scrittura che, disdegnando la tradizione della Chiesa, l’analogia della fede e le norme della Sede apostolica, ricorre al metodo dei razionalisti e con non minore disinvoltura che audacia applica la critica testuale come regola unica e suprema. – Rifiuto inoltre la sentenza di chi ritiene che l’insegnamento di discipline storico-teologiche o chi ne tratta per iscritto deve inizialmente prescindere da ogni idea preconcetta sia sull’origine soprannaturale della tradizione cattolica sia dell’aiuto promesso da Dio per la perenne salvaguardia delle singole verità rivelate, e poi interpretare i testi patristici solo su basi scientifiche, estromettendo ogni autorità religiosa e con la stessa autonomia critica ammessa per l’esame di qualsiasi altro documento profano. – Mi dichiaro infine del tutto estraneo ad ogni errore dei modernisti, secondo cui nella sacra tradizione non c’è niente di divino o peggio ancora lo ammettono ma in senso panteistico, riducendolo ad un evento puro e semplice analogo a quelli ricorrenti nella storia, per cui gli uomini con il proprio impegno, l’abilità e l’ingegno prolungano nelle età posteriori la scuola inaugurata da Cristo e dagli Apostoli. – Mantengo pertanto e fino all’ultimo respiro manterrò la fede dei padri nel carisma certo della verità, che è stato, è e sempre sarà nella successione dell’episcopato agli Apostoli, non perché si assuma quel che sembra migliore e più consono alla cultura propria e particolare di ogni epoca, ma perché la verità assoluta e immutabile predicata in principio dagli Apostoli non sia mai creduta in modo diverso né in altro modo intesa. – Mi impegno ad osservare tutto questo fedelmente, integralmente e sinceramente e di custodirlo inviolabilmente senza mai discostarmene né nell’insegnamento né in nessun genere di discorsi o di scritti. Così prometto, così giuro, così mi aiutino Dio e questi santi Vangeli di Dio.

 CREDO ANTIMODERNISTA APPENDICE DEL SYMBOLUS  “Quicumque”.

« Ego… N. N. firmiter amplector ac recipio omnia et singula, quæ ab inerranti Ecclesiæ magisterio definita, adserta ac declarata sunt, præsertim ea doc­trinae capita, quae huius temporis er­roribus directo adversantur. – Ac primum quidem Deum, rerum omnium principium et finem, natu­rali rationis lumine per ea quæ facta sunt, hoc est per visibilia creationis opera, tamquam causam per effectus, certo cognosci, adeoque demonstrari etiam posse, profiteor. – Secundo, externa revelationis argu­menta, hoc est facta divina, in primi­sque miracula et prophetias admitto et agnosco tamquam signa certissima divinitus ortæ christianæ Religionis, eademque teneo ætatum omnium atque hominum, etiam huius tempo­ris, intelligentiae esse maxime ac­commodata. – Tertio: Firma pariter fide credo, Ec­clesiam, verbi revelati custodem et magistram, per ipsum verum atque historicum Christum, quum apud nos degeret, proxime ac directo in­stitutam, eandemque super Petrum, apostolicæ hierarchiæ principem eiusque in ævum successores ædifi­catam. – Quarto: Fidei doctrinam ab Apostolis per orthodoxos Patres eodem sensu eademque semper sententia ad nos usque transmissam, sincere recipio; ideoque prorsus reiicio hæreticum commentum evolutionis dogmatum, ab uno in alium sensum transeuntium, diversum ab eo, quem prius habuit Ecclesia; pariterque damno errorem omnem, quo, divino deposito, Christi Sponsæ tradito ab Eâque fideliter cu­stodiendo, sufficitur philosophicum inventum, vel creatio humanæ con­scientiæ, hominum conatu sensim efformatæ et in posterum indefinito progressu perficiendæ. – Quinto: certissime teneo ac sincere profiteor, Fidem non esse coecum sensum religionis e latebris sub con­scientiæ erumpentem, sub pressione cordis et inflexionis voluntatis mora­liter informatæ, sed verum assensum intellectus veritati extrinsecus accep­tæ ex auditu, quo nempe, quæ a Deo personali, creatore ac domino nostro dicta, testata et revelata sunt, vera esse credimus, propter Dei auctorita­tem summe veracis. Me etiam, qua par est, reverentia, subiicio totoque animo adhæreo damnationibus, declarationibus, præscriptis omnibus, quae in Encyclicis litteris «Pascendi» et in Decreto «La­mentabili» continentur, praesertim circa eam quam historiam dogmatum vocant. – Idem reprobo errorem affirman­dum, propositam ab Ecclesia fidem posse historiæ repugnare, et catho­lica dogmata, quo sensu nunc intel­liguntur, cum verioribus christianæ religionis originibus componi non posse. – Damno quoque acreiicio eorum sententiam, qui dicunt, christianum hominem eruditiorem induere perso­nam duplicem, aliam credentis, aliam historici, quasi Iiceret historico ea retinere quæ credentis fidei contra­dicant, aut præmissas adstruere, ex quibus consequatur dogmata esse aut falsa aut dubia, modo hæc directo non denegentur. – Reprobo pariter eam Scripturæ Sanctæ diiudicandæ atque inter­pretandæ rationem, quæ, Ecclesiæ traditione, analogia Fidei, et Apo­stolicæ Sedis normis posthabitis, rationalistarum commentis inhæret, et criticen textus velut unicam supremamque regulam, haud minus licen­ter quam temere amplectitur. – Sententiam preterea illorum reiicio qui tenent, dottori disciplinæ histo­ricæ theologicæ tradendæ, aut iis de rebus scribenti seponendam prius. – Hæc omnia spondeo me fideliter, integre sincereque servaturum et in­violabiliter custoditurum, nusquam ab iis sive in docendo sive quomodo­libet verbis scriptisque deflectendo. Sic spondeo, sic iuro, sic me Deus etc.».

 

 

DOMENICA V dopo PASQUA

Introitus

Isa XLVIII:20 Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiate usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja [Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia] Ps LXV:1-2 Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus. V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen

 

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiáte usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja [Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

Oratio V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo. Orémus.

Deus, a quo bona cuncta procédunt, largíre supplícibus tuis: ut cogitémus, te inspiránte, quæ recta sunt; et, te gubernánte, éadem faciámus. [O Dio, da cui procede ogni bene, concedi a noi súpplici di pensare, per tua ispirazione, le cose che son giuste; e, sotto la tua direzione, di compierle.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli.

Jas I:22-27

Caríssimi: Estóte factóres verbi, et non auditóres tantum: falléntes vosmetípsos. Quia si quis audítor est verbi et non factor: hic comparábitur viro consideránti vultum nativitátis suæ in spéculo: considerávit enim se et ábiit, et statim oblítus est, qualis fúerit. Qui autem perspéxerit in legem perfectam libertátis et permánserit in ea, non audítor obliviósus factus, sed factor óperis: hic beátus in facto suo erit. Si quis autem putat se religiósum esse, non refrénans linguam suam, sed sedúcens cor suum, hujus vana est relígio. Relígio munda et immaculáta apud Deum et Patrem hæc est: Visitáre pupíllos et viduas in tribulatióne eórum, et immaculátum se custodíre ab hoc sæculo

R. Deo gratias.

DOMENICA V dopo PASQUA: Omelia della lettura

[Bonomelli: vol. II, Omelia XXIII]

“Carissimi! siate operatori della parola e non soltanto ascoltatori, ingannando voi stessi. Poiché se altri è ascoltatore e non operatore della parola, costui sarà simile ad un uomo, che, avendo rimirato in uno specchio il suo volto al naturale e consideratolo, se ne ritrae tosto, dimentico di quello ch’esso è. Ma chi si è specchiato nella legge perfetta della libertà e vi perdura, non da smemorato ascoltatore, sebbene da ascoltatore operoso, questi sarà felice dell’opera sua. Che se qualcuno si pensa d’essere religioso, non imbrigliando la sua lingua, ma ingannando se stesso, la pietà di costui è vana. La religione pura e intemerata, presso Dio e Padre, è questa: Visitare gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e serbarsi “netto di questo mondo „ (S. Giacomo, c. I, vers. 22-27). – Forse voi non avete dimenticato l’omelia dell’ultima Domenica, nella quale presi a commentare alcune sentenze della lettera di san Giacomo, che si leggono nella santa Messa. Or bene; sappiate, o cari, che queste che adesso avete udito, sono la continuazione di quelle ch’ebbi a spiegarvi. Non vi è nulla di difficile, ma molto da apprendere, e ciò che importa anche maggiormente, le cose, che vi dirò, rispondono ai bisogni d’ogni classe di persone, e ciò deve accrescere, se è possibile, la vostra attenzione. – S. Giacomo nel versetto che sta immediatamente prima di quello che siamo per commentare e che fu l’ultimo spiegato nell’altra omelia, aveva detto: “Accogliete docilmente la parola in voi seminata, che può salvare le anime vostre; „ a questa esortazione di ricevere la parola od insegnamento evangelico con docilità, che ha virtù di salvare le anime, con passaggio naturalissimo il nostro apostolo fa seguire quest’altra sentenza, che la completa: “Siate poi operatori della parola e non soltanto ascoltatori.„ Buona e santa cosa è udire la parola del Vangelo e con essa accogliere la verità: ma non basta, come non basta al campo ricevere il seme; è mestieri, che lo faccia germogliare e renda moltiplicato il frutto. Miei cari! la Religione nostra santissima consta di due parti, del Simbolo e del Decalogo: quello è la regola del credere, questo è la norma dell’operare; quello guida la mente e deve precedere, questo guida la mano e deve seguire. Vi sono alcuni, i quali gridano sempre: La fede! i principi! ma poco si curano delle opere: vi sono altri che dicono: Le opere! i fatti! basta essere onesti, giusti e non parlano del Simbolo; errano questi e quelli: si esige la fede e si esigono le opere, è necessario il Simbolo ed è necessario il Decalogo. L’uomo non è soltanto anima e mente, ma è anche volontà, ed ha il corpo, e deve servire a Dio coll’anima e colla mente ed anche colla volontà e col corpo, cioè colle opere. Direste, voi che è perfetto pittore colui, che ne conosce tutte le regole, che si contenta di contemplare colla mente i suoi ideali, siano pur bellissimi, e che non ci mostra mai sulla tela una figura? Direste voi che è buono quel figliuolo, il quale conosce benissimo i suoi doveri verso di voi, o genitori, e li confessa e protesta di volervi amare e ubbidire, e poi non vi dà mai una prova di amore e di ubbidienza coi fatti? Certo la fede è necessaria, è la radice della vita cristiana, è il seme, che ci deve dare l’albero e il frutto; ma la fede, o cari, può vivere a lungo se non è nutrita dalle buone opere? È ben difficile. Essa è come un albero, su cui per lunghi mesi non discende la pioggia, o che la mano industre del contadino non irriga opportunamente: a poco a poco le sue foglie ingialliscono, cadono, e l’albero finalmente muore. Non dimenticatelo mai, o dilettissimi; generalmente la fede muore perché non accompagnata o avvivata dalle opere: sono le passioni appagate, sono cioè le opere che mancano, quelle che fanno inaridire l’albero della fede. Il credere non costa molto, o cari, massime al popolo: ciò che costa è l’operare, e la maggior parte di quelli che trai i cristiani si perdono, si perdono non per essere trovati manchevoli del Simbolo, ma per aver fallito nel Decalogo. Siamo dunque non semplici ascoltatori, ma operatori della parola, e la nostra fede mostriamola colle opere; se questo non faremo, inganneremo noi stessi, perché è chiara la sentenza di Gesù Cristo che protesta: “Non chi avrà detto: Signore, Signore, ma chi avrà fatto la volontà del Padre mio (osservando la legge) sarà salvo [“Vera fides est, quæ in hoc quod dicit, moribus non contradicit” – S. Greg. M., Homil. 29. – “Monstruosa res gradus summus et animus infimus: sedes prima et vita ima; lingua magniloqua et manus otiosa: sermo multus et fructus nullus” (S. Bernard., De Consid., lib. 2, c. 7). – “Opus sermone fortius” ; Nazianz., Orat. 27]. – Per chiarire ed avvalorare la verità stabilita, il santo apostolo adopera una graziosa similitudine, e dice: ” Se altri è ascoltatore e non operatore della parola (cioè crede e non ha le opere, frutto della fede), è somigliante ad un uomo, il quale avendo rimirato il suo volto al naturale in uno specchio, consideratolo, se ne ritrae tosto, dimentico di quello ch’esso è.„ Lo specchio di sua natura riflette l’immagine di tutto ciò che gli sta dinanzi, e la riflette sempre e fedelmente: esso non inganna, non mentisce mai. Perché l’uomo si affacciai allo specchio? Per vedere il volto suo e tutta la persona. Se nello specchio vede che il volto non è netto, non acconciati i capelli, scomposto l’abito e non abbastanza pulito, che fa tosto? Tenendo sempre l’occhio sullo specchio, lava e netta il volto, racconcia i capelli e compone debitamente il vestito. Similmente dee fare il cristiano: spesso deve farsi allo specchio dell’anima per vedere se in essa tutto è netto ed ordinato. E qual è lo specchio dell’anima? E la parola di Dio, è la fede, è l’insegnamento del Vangelo, che non erra e non inganna mai: specchiamoci in esso e vedremo tosto e con sicurezza se nella nostra condotta è tutto ordinato e conforme al volere di Dio. Fratello, accostati a questo specchio fedele della fede e della legge divina; esso ti farà conoscere qual sei. Esso ti mostrerà assai spesso il volto dell’anima tua bruttato da pensieri ed affetti indegni di cristiano: ti farà vedere le macchie della vanità, della superbia, del disordinato amore ai beni di quaggiù, dello stravizio e della intemperanza, della maldicenza, della discordia, della disubbidienza, dell’invidia, della pigrizia, della trascuratezza dei tuoi doveri cristiani e va dicendo. Oh! quante macchie scorgerai nell’anima tua dinanzi a quello specchio infallibile, se ben addentro vi spingerai lo sguardo. E allora che dovrai fare? Precisamente quello che fanno tutti coloro, uomini e donne, che si riguardano nello specchio. Devi lavare quelle macchie, mondarti di quelle sozzure, emendarti di tutte le tue mancanze, affinché il volto dell’anima tua apparisca bello, nitido, simile al gran modello, che è Gesù Cristo [“Splendidissimum in mandatis suis (Deus) condidit speculum, in quo homo suæ mentis faciem inspiceret et quam conformis imagini Dei, aut quam dissimila esset agnosceret”; S. Leonis, Serm. 11]. – Che diresti tu di quell’uomo, di quella donna, i quali dopo essersi lungamente riguardati nello specchio e viste tutte le macchie, ond’è brutto il volto e l’abito, se ne andasse e non si curasse punto di nettarsene? Diresti che è uno stolto, uno smemorato, e che se non voleva far nulla per nettarsi, non valeva la pena che ricorresse allo specchio e vi si rimirasse! e bene a ragione. Il somigliante è da dire di quel cristiano e di quella cristiana, che ascoltano la parola di Dio, conoscono la sua legge, e in essa, quasi in ispecchio tersissimo, vedono la propria anima tutta lorda e sozza per tante colpe e male abitudini, e, come non si trattasse di loro, tranquillamente se ne vanno e non si emendano. Carissimi! no, no, non imitiamo questi spensierati, che dimenticano sì facilmente qual è il volto loro al naturale, che sono ascoltatori, e non operatori della parola divina; ma per contrario, siamo imitatori, come vuole S. Giacorno, di colui “che si è specchiato nella legge della libertà (cioè nella legge evangelica, che ci ha affrancati dal male e ci dà la libertà del bene) e vi perdura, non da ascoltatore dimentico, ma da operatore col fatto; questi, questi! esclama S. Giacomo, sarà felice e beato dell’opera sua, „ e raccoglierà il frutto della redenzione. – Alla trascuratezza e spensieratezza dell’uomo che ascolta la parola di Dio e in essa si specchia senza cavarne vantaggio, toccata, nel versetto superiore, S. Giacomo oppone in questo versetto l’avvedutezza e la prontezza dell’uomo, che ascolta, conosce e, conformemente al conoscimento, regola la sua condotta colle opere. – Passiamo al versetto seguente: “Che se qualcuno crede di essere religioso, non raffrenando la sua lingua, ma ingannando se stesso, la sua religione è vana.„ Veramente, trattandosi d’una lettera come questa di S. Giacomo, che va tutta in sentenze morali pratiche, non si richiede che queste siano tutte legate tra loro, come in una trattazione scientifica. Esse possono stare benissimo anche separate, senza nesso di discorso, e alcuna volta ciò apparisce manifestamente, e potrebbe essere questo il caso della sentenza, che vi ho riportata. Ma, considerando meglio la cosa, mi pare che il nesso tra il nostro versetto e gli antecedenti esista, comecché alquanto remoto. Sopra S. Giacomo esorta i fedeli ad essere pronti ad udire e tardi a parlare; qui, ritornando su quella massima, la riconferma, dicendo, che se alcuno crede d’essere religioso o pio, che è tutt’uno, e non raffrena la sua lingua, costui si illude e mostra a fatti che la sua religione è vana. La lingua è lo strumento ordinario, mercé del quale comunichiamo altrui i nostri pensieri ed i nostri affetti, e non sarà facile frenare questi se non freniamo quella. La nostra mente e il nostro cuore sono come due sorgenti, dalle quali senza posa scaturiscono i nostri pensieri e i nostri affetti, buoni o rei ch’essi siano. Cessare di pensare o di amare è impossibile cosa; sarebbe come cessare di respirare: si muore. Nostra cura continua deve essere quella di vegliare sui pensieri della nostra mente e sugli affetti del nostro cuore, per reprimere i cattivi e lasciar libero il corso ai buoni; lavoro necessario e difficilissimo, perché esige un’incessante sorveglianza sopra di noi medesimi. Mezzo molto utile ed efficace a vegliare sopra i pensieri e gli affetti del nostro spirito sarà quello di vegliare sulla loro manifestazione mediante la lingua. Vegliare su questa importa vegliare sull’interno, giacché non si possono ponderare le parole senza ponderare i pensieri e gli affetti, che sono alle parole necessariamente congiunti, come il macchinista, se è prudente, non può regolare le valvole della locomotiva senza tener d’occhio in pari tempo la misura del vapore, ch’essa rinserra ne’ suoi fianchi. Vogliamo noi, o dilettissimi, regolare il nostro interno? Regoliamo l’esterno. Vogliamo stringere nelle nostre mani il freno della mente e del cuore? Custodiamo la porta, per cui escono, stringiamo il freno della lingua. Ciò facendo, noi avremo un altro vantaggio e non lieve, o cari. Un uomo, che continuamente versa tutti i suoi pensieri ed affetti per la via della lingua è simile a colui, che tiene sempre aperta la valvola della sua macchina: la forza del vapore se ne fugge tutta per essa e la macchina ben presto non può agire e cessa il lavoro. Perché la mente sia raccolta, i pensieri elevati eretti, gli affetti puri e nobili, è mestieri ponderarli; fa d’uopo concentrarci in noi stessi e riunire le forze tutte del nostro spirito per rivolgerle tutte insieme sopra un oggetto solo: se noi senza posa le disperdiamo fuori di noi colla parola, rimarremo vuoti, deboli, impotenti. Vedete l’acqua, che discende dal monte: se la imprigionate opportunamente in vasi, o tubi, si solleva, se volete, fino all’altezza dalla quale discende; se voi la lasciate scorrere liberamente sul suolo, si spande e sparisce: così avviene, dice S. Gregorio M., dell’anima nostra: tenetela raccolta in se stessa: si innalza coi suoi pensieri fino a Dio: lasciate che colle parole si effonda d’ogni parte, come per altrettanti rivi, si distrarrà, e sperderà miseramente le sue forze [S. Gregor. M., Moral., lib. 7. cap. 7). Se noi non custodiremo debitamente la nostra lingua, sappia telo bene, la nostra religione e pietà sarà vana, e non avrà che l’apparenza: Hujus vana est religio. Ma qual è dunque, o beato apostolo, la vera, la solida religione e pietà? Ascoltate: “La religione, o pietà pura e intemerata presso Dio e il Padre, è questa: Visitare gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni, e serbarsi mondi da questo secolo. „ Quale risposta! Quale verità, o carissimi! Voi lo sapete; la religione è l’insieme, il complesso dei rapporti tra Dio e l’uomo, quali scaturiscono dalla natura delle cose e quali sono voluti e stabiliti da Dio: Dio è nostro Creatore e conservatore e perciò nostro padrone assoluto: il Figliuol di Dio si è fatto uomo e ci ha ricomperati col suo sangue: ha diritto perciò alla nostra gratitudine, alla nostra obbedienza, al nostro amore: questi doveri di gratitudine, di obbedienza, di amore verso Dio si manifestano in modi svariatissimi, in atti interni ed esterni di fede, di adorazione, di ringraziamento, di speranza, di amore verso di Lui e verso il prossimo, in breve, nell’osservanza della legge divina in tutte le sue parti. Or come sta che S. Giacomo riduce la religione pura e intemerata a visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni e serbarsi netti da questo secolo? Forse ché intese dire che questo fosse bastevole e tutto il resto, che riguarda la fede, i Sacramenti e le altre opere, fosse inutile? Sarebbe un negare il Vangelo, un contraddire lo stesso apostolo, che in questa lettera tante altre cose inculca e comanda, e sarebbe un offendere lo stesso buon senso. L’apostolo, ricordando e proclamando la necessità di queste opere di misericordia, non negò la necessità delle altre già note ai fedeli: volle soltanto ricordare queste, perché allora più necessarie e più utili. La maggior parte dei fedeli, ai quali scriveva, erano nati e cresciuti nell’ebraismo, e forse molti di loro tenevano necessaria l’osservanza delle cerimonie mosaiche, tante di numero e sì gravose, e dalle quali non sapevano divezzarsi. S. Giacomo loro rammenta che la religione di Gesù Cristo non ha che far nulla con quelle cerimonie, ch’essa domanda le opere e sopra tutto le opere della carità verso del prossimo, come quelle che rendono cara ed amabile la religione e ne mostrano la efficacia, e di queste opere, a modo d’esempio, ricorda quella di visitare e consolare i più poveri e più abbandonati, che sono gli orfanelli e le vedove.Quando si medita questa sentenza di san Giacomo — la religione pura ed intemerata presso Dio e il Padre, è questa: “Visita orfani e le vedove” — non si può non sentire la grandezza e la santità della nostra religione. Essa ce ne rivela tutta la natura, che in fondo è la carità operosa verso tutti, ma specialmente per i più bisognosi, per i più derelitti de’ fratelli nostri, che sono gli orfani e le vedove! Ah! una religione, che si compendia in una sentenza come questa, non può essere che una religione divina. Gli uomini non avrebbero mai trovata una definizione sì sublime!Aggiunge poi in fine, che la religione comanda di serbarsi mondo da questo secolo, il che importa di non seguire il mondo, le sue massime, di non abbandonarsi ai suoi colpevoli piaceri. In questa sentenza dell’ apostolo è scolpita a meraviglia l’indole della nostra religione, che ci vuole, sciolti dall’amore disordinato della terra, intesi ai veraci beni del cielo e pieni di carità verso i fratelli nostri sofferenti. Mettiamola in pratica onde non siamo uditori, ma fattori della parola divina, secondo la espressione di S. Giacomo.

 Alleluja

Allelúja, allelúja. V. Surréxit Christus, et illúxit nobis, quos rédemit sánguine suo. Allelúja, [Il Cristo è risuscitato e ha fatto sorgere la sua luce su di noi, che siamo redenti dal suo sangue. Allelúia.]

Joannes XVI:28 Exívi a Patre, et veni in mundum: íterum relínquo mundum, et vado ad Patrem. Allelúja. [Uscii dal Padre e venni nel mondo: ora lascio il mondo e ritorno al Padre. Allelúia.]

Evangelium

Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen.

Jube, Dómine, benedícere. Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen. V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem. R. Gloria tibi, Domine! Joann XVI:23-30 In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Amen, amen, dico vobis: si quid petiéritis Patrem in nómine meo, dabit vobis. Usque modo non petístis quidquam in nómine meo: Pétite, et accipiétis, ut gáudium vestrum sit plenum. Hæc in provérbiis locútus sum vobis. Venit hora, cum jam non in provérbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiábo vobis. In illo die in nómine meo petétis: et non dico vobis, quia ego rogábo Patrem de vobis: ipse enim Pater amat vos, quia vos me amástis, et credidístis quia ego a Deo exívi. Exívi a Patre et veni in mundum: íterum relínquo mundum et vado ad Patrem. Dicunt ei discípuli ejus: Ecce, nunc palam loquéris et provérbium nullum dicis. Nunc scimus, quia scis ómnia et non opus est tibi, ut quis te intérroget: in hoc crédimus, quia a Deo exísti. [In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: In verità, in verità vi dico: qualunque cosa domanderete al Padre nel mio nome, ve la concederà. Fino adesso non avete chiesto nulla nel mio nome: chiedete, e otterrete, affinché il vostro gaudio sia completo. Vi ho detto queste cose per mezzo di parabole. Ma viene il tempo che non vi parlerò più per mezzo di parabole, ma vi parlerò apertamente del Padre. In quel giorno chiederete nel mio nome, e non vi dico che io pregherò il Padre per voi: poiché lo stesso Padre vi ama perché avete amato me e avete creduto che sono uscito da Dio. Uscii dal Padre e venni nel mondo: ed ora lascio il mondo e torno al Padre. Gli dicono i suoi discepoli: Ecco che ora parli chiaramente e senza parabole. Adesso conosciamo che tu sai tutto, e non hai bisogno che alcuno ti interroghi: per questo crediamo che tu sei venuto da Dio.]

Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Omelia della V Domenica dopo Pasqua.

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napolitana Vol. II -1851-]

-Preghiera-

   “Qualunque grazia voi chiederete”, cosi il divin Salvatore ai suoi discepoli, e in persona dei suoi discepoli a noi, come leggiamo nell’odierno Vangelo, “qualunque grazia voi chiederete in nome mio all’eterno mio Genitore, senza alcun dubbio voi l’otterrete, Io ne impegno la mia parola:Amen, amen dico vobis: si quid petieritis patrem in nomine meo, dabit vobis”. Ma voi finora non avete domandato cosa alcuna, “usque modo non petistis quidquam in nomine meo”. Via su domandate, chiedete, e v’assicuro che le vostre preghiere saranno esaudite, “petite et accipietis”. In queste divine parole traluce un lampo della divina onnipotenza, e della divina bontà: dell’onnipotenza, poiché non si restringe a quello o a quell’altro genere di grazie, ma tutte le promette Chi tutte le ha in mano, “si quid petieritis”; della divina bontà, che arriva perfino a lagnarsi che non le siano chieste grazie, “usque modo non petistis quidquam”. Conviene ben dire che sia grande il desiderio del Redentor nostro di farci del bene, mentre si lagna di non esser chiesto che ci faccia del bene. Al suo desiderio si aggiunge l’intenzione della nostra madre la santa Chiesa, che in questa Domenica prossima e immediata alle pubbliche solenni preghiere, che Rogazioni si appellano, ci propone il presente Vangelo per animare la nostra fiducia, e spingerci a domandare al dator di ogni bene le grazie delle quali abbisogniamo. Seguendo ora di entrambi il desiderio e lo spirito, passo a dimostrarvi la necessità, e l’efficacia della preghiera; necessità che non può esser maggiore; efficacia, che può essere più grande, se mi accordate la solita gentile vostra attenzione.

I. La necessità della preghiera va del pari colla necessità della grazia. È certo per fede che non siam capaci del minimo atto buono in ordine alla vita eterna senza il superno aiuto della divina grazia. “Sine me…”, detto è dall’incarnata verità Cristo Gesù, “sine me nihil potestis facere” ( XV, 5). Osservate, commenta S. Agostino, che il Salvatore non dice, senza di me potete far poco, ma nulla “non ait, quia sine me parum potestis facere, sed nihil” (Tract. 81, in Joann.). Siam come tralci, che uniti alla vite producono frutto, staccati da quella sono inutili sarmenti, non ad altro uso buoni, che al fuoco. – Ammessa la necessità della grazia, stabilisce la necessità della preghiera. Trovatemi un uomo, scriveva S. Girolamo contro i Pelagiani, che non abbia bisogno di grazia, ed io vi dirò che neppur abbisogna di preghiera. Iddio, secondo la dottrina dei Santi Agostino, Tommaso, Crisostomo, Damasceno, ha determinato fin dall’eternità di dar all’anime le grazie necessarie alla loro eterna salute, non per mezzo, che per quello dell’orazione. Nella stessa guisa che la sua provvidenza à stabilito, che la terra abbondasse di frumento e di ogni altro frutto, mediante però l’opportuna coltura. Si eccettuano, soggiunge S. Agostino, due sole grazie eccitanti, che, come una pioggia volontaria, vengono in noi senza di noi, qual sono la chiamata alla fede e alla penitenza. Tutte le altre però in noi derivano non da altro canale, che dalla preghiera. Che cosa dice nell’odierno Vangelo l’amorosissimo nostro Salvatore “Domandate, e vi sarà dato “petite, et accipietis”. La grazia mia è sempre pronta, purché preceda la vostra domanda. “Petite”, ecco la condizione, “accipietis”, ecco la grazia. Volete la grazia? Adempite la condizione, senza di questa non potete sperarla. La preghiera è la chiave dei celesti tesori; questi saran sempre chiusi per chi non adopera la chiave ad aprirli. Ed ecco il perché, soggiunge l’Apostolo S. Giacomo, siete poveri, e mancate delle grazie, che Iddio vi tien preparate, perché non vi curate di farne richiesta, “non abetis propter quod non postulatis” (Joann. IV, 2). Come campan la vita i poveri mendicanti? Col chieder pane alla porta de’ facoltosi. E noi, dice S. Giovanni Crisostomo, siamo poveri pezzenti, che dobbiamo alla porta del Padre celeste, ricco in misericordia, chieder soccorso, se non vogliamo morire d’inedia. – Premurosa di nostra salvezza Cristo Signore rinnova l’avviso, “oportet scmper orare, et nunquam deficere” (Luc. XVIII). Notate la forza del termine “oportet”, fa d’uopo, bisogna pregar sempre, e mai cessare dalla preghiera; perché, al dire dell’angelico S. Tommaso, la preghiera è necessaria all’anima, come al corpo il respiro. Non già che si debba in ogni momento occupare la lingua o il cuore in orazione continua, indefessa; ma l’enfatica espressione prova la necessità: il modo poi va inteso, come chi dicesse: bisogna sempre cibarsi, vale a dire a dati tempi. Per simil modo si può dire che uno preghi sempre, se in date ore costantemente si eserciti in cristiane preghiere, come appunto faceva il Profeta Daniele, che in tre diverse ore del giorno aveva il religioso costume di raccogliersi alle sue stanze, e far la sua orazione adorando il Dio d’Israele. – Posta ora e provata la stretta e rigorosa necessità della preghiera, quanto dovrà compiangersi la negligenza di tanti cristiani, che passano i giorni e i mesi senza raccomandarsi a Dio! È sentenza dei Padri e teologi, che l’omissione della preghiera per un tempo notabile non va esente da colpa mortale; perciocché la preghiera è necessaria a salvarsi per i due più precisi motivi di necessità di precetto, e necessità di mezzo. Come dunque potranno sperare la loro salvezza quei che non adempiono questo precetto, quei che non adoprano questo mezzo? Quei che vanno abitualmente al riposo senza un segno di croce, e vi ritornano senza un segno di cristiano? Quei che credono di pregare masticando preci e rosari col sonno agli occhi, colla distrazione della mente, coll’allontanamento del cuore? Sono costoro in maggior pericolo di dannazione di chi affatto non prega. Chi non prega sa di esser colpevole, e questa cognizione può giovargli all’emenda; ma chi, pregando colla sua lingua, crede di pregar bene, non conoscendo la propria colpa, il suo inganno lo lusinga, lo accieca, lo rende incapace a rimedio.

II. Se tanta è la necessità della preghiera, non minore è la sua efficacia. La preghiera, dice S. Ilario, fa al cuor di Dio una dolce violenza, “Oratio pie Deo vim infert”. E d’onde prende ella mai la sua forza? Da tre capi: dalla bontà di Dio, dalla parola di Gesù Cristo, e dalla nostra cooperazione. Dalla bontà di Dio, primamente. Di questa udite come parla il nostro divin Salvatore. Se ad un padre terreno domanda pane il proprio figlioletto, invece di pane gli presenta forse una pietra? Se gli chiede un pesce, gli da forse un serpente? Se un uovo, gli porge forse uno scorpione? Se dunque voi, che siete una razza cattiva, vi sentite muovere il cuore a donare ai vostri figli quel che vi chiedono, quanto più il Padre mio, la cui natura è bontà, accorderà alle vostre suppliche lo spirito di perseveranza se siete giusti, lo spirito di penitenza se peccatori, in somma tutte le grazie più opportune e necessarie alla vostra santificazione e salvezza? “Quanto magis Pater vester de coelo dabit spiritum bonum petentibus se”? ( Luca XI) . – In cento luoghi delle Scritture sacre si protesta il nostro buon Dio che ascolterà le nostre voci, che accoglierà le nostre istanze, che si moverà ai nostri clamori, che aprirà le sue orecchie, che stenderà la sua destra a nostro sollievo. Eccovi un tratto, dice il re Profeta, della gran bontà del suo cuore. La sua provvidenza si estende fino ai pulcini del corvo, allorché sono da’ loro genitori abbandonati. Al veder le aperte lor bocche fameliche, al sentir le querule strida, fa che si aggiri intorno al nido una turba foltissima di moscherini, dei quali con piacer si alimentano. Sia o non sia ciò che ci narrano gl’indagatori della natura, il vero si è che essi L’invocano, ed Egli li pasce, dat escam pullis corvorum invocantibus eum[Psal. CXLVI,10]. Se dunque da Dio pietoso si ascoltano le voci d’ignobili animalucci, con quanta maggior bontà darà ascolto alle preghiere di noi, che siamo suoi figliuoli, se Gli chiederemo il cibo vivifico della sua grazia?Dalla parola di Gesù Cristo in secondo luogo prendono la loro efficacia le nostre preghiere. Con una specie di giuramento Ei ci assicura che qualunque grazia imploreremo in suo nome dal suo celeste Genitore, ci sarà infallibilmente concessa. “Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vabis[Joann. XIII, 38]. Alla parola di tanta sicurezza aggiunge l’invito ch’Egli ci fa nelle più pressanti maniere di pregare, e non cessar di pregare. Domandate e vi sarà dato, “petite, et dabitur vobis”, cercate e ritroverete, “quaerite, et invenietis, battete alla porta della divina clemenza, e vi sarà aperto, “pulsate, et aperietur vobis”. Che più si desidera per esser certi che le nostre suppliche avranno favorevole rescritto?Ma le nostre preghiere, dicono certe anime timorate, sono fiacche, sono deboli, sono di nessun valore. Non temete, purché partano dal vostro cuore, purché fatte in nome di Gesù Cristo saranno a Dio accettevoli e care. Le nostre preghiere si possono rassomigliare, con S. Giovanni Crisostomo, a quelle monete, delle quali parla Seneca, monete di cuoio e di legno, ai tempi degli antichi Romani. Avvi cosa più abbietta di un pezzo di cuoio o più meschina di un pezzetto di legno? Pure, perché corredate della impronta di Numa Pompilio imperatore, avevano corso e valore in tutto l’impero. Non altrimenti son miserabili le nostre preghiere, son di nessun prezzo; ma fatte in nome di Gesù Cristo acquistano con questa impronta prezzo, virtù ed efficacia. Ed è perciò che la Chiesa, inerendo alle parole del Salvatore, che in suo nome saran da noi richieste le grazie, “in nomine meo”, conchiude tutte le sue orazioni, dirette all’eterno Padre, con quella nota formula: “Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum”. – La nostra cooperazione in fine si richiede per rendere a Dio accetta e a noi vantaggiosa la preghiera. Tre condizioni devono accompagnarla: l’umiltà, la fiducia, e la perseveranza. L’orazione di un’anima umile penetra i cieli, oratio humiliantis se nubes penetrabit(Eccli. XXXII, 21), e presentandosi al divino cospetto, di là non parte senza che Dio l’accolga e l’esaudisca, “et non discedet, donec Altissimus aspiciat”. Ne abbiamo l’esempio nel Pubblicano, che in fondo del Tempio, umiliato, confuso non ardiva alzar gli occhi da terra, e unendo alla preghiera la confessione di esser egli peccatore, venne esaudito e giustificato. – All’umiltà va congiunta la fiducia. Chi pregando ha il cuor titubante, e l’animo diffidente, è simile, dice S. Giacomo, ai flutti del mare agitato dai venti; non isperi costui di cosa alcuna dal Signore. La confidenza, miei cari, la fiducia deve animare il nostro cuore pregando. A farne conoscere l’importanza il divin Salvatore, prima di far quelle grazie prodigiose a sollievo de’ peccatori e degl’infermi, esigeva da loro questa fiducia e confidenza. “Confide, fili,” disse al paralitico “remittuntur tibi peccata tua; “confide filia”, disse all’Emorroissa; così al cieco di Gerico, così a tanti altri, alla confidenza dei quali assegnava la causa degli ottenuti prodigi. E come possiamo temere, interroga S. Agostino, che Iddio ci neghi quel ch’egli stesso ci esorta a domandare? “Hortatur ut petas, negabit quod petis”? – La perseveranza finalmente è l’importantissima condizione per rendere efficaci le nostre preghiere. Giuditta, ispirata da Dio a liberar la sua patria, cominciò la grande impresa colla preghiera, proseguì colla preghiera, e nell’atto di troncar il capo ad Oloferne, accompagnò il colpo con fervorosissima preghiera. La Cananea, perché, non ostanti le replicate ripulse, perseverò a chiedere al Salvatore la grazia per l’ossessa sua figlia, fu finalmente esaudita e consolata. Gli Apostoli nel cenacolo, perché perseverantes in oratione”, ricevettero lo Spirito Santo. Se la nostra orazione sarà perseverante, la divina misericordia ci sarà sempre propizia. La perseveranza finale, che è la corona di tutte le grazie, sebbene non si possa meritare “de condigno”, come ha definito la Chiesa nel Concilio Tridentino, pure Iddio non la nega a chi è assiduo e perseverante in domandarla. Io vorrei, scrive fa un dotto zelantissimo autore (il Segneri), poter dar fiato ad una tromba, come quella che si farà sentire per 1’universo nel giorno estremo, e gridar forte a tutti, pregate, raccomandatevi; raccomandatevi, pregate, se volete salvarvi. Altrettanto diceva e lasciò scritto S. Alfonso de Liguori: “se potessi parlare a tutti i predicatori e confessori del mondo, vorrei dire loro: “Fate ben penetrare nella mente a nel cuore dei vostri uditori e penitenti questa gran massima: “Chi prega si salva, e chi non prega si danna”. Udiste, fratelli umanissimi, il modo con cui si deve pregar sempre, cioè con umiltà, con fiducia, con perseveranza: mettetelo in pratica, e sarete salvi.

Credo …

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus Ps LXV:8-9; LXV:20 Benedícite, gentes, Dóminum, Deum nostrum, et obaudíte vocem laudis ejus: qui pósuit ánimam meam ad vitam, et non dedit commovéri pedes meos: benedíctus Dóminus, qui non amóvit deprecatiónem meam et misericórdiam suam a me, allelúja.

Secreta

Súscipe, Dómine, fidélium preces cum oblatiónibus hostiárum: ut, per hæc piæ devotiónis offícia, ad coeléstem glóriam transeámus. [Accogli, o Signore, le preghiere dei fedeli, in uno con l’offerta delle ostie, affinché, mediante la pratica della nostra pia devozione, perveniamo alla gloria celeste.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Communio

Ps XCV:2 Cantáte Dómino, allelúja: cantáte Dómino et benedícite nomen ejus: bene nuntiáte de die in diem salutáre ejus, allelúja, allelúja. [Cantate al Signore, allelúia: cantate al Signore e benedite il suo nome: di giorno in giorno proclamate la salvezza da Lui operata, allelúia, allelúia].

Postcommunio

S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Tríbue nobis, Dómine, cæléstis mensæ virtúte satiátis: et desideráre, quæ recta sunt, et desideráta percípere. [Concedici, o Signore, che, saziati dalla forza di questa mensa celeste, desideriamo le cose giuste e conseguiamo le desiderate.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

DOVERI DEL CRISTIANO INFERMO

Doveri del cristiano infermo.

[da: Il Giardino spirituale – tip. Pesole, Napoli 1903, imprim.]

Tosto che sarete caduto ammalato guardatevi bene dall’affliggervi troppo, e di mormorare contro Dio. AttestateGli piuttosto la gioia pel vostro cuore nell’occasione che vi presenta di soffrire qualche cosa per amor suo. Dite alla vostra malattia quel che s. Andrea disse alla Croce quando la vide da lontano: “Siate la benvenuta, o Croce preziosa, cara malattia, perché voi venite da parte di Dio, e mi siete mandata per mio profitto. Mio Dio, io adoro gli ordini della vostra Provvidenza; io li ho sì malamente eseguiti, quando era in salute; fate o Signore, ve ne supplico, che almeno io li soffra con pazienza, mentre che sarò ammalato. Io lo sarò, mio Dio, quanto tempo a Voi piacerà e sono contentissimo di esserlo, perché è vostra volontà ch’io lo sia. – Accetto da questo momento tutti i dolori che Voi volete che io soffra, e li unisco ai tormenti che il vostro caro Figlio soffrì per l’amor mio. Abbraccio, o mio Gesù, questa croce che Voi mi avete posto sulle spalle. Io la voglio portare appresso a Voi, e morirvi, se lo volete, per vostro amore. A quest’effetto io rifiuto tutte le impazienze e tutt’i cordogli che forse mi cagionerà la violenza del male o la mia propria debolezza. Ma perché, senza la vostra grazia io non posso né agire, né soffrire, come bisogna, ve la domando umilmente, affinché io possa perfettamente adempire la vostra divina volontà. Così sia”.

Se il male che soffrite non vi perdette di recitare questa Orazione, fatevela dire da qualcheduno, e se non potete profferirla colla bocca, ditela almeno col cuore.

Durante la malattia.

Mentre sarete malato, procurerete d’osservare le regole seguenti:

I. Non aspettate di essere avvertito a confessarvi. Voi stesso lo domanderete fin dal primo o al più dal secondo giorno della vostra malattia, particolarmente se la febbre continua.

II. Dopo esservi confessato, chiederete che vi si arrechi il Santissimo Sacramento.

III. Se siete in pericolo evidente di morte, e che i medici lo credono a proposito, domandate che vi si dia l’estrema Unzione senza attendere gli ultimi momenti di vostra vita.

IV. Le virtù proprie e particolari degl’infermi essendo la pazienza e la rassegnazione alla divina volontà, le domanderete a Dio, e ne praticherete gli atti con più perfezione che vi sarà possibile.

V. Le preghiere che farete, durante la vostra malattia, debbono esser brevi, ma frequenti. Alzerete dunque di tempo in tempo gli occhi al cielo ovvero li fisserete su qualche devota immagine del Crocifisso, che farete attaccare prossimo al vostro letto. E farete con tutto il vostre cuore tali o consimili affetti: “Mio Gesù, siate benedetto; sia fatta la vostra santa volontà”. “Mio Dio, io adoro la vostra provvidenza, mio Salvatore datemi la pazienza”. “Gesù mio Redentore, io vi offro i miei dolori in soddisfazione dei miei peccati; unisco il male che soffro ai mali ed alla morte che Voi avete sofferta per amor mio”. “Io v’offro la mia vita. Sono contento di perderla per ubbidirvi”. “Vi raccomando l’anima mia: essa è vostra, Voi l’avete creata dal niente, e voi l’avete redenta alla vostra morte”. “Se volete che io guarisca, sia fatto il vostro divin volere. Se poi volete che io muoia, sia lodato il vostro santo Nome, io lo voglie pure“.

Dirigetevi ancora alla santissima Vergine ed a S. Giuseppe. Pregateli di assistervi. Pregate pure il vostro buon Angelo Custode, i vostri santi protettori e singolarmente quello del quale portate il nome, a cui siete obbligato di avere una particolare devozione. – Se guarite dalla vostra malattia, subito che potrete uscite di vostra casa, farete la prima visita alla chiesa, per ringraziare nostro Signore della sanità che si è compiaciuto di ridonarvi, e per supplicarLo di farvi la grazia di servirvene per l’avvenire meglio di quello che non avete fatto per il passato. Dopo di che, al più presto possibile, vi confesserete, e comunicherete in rendimento di grazie.

Raccomandatevi al vostro Angelo Custode; pregatelo che vi assista nelle tentazioni, e principalmente nel punto della morte.

Angelis suis Deus mandavit de te, ut custodìant te in omnibus viis tuis (Ps. XC). Iddio ha ordinato ai suoi Angeli di custodirvi in tutto il tempo della vostra vita.

In quovis diversorio, in quovis angulo, Angelo tuo reverentiam habe (s. BERN.) In qualunque luogo vi troviate, ricordatevi del rispetto che dovete al vostro Angelo custode.

MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO -III- di mons. J. J. Gaume [capp. XI-XIII]

MORTE al CLERICALISMO -III- [capp. XI-XIII]

CAPITOLO XI

SACRIFICIO UMANO

I.

Abele, Noè, Abramo e gli altri Patriarchi offrivano sacrifici al Signore. satana se ne avvide, e tosto, scimmia di Dio, o piuttosto suo ambizioso rivale, vuole avere anch’esso i suoi sacrifici. E tanta fu sin dal principio la sua formidabile potenza, che ottenne fino dal popolo di Dio vittime umane. È vero che gli Ebrei, durante il loro soggiorno in Egitto, non offrirono mai nessun sacrificio agl’idoli; ma appena usciti dalla schiavitù, cominciarono ad adorare il vitello d’oro.

II.

Bentosto, al contatto delle abominevoli nazioni di Chanaan, immerse nella più licenziosa e sanguinaria idolatria, dovevano essi lasciarsi corrompere e troppo spesso partecipare al loro culto. Il Signore, a premunire il suo popolo contra lo scandalo, dettò a Mose quell’articolo di legge: « Chiunque sacrificherà agli dèi stranieri, sarà punito di morte: qui immolat diis occidetur.» [Exod. XXII» 20]. Poscia il medesimo divieto é rinnovato con pena più grave. « Se qualcuno, dice il Signore, sacrifica a Moloch uno dei suoi figli, sarà punito di morte, e tutto il popolo lo lapiderà; che se il popolo trascurando i miei ordini, non ne fa conto, sterminerò Io stesso il colpevole, la sua famiglia, e tutti coloro i quali avranno acconsentito al suo delitto. » [Levit. XX, 2-5].

III.

Malgrado questi divieti reiterati e le pene terribili comminate contro i prevaricatori, gli Ebrei affascinati dal demonio e dall’esempio dei popoli che essi avevano missione di sterminare, si lasciano trascinare all’idolatria. Disertori del vero Dio, si vedono troppo spesso offrire vittime agl’idoli. Questo è il rimprovero che Mose stesso sul punto di morire fa ad essi: « Hanno offerte vittime agl’idoli, e non a Dio; a dèi sconosciuti, non adorati giammai da’ loro padri. » [Deut XXXII, 19].

IV.

Quali erano queste vittime? Ce lo dice Davide. Delineando a grandi tratti la storia dei suoi antenati, li accusa d’avere offerto al demonio numerose vittime umane e soprattutto vittime preferite, giovanetti dell’uno e dell’altro sesso. « Si mischiarono ai gentili; impararono le loro opere; adorarono i loro idoli, ed immolarono i loro figli e le loro figlie ai demoni!; sparsero il sangue innocente, il sangue dei loro figli e delle loro figlie, cui sacrificarono agl’idoli di Chanaan: quos sacrificaverunt sculptilibus Chanaan. » 1 1.[ Ps. CV; 35, 36].

V.

Trecento anni dopo Davide, Isaia ci mostra il sacrificio umano sempre in vigore presso gli Ebrei, suoi contemporanei. « Non siete voi, loro dice, figli scellerati, una razza menzognera, voi che cercate la vostra consolazione negl’idoli, sotto alberi fronzuti, immolando i fanciulli nelle caverne dei torrenti: Immolantes parvulos in lorrentibtus. » [VII, 5]. – Cento anni dopo Isaia, il Profeta Geremia prova la persistenza del sacrificio umano presso i suoi compatrioti, e ci dice di qual maniera compievasi: « Essi inondarono di sangue la valle dei figli di Ennon; offriron sacrifici agli dèi stranieri, ed innalzaron altari a Baal, per bruciarvi i loro figli in onore di Baal. Et ædificaverunt excelsa Baalim, ad comburendos filios suos igni in holocaustum Baalim. » [XIX, 4, 5].

VI.

Cento anni dopo Geremia, udiamo il Profeta Ezechiele levar la voce contro lo stesso scandalo. « Voi avete, dice il Signore, preso i vostri figli e le vostre figlie, cui avete messo al mondo per me, e li avete immolati agl’idoli per servir loro di pascolo: Et immolasti eis ad devorandum. » [XVI, 20] – Il medesimo rimprovero è nel Profeta Osea il quale ci avvisa che non solo si sacrificavano fanciulli, ma ancora uomini fatti, a somiglianza di tutti i popoli pagani: Immolate homines, vitulos adorantes. [XIII, 2]. Finalmente, il libro della Sapienza ne rivela le abominevoli turpitudini che accompagnavano i sacrificii umani: Filios suos sacrificantes, obscura sacrificia facientes, insaniæ plenas vigilias habentes, etc. [XIV, 23, 27]. – Avveniva lo stesso presso tutt’ i popoli pagani, presso i Romani in particolare, i cui anfiteatri erano ogni giorno accompagnati da terme o fornice». Dopo d’aver preso un bagno di sangue umano, si andava a prendere un bagno di lussuria. Ecco quanto avveniva ogni giorno nella bella antichità.

VII.

La principale divinità dei Cananei, alla quale gli Ebrei immolavano i loro fanciulli, era Moloch. È qui il luogo di far conoscere questo spaventevole demonio. Moloch passava pel Signore degli dèi. Con tal titolo, il suo culto era più comune e più celebre che quello di tutti gli altri dèi, maschi o femmine. Era onorato in due principali maniere, consacrando a lui i fanciulli, ovvero immolandoli in suo onore.

VlII.

La prima maniera consisteva in far passare queste innocenti creature fra due siepi di fuochi accesi, i quali mettevano capo alla statua di Moloch. Il che appellavasi iniziare a Moloch. Cotesto atto d’idolatria era proibito sotto pena di morte. Nondimeno gli Ebrei non se ne astenevano. Era una parodia sacrilega del battesimo. [IV Reg.„ XXIII, 10 ) – [Ier., XXII, 23].

IX.

La seconda maniera, la cui sola memoria fa fremere, aveva luogo come segue: Moloch era rappresentato da una mostruosa statua di bronzo, di forma umana, sormontata da una testa di vitello; aveva larghissime mani, sopra le quali deponevansi le piccole vittime; e un braciere ardente scaldava la statua che era concava. Il fanciullo posto su queste mani incandescenti era ben tosto consumato. Gli spettatori esclamavano che egli era morto tra gli abbraccia di Moloch, che il sacrificio era gradito al dio, e che il fanciullo era sollevato al cielo. Per soffocare le grida dilanianti delle innocenti vittime, i sacerdoti del dio facevano una musica assordante. – Credesi che il Moloch, al quale gli Ebrei sacrificavano i loro fanciulli, avesse una testa di vitello, in memoria del vitello che essi avevano adorato nel deserto. – Se, malgrado i lumi, di cui il Signore li aveva favoriti, malgrado la pena di morte comminata a chiunque sacrificasse agli idoli, gli Ebrei si mostravano talmente inchinati all’idolatria, che per molti secoli inondarono del sangue dei loro figliuoli gli altari dei falsi dèi, si può giudicare anticipatamente di ciò che doveva aver luogo presso le nazioni infedeli. Ne daremo un cenno nel corso di questa opera.

CAPITOLO XII

ASIA ANTICA. — I FENICI. — I SIRI. — I MOABITI. — I GRECI

I.

Uno dei più antichi e celebri popoli del mondo fu quello de’ Fenici. Il loro paese, contrada della Siria, stendevasi lunghesso il mare, dall’Antilibano fino all’imboccatura del fiume Belo. Commercianti attivi ed ardimentosi, essi fabbricarono molte illustri città, Tiro, Sidone, Berito, Biblo, Acri, ed altre ancora. Naviganti audaci, percorsero per molti secoli i diversi mari conosciuti a quell’epoca. Si crede pure che navigassero l’Oceano Atlantico, e facessero il giro dell’Africa. Checche sia di ciò,eglino ricoprirono le coste e le isole del Mediterraneo di lor colonie e di loro stazioni coloniali; fra le quali Cartagine, la rivale di Roma, Ippona, Utica, Gades, Palermo, Lilibeo.

II

Quanto corrotto, altrettanto attivo, nessun popolo poteva esser meglio scelto da Satana, per propagare l’idolatria nel mondo, ed in particolare l’uso barbaro del sacrificio umano, che presso di loro risaliva alla più remota antichità. Uno dei più antichi storici, loro compatriotta, Sanconiatone, i cui scritti ci sono stati conservati da un altro loro compatriotta, Filone di Biblo, cosi si esprime: « Presso i Fenici è un’antica usanza, che nei gravi pericoli, a prevenire una rovina universale, i capi della città e della nazione consegnano i loro più cari figliuoli, per essere immolati, come prezzo del riscatto, agli dèi vendicatori. – È per questo che Crono, re di quel paese, quegli stesso che dopo la sua morte fu consacrato nell’astro che porta il suo nome, avendo avuto da una ninfa della contrada, di nome Anobret, un figlio unico, cui per questa ragione appellò Ieoud, come anche oggidì s’appellano in Fenicia i figli unici; essendo il paese minacciato da grandi pericoli di guerra, rivesti quel figlio degli attribuiti della sovranità, e l’immolò sull’altare, che aveva egli stesso preparato. [Apud Euseb. Præp. evang. lib. IV., c. XVI].

III.

A Laodicea di Siria una vergine era immolata ogni anno a Minerva. « La Scrittura stessa riferisce che Mesa, re dei Moabiti, rifiutando di pagare a Ioram, re d’Israele, il tributo che era solito di pagare al padre, Ioram marciò contro lui insieme con Giosafat, re di Giuda, e col re d’Edom. Mesa, vedendosi stretto e non potendo più resistere a tanti nemici, prese con se settecento uomini di guerra, per forzare il campo del re d’Edom; ma non vi riusci. Allora prendendo il suo primogenito, il quale doveva regnare dopo lui, l’offri in olocausto sulle mura della città, in presenza degli assedianti. » [IV. Reg., III].

IV.

Tali sacrifìci, dice lo storico, erano accompagnati da cerimonie misteriose. Quali erano queste cerimonie? A giudicarne per analogia, egli è verisimile che consistessero in preghiere, in evocazioni, in pratiche superstiziose, e nella partecipazione al sacrifìcio per la manducazione della vittima in tutto, o in parte; al qual proposito, io fo qui un’osservazione, che mi vien sotto la penna. – Noi vedremo che presso la più parte degli idolatri moderni, il sacrifìcio umano è seguito dalla manducazione della vittima. Credere che l’antropofagia sacra fosse sconosciuta presso i popoli del mondo antico, sarebbe un errore. Fino al secolo nono essa vigeva nella Cina, a Pegu, a Giava e nelle nazioni dell’Indocina. I condannati a morte, i prigionieri di guerra erano uccisi e divorati. Si portavano a mensa pasticci di carne umana. [Annales de phil. chret, t. VI, Serie 4, p. 162. »]. – Vicini ai Fenici, i cittadini di Domata, città d’Arabia, immolavano ogni anno un fanciullo che sotterravano sotto l’altare, ov’era sacrificato, e che loro teneva luogo di statua. [Apud Euseb. Praep. evang. Ub. IV, c. XVI.]. Questo accadeva presso gli Ebrei, presso i Fenici, e presso le nazioni vicine, avanti la predicazione del clericalismo. E oggidì vogliono sterminarlo! E si dice che tutte le religioni sono egualmente buone!

V.

Prima di abbandonare l’alta Asia, trasportiamoci al Giappone. Nessun luogo della terra è sfuggito all’impero del demonio, il quale ha avuto dappertutto il suo culto omicida. Il grande e bel paese del Giappone gli ha pagato il suo tributo. Si sa che i Giapponesi idolatri riconoscono più di centomila dèi, che essi appellano Kamis. Certi animali, i quali passano per servitori dei Kamis, vi sono onorati come divinità protettrici. Quello che meglio è servito è la volpe (inari): i Giapponesi onorano soprattutto quella color grigio come la più intelligente. La consultano negli affari più spinosi: le innalzano un tempietto nell’interno delle loro case, e le offrono in sacrificio fagioli e riso rosso. Se gli alimenti spariscono, si crede che la volpe li ha mangiati, e l’esito dell’affare sarà felice; se mai restano intatti, guai!

VI.

Nei tempi più antichi, olocausti umani erano offerti alle divinità malefiche, quali Kiou-Sisiou, il dragone a nove teste del monte Toka-Kousi. Poscia il sacrificio si ridusse a diverse vivande, di riso, di pesci, di caprioli. Una volta avvenendo la morte dei grandi, veniano sotterrati vivi con essi un certo numero dei loro amici e dei loro servi. Più tardi non si sotterrarono più, ma da se stessi s’aprivano il ventre. E questa usanza si perpetuò sino alla fine del sedicesimo secolo. [HisL gèn. de* ini*, t. I, art. 2, p. 468. — Eccellente opera per lo spirito come pel cuore, e dilettevole]. Questo succedeva nel Giappone, avanti la predicazione del clericalismo! Ed oggidì vogliono sterminarlo! E si dice che tutte le religioni sono egualmente buone! Terminando la nostra escursione nell’alto Oriente, gettiamo uno sguardo sulla Tartaria. Allorché i Tartari marciano al combattimento, il generale passa una rivista delle otto bandiere riunite, e si rinnova una cerimonia barbara, usitata, dicesi, da tempi immemorabili fra quei popoli. S’immola un cavaliere, e tutti gli altri, dal semplice soldato al comandante delle otto bandiere, vanno a bagnare la punta delle loro lance nel sangue ancora fumante. [Ann. de la Foi, n. 116, p. 12]. – Discendiamo ora ai Greci. Quanto ai nostri studi classici, questo popolo è riputato il più civile, il più forbito, il più perfetto dei popoli della bella antichità. Parlando cosi i nostri maestri, non han guardato, e non ci han mostrato che la superficie. Il considerar le cose sotto il rapporto dei costumi e della barbarie, avrebbe guastato i loro elogi. Ora la storia del sacrificio umano presso i Greci riduce quegli elogi al loro giusto valore.

VII.

Fra tutti i riti sacri, prescritti da Mose al popolo di Dio, io non so se ve ne sia uno più misterioso e più celebre di quello del capro emissario. Due capri, nutriti a tal uso, erano menati al gran sacerdote all’ ingresso del tabernacolo. Carichi di tutt’i peccati del popolo, l’uno era immolato in espiazione, l’altro cacciato nel deserto, per denotare 1′ allontanamento dei flagelli meritati. Il sacrificio aveva luogo ogni anno, verso l’autunno, alla festa solenne delle espiazioni.

VIII.

Il grande omicida di essi premura di contraffare questa divina istituzione, ma la contraffece a suo modo: invece del sangue d’un capro pretése il sangue di un uomo. Ascoltiamo i pagani stessi raccontare nella loro calma glaciale l’orribile costume. – Nelle repubbliche della Grecia, e specialmente in Atene, nutrivansi a spese dello Stato alcuni uomini vili, ed inutili. Avveniva una peste, una carestia, o un’altra calamità? Si prendevano due di queste vittime, e s’immolavano per purificare e liberare la città. Queste vittime si chiamavano Demosioi, nutriti dal popolo; Pharmakoi, purificatori; Katharmata, espiatori.

IX.

« Era costume d’immolarne due la volta; uno per gli uomini, ed uno per le donne, a render senza dubbio più completa la parodia dei due capri emissarii. E affinché tutti potessero godere della festa, si sceglieva un luogo acconcio pel sacrificio. Uno degli arconti, o dei principali magistrati, era incaricato di curarne tutti i preparativi, e di vigilarne tutti i particolari.

X.

Il corteggio mettevasi in cammino, accompagnato da cori di musici superbamente organizzati. Durante il tragitto, si percuotevano sette volte le vittime con rami di fico, e con cipolle selvatiche, dicendo: Siate la nostra espiazione ed il nostro riscatto. « Arrivati al luogo del sacrificio, gli espiatori erano bruciati sopra un rogo di legno selvaggio, e le loro ceneri gettate al vento nel mare, per la purificazione della città inferma. « L’immolazione che da principio fu accidentale, addivenne periodica, e ricevette il nome di Feste delle Targelie. La si faceva in autunno, e durava due giorni, durante i quali i filosofi celebravano con allegri banchetti la nascita di Socrate e di Platone. » [Annales de phil. chrèt., luglio 1861, p. 46 e seg.].

XI.

Nella medesima categoria si può annoverare il sacrificio annuale, offerto dagli Ateniesi a Minosse. Gli Ateniesi avendo fatto morire Androgeo, furono assaliti dalla peste e dalla carestia. L’oracolo di Delfo, interrogato sulla causa della doppia calamità, e sul mezzo di mettervi fine, rispose: « La peste e la carestia cesseranno, se voi designerete a sorte sette giovanetti e sette giovanette vergini per Minosse. Le imbarcherete sul mare sacro, in isconto del vostro delitto. Cosi vi renderete favorevole il Nume» [Ex Acnomao, apud Euseb., Præp. evang., lib. V, cap. XIX].

XII.

Questo non è né un’allegoria, né una favola, è un fatto storico attestato dalla doppia testimonianza degli storici pagani, e degli storici cristiani. – Le povere vittime erano condotte nell’isola di Creta e rinchiuse in un labirinto, dove erano divorate da un mostro, mezzo uomo e mezzo toro, che non si nutriva che di carne umana. [Questo mostro era un aborto della natura, alla cui formazione Satana aveva avuto parte. La sua esistenza non è più dubbiosa di quella, per esempio, de’ fauni, di cui parlano Plinio, S. Girolamo, e S. Atanasio.

XIII.

« Chi è dunque questo Apollo (l’oracolo di Delfo), questo Dio liberatore, cui consultano gli Ateniesi? domanda Eusebio agli autori pagani, storici del fatto. Senza fallo, egli esorta gli Ateniesi al pentimento ed alla pratica della giustizia. Ma che importano tali cure per questi eccellenti dèi, o piuttosto per questi demoni perversi? Loro bisognano al contrario azioni del medesimo genere, senza misericordia, feroci, inumane, aggiungendo, come dice il proverbio, la peste alla peste, la morte alla morte. « Apollo ordina ad essi di inviare ogni anno al Minotauro sette giovanetti e sette giovanette, scelti fra i loro figli. Per una sola vittima, quattordici vittime innocenti! E non una sola volta, ma sempre; di maniera che sino al tempo della morte di Socrate, ossia più di cinquecento anni dopo, l’odioso tributo non era ancora soppresso presso gli Ateniesi. Questa fu in effetti la causa del ritardo dell’esecuzione della sentenza capitale pronunziata contro questo filosofo. » [S. Euseb. ibid. lib. V, c. XVIII].

XIV.

Senza contare le Targelie, ecco durante cinquecento anni settemila vittime umane, il fiore della giovinezza ateniese, immolata al demonio! E non si cessa di vantarci la bella antichità: Atene soprattutto, come il tipo inimitabile della civiltà!

CAPITOLO XIII.

I GRECI

(Continuazione)

I.

Non era solamente Atene, la Repubblica modello, che sacrificava vittime umane, ma era tutta la Grecia. Ogni anno al mese di maggio, il sesto giorno della nuova luna, la città di Rodi immolava un uomo a Saturno. Col tempo questa costumanza fu modificata, ma non soppressa. A vece d’un prigioniero, o d’uno schiavo, sacrificavasi un condannato a morte. Arrivata la festa dei Saturnali, si conduceva quest’uomo fuori le mura, in faccia alla dea Aristobula, e lì, fattogli bere del vino, era scannato.

II.

A Salamina s’immolava regolarmente un uomo ad Àgi aura, figlia di Cecrope e della ninfa Aglauride. L’infelice condannato a morte era condotto da alcuni giovani nel tempio della dea, e faceva correndo tre volte il giro dell’altare; dopo la qual cosa, il sacerdote lo feriva di lancia nello stomaco, e consumavalo interamente su di un rogo preparato a tale effetto.

III.

Diciamo di passaggio ciò che aveva luogo in Egitto, il paese dei dotti. Ad Eliopoli gli Egiziani erano usi d’immolare degli uomini alla dea, conosciuta in Occidente sotto il nome di Giunone. Questi uomini erano scelti nella stessa maniera, che i tori sacri; venivano bollati. Se ne immolavano tre nello stesso giorno.

IV.

A Scio, isola dell’arcipelago greco, si squartava un uomo per immolarlo a Bacco; altrettanto si faceva a Tenedo ed a Sparta in onore del Dio Marte. Aristomene, re di Messina, scannò trecento Spartani in onore di Giove d’Itome, credendo che ecatombe di tal fatta e cosi numerose dovessero piacergli. Tra le vittime era anche Teopompo, re di Sparta.

V.

A Pella, città di Tessaglia, s’immolava un uomo dell’Acaia in onore di Peleo e di Chirone. I Lizii, popolo di Creta, sgozzavano un uomo in onore di Giove; i Lesbi in onore di Bacco; ed i Focesi immolavano in olocausto un uomo a Diana. Eretteo Ateniese immolò la sua propria figliuola a Proserpina.

VI.

Oltre queste immolazioni periodiche, gli Ateniesi ne casi d’avversità non esitavano punto, al pari degli altri popoli della bella antichità, di ricorrere, quando gli dèi volevano, ai sacrifici umani. Giunto il momento di dar battaglia alla flotta di Serse, « mentre Temistocle, scrive Plutarco, sacrificava sopra la trireme capitana, gli furono presentati tre prigionieri, bellissimi d’aspetto, pomposamente vestiti, e d’oro adornati, i quali, per quanto se ne diceva, figliuoli erano di Sandauce, sorella del re, e di un principe nominato Artacto.

VII.

« Come Eufrantide, l’indovino, ebbe veduti costoro, nel tempo medesimo appunto che dalle vittime si alzò una gran fiamma lucida e pura, e che si udì uno starnuto a destra, in segno di buon augurio, preso per mano Temistocle, gli ordinò di sacrificare, facendo sue preghiere, tutti e tre quei giovanetti a Bacco Omeste (divoratore di carne cruda); poiché in un tal sacrificio consisteva la salvezza e la vittoria dei Greci. Sbigottissi Temistocle nel sentire un vaticinio si atroce; ma il popolo, siccome addivenir suole ne’ gran pericoli e nelle cose difficili, sperando salvezza piuttosto per i mezzi inusitati e stravaganti, che pei consueti e convenevoli, invocava ad una voce il Nume, e nel punto medesimo condotti i prigionieri all’altare, volle a forza che fatto fosse il sacrifìcio, come ordinato avea l’indovino » [Plutarco, Vita di Temistocle, c. XIII, n. 3]. Lo steso storico Plutarco dice che tutti i Greci immolavano in comune vittime umane, prima di muovere contra i nemici 8 ]Apud Euseb., lib. IV, c. XVI].

VIII.

Quale che siasi 1’origine greca o germanica dei Pelasgi, noi li collochiamo qui, perché abitarono la magna Grecia. Tutti sanno che la magna Grecia era contrada situata all’estremità orientale d’Italia. Colà, come in ogni altro luogo, satana domandava il sangue dell’uomo, e sopratutto il sangue dell’innocenza, « Citerò, dice Eusebio, un testimonio non sospetto della ferocia sanguinaria dei demoni, nemici implacabili di Dio e degli uomini: Dionigi d’Alicarnaso, scrittore versatissimo nella storia romana, da lui tutta abbracciata in un opera scritta colla più grande accuratezza.

IX.

« I Pelasgi, dice egli, restarono poco tempo in Italia, grazie agli dèi che vegliavano sugli Aborigeni. Prima della distruzione della città, la terra era minacciata dalla siccità, di modo che niun frutto maturava sugli alberi. Le biade se germinavano e fiorivano, non potevano però produrre la spiga. Il foraggio non bastava più al nutrimento del bestiame. Le acque perdevano la loro salubrità, e delle fontane quali diseccavano nell’estate, quali per sempre.

X.

« Una sorte simile colpiva gli animali domestici e gli uomini. Perivano pria di nascere o poco dopo la nascita. Se alcuni scampavano alla morte, erano sopraffatti da infermità o da deformità d’ogni maniera. Per colmo di mali, le generazioni pervenute al loro intero sviluppo, erano in preda a malattie ed a mortalità, che sorpassavano tutti i calcoli di probabilità. – « In tale strettezza, i Pelasgi consultarono gli oracoli per sapere quali déi loro inviavano queste calamità, per quali trasgressioni, ed infine per quali atti religiosi potevano sperarne la cessazione. Il dio diede quest’oracolo: Ricevendo i beni che avevate domandati, non avete reso quel che avevate fatto voto d’offrire; ma ritenete presso di voi i più preziosi ». Infatti, i Pelasgi avevan fatto voto d’ offrire in sacrifizio a Giove, ad Apollo ed ai Cabiri la decima di tutti i loro prodotti.

XI.

« Allorché quest’oracolo fu loro annunziato, non poterono comprenderne il senso. In tale perplessità uno dei vegliardi lor disse: Voi vi ingannate a partito, se pensate che gli dèi vi richiedano ingiuste restituzioni. È vero che voi avete dato fedelmente le primizie delle vostre ricchezze, ma nulla avete dato dell’umana generazione, ch’è l’offerta più preziosa per gli dèi. Se soddisfate a questo debito, gli dèi si placheranno, e vi saranno propizi. – « Gli uni trovarono questa soluzione pienamente ragionevole, gli altri ci videro sotto una insidia. In conseguenza proposero di consultare il Nume per sapere se veramente conveniva a lui di ricevere la decima degli uomini. Deputano dunque una seconda volta dei ministri sacri, e il Nume rispose affermativamente.

XII.

« Ben tosto si levarono delle difficoltà fra essi pel modo di pagare questo tributo. La dissensione ebbe luogo primieramente tra i capi delle città; poscia scoppiò fra i cittadini, che supponevano causa di ciò i magistrati. Città intere furono distrutte, una parte degli abitanti abbandonò il paese, non potendo sopportar la perdita degli esseri, che loro erano più cari, e la presenza di coloro che li avevano immolati. – « Tuttavia i magistrati continuarono ad esigere rigorosamente il tributo, parte per essere accetti agli dèi, parte per timore d’essere accusati d’aver risparmiate delle vittime; sino a che la razza dei Pelasgi, trovando la sua esistenza insopportabile, si disperse in lontane regioni. » [“Multæ propterea migrationes, quae Pelasgam gentem varias in terras longe lateque deportarunt”. Dion. D’Alicarn., Storia, lib. I]. – Ecco quel che prima della predicazione del clericalismo avveniva presso i Greci tanto celebrati. Ed oggidi vogliono sterminarlo! E si dice che tutte le religioni sono egualmente buone!

MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO -II- di mons. J. J. Gaume [cap. VI-X]

J. – J. Gaume: MORTE AL CLERICALISMO -II-

CAPITOLO VI

UNA LEZIONE STORICA

I.

Quando i nostri padri del XVIII secolo leggevano negli Atti dei martiri, gli atroci martirii dei primitivi cristiani, ora ricoperti di pelle di bestie e divorati da cani; ora rivestiti d’una camicia infiammabile, tunica incendialis, e bruciati vivi per servire di fiaccole durante la notte; ora distesi su’i cavalletti e sgraffiati con uncini di ferro; ora sbranati negli anfiteatri dai leoni e dalle tigri: i nostri padri dicevano: Non si rivedranno più siffatti orrori.

II.

Essi dimenticavano che fra l’uomo e la bestia feroce, fra l’uomo de’tempi antichi e l’uomo de’tempi moderni, fra Nerone e san Vincenzo dei Paoli, non vi ha separazione che quella la quale è dovuta al cristianesimo; che, cessando il cristianesimo d’ esercitare la sua salutare influenza, l’uomo si ritrova quello stesso che era prima del cristianesimo. – Essi dimenticavano che la colluvie delle dottrine anticristiane, dai filosofi infuse ogni giorno nell’anima del popolo, finirebbero per ammorzare i sentimenti di giustizia e fino quelli d umanità, dovuti all’incivilimento cristiano; che un giorno verrebbe in cui l’uomo scristianizzato, ricadrebbe nella barbarie, riabbracciandone tutti gl’istinti, e commettendone tutti i delitti.

III.

Coloro de’ nostri padri, i quali vissero sino alla fine del XVIII secolo, videro co’ propri occhi la verità pratica di cotesto inesplicabile ragionamento. Essi, ad apprenderci che non bisogna giurar nulla, han raccontato quel che videro: prestiamo per un momento orecchio alle loro parole. – Era la domenica 2 settembre 1792, verso il mezzogiorno, quando un grido d’allarme risuona dentro Parigi. La plebaglia adunasi da tutti i quartieri, e un grido di morte elevasi da ogni parte. In prigione, in prigione! Bisogna uccidere gli aristocratici. Ed ecco un accorrere precipitoso, e uno sgozzar gente in cinque prigioni a un punto. La prigione dell’Abbazia fu testimone d’un massacro, che eguaglia, se non supera, tutte le atrocità pagane. Il sangue scorreva da ogni parte, i cadaveri s’ammucchiavano gli uni su gli altri: l’atrio n’era ripieno. A misura che le vittime erano immolate, i carnefici portavano nell’uffizio della delegazione le insegne, i portafogli, i fazzoletti grondanti di sangue, trovati nelle saccocce dei prigionieri. Jourdan, presidente della delegazione, avendo dimostrato l’orrore, che questi oggetti gl’ispiravano, senti rispondersi da uno dei commissari: « Quel che più diletta gli occhi dei patrioti è il sangue degli aristocratici. »

IV.

Nel medesimo istante entra uno de’carnefici con in mano una sciabola insanguinata: « Io vengo, disse, a domandarvi le scarpe che quegli aristocratici hanno in piedi; i nostri bravi fratelli sono senza scarpe, e debbono partire domani per la frontiera. » — «Niente è più giusto » rispose la delegazione. Dopo del primo, si fa innanzi un altro carnefice, e domanda del vino per i suoi bravi fratelli. Ed avendoglielo la delegazione concesso, furono in mezzo ai cadaveri alzate delle tavole coperte di bottiglie: i manigoldi si mettono a bere, é le loro mani lasciavano sui bicchieri tracce di sangue.

V.

In questo frattempo arrivò Billand-Varennes, sostituto del procuratore del Comune. Attraversa l’atrio, calpestando i cadaveri, e dice agli assassini: « Popolo, tu immoli i tuoi nemici, e fai il tuo dovere. » Eccitati da queste parole i carnefici continuano il macello con più furore; il sangue scorre tutta la notte. Si massacrava al barlume delle torce, e ciascuna vittima cadeva alle grida di Viva la Nazione.

VI.

Intanto l’atrio dell’Abbazia era inondato di sangue, e talmente ingombro di cadaveri, che appena vi si poteva passare. Per renderlo adatto a nuovi massacri : « Ecco, dice l’abbate Sicard testimone oculare, il partito che fu preso. Si fanno venire delle carrette per toglier via i cadaveri; si fa portare della paglia con cui formasi una specie di palco, insieme cogli abiti delle vittime di già immolate, e su di esso si fan salire quelli che rimanevano ad essere strozzati. « Allora lamentandosi un dei sicari che ciascuno di loro non potesse avere il piacere di ferire ciascuna vittima, fu deciso di farle passare ad una ad una in mezzo a due file di carnefici, con la condizione che non dovesse esser percossa che col dosso della sciabola, e che quando essa fosse salita sul palco, l’avrebbe percossa di taglio o di punta, chi prima avesse potuto. Fu ancora deciso di collocare delle panche attorno al palco per quelle donne e per quegli uomini, che avessero voluto vedere da vicino l’esecuzione, e che essi chiamavano i signori e le signore.

VII.

« Tutto questo io l’ho veduto ed inteso. Ho veduto queste Signore del quartiere dell’Abbazia radunarsi attorno al luogo che si preparava per le vittime, prendervi posto, come avrebbero fatto ad uno spettacolo di piacere. Da quel momento le vittime furono portate nel modo che si era stabilito tra gli assassini. » – Billaud-Varennes apparve una seconda volta, e disse: « Rispettabili cittadini, voi avete scannato gli scellerati, voi avete salvata la patria; la Francia vi deve una riconoscenza eterna; il municipio non sa come sdebitarsi con voi. Senza dubbio, le spoglie di questi scellerati appartengono a coloro, che ce ne han liberati. – Ma senza intendere con questo ricompensarvi, sono incaricato d’offrire a ciascun di voi ventiquattro lire, le quali vi saran pagate immantinenti. Rispettabili cittadini, continuate l’opera vostra, e la patria vi dovrà nuovi omaggi. »

VIII.

Quando egli ebbe parlato, tutti i manigoldi si precipitarono nella sala del comitato per richiedere il loro salario. Chi teneva una sciabola insanguinata, chi una picca ricoperta di umane cervella; chi tra le mani un cuore ancor palpitante; tutti levando in aria queste testimonianze dei loro misfatti, ne domandavano il premio. Fu loro pagata la metà della somma promessa, e ritornarono al massacro. – Ai fianchi delle file, tra le quali si facevano passare le vittime, vi erano due Inglesi, e l’uno rimpetto all’altro, con bottiglie e bicchieri, i quali offrivano da bere ai carnefici, e li pressavano apprestando loro il bicchiere alla bocca. – Ecco quel che, non fa ancora un secolo, avveniva in Francia. E’ raccoglievasi ciò che si era seminato. Ed allora le sementi anticristiane erano venti volte meno sparse di quel che lo siano al presente!

[Histoire du clerge de France, etc, t. II, p. 143].

CAPITOLO VII

UNA LEZIONE STORICA

(Continuazione

 I.

E ora dove siam giunti? Dov’ è giunta la Francia? l’Europa? l’antico e il nuovo mondo? L’insurrezione generale contro il clericalismo ci autorizza ella mai, si o no, a dire: Non bisogna giurar nulla? Lo ripetiamo: si raccoglie quel che si semina. Seminate vento, mieterete tempeste. Ogni regno che insorge contro Dio, perirà. Quando il mondo intero avrà ricusato di riconoscere per suo Dio e per suo Re, l’Agnello dominator de’ secoli, Dio lo spezzerà come un vaso, e la sua ultima ora sarà suonata : “Tamquam vas figlili confringes eos”. – Queste leggi dell’ ordine morale non sono meno immutabili delle leggi del mondo fisico: la storia intera n’ è la prova.

II.

In questo, più che nel secolo passato, si può dire: Non bisogna giurar nulla. Eppure, io dico che si può giurar qualche cosa. I nostri padri han veduto tutta la Francia porre sopra gli altari una prostituta, e adorarla; hanno veduto Parigi, la capitale della civiltà, come la chiamano, innalzare nel piano de Campi-Elisi, un tempio a Cibele, e tutte le autorità elette, seguite dai giardinieri, dagli ortolani, dai fornai, venire ad offrire alla dea le primizie dei beni della terra.

III.

E noi stessi che abbiamo veduto? Nel 1830, 1848, 1871, abbiamo veduto a Parigi, come altra volta a Roma, i buoi dalle corna dorate figurare con le teorie greche9 nelle processioni in onore della dea dell’Agricoltura; la dea Ragione, in carne ed ossa riapparire in una processione sacrilega a Parigi, ed a Versailles; migliaia di croci infrante, chiese indegnamente profanate, e numerose vittime strozzate. In quest’ora stessa noi vediamo Roma ricollocare nel Campidoglio, come segno parlante del suo ritorno alla bella antichità, la Lupa di Romolo, ricolmarla d’ onori, e nutrirla a spese dello Stato. Noi vediamo nella più gran parte dell’ Europa lo spiritismo rinnovellar le antiche pratiche demoniache dell’Oriente e dell’Occidente. – Vediamo i principii costitutivi dell’antico paganesimo rientrare a piene vele nel mondo attuale: l’emancipazione della ragione; l’emancipazione de’sensi; il concentramento dei poteri spirituali e temporali nelle mani d’un laico, chiamato presidente, re, imperatore, o Cesare; l’odio neroniano alla Verità; la proclamazione legale dell’ateismo e lo straripamento delle iniquità che n’è l’effetto. Le sepolture civili ed i suicidi] oltrepassano oggi tutte le cifre conosciute fino al presente: 5717, ossia un 16 al giorno.

IV.

Giacche è vero che si raccoglie quel che si semina, e che la messe raccolta è della stessa natura che la semenza; che le nazioni non vanno in corpo nell’altro mondo, ma che esse debbono essere giudicate, ricompensate, o punite quaggiù, si può dunque giurar qualche cosa. Si può, tanto più, che malgrado le grida d’allarme ripetute dalle sentinelle d’Israele, malgrado gli avvertimenti severi della Provvidenza; malgrado i miracoli manifesti che gridano al mondo colpevole d’imitare, sotto pena di morte, Ninive penitente, si ride di tutto, si beffa, s’insulta, s’ostina a chiudere gli occhi per non vedere, gli orecchi per non sentire, a ingolfarsi sempre più nel materialismo; a inondare ogni giorno l’anima dei popoli con torrenti di dottrine antireligiose ed antisociali, ed a nutrirla di scandali.

V.

Che dirò ancora? Quando s’odono le grida selvagge cui mandano da un punto all’altro dell’Europa gli anticlericali, i loro appelli incessanti alla distruzione radicale della religione, della società, della famiglia e della proprietà; le loro minacce a tutti i clericali, preti e laici: non è troppo evidente che si può giurar qualche cosa?

VI.

Questo non è tutto; quando si vedono scrittori reputati maestri della gioventù, riabilitare i più fieri nemici del Cristianesimo, Nerone stesso e Giuliano l’Apostata, che dico? riabilitare satana, chiamarlo con l’accento della compassione, un rivoluzionario infelice, e dirgli per consolarlo: Vieni ch’io t’abbracci, benedetto del cuor mio! Quando le nazioni sempre pronte a venir alle mani, in un’agitazione generale, non sono più nazioni, ma eserciti armati; e che tutta la loro intelligenza è intenta a studiare invenzioni dei migliori mezzi ond’uccidere la maggior parte possibile degli uomini nel minor tempo possibile!

VII.

Quando infine si ricorda ciò che fecero gli anticlericali durante il regno effimero della Comune, che essi chiamano un semplice combattimento d’avanguardia: tutte queste cause riunite permettono di giurare, che, se Dio non vi mette la mano, il mondo rivedrà dell’ecatombe umane, che sorpasseranno quelle dell’antichità pagana; e che se mai gli anticlericali vengono al potere, non dureran fatica per mettere in atto il voto d’uno dei loro antenati: Strangolare l’ultimo re colle budella dell’ultimo prete. – Per giustificare le mie apprensioni e il mio asserto, io ho delle prove che mancano a voi per sostenere la vostra tranquillità e la vostra negazione: le darò nel capitolo seguente.

CAP. VIII.

LE PROVE

I.

La prima prova, che senza dubbio poco importerà a voi, ma che a me importa ben molto, è la parola tre volte venerabile del Vicario di Gesù Cristo. Da molti anni il Veggente d’Israele ripete che il mondo spinto dalla Rivoluzione, ritorna visibilmente al paganesimo. – La seconda è tratta dall’esperienza. Quante volte non ci fu detto che mai più avremmo riveduto gli orrori della prima Rivoluzione; mai più udito le stesse bestemmie; mai più riprodotte le infernali dissolutezze di crudeltà, di lussuria e d’empietà, la cui memoria ci fa ancora arrossire e tremare; che il nostro secolo era troppo civilizzato e di costumi troppo dolci per non rendersene colpevole.

II.

E nondimeno abbiamo veduti gli orrori della Comune, l’incendio, la strage, il saccheggio, i sacrilegi; abbiamo veduti i massacri del Libano; vediamo in Alemagna l’espulsione, la spogliazione, l’imprigionamento di migliaia di preti, di religiosi e di religiose; vediamo il martirio della Polonia; udiamo il rantolo dell’agonia di migliaia di Polacchi, preti e laici, spiranti sotto il bastone moscovita nei deserti gelati della Siberia: in Bulgaria, cento villaggi bruciati, diecimila cristiani massacrati, ed orrori, che la penna rifugge di descrivere.

III.

Che dirò ancora? Non vediamo noi oggi quel che il mondo non aveva giammai veduto, quello che i secoli passati non avevano neppure sospettato, il Vicario di Gesù Cristo, il padre della famiglia cristiana prigioniero nella propria dimora, spogliato di tutto, e obbligato a stender la mano per mangiare il suo pane quotidiano? E ciò che è ben più grave, l’eresia impiantata in Roma, nel centro stesso del Cattolicesimo, fabbricar templi, aprire scuole, donde escono in folla le negazioni e le bestemmie, in opposizione alle affermazioni del Vaticano. Ciò che s’è veduto può dunque rivedersi: e forse peggio.

IV.

La terza prova, fondata sulla ragione, ci dice: La natura umana essendo sempre la stessa, tra l’uomo d’una volta, adoratore degli idoli, e l’uomo d’oggi giorno, adoratore del vero Dio, non v’ha altra separazione che il foglio di carta, che voi chiamate clericalismo, e che noi chiamiamo Cattolicismo; ma se sparisse questo foglio di carta, noi rivedremo tutto quello che vide il mondo pagano, tutto quel che vede ancora il mondo idolatra.

V.

Su questo punto la logica è inesorabile. Perché? Perché l’uomo non è un essere indipendente. Libero di scegliersi un padrone, non può farne senza. Teocrazia, o democrazia; i canoni del Vaticano, o i cannoni delle barricate; l’acqua benedetta, o il petrolio; Gesù Cristo o Belial; adoratore di Dio, o adoratore di satana: non vi è via di mezzo. Tale è del resto, a testimonianza della storia, l’alternativa nella quale il genere umano ha sempre vissuto sin dal principio di sua esistenza.

VI.

La quarta prova è nella stessa natura di satana. Come la tigre pone agguato alla sua preda, così satana notte e giorno spia l’umanità. Egli, secondo la frase di san Pietro, è un leone che senza posa le gira intorno, cercando d’impadronirsene. Si dice con verità: Se Dio esce dalla porta, satana entra dalla finestra. Siccome egli non si muta, né invecchia, entra con tutti gl’istrumenti del regno; voglio dire con tutti gli elementi di menzogna e di odio che caratterizzano il grande Mentitore e il grande Omicida. Passando infallibilmente nell’ordine dei fatti, questi elementi, ogni giorno gli stessi, fanno rivivere, sotto una od altra forma, il paganesimo religioso e sociale.

VII.

Io ammetto che l’uomo è sempre meno cattivo dei suoi principii, e, checché si faccia, resterà sempre nel fondo dell’anima dei popoli battezzati qualche cosa di cristiano, che loro impedirà di attuare in tutta la loro estensione, e sotto le medesime forme, i mostruosi eccessi dell’antico paganesimo, o dell’idolatria moderna; ma ragionando sull’ipotesi del successo completo degli anticlericali e secondo i loro desiderii sì altamente espressi, diciamo noi che tutto è possibile.

VIII.

Si, in questo caso, il ritorno alla schiavitù è possibile; il ritorno all’adorazione del demonio è possibile; il ritorno al sacrificio umano è possibile! Per parlare solamente di quest’ultimo, daremo in quest’operetta un saggio di quello che succedeva, sotto questo rapporto, nella bella antichità, e che succede tuttavia là dove il clericalismo non é conosciuto.

IX.

Questo saggio basterà 1.° per rivelare il grazioso avvenire che gli anticlericali, sapendolo o non sapendolo, preparano alla umanità; 2.° per avvertir noi clericali, di tenerci guardinghi, e di non lusingarci che i lupi scatenati si cambieranno in agnelli; 3.° per distruggere l’assurda, ma pericolosa massima, che l’uomo può far senza religione, o ciò che è lo stesso, che tutte le religioni sono egualmente buone, egualmente vere ed egualmente false. Tale è il triplice scopo del nostro modesto lavoro: il cui assequimento, se non tutto almeno in parte, formerà la nostra ricompensa. – Mi prenderò la libertà di ricordare la sentenza del re Luigi Filippo, che diceva: « Se si continua in questo modo ad avvelenar la gioventù, arriveremo all’antropofagia.

CAPITOLO IX.

POSSIBILITÀ DEL RITORNO AL SACRIFIZIO UMANO.

I.

Il sacrificio è talmente nelle leggi dell’ordine eterno, che é sempre e dappertutto esistito. Il vero Dio lo ha comandato, e lo ha avuto. satana, scimmia di Dio, l’ha comandato, e l’ha avuto. Il vero Dio si è contentato del sacrificio degli animali. satana, divenuto il re e il dio di questo mondo, princeps hujus sæculi, deus hujus mundi, non si è contentato del sacrificio degli animali. Nemico implacabile dell’uomo, ha voluto avere l’uomo per vittima: e l’ha avuto.

II.

Ci volle il sacrificio d’una vittima divina per abolire il sacrificio delle vittime umane. Dovunque la vittima divina non è stata immolata, ha regnato e regna ancora l’immolazione delle vittime umane : e se cessa il sacrificio divino, ricomincia il sacrificio umano.

III.

E vero, lo so, che le nazioni protestanti, ed anche molte nazioni infedeli, presso cui non s’offre più, o non s’è offerto ancora il sacrificio divino, non immolano affatto vittime umane ; ma fa d’uopo riflettere che l’influenza del sacrificio divino continua a farsi misteriosamente sentire presso i nostri fratelli separati, e presso eziandio certi popoli infedeli: l’altare fu sul Calvario, ma il sangue della vittima ha inondato l’universo. – E cosi che la presenza del sole si fa sentire al cieco che non l’ha veduto giammai, come al cieco che non lo vede più. Ma, io lo ripeto, o sacrificio divino o sacrificio umano: l’alternativa è inevitabile, come é inevitabile l’alternativa tra Gesù Cristo e Belial. La ragione lo dice, e la storia Io prova.

IV.

Bisogna soltanto notare che il sacrificio umano si divide in sacrificio indiretto e in sacrificio diretto. Per sacrificio indiretto, devesi intendere l’immolazione che l’uomo, inspirato dal demonio, fa dei suoi simili, sacrificandoli all’Orgoglio, all’Ambizione, alla Voluttà, all’odio della Verità, divinità malefiche divenute suoi idoli. Questo genere di sacrificio, noi lo vediamo, più o meno in tutti i tempi e presso tutti i popoli, perché sempre e dappertutto, sin dalla sua prima vittoria sopra i padri del genere umano, satana ha sempre e dappertutto conservata una parte della sua potenza omicida.

V.

Questa sua potenza fu completa nell’antichità pagana. Allora la guerra, guerra spietata, fu senza tregua in tutta 1’estensione del mondo conosciuto. Durante gli 800 anni della sua bellicosa esistenza, Roma non chiuse che due volte il tempio di Giano. Sarebbe più facile numerare le foglie degli alberi, che misurare la quantità, la larghezza, la profondità dei fiumi di sangue umano, onde la terra fu cosparsa a cagion di cotal guerra, dal diluvio fino all’Incarnazione.

VI.

Al nascer della Chiesa, che cosa furono i milioni di martiri che, per tre secoli, inondarono del loro sangue tutte le parti dell’ Oriente e dell’ Occidente? Che cosa furono i martiri delle età seguenti, sino alle presenti? Non altro che vittime umane, immolate per inspirazione del demonio a difesa del suo regno.

VII.

I conquistatori che, nelle guerre ingiuste, fanno perire milioni d’uomini, che cosa son essi mai, se non grandi ministri di satana, grandi sacrificatori di vittime umane? – Ed il potente filosofo, chiamato Brissot, il quale, verso la fine dell’ultimo secolo, scriveva un libro per domandare l’istituzione di carneficine umane, chi era egli mai se non il promotore dei sacrifici umani?

VIII.

Gli spietati demagoghi del 93, i quali stabilendo queste carneficine su tutti i punti del suolo francese, immolarono, al selvaggio loro odio del trono e dell’ altare, tante migliaia di vittime; e i comunardi di Parigi, i quali, per odio del clericalismo, fucilarono gli ostaggi, che cosa sono essi, se non i ministri di satana che ebbe ed avrà sempre sete di umano sangue? E gli anticlericali dei tempi nostri, che gridano allo sterminio del clericalismo, che cosa sono, se non sacrificatori anticipati di umane vittime?

IX.

Deve poi considerarsi attentamente, che questo sacrificio indiretto di vittime umane non ha luogo, sia da parte dei popoli, sia da parte degli individui, che quando, cessando il sacrificio divino di far sentire la sua influenza vittoriosa, il demonio fa di nuovo sentire la sua. – Ciò in quanto al sacrificio indiretto. Non solamente questo è possibile, ma esiste. Gettando uno sguardo sul mondo attuale, si vede che questo sacrificio minaccia di effettuarsi, un giorno o l’altro, nelle più orribili proporzioni.

X.

Tutte le volte che l’uomo fa guerra a Dio, la fa ai suoi simili. I loro più sacri diritti, i loro più cari interessi, spogliati della guarentigia divina, non sono per lui che mezzi od ostacoli alle sue cupidigie, e si arma per goderne, o per disfarsene. A più forte ragione, allorché un popolo, allorché un mondo intero, come il mondo attuale, fa guerra a Dio, la lotta delle nazioni è inevitabile. Questa lotta sarà universale, come l’insurrezione contro Dio. La prova n’è 1.° che quando Dio è combattuto, e combattuto come è oggidì a oltranza, tutte le barriere veramente protettrici della giustizia, e per conseguenza della pace, sono distrutte. E subito, simili al torrente, che si rovescia dall’alto delle montagne, tutte le passioni scatenate faranno della terra un vasto campo di battaglia. 2.° Bisogna una espiazione dei delitti commessi contro Dio. Le immondezze umane non essendo più lavate nel sangue della vittima divina, il saranno nel sangue dell’ uomo.

XI.

Per incredule che siano, le nazioni attuali sembrano aver l’istinto di ciò che si prepara. Altrimenti, come spiegare il loro timore reciproco; timore universale ed incurabile, malgrado le promesse di pace, malgrado le relazioni scientifiche e commerciali dei popoli tra loro, malgrado la civiltà materiale? Che cosa significano le numerose armate permanenti, mantenute sul piede di guerra? Perché questi armamenti formidabili, sconosciuti eziandio al mondo antico? – Roma nell’apogeo della sua potenza militare non aveva che venticinque legioni, non più cioè, che 200,000 uomini. E non sappiamo noi, che verso la fine de’ tempi, meno lontana forse che non si pensi, vi avranno guerre tali da sorpassare in estensione tutte le altre guerre, ed eserciti, i cui soldati si conteranno a milioni?

XII.

Ho detto che la fine dei tempi è forse meno lontana che non si pensi. Per render non certa, ma sostenibile questa opinione tenuta da uomini eminenti, io non farò appello né alle profezie moderne, né ai calcoli cronologici, né ai commentarii dell’Apocalisse; mi basta indicare un fatto a tutti visibile.

XIII.

Egli è divinanìente certo che verso la fine dei tempi vi sarà un regno anticristiano. Questo regno sarà la più formidabile potenza che si sarà mai levata contro la Chiesa di Dio. I pericoli che farà esso correre perfino agli eletti, saranno tali, che, se i giorni di questo regno diabolico non fossero abbreviati, niuno sarebbe salvo: non salva fieret omnis caro. Egli è poi umanamente certo che questo regno cosi formidabile per la sua estensione, per la sua potenza, per i suoi mezzi di seduzione, non nascerà in un giorno, come il fungo sotto la quercia. Esso avrà una preparazione più o meno lunga, in rapporto alla sua infernale e gigantesca missione. [È chiaro qui che il Gaume stia parlando della giudeo-massoneria trionfante nei nostri giorni! Che profezia attualizzata! –ndt.-]

XIV.

Domando ora a chiunque getti attento uno sguardo sulla faccia della terra: Se, Dio non voglia, tu fossi incaricato di preparare il regno anticristiano, ti comporteresti diversamente da quel che si fa oggidì dall’un capo all’altro dell’antico e del nuovo mondo? Tu predicheresti la negazione radicale di tutti i dommi cristiani; emanciperesti le passioni, spingendole potentemente al materialismo, al lusso, al sensualismo, e cancellando, quanto è possibile, il senso morale.

XV.

Affine di togliere alle nazioni cristiane la loro ragione di essere, tu le renderesti apostate come nazioni. Tu annienteresti l’autorità sociale della Chiesa; concentreresti tutti i poteri fra le mani d’un uomo, dichiarando la politica indipendente dalla religione. Attireresti sui Cattolici e sul clero ogni sorta derisioni, ogni sorta di disprezzi ed odii, allo scopo di poterli sedurre e sterminare. Il tuo grido di guerra sarebbe il motto che risuonò in Gerusalemme alcune ore avanti il supplizio del Redentore, e pochi anni prima la rovina della città deicida, immagine della fine del mondo: “Non vogliamo più che Cristo regni sopra di noi: Nolumus hunc regnare super nos.” Tale è, salvo errore, la condotta che tu terresti per esser logico.

XVI.

Ora, ciò che tu faresti, non si fa forse di presente? Non si è forse già fatto per tre quarti? E quanto all’ultimo quarto, non si cerca forse di attuarlo con un ardore cui nulla rallenta? Si può dunque dire con ragione, che il regno anticristiano è presso a poco bello e formato; per conseguenza la fine de’tempi è forse meno lontana che non si pensi, attesoché il regno anticristiano non sarà di lunga durata. Eppure, io non ho fatto che indicar solo un fatto. Che sarebbe se si volessero mostrare gli altri segni precursori della fine, i quali già appariscono sull’ orizzonte?

XVII.

Così, tutto fa prevedere, in un avvenire più o meno prossimo, guerre immense, e, per conseguenza, ecatombe di vittime umane. E nondimeno, l’uomo del mondo attende la pace, il Cattolico il trionfo della Chiesa. La pace! La pace, in mezzo al rovesciamento di tutte le leggi divine! La pace, allorché tutte le tempeste umane si sono scatenate! No, il mondo non avrà la pace; avrà quello che ha voluto, rivoltandosi contro Dio: la guerra, con tutti i suoi orrori.

XVIII.

Il trionfo della Chiesa! Io posso dire che lo desidero più d’ogni altro; ma spesso ho domandato a me stesso, che s’intenda pel trionfo della Chiesa. Avvi, a me sembra, un trionfo negativo, ed un trionfo positivo. Il trionfo negativo consiste in ciò che la Chiesa uscirà vittoriosa dalla lotta, nel senso che essa non perderà un solo dei suoi dogmi, un solo dei suoi punti di morale, un solo de’ suoi sacramenti; non perderà il suo capo supremo, né le persone essenziali alla sua gerarchia: questo trionfo è sicuro!

XIX.

II trionfo positivo sarebbe la restaurazione sociale dell’autorità della Chiesa, in modo che questa torni ad esser l’oracolo adorato dei governi e dei popoli; la restituzione dei domini rubati alla Santa Sede; il ritorno dei princìpii cristiani nelle leggi e nelle costituzioni dei popoli; la negazione legale d’un diritto qualunque ad ogni errore religioso; in una parola, il ritorno delle nazioni alla fede del loro battesimo. – È troppo evidente che un siffatto trionfo non può essere che l’effetto di un miracolo. Or, la promessa di un siffatto miracolo non trovasi né nella Scrittura, né nella Tradizione. Che, dopo le scosse più o meno violente, vi abbiano pel mondo alcuni anni di respiro, e per la Chiesa alcuni anni di tranquillità, per dare alla nazione giudaica il tempo di convertirsi, ed al Cristianesimo quello di compiere il giro del mondo; questo è molto possibile, ed anche probabile. Tale è il senso, nel quale è permesso di dire che la fine dei tempi è forse meno lontana che non si pensi.

CAPITOLO X.

SACRIFICIO DIRETTO. — QUESTIONE AI RAZIONALISTI. — AUTORE DEL SACRIFICIO UMANO.

(Continuaziono del precedente)

I.

Quanto al sacrificio diretto, che come abbiamo detto è l’immolazione di vittime umane in onore di un uomo e di qualche falsa divinità, esso trovasi in vigore dovunque il Clericalismo non lo ha abolito. Esso fu sempre imposto a nome della religione.

II.

È qui il luogo che bisogna rivolgersi a tutti i nostri fieri razionalisti, i quali pretendono che tutte le religioni sono egualmente buone, e loro domandare una risposta categorica alla questione seguente: Ecco una religione, che dice ad un padre, ad una madre: Dammi quel che hai di più caro al mondo, il tuo figliuolo: lo devo scannare, lo devo bruciar vivo; tanto esigono i miei Dei: guai a te, se ti rifiuti. Ecco un’altra religione che dice: Guardati bene dall’immolare tuo figlio. Al contrario, veglia sulla sua vita, come sulla pupilla degli occhi tuoi. Egli é un deposito sacro, di cui Iddio ti chiederà conto. — Queste due religioni vi sembrano esse egualmente buone?

III.

Se esse non sono egualmente buone, non sono egualmente vere; se non sono egualmente vere, non sono egualmente divine. Non è dunque indifferente di praticar l’una, ovvero 1’altra. Ora il Clericalismo è la sola Religione che ha posto fine al sacrificio umano; che vieta tutt’i delitti, che comanda tutte le virtù; e voi volete sterminare il Clericalismo? Infelici! Se i vostri sforzi riuscissero, voi sareste gli assassini dell’umanità.

IV.

Prima di entrare nella storia del sacrificio umano diretto, fa d’uopo conoscerne l’autore. Gli è stato mille volte dimostrato, che sotto ogni punto di vista, l’idea del sacrificio non può sorgere dalla ragione umana. È impossibile infatti stabilire un rapporto logico tra l’immolazione di una bestia, e l’espiazione di un peccato. Tuttavia l’idea del sacrificio e della sua efficacia è nella natura umana; là vi si trova dall’origine del mondo. Essa dunque non viene dalla natura: i fatti confermano il ragionamento.

V.

Che vediamo noi nella Scrittura? Vediamo, che fra l’immensa varietà di sacrifici offerti nella legge mosaica, non ve n’è uno, di cui l’ordine non sia venuto da un oracolo divino. Vediamo, che nella legge evangelica, l’augusto sacrificio del Calvario, sostituito a tutt’i sacrifici, è una rivelazione divina. Iddio ha parlato, e l’uomo sacrifica.

VI.

Per una ragione analoga, la scimmia di Dio, satana, ha parlato, e l’uomo sacrifica. La parola di Satana è tanto più certa in quanto che l’uomo sacrifica se stesso, sacrificando il suo simile. Lo sacrifica su tutti i punti del globo; la parola di satana è dunque universale. Lo sacrifica, malgrado le ripugnanze più vive della natura; la parola di Satana è dunque assoluta e minacciante. Lo sacrifica dovunque il sacrificio divino non è offerto. Il giudeo stesso appena che abbandona Ièhovah, cade nelle braccia di Moloch, e gli sacrifica i suoi figli e le sue figlie.

VII.

Il sacrificio umano non è dunque né l’effetto della immaginazione, né il risultato d’una deduzione logica, né un affare di razza, di clima, d’epoca, d’incivilimento più o meno avanzato, o di circostanze locali: è un affare di culto. Ogni sacrificio poggia o su di un oracolo divino, o su di un oracolo satanico. Sentiamo la storia.

VIII.

« I sacrifici umani, scrive Eusebio, debbono essere attribuiti agli spiriti impuri, i quali han congiurato la nostra perdita. Non è la nostra voce, ma è la voce di coloro che non professano le nostre credenze, la quale renderà omaggio alla verità. Relativamente ai sacrifica umani, dice Porfirio, non si può nè ammettere che gli dèi li abbiano richiesti, né supporre che i re ed i generali li abbiano offerti spontaneamente» [gli dèi secondo Porfirio, sono gli angeli buoni.] sia consegnando i loro proprii figli ad altri, perché li sacrificassero; sia consacrandoli, ed immolandoli essi stessi. Volevano mettersi al sicuro contra l’ira, e contra il furore di esseri terribili e malefici. ‘ – La storia conferma l’affermazione di Porfirio. Il sacrificio umano è stato sempre il corollario obbligato dell’idolatria, ossia dell’adorazione del demonio, adorato principalmente sotto la forma del serpente.

IX.

Perché mai il demonio ha sempre richiesto il sacrificio umano? Farsi adorare in luogo del Verbo incarnato: questa è stata sin dall’origine la mira invariabile dell’Angelo ribelle, questa sarà pur sempre. « I demoni, continua Porfirio, vogliono esser dèi, ed il capo che loro comanda, aspira a rimpiazzare il Dio supremo. Essi si dilettano delle libazioni e del fumo delle vittime. Si nutrono di vapori e d’esalazioni diversamente, secondo la diversità della loro natura, ed acquistano gagliardia novella dal sangue e dal fumo delle carni bruciate.» 1. [Apud Euseb. Præp. evang, lib. IV., c IV. e XV. e c. XXII].

X.

Agostino e S. Tommaso ne danno il vero senso delle parole di Porfirio, spiegandoci la natura del piacere che i demoni prendono all’odor delle vittime. « Quel che essi stimano nel sacrificio, non è il prezzo della bestia immolata, ma il suo significato. » Ora, il significato è l’onore reso al sovrano signore dell’universo [sottolineiamo qui opportunamente che il “signore dell’universo” del falso rito odierno del “novus ordo” satanico – al quale si offre la Vittima all’offertorio, si osanna nel trisagio e nel te deum– è sempre lo stesso satana, il baphomet lucifero, il “signore dell’universo” –ndr.-]. Quindi, le parole: «I demoni non godono dell’odore dei cadaveri, ma degli onori divini. » [In oblatione sacrificii non pensatur pretium occisi pecoris, sed significatio, qua fit in honoremsummi rectoris totius universi, linde sicut Àugustimis dicit (De Civ. Dei. lib. X, c. XIX, ad fin,: “Dæmones non cadaverinis nidoribus, sed diviuis honoribus gaudent” (S. Th. 2. 2. q, art. 2, ad 2).

XI.

Da ciò che abbiamp detto, si vede perché il demonio domandi il sacrificio in generale. Ma perché domanda a preferenza il sacrificio umano? Il suo odio al Verbo fatto carne è inestinguibile. Non avendo potuto farlo immolare che una volta sul Calvario, vuol farlo immolare nelle sue membra sopra tutt’i punti del globo. Da una parte, questo sacrificio soddisfa al suo odio; dall’altra compie i suoi voti. Il sacrificio é l’atto più elevato del culto dell’idolatria, a cui il demonio, dice S. Tommaso, non ha cessato d’aspirare dopo la sua rivolta: Ascendam, et similis ero Altissimo. Ecco, come abbiam già detto, quale è l’ultima parola di Satana: rivaleggiare con Dio, e godere di tutti gli omaggi dovuti a Dio.

XII.

Non solamente egli vuole vittime umane; ma per un raffinamento di scelleratezza, vuole vittime scelte. I fanciulli e le fanciulle sono sempre state le sue vittime preferite.

XIII.

Cominciamo adesso il nostro viaggio pel mondo antico, e pel mondo moderno. Io nol dissimulo, questo viaggio sarà grandemente doloroso; perciocché cammineremo costantemente nel sangue umano; ma ci sarà utile primamente per le seguenti ragioni: – 1° Facendoci conoscere la profondità dell’abisso, in cui l’umanità é potuta discendere, saremo compresi d’una riconoscenza eterna per quel Dio che ce ne trasse fuori, e che c’ impedisce di ricadérvi. – 2°. Ci inspirerà un’eguale pietà ed un eguale orrore per coloro i quali, volendo sterminare il Cristianesimo, ricondurranno il mondo nello stato in cui era avanti il Cristianesimo. – 3.°Ci riempirà d’uno zelo novello per le tre grandi opere cattoliche della nostra epoca: La Propagazione della fede, l’Opera apostolica, e la Santa Infanzia. [continua …]

[Nota: I grassetti ed il colore è redazionale! Non abbiamo saputo resistere all’evidenziare le storture sataniche adottate nel luciferino rito adottato dal novus ordo, rito spacciato e contrabbandato indegnamente come Messa cattolica! Anatema sit!]

 

 

LA DIALETTICA HEGELIANA NELL’OPERATO DEL SIG. Marcel Lefebvre

LA LOGICA HEGELIANA NELL’OPERATO DEL SIG. Marcel Lefebvre

(che taluni credono essere un sacerdote, qualcuno pensa sia un vescovo, altri addirittura un santo!).

Esempi della dialettica di Lefebvre contro il “De Fide”

 “La Chiesa piomberà in una grande sofferenza prima che sia completamente dissolta, e subirà gli oltraggi più severi, per non parlare di quel gran numero di figli rinnegati, attaccati alle promesse fatte da uomini che infragono la propria parola, che infrangono tutto ciò che può essere trovato di più sacro, che tratteranno il Figlio di Dio con le parole più abominevoli. Il numero di quelle anime, per sempre divise da Dio, per così dire oltrepasserà i tre quarti dei viventi.” (Rivelazioni celesti a Marie-Julie Jahenny , 29 giugno 1882 – in: “Le profezie di La Fraudais di Marie-Julie Jahenny”, pp. 210-213).

Una delle basi dell’inganno comunista (condannato a più riprese dalla Chiesa Cattolica) è l’uso della dialettica hegeliana, (di dialettica in ambito metafisico, espressione dell’immanentismo e panteismo gnostico, si era già parlato nei tempi antichi fin da Platone, ripreso poi dai neoplatonici medioevali imbevuti di cabalismo neognostico, fino al massone Kant e adepti vari fra i quali Fichte, che per primo parlò del diabolico trio, oggi alla moda, di quello che sembra un innocente gioco filosofico, il “gioco delle tre carte”, elaborato e definito poi dall’altro epigono Hegel che diede spunto a tutte le successive correnti idealistiche, fino al kazaro-pseudogiudeo Marx che fondò il materialismo storico fondamento del comunismo, altro “prodotto” cabalistico destinato a sconvolgere il mondo intero deviandolo con i suoi deliri. Per questo gioco, il “gioco delle tre carte”, è vero “tutto”, ed è vero il “contrario di tutto” che fusi in un calderone alla maga Magò danno poi luogo al contrario del contrario recuperando apparentemente il “tutto” in un superamento irreale e logicamente falso, sempre lontano dal tutto “vero”. La dialettica hegeliana è così strutturata su tre parametri:

Tesi – Antitesi – Sintesi: che costituiscono la filosofia rivoluzionaria di Hegel, inventata per distruggere il Regno di Cristo (l’Ordine cattolico).

In realtà questa è stata un’arma privilegiata usata da sempre dai “nemici di tutti gli uomini”, da “quelli che per padre hanno il diavolo”, cioè i “nemici di Dio e del suo Cristo”. Per meglio confondere chiamano questo sistema con il termine elegante di: dia .. lettica [togliendo di proposito le due lettere “vo” che la completerebbero compiutamente! … Questa dia … vo-leria è usata in filosofia, in politica, nella questioni sociali, in tutto ciò che concerne la possibilità di destabilizzare l’ordine Cristiano che è fondato sul: “Si si, – No no”, lineare, limpido chiaro, senza alternative pasticciate, esattamente l’inverso del motto di chi deve ingannare in modo subdolo. Evidenze lampanti le vediamo nel nostro quotidiano, nelle dinamiche politiche in cui si contrappongono la destra e la sinistra, i reazionari ed i progressisti, le cui macerie poi fanno sorgere dei movimenti di sintesi che ancor più destabilizzano e confondono gli illusi che credono di contare qualcosa in “democrazia”, potere che viene dal basso, anzi dal profondo, dal sotterraneo … In ogni caso, la sintesi è un elegante abbattimento della tesi, che viene distrutta senza “dare nell’occhio”, come una equazione matematica che offre una soluzione apparente, una versione per allocchi dormienti del “dissolvi e coagula”. A questa dinamica appartiene pure la dialettica religiosa creata a bella posta dai soliti marrani infiltrati della “quinta colonna”, quelli della “razza degli ofidi”, che alla Chiesa di sempre, Una Santa, Cattolica, Apostolica, Romana, ha contrapposto una contro-Chiesa (o falsa chiesa del “Novus ordo” e del concilio vaticano c.s. II -falso anche questo, convocato da un antipapa per distruggere la tradizione e generare un falso culto-). Da questa contrapposizione è nata una “sintesi” mostruosa ed ingannevole anche più della stessa contro-chiesa: il “movimento tradizionalista” in appoggio e all’interno della falsa chiesa. Questo movimento, nato appunto nell’ambito giudaico-massonico (che alimenta, anche economicamente, tutte le dialettiche distruttive) ha avuto per iniziatore (apparente) il cosiddetto mons. M. Lefebvre, un uomo falsamente consacrato dal falso cardinale Lienart, un massone di alto livello già prima di essere diventato finto-prete e poi finto-vescovo con riti sacrileghi perché recepiti senza intenzione ed in stato di scomunica grave ipso facto. Un tale soggetto, quindi, non essendo mai diventato prete né vescovo per difetto di intenzione, anzi con l’intenzione diametralmente opposta a quella della Chiesa Cattolica, essendo scomunicato ed aderente pienamente convinto ai deliri massonici di alto grado (pensiamo solo al: Adonay noken!) con tanto di adorazione del baphomet-lucifero, non ha potuto mai trasferire alcunché di sacro ai suoi pseudo consacrati, consci o meno della situazione, e da qui a tutta la linea fasulla che si perpetua ancora ai giorni nostri, buona per il carnevale di Venezia o di Viareggio! Ma un tale [il Lefebvre appunto] designato a creare un movimento “dialettico”, non poteva certamente ignorare la formazione “culturale” del suo padre spirituale, come egli stesso lo definiva, a meno di essere uno sprovveduto al limite dello stato psichiatrico di idiozia. Ma il nostro, idiota non lo era di certo, tutt’altro! Se si esamina il corso delle sue dichiarazioni, in tempi anche ristretti, si rimane sconcertati dal movimento a banderuola mostrata dal sig. Marcel nelle sue dichiarazioni, ora a favore della Chiesa, ora della contro chiesa, fino alla enunciazione “sintetica” dei princìpi, giusto –diceva- per salvare il salvabile! Qui non si tratta di smemoratezza, di arteriosclerosi, di sindrome demenziale, di involuzione cerebrale presenile, di facoltà mentali in libera uscita, come sembrerebbe attenendosi ai canoni della neuropsichiatria, ma di un lucido agire di stampo hegeliano: un giorno la tesi (la “vera” Chiesa), un giorno l’antitesi (la contro-chiesa, quella falsa dei massoni marrani, dall’usurpazione roncalliana in poi, passando dal conciliabolo Vat. II. ), per arrivare al giorno della sintesi (… lasciateci vivere la tradizione nella contro chiesa: lo pseudo-tradizionalismo lefebvriano!). Diamo un rapida occhiata a qualche “perla”, alle dichiarazioni ufficiali del nostro personaggio.

Eccone una breve panoramica:

16 novembre 1976 – Innanzitutto: Lefebvre concorda con le proposizioni che affermano:

1- “Il Vaticano II era un Concilio Ecumenico adeguatamente convocato dal Pontefice regnante secondo le norme canoniche“. ;(falso! egli sapeva fin troppo bene, come “figlioccio” di Lienart [da lui stesso considerato il suo padre spirituale] e amico “fraterno” del card. Tisserant, come erano andate le cose nei Conclavi dei 1958 e del 1963 e di che pasta era il pontefice usurpante e quale validità avesse il concilio oltretutto scomunicato anzitempo da Pio II Piccolomini nella famigerata bolla “Exsecrabilis”) ;

2- “I suoi documenti ufficiali sono stati votati dalla maggioranza dei Padri del Concilio e validamente promulgati dal Pontefice regnante”  (falso! Egli ben sapeva che il pontefice non era tale perché usurpante, e quindi tutti i documenti erano invalidi, carta straccia da camino, o … da toilette, se necessario;).

3- Alla seguente domanda: rispondeva:

D. “… È vero che tu intendi consacrare uno o più vescovi per continuare il tuo lavoro.?” Mgr. Lefebvre: It is totally untrue.”

“La risposta del falso Mons. Lefebvre: –È totalmente falso!”

[Da un colloquio con Michael Davies. “Apologia Pro Archbishop Lefebvre” , Vol. 1, pp. 347/8. 1, pp. 347/8.]

Nel 30 giugno 1988, egli ha consacrato tre vescovi (falsi come e più di lui) sotto copertura di una fantomatica “Operazione di Sopravvivenza Cattolica agosto / settembre. 88, p.1. 88, p.1. – Questo non significa che nel 1976 Lefebvre non avesse alcuna intenzione di consacrare, anche se tuttavia, alcuni avevano creduto il contrario a quel tempo.

29 giugno 1976

4 -.Nonostante tutte le obiezioni, egli procedette alle ordinazioni. Paolo VI (il montin-marrano) rispondeva il 1° luglio colpendo i sacerdoti ordinati con una sospensione a divinis. – Il 29 luglio la stessa sanzione colpiva Lefebvre – che rilasciò nello stesso giorno una dichiarazione inequivocabile: Questa chiesa conciliare è una chiesa scismatica perché rompe con la Chiesa Cattolica dei secoli”.

5 – Continuamente poi ebbe ad insistere sull’eresia e sullo scisma del Vaticano II dalla Chiesa di sempre... Tuttavia, nello stesso tempo già parlava di “interpretare il concilio nel senso della tradizione e già chiedeva.“… che ci permettano di sperimentare la tradizione “. ( ECOME FULL STOP , Fortes in Fide , di Fr. Noél Barbara)

29 luglio 1976

In questo giorno, sotto lo shock della sospensione a divinis, Mons. Lefebvre ha dichiarato: “Questa chiesa conciliare è una chiesa scismatica perché rompe con la Chiesa Cattolica dei secoli …” – “Questa chiesa conciliare è scismatica perché ha preso come base del suo aggiornamento dei principi contrari a quelli della Chiesa cattolica.”. – “La chiesa che afferma errori come questi è sia scismatica che eretica: questa chiesa conciliare non è quindi Cattolica”.!

4 agosto 1976

“Ma, … ribaltone! meno di una settimana dopo, parlando del concilio, eccolo dire: ” Non lo rifiuto del tutto, accetto il concilio in quel che è conforme alla tradizione “..’ Francia-Soir , 4 agosto 1976. Inoltre, in un’affermazione al quotidiano “Le Figaro” , si è rivelato fermo e deciso. Dopo aver ripetuto le sue dure parole del 29 luglio, interrogato sulla legittimità di Paolo VI, concludeva con un colpo da maestro: “Noi siamo decisamente decisi a continuare il nostro lavoro di restauro del sacerdozio cattolico, qualunque cosa accada, convinti che non possiamo prestare servizio migliore alla Chiesa, al papa, ai vescovi e ai fedeli. Lasciate che ci permettano di sperimentare la tradizione . Le Figaro, 3 agosto 1976 “.

[Il nostro eroe con il super massone-ecclesiastico Tisserand, agente del ‘bnai ‘brith al Conclave del 1958 ed al contro-concilio Vat. II – guarda caso, manca … solo Lienart!]

Ripassiamo la lezione:

Tesi ( Religione Cattolica ) – Antitesi (falsa religione degli usurpatori V2, o novus ordo, imposto dalla massoneria)

= Sintesi (Lefebvrismo Anti-cattolico  / Pseudo-tradizionalismo)

Diabolica lingua biforcuta:

4 Agosto 1976.

In un giorno il sig. Lefebvre [il falso mons.] tratta la chiesa conciliare, la sua gerarchia e in particolare il suo “papa” da scismatico: “Tutti coloro che cooperano nell’applicazione di questo sconvolgimento, accettano e aderiscono a questa nuova chiesa conciliare … entrano nello scisma”. Le Figaro, 4 agosto 1976. (ECONE FULL STOP, Fortes in Fide , di Fr. Noél Barbara).

La pantomima raggiunge il suo scopo:

24 dicembre 1978

In questo altro giorno il sig. Marcel si abbassa a chiedere a questi “scismatici” un riconoscimento per il quale ancora attendono risposta ufficiale i suoi eredi: “Santo Padre, per l’onore di Gesù Cristo, per il bene della Chiesa, per la salvezza delle anime, vi preghiamo di pronunciare una sola parola, una sola parola: “Lasciate che continuino“. “Lettera a Giovanni Paolo II [l’antipapa dell’epoca], 24 dicembre 1978.

L’8 novembre 1979 Lefebvre affermava con forza che le proprie opinioni non erano cambiate negli anni; affinché nessuno possa errare per quanto riguarda la sua e la posizione ufficiale del SSPX sul Novus Ordo Missae: “… nessuno nella SSPX poteva tollerare che tra i suoi membri si trovassero quelli che rifiutano di pregare per il Papa o affermano che il Novus Ordo Missae è di per sé invalido …” – ” Cattolico “, Luglio e Novembre 83, p.3.

Fr. Fr. Noél Barbara : “Lui (Lefebvre) dice spesso, in difesa del suo lavoro, che i santi non hanno agito in modo diverso.”

Qualunque cosa il prelato possa dire, i seminari selvaggi, le ordinazioni senza lettere dimissorie, le confermazioni e le confessioni senza giurisdizione, sono pratiche contrarie a ciò che è sempre stato fatto nella Chiesa.”

“Fatta eccezione per gli eretici-scismatici che non riconoscono la Chiesa Cattolica come la sola arca di salvezza e non appartengono ad essa, nessun Vescovo o Santo ha mai aperto un seminario, un’università, un luogo di culto, anche privato ​​o amministrati i sacramenti senza la preliminare autorizzazione dell’Ordinario, ancora meno sfidando il suo divieto, senza che sia stato denunciato innanzitutto come eretico e condannato pubblicamente di conseguenza, come ad es. fece San Atanasio nel suo tempo “. (ECONE FULL STOP)

” … Perché se una persona non mantiene questa fede intera ed integra, sarà senza dubbio perduta per sempre.” (Credo di Atanasio)

Christopher Shannon (che era a Econe-Sion, in Svizzera all’inizio degli anni ’70, ma ha lasciato subito dopo aver capito che il capo dello SSPX e Lefebvre erano intrisi di Massoneria), ha scritto il 29 gennaio , all’editore di lunga tradizione della rivista cattolica “The Spark” , 1997: “… e seguendo il sentiero dei soldi, credo che la maggior parte dei fondi provenissero da Roma: Lefebvre ha intrapreso frequenti viaggi a Roma mentre ero con lui; io mi sono seduto al tavolo accanto a lui, tutti i conviviali erano cordiali, non c’era animosità nè discussioni, come la maggior parte avrebbe potuto credere: ora so che si organizzavano semplicemente strategie sotto la guida dei suoi capi romani… L’uomo è un diavolo, con un sorriso santo benigno. “lo zucchero, il veleno, è stato infuso nel processo e cresce e cresce fino al raccolto “.

 “ Sua Santità, Papa Pio IX, Quartus Supra , 6 gennaio 1873: “È sempre stato l’abitudine degli eretici e dello scismatici il dichiararsi cattolici e proclamare le loro eccellenze per condurre in errore i popoli e i principi “.

 

 

MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO di mons. J. J. Gaume

MORTE AL CLERICALISMO

O

RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO

[mons. J. –J. GAUME, 1878]

PROEMIO

Lo so: il titolo di quest’opera sembrerà strano, e anche assurdo. Si dirà subito: qual rapporto può essere tra la morte del Clericalismo ed il ritorno al sacrificio umano? La spiegazione di questo mistero sarebbe troppo lunga per un proemio: sarà data a suo luogo. Solo prego il lettore di non sentenziare prima d’averlo letto. – In ogni caso la storia del sacrificio umano dall’origine dei secoli, non sarà per lui senza interesse e senza profitto. In verità, essa rivela numerosi e tristi particolari; ma nello stesso tempo elevando, fino all’evidenza di un assioma di geometria, la divinità del cristianesimo, riempie l’anima di nobili sentimenti. – Eterna e più profonda riconoscenza verso quel Dio, che venne ad immolar se stesso per far cessare cotali diaboliche crudeltà. – Indignazione insieme e compatimento verso i forsennati che oggi brandiscono ogni sorta d’arme per oltraggiare, espellere, annientare, se lo potessero, il divino Liberatore, e risuscitare il paganesimo, che essi proclamano l’ideale dell’ umanità. – Ingrati! Dimenticano che devono tutto al Cattolicismo. Senza questo chi sa se, come tante migliaia d’altre creature, non sarebbero stati strappati dal seno delle loro madri, e bruciati vivi in onore di qualche Moloch fenicio, o di qualche Teut germanico? Ciechi volontari non vogliono comprendere che, se Dio li lascia fare, ricondurranno il mondo ai cruenti saturnali della barbarie pagana. Il lettore di questa storia, al quale essi faranno paura e pietà insieme, li compiangerà dal fondo dell’anima, e con la gran vittima del Calvario dirà: Padre, perdona loro, perché non sanno quel che facciano: “Pater, dimitte illis, non enim sciunt quid faciunt”.

MORTE AL CLERICALISMO

CAPITOLO PRIMO.

IL GRIDO DI GUERRA

I.

Morte al Clericalismo! Se non vi fossero che venticinque voci a denunziare il clericalismo siccome il nemico dell’umanità, e basterebbe stringersi nelle spalle, e dire: non è cosi! Ma in queste venticinque voci si fanno ascoltare milioni di voci, che ripetono lo stesso grido.

II.

Morte al Clericalismo! Ecco il grido di guerra che da diciotto secoli di Cristianesimo risuona al presente dall’un capo all’altro dell’Europa. Dal Messico al Brasile, l’eco di tutta l’America lo ripete. Lo ripetono la Turchia, la Cina, la Corea. – Insomma voci d’Oriente, voci d’Occidente, voci di Levante, voci di Ponente, voci de’ quattro venti, non formano che una voce sola: Morte al Clericalismo!

III.

Morte al Clericalismo! Questo grido sanguinario donde parte mai? Parte dai giornali, dagli antri tenebrosi delle società segrete; dalle Camere legislative, dai governi, dalle accademie, dalle officine, dai teatri, dalle città e dalle campagne; e come il ruggito della tigre, o del rumoreggiar della tempesta, levasi tremendo dal fondo della società.

IV.

Morte al Clericalismo! In qual modo preparano essi la sua morte? Incominciano dal salare la vittima: “Omnis victima sale salietur”. La salano, dandole per nome un soprannome che la rende dispregevole: invece di Cattolicismo, la chiamano clericalismo. La salano, ripetendo mille volte il giorno, che il clericalismo è il padre dell’ignoranza, della superstizione, della schiavitù, dell’abbrutimento umano, l’irreconciliabile nemico della società moderna. La salano eccitando contro di essa tutti gli odi, tutte le ire, ogni genere di rifiuto e di maledizioni. – Dopo averla salata, la incatenano, la imprigionano, la spogliano, le negano il suo posto sotto il sole, fino a che ne sgombrino la terra, sterminandola: tale è il loro sogno. Se questo non addiviene una realtà, non è già la volontà che loro manchi.

CAPITOLO II

IL CLERICALISMO

I

Morte al Clericalismo!. Essi hanno un bel negare: le loro parole vengono smentite dalle loro azioni. Il Clericalismo non è che una parola di moda, un fantasma ad uso degli sciocchi, ed a profitto dei mariuoli. Siccome altre volte il vocabolo galilei, e più tardi le parole gesuiti, papisti, oltramontani, oggi giorno i vocaboli clericalismo, clericali, clericale valgono: “Cattolicismo”.

II

Il Cattolicismo è la gran Carta dell’umanità; è l’unica ragione del potere e del dovere; è la Religione discesa dal cielo, la regina della verità, la madre della virtù, la salvaguardia di tutti i diritti, la benefattrice dell’universo. – È la Chiesa coi suoi dogmi, con la sua morale, coi suoi Sacramenti, col suo culto, con le sue istituzioni, con tutto ciò che essa ha fatto, che fa tuttavia, con tutto ciò che le appartiene nel passato, come nel presente. Dessa è il Papa, sono i vescovi, i preti, i religiosi, le religiose, tutti i Cattolici, senza eccezione: ecco il Clericalismo, a cui si altamente gridasi la morte.

CAPITOLO III

CAUSA DELL’ODIO

I.

Morte al Clericalismo! Perchè? Che male v’ha fatto? Non dite che esso è il nemico della società, de’ lumi, della libertà, del progresso, della civiltà? queste parole sono oramai viete e noi non ci contentiamo di parole. Dateci altri motivi. Siate franchi, e se non avete il coraggio di esser tali, lo sarem noi per voi.

II

Morte al Clericalismo! È chiaro: io voglio che muoia, perché s’oppone ai miei desideri. Io voglio disporre della mia vita senza dipendenza e senza controllo; ed esso non vuole. – Io voglio esser libero di credere, di dubitare, o di negare, secondo mi torna; ed esso non vuole. – Io voglio che tutte le religioni siano egualmente buone, egualmente vere, egualmente false per avere il dritto di disprezzarle tutte, e di non praticarne alcuna; ed esso non vuole. – Io voglio rovesciare l’ordine sociale, perciocché non vi trovo il posto che mi conviene: ed esso non vuole. – Io invece di vivere di lavoro, voglio vivere di rendita; invece di camminare a piedi, voglio viaggiare in carrozza; invece di abitare una capanna, od una casuccia, voglio albergare in un palazzo; ed esso non vuole. – Io voglio essere quello che non sono: io operaio, lavoratore, servitore, voglio essere padrone, borghese, prefetto, deputato, senatore; invece d’obbedire, voglio comandare; invece di essere in basso voglio essere in alto; ed esso non vuole. – Io voglio occuparmi esclusivamente della vita presente, e mai della futura; voglio occuparmi sempre del mio corpo; dell’ anima mai; ed esso non vuole. – Io voglio degradarmi al punto di rendermi un mucchio di fango, e di farmi sotterrare come una bestia; ed esso non vuole!

III

Io voglio soddisfare a tutte le mie passioni al più che posso, al più presto che posso, con tutti i mezzi che posso; ed esso non vuole. – Io voglio, qualora mi torni utile, essere un cattivo cittadino, un cattivo sposo, un cattivo padre, un cattivo figlio, un ladro, un libertino, un usuraio; ed esso non vuole. – Insomma io voglio esser mio padrone, mio unico padrone, ed esso non vuole; “dio” di me; ed esso non vuole. Ecco perché io dico e ripeto: “Morte al clericalismo ed ai clericali!”.

IV.

L’anticlericale dice il vero: il segreto del suo odio è nel fondo del suo cuore. Le sue sonore accuse contro il Clericalismo entrano nei suoi interessi. Buone per ammutinare la plebe ignorante e farne strumento cieco della sua colpevole ambizione, egli stesso non ne crede pur una. L’anticlericale che, per sostenere una sola delle sue accuse, si lasciasse tagliare il solo dito mignolo, deve ancora trovarsi!

CAPITOLO IV.

ACCECAMENTO DELL’ODIO 

I

Morte al Clericalismo ! E sia: ma il più terribile castigo onde potesse Iddio punire le vostre bestemmie, i vostri voti insensati, i vostri sforzi colpevoli, la vostra ingratitudine mostruosa, sarebbe quello d’esaudirvi. – Voi ucciderete il clericalismo, lo seppellirete sei piedi sotto terra. Voi, come fecero altra volta i due giganti della persecuzione anticlericale, Diocleziano e Massimiano, alzerete sulla sua tomba una colonna di granito, monumento della vostra vittoria, e vi scolpirete l’iscrizione: « Su-perstitione Christiana ubiqiie deleta; » e non vi sarà più nel mondo questione di Clericalismo: ma allora che cosa avverrà?

II

Non avviene dell’uomo come avviene di una statua: una statua può restare intatta ed in piedi lungo tempo dopo la morte dello statuario. L’uomo, al contrario, non può sussistere neppure un minuto secondo, se Dio ritira la mano, che lo fece sorgere dal nulla, e che gl’impedisce di ricadervi. E così è a dire dell’umanità tutta quanta. Or l’umanità può dire del Clericalismo ciò che Salomone diceva della Sapienza: Tutti i beni mi sono venuti con essa: “Venerant mihi omnia bona pariter cum illa”. È dunque evidente che, morto il Clericalismo, tutti i beni, di cui esso è la sorgente, sparirebbero con esso. La luce del giorno non è più chiara di questa verità.

III

Se ne dubitate, gettate lo sguardo su di un mappamondo: che cosa vedrete voi? Tutte le nazioni presso le quali non ancora ha regnato il Clericalismo, dimorano immerse nella triplice barbarie dello spirito, del cuore e dei sensi. E la Storia, che vi dice ella mai? due cose: tutte le nazioni che abbandonano il Clericalismo ricadono, proporzionalmente a questo abbandono, nella barbarie; e tutte le nazioni che ne sono uscite fuori, lo debbono al Clericalismo, e solo al Clericalismo.

CAPITOLO V

CONSEGUENZA DELL’ODIO

 I.

Morte al Clericalismo! Essendo il Clericalismo, com’è già provato, l’unico civilizzatore del mondo, l’anticlericalismo è il negatore adeguato di tutto ciò che afferma il Clericalismo. “Morte al Clericalismo” vuole dunque dire: morte alla verità, viva l’errore; morte alla luce, vivano le tenebre; morte alla saggezza, viva la follia; morte alla virtù, viva il vizio; morte alla civiltà, viva la barbarie; morte alla libertà, viva la schiavitù; morte alla proprietà, viva il furto; morte alla fratellanza, viva l’odio; morte alla pace, viva la guerra con tutti i suoi orrori; morte alla giustizia, viva il dritto del più forte; viva il saccheggio, la strage, l’incendio, la morale de’ lupi, e la caduta dell’ umanità in un abisso di sangue e di fango; morte a Dio, viva satana; morte al cielo, viva l’inferno; morte al sacrificio divino, viva il sacrificio umano.

II.

“Morte al Clericalismo!” Voi avete un bel fare, non lo farete morire. Re, imperatori, ministri, deputati, senatori, accademici, giornalisti, frammassoni, empii d’ogni colore e d’ogni grado, esso seppellirà tutti voi nella fossa che gli avrete scavata. Insieme coi vostri antecessori, coi persecutori antichi, più potenti di voi, sarete ridotti in polvere, mentr’esso rimarrà in piedi, pieno di giovinezza e di vita. – Esso ha quel che voi non avete, quel che giammai né voi, né i vostri avete mai avuto, quel che non avrete giammai: esso ha delle promesse d’immortalità! Voi potete solamente, in punizione delle loro iniquità, disclericalizzare le nazioni. Non avendo voi, come ha la Chiesa, promesse d’immortalità, esse addiverranno, mercé gli sforzi vostri insensati, quel che erano prima del Clericalismo. E quel che erano, lo diremo quanto prima.

III.

Morte al Clericalismo! Voi tutti che ripetete questa parola senza comprenderla o che la comprendete, non vogliate illudervi. Distrutto il Clericalismo, il mondo ritornerà ad esser quello che era prima del Clericalismo. Essendo sempre la stessa la natura umana, la sola differenza che distingue il mondo d’oggi dal mondo d’altra tolta, si deve al Clericalismo. Or che era mai il mondo prima del Clericalismo? Tre grandi fatti dominano la sua esistenza e gli imprimono il carattere: la schiavitù, l’adorazione del serpente, il sacrificio umano: tre mostruosità che ancora al presente sono in vigore là, dove non regna il Clericalismo. Il Clericalismo ce ne ha liberati, e voi vorreste, sterminandolo, regalarci di nuovo simili orrori! – Gridate sin che vi piaccia all’assurdo ed alla calunnia; protestate come vi pare; giurate che giammai non si rivedrà quel che si è veduto, e che il mondo non ritornerà mai al paganesimo. Io vi rispondo che non bisogna giurar nulla, e vi dirò il perché. [Continua …]