DOMENICA III dopo PASQUA
Introitus Ps LXV:1-2. Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja. [Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]
SALMO
Ps LXV:3 Dícite Deo, quam terribília sunt ópera tua, Dómine! in multitúdine virtútis tuæ mentiéntur tibi inimíci tui. [Dite a Dio: quanto sono terribili le tue òpere, o Signore. Con la tua immensa potenza rendi a Te ossequenti i tuoi stessi nemici.] V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen
Jubiláte Deo, omnis terra, allelúja: psalmum dícite nómini ejus, allelúja: date glóriam laudi ejus, allelúja, allelúja, allelúja.[Giubila in Dio, o terra tutta, allelúia: innalza inni al suo Nome, allelúia: dà a Lui gloria con le tue lodi, allelúia, allelúia, allelúia.]
Oratio V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo. Orémus. Deus, qui errántibus, ut in viam possint redíre justítiæ, veritátis tuæ lumen osténdis: da cunctis, qui christiána professióne censéntur, et illa respúere, quæ huic inimíca sunt nómini; et ea, quæ sunt apta, sectári. [O Dio, che agli erranti mostri la luce della tua verità, affinché possano tornare sulla via della giustizia, concedi a quanti si professano cristiani, di ripudiare ciò che è contrario a questo nome, ed abbracciare quanto gli è conforme.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli 1 Pet II: 11-19 “Caríssimi: Obsecro vos tamquam ádvenas et peregrínos abstinére vos a carnálibus desidériis, quæ mílitant advérsus ánimam, conversatiónem vestram inter gentes habéntes bonam: ut in eo, quod detréctant de vobis tamquam de malefactóribus, ex bonis opéribus vos considerántes, gloríficent Deum in die visitatiónis. Subjécti ígitur estóte omni humánæ creatúræ propter Deum: sive regi, quasi præcellénti: sive dúcibus, tamquam ab eo missis ad vindíctam malefactórum, laudem vero bonórum: quia sic est volúntas Dei, ut benefaciéntes obmutéscere faciátis imprudéntium hóminum ignorántiam: quasi líberi, et non quasi velámen habéntes malítiæ libertátem, sed sicut servi Dei. Omnes honoráte: fraternitátem dilígite: Deum timéte: regem honorificáte. Servi, súbditi estóte in omni timóre dóminis, non tantum bonis et modéstis, sed étiam dýscolis. Hæc est enim grátia: in Christo Jesu, Dómino nostro.” [Caríssimi: Vi scongiuro che, come forestieri e pellegrini vi asteniate dai desiderii carnali, che mílitano contro l’ànima, vivendo bene tra i gentili, affinché, pure sparlando di voi quasi siate malfattori, considerando le vostre opere buone, glorifichino Iddio nel giorno della sua venuta. Siate dunque soggetti ad ogni autorità umana per riguardo a Dio: sia al re come sovrano, sia ai prefetti come mandati da lui per far vendetta dei malfattori, e per onorare i buoni. Perché tale è la volontà di Dio, che facendo il bene chiudiate la bocca all’ignoranza degli uomini stolti. Comportatevi da uomini liberi, senza però che la libertà vi serva di pretesto alla malizia, ma come servi di Dio. Onorate tutti, amate i fratelli, temete Dio, rendete onore al re. Servi, siate soggetti con ogni timore ai padroni, non solo ai buoni e clementi, ma anche ai duri. Questa infatti è una grazia: in Gesù Cristo nostro Signore.] R. Deo gratias.
Alleluja
Allelúja, allelúja. Ps CX: 9 Redemptiónem misit Dóminus pópulo suo:alleluja. [Il Signore mandò la redenzione al suo pòpolo. Allelúia.] Luc XXIV:46 Oportebat pati Christum, et resúrgere a mórtuis: et ita intráre in glóriam suam. Allelúja. [Bisognava che Cristo soffrisse e risorgesse dalla morte, ed entrasse così nella sua gloria. Allelúia.]
Evangelium
Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen. Jube, Dómine, benedícere. Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen.
V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Joánnem. R. Gloria tibi, Domine! – Joannes XVI:16: 22
“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Módicum, et jam non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me: quia vado ad Patrem. Dixérunt ergo ex discípulis ejus ad ínvicem: Quid est hoc, quod dicit nobis: Módicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me, et quia vado ad Patrem? Dicébant ergo: Quid est hoc, quod dicit: Modicum? nescímus, quid lóquitur. Cognóvit autem Jesus, quia volébant eum interrogáre, et dixit eis: De hoc quaeritis inter vos, quia dixi: Modicum, et non vidébitis me: et íterum módicum, et vidébitis me. Amen, amen, dico vobis: quia plorábitis et flébitis vos, mundus autem gaudébit: vos autem contristabímini, sed tristítia vestra vertétur in gáudium. Múlier cum parit, tristítiam habet, quia venit hora ejus: cum autem pepérerit púerum, jam non méminit pressúræ propter gáudium, quia natus est homo in mundum. Et vos igitur nunc quidem tristítiam habétis, íterum autem vidébo vos, et gaudébit cor vestrum: et gáudium vestrum nemo tollet a vobis.” [In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre. Dissero perciò tra loro alcuni dei suoi discepoli: Che significa ciò che dice: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete, perché io vado al Padre? Cos’è questo poco di cui parla? Non comprendiamo quel che dice. E conobbe Gesù che volevano interrogarlo, e disse loro: Vi chiedete tra voi perché abbia detto: Ancora un poco e non mi vedrete più: e di nuovo un altro poco e mi rivedrete. In verità, in verità vi dico che voi piangerete e gemerete, laddove il mondo godrà, sarete oppressi dalla tristezza, ma questa si muterà in gioia. La donna, allorché partorisce, è triste perché è giunto il suo tempo: quando poi ha dato alla luce il bambino non si ricorda più dell’affanno, a motivo della gioia perché è nato al mondo un uomo. Anche voi siete adesso nella tristezza, ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore gioirà, e nessuno vi toglierà il vostro gàudio.] R. Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.
OMELIE
I lett. DOMENICA III DOPO PASQUA
[Mons. Bonomelli: Omelie vol. II – Omelia XIX.]
“Carissimi, vi esorto come stranieri e pellegrini, affinché vi asteniate dalle cupidigie terrene, che fan guerra allo spirito. Diportatevi degnamente tra i Gentili, affinché se sparlano di voi, come di malfattori, giudicandovi dalle vostre buone opere, diano gloria a Dio nel giorno che li visiterà. Il perché, siate sommessi, per amore del Signore, ad ogni umana istituzione, sia a re, come a sovrano, sia ai governatori, come mandati da lui, a punizione dei malfattori e a lode dei buoni. Perciocché tale è la volontà di Dio, che, operando il bene, imponiate silenzio alla ignoranza di uomini stolti. Come liberi e non pigliando la libertà a mantello di malizia, ma come servi di Dio. Onorate tutti, amate i fratelli, temete Dio, riverite il re. Voi, servi, siate sommessi, con ogni riverenza, ai padroni non solo buoni e discreti, ma anche capricciosi. Perciocché questo è cosa grata, se alcuno per coscienza innanzi a Dio sostiene molestie, soffrendo ingiustamente „ (I. di S. Pietro,, c. II, vers. 11-19).
Due sentimenti affatto contrari provo in me stesso al pensiero di dovervi fare la chiosa delle sentenze, che avete udite, che son prese dalla prima lettera di S. Pietro; il primo sentimento è di vivo piacere, perché le verità che vi si contengono sono ad un tempo di somma rilevanza e pratiche per ogni classe di persone; il secondo sentimento è l’impaccio, nel quale mi trovo di svolgere come si deve ad una ad una queste verità, ciascuna delle quali richiederebbe un discorso. Mi è dunque forza congiungere insieme la brevità e il commento di tutti i nove versetti, che vi ho recitati: mi vi proverò, fidando sempre nella vostra attenzione. – « Carissimi, vi esorto come stranieri e pellegrini, affinché vi asteniate dalle cupidigie terrene, che fan guerra allo spirito. „ Io non so dirvi, o fratelli, ciò che sento in cuore, allorché leggo e considero questa parola sì bella “Carissimi”, uscita dalla penna di S. Pietro. — Chi è colui, che scrive ? È il primo Vicario di Gesù Cristo, il Principe degli apostoli, il capo della Chiesa, carico di anni, di dolori e di meriti, già presso al patibolo, sul quale alla corona dell’apostolato si aggiungerà la palma del martire. A chi scrive? Ad alcuni cristiani, poveri, vessati, dispersi qua e là, usciti poc’anzi dalle tenebre del paganesimo e dai pregiudizi ebraici. E Pietro, questo primo depositario delle somme chiavi, lasciategli da Cristo, venerando per la dignità, per l’età, pei patimenti sofferti pel nome di Cristo, sembra quasi dimenticare se stesso, e con la effusione d’un padre, che abbraccia i suoi figliuoli, dice loro: “Carissimi!„ In questa parola si sente battere il cuore del sommo apostolo! Ah! se Pietro teneva coi semplici e poveri fedeli questo linguaggio pieno di affetto paterno, che dobbiamo fare noi? Noi, sacerdoti, noi, pastori di anime, oggi più che mai abbiamo bisogno d’informare i nostri cuori e le nostre parole al cuore, alle parole del primo apostolo! S. Pietro, dopo aver destata l’attenzione e guadagnato l’affetto dei suoi neofiti con quella parola -“Carissimi„- li esorta a considerarsi come stranieri e pellegrini sulla terra. Il pellegrino o straniero, che viaggia verso la patria sua, ricorda sempre d’essere pellegrino e straniero; non si cura delle cose che vede, passando, o appena le degna d’uno sguardo fuggevole, né punto lega ad esse il cuor suo; si sbriga di tutto ciò che lo impaccerebbe nel cammino e si restringe a portar seco solo quel tanto che è necessario e, fissa la mente nella patria, non bada a disagi e pericoli, non perde tempo con quelli che incontra per via, non contende con loro, li saluta cortesemente e studia il passo. — Ebbene: noi tutti, quaggiù sulla terra, siamo pellegrini e stranieri: la nostra patria è il cielo: là soltanto riposeremo: non fermiamoci per via, non leghiamo il nostro affetto a cose, che dobbiamo tosto abbandonare, non carichiamoci dell’inutile peso dei beni della terra, non consumiamoci tra noi con vani litigi, corriamo animosi verso la patria, dove ci aspetta Dio, Padre nostro, dove ci attendono i nostri fratelli, i Santi, dove tutto un giorno sarà pace e gioia purissima ed eterna. Se siete stranieri e pellegrini su questa terra “dovete astenervi – dice S. Pietro – dalle cupidigie terrene”, cioè dall’amore disordinato dei piaceri, dall’orgoglio, dall’ambizione, dalla gola, dalla avarizia, dall’ozio e sopra tutto dalla lussuria, che ritardano il vostro cammino, anzi vi incatenano a questo mondo. – L’anima, che viene da Dio, attratta dalla verità, che brilla in alto, mossa dalla grazia, che dolcemente la porta al cielo, quasi aquila generosa spiega le ali verso l’altezza suprema; ma le cupidigie, i piaceri del senso, quasi fili avvolgenti i suoi piedi, la tengono legata alla terra: rompiamo questi fili, stacchiamo i nostri affetti dalla terra e voleremo al cielo, nel seno stesso di Dio, e cesserà questa malaugurata lotta tra lo spirito e la carne, quello, che ci tira in alto, questa, che quasi palla di piombo, legata ai nostri piedi, ci tiene avvinti a questa misera terra. – Segue un’altra esortazione pratica: “Diportatevi degnamente tra i Gentili. „ I Cristiani devono sempre vivere come esige la loro professione di Cristiani, cioè degnamente e santamente, perché così vuole il loro dovere e così vuole Iddio: ma a questo motivo, che è il primo e principalissimo, altri buoni ed onesti si possono aggiungere; e buono ed onesto è pur quello di onorare la loro fede innanzi agli uomini, e particolarmente dinanzi ai nemici della fede tessa. Qual mezzo più efficace di mostrare la santità della religione, di renderla cara e degna di venerazione e di condurre a lei gli erranti ed i nemici suoi più fieri quanto il mostrarne i benefici effetti in noi stessi? Sta bene metterne in luce le prove con una parola eloquente, ma è molto meglio farne brillare la divina origine nelle opere e nelle virtù. Noi sappiamo che nei primi secoli la conversione dei Gentili, più che alla eloquenza dei grandi apologisti, si doveva alla vita illibata e santa dei cristiani, e perciò S. Pietro scriveva: “Diportatevi degnamente tra’ Gentili. „ Carissimi! ora noi non viviamo, grazie a Dio, tra Gentili, ma tra cristiani; ma quali Cristiani? Assai volte sono cristiani di nome, praticamente ed anche teoricamente miscredenti: sono cristiani di costumi perduti, immersi in ogni sorta di disordini e di scandali. Forse voi stessi avrete amici, conoscenti, congiunti, persone teneramente amate, che hanno perduta la fede, oppure, conservandola, la disonorano con una vita indegna. Volete guadagnarli a Dio? Il mezzo più sicuro è quello di offrire in voi stessi la pratica della religione, di presentare nelle vostre parole e nelle vostre opere il modello del vero cristiano. Spargete intorno a voi nella famiglia, nella conversazione, nella parrocchia il profumo della vita cristiana e a poco a poco ricondurrete sulla retta via gli erranti ed i poveri peccatori. Lo insegna S. Pietro, che va innanzi e dice: “Se i Gentili sparlano di voi e vi tengono come malfattori, quando vedranno le vostre opere buone, daranno gloria a Dio allorché Dio li visiterà, „ cioè li toccherà colla sua grazia. Che cosa è, o dilettissimi, la grazia di Dio? È una visita ch’Egli fa alle anime nostre: le visita col lume della verità, che. ci fa conoscere la verità e il dovere, che ci fa odiare il male, amare il bene: le visita colla grazia, che ci sveglia, ci scuote, ci rimprovera, ci stimola, ci sostiene, ci spinge innanzi nella via della virtù. Felice colui che riceve spesso la visita di Dio, più felice chi l’accoglie e si trattiene con Lui! – È da sapere, che nei primi secoli della Chiesa e al tempo stesso degli apostoli i cristiani erano considerati dai pagani come malfattori, nemici dell’impero e ribelli alle autorità costituite; lo sappiamo da Tacito, da Plinio, da Minuzio Felice, e qui ce lo fa sapere lo stesso S. Pietro : ” Quod detrectant de vobis tamquam de malefactoribus — Sparlano di voi come di malfattori. „ Non v’era delitto, per quanto enorme, che il popolo pagano, ingannato dai tristi, non apponesse ai cristiani, e il più comune e più terribile era quello, che essi disprezzavano le leggi e gli imperatori. – Era dunque natural cosa che gli apostoli respingessero la nera calunnia ed inculcassero pubblicamente il rispetto e l’obbedienza alle autorità civili in tutto ciò che era lecito [Allorché S. Pietro scriveva la sua lettera ai fedeli era già scoppiata o stava per scoppiare quella tremenda rivolta dei Giudei contro i Romani, che fini collo sterminio e colla dispersione di quelli. Presso i pagani troppo spesso Cristiano e Giudeo si confondevano, come apparisce da molti luoghi degli Atti Apostolici. Il fondatore del Cristianesimo era sorto in mezzo ai Giudei ed era Giudeo: i suoi apostoli erano Giudei, Giudei i primi cristiani, e tutta la parte dogmatica e morale del giudaismo era passata nella Chiesa cristiana. Qual cosa più facile per i pagani quanto il confondere i cristiani coi Giudei? Quindi è che lo spirito di rivolta dei Giudei si riputava comune ai cristiani e perciò era doppiamente necessario che gli apostoli separassero la causa dei cristiani da quella dei Giudei in cosa sì grave. Ecco una delle ragioni, per la quale S. Pietro e S Paolo insistono con tanta forza sul dovere che hanno i cristiani di rispettare ed ubbidire lo Autorità politiche e civili ancorché pagane. Si trattava di liberare i cristiani da una accusa e da un pericolo gravissimo in quei momenti supremi.]. – Egli è per questo che S. Paolo nella lettera ai Romani e in questa S. Pietro nei termini più espliciti e quasi identici ricordano ai cristiani questo dovere: “Siate dunque sommessi, scrive S. Pietro, per amore del Signore, ad ogni umana istituzione, sia a re, come a sovrani, sia a governatori, come mandati da Lui, a punizione dei malfattori ed a lode dei buoni. „ Il tempo, che mi è concesso, non mi permette di sviluppare largamente la dottrina del Vangelo o della Chiesa intorno ai doveri che abbiamo verso i poteri della terra, ma ve ne dirò quel tanto che basti all’uopo. Iddio ha creato l’uomo in modo che non può nascere, conservarsi, svilupparsi e perfezionarsi né quanto al corpo, né quanto all’anima se non nella società: prima nella società domestica, la famiglia, poi nella società civile e politica: esso è figlio, è fratello, è cittadino, e come il pesce non può vivere fuori dell’acqua, così l’uomo non può vivere fuori della società. E una necessità imposta dalla natura e perciò da Dio stesso, che ha creata la natura. Ora, o cari, perché gli uomini vivano insieme e i forti non opprimano i deboli e si mantenga l’ordine e la giustizia e si renda a ciascuno ciò che gli si deve, è necessario che vi sia una autorità, un potere, che mantenga quest’ordine e questa giustizia, e che impedisca che gli uni soverchino gli altri e procuri il bene privato e pubblico, ed eccovi l’autorità del padre in famiglia, l’autorità suprema nei tribunali, negli eserciti, nei regni, negli imperi, nelle repubbliche. Ora quel Dio che ha voluto che gli uomini vivano in società e regni la giustizia, ha voluto e deve volere, che vi siano le autorità od i poteri pubblici, che sono il mezzo necessario per conservare la società e far regnare la giustizia. Se voi, o cari, volete che i vostri figli imparino questa o quella scienza, facciano questo o quel viaggio, dovete anche volere, che abbiano i maestri, i libri e il tempo necessario per apprendere quelle scienze, e il danaro indispensabile per fare quei viaggi: è cosa manifesta, perché chi vuole il fine deve volere i mezzi. Se Dio vuole la società, vuole anche l’autorità che la governi: se vuole l’autorità che la governi, vuole anche l’obbedienza di quelli che devono essere governati, e perciò l’obbedienza alle autorità è voluta da Dio ed è un dovere di coscienza, e chi la rifiuta, offende Dio stesso. Ora comprenderete, o dilettissimi, come S. Pietro aveva ragione di dire ai primi fedeli : “Figliuoli, siate soggetti ad ogni umana istituzione, o legge, per amore di Dio, cioè perché lo vuole Iddio [S. Paolo (Rom. XIII, 1 seq.) dice: ” Ogni persona sia sottoposta ai potori superiori, perché non v’è potere se non da Dio, e quelli che sono esistenti, sono ordinati da Dio, a talché chi resiste al potere resiste all’ordine di Dio … È necessario essere soggetto al potere, non solo per timore, ma ancora per la coscienza. „ Vedete perfetto accordo di S. Pietro e di S. Paolo! Quasi le stesse frasi! S. Pietro dice che bisogna ubbidire ai poteri per amore di Dio, propter Deum; S. Paolo “per la coscienza” propter conscientiam. „] Siate soggetti al re, come al sovrano, cioè a colui, che vi sovrasta pel potere stesso. Veramente allora il potere supremo risiedeva nelle mani dell’imperatore, ma san Pietro colla parola “re” volle indicare l’imperatore, e forse lo chiamò re anziché imperatore, perché la parola “re” a lui ed agli Ebrei era famigliare, e nuova quella di imperatore, ma la sostanza è sempre la stessa. Ma ubbidiremo noi soltanto al re, od all’imperatore, od al potere supremo, quando immediatamente ci intima di ubbidire? No: noi ubbidiremo ad esso ed ai governatori, come a delegati da lui a punire i malvagi ed a lode dei buoni. Il potere supremo è come la vita: questa risiede nel capo, come nel suo centro, e di là si spande per tutto il corpo: il potere risiede nel capo o nei capi supremi dello Stato, e di là si dirama in tutti quelli, che variamente ne partecipano: e come il ferire o percuotere una mano od un dito è ferire e percuotere il capo, da cui deriva la vita ed il senso, così rivoltarci contro i poteri inferiori è rivoltarci contro il potere, del quale sono emanazione. Che fare pertanto? Ubbidire a tutti i poteri, per dovere di coscienza, per amore di Dio. Ai sommi, come agli inferiori, perché così vuole Iddio: “Quia sic est voluntas Dei”: lo vuole la necessità delle cose, lo vuole il nostro interesse, lo vuole il timore della pena, lo vuole sopra tutto Iddio! – E qui non vi sfugga, o cari, una osservazione di grande importanza, ed è questa: la fede nostra eleva, nobilita, divinizza il potere, e così eleva, nobilita e divinizza anche la nostra sommissione e la nostra ubbidienza. Ubbidire ad un uomo come noi, forse per ingegno, dottrina, ricchezza e virtù inferiore a noi, è cosa che offende l’amor proprio, che ci umilia, e tale può essere ed è assai volte chi comanda: ma allorché al di sopra di lui io veggo Dio, che così vuole, e mi dice: Ubbidendo a quest’uomo, tu ubbidisci a Me, Re dei re —, sento tutta la mia dignità, e lungi dall’abbassarmi, ubbidendo, mi innalzo: l’uomo del potere è un valletto, che mi porta i comandi di Dio; quello sparisce ai miei occhi e questo solo mi sta dinanzi: come non mi terrei onorato di ubbidire? S. Pietro voleva che i cristiani ubbidissero per coscienza al re, cioè all’imperatore; e chi era quell’imperatore? Sappiatelo bene: era il più scellerato degli imperatori, un vero mostro di crudeltà, uccisore del maestro e della madre sua; che due o tre anni appresso avrebbe fatto mettere in croce lui stesso, Pietro, e decollare il fratel suo nell’apostolato, Paolo: era Nerone. Ma Nerone era pagano! Non importa; Pietro a nome di Dio comanda di ubbidire anche al pagano: il potere sovrano è come un raggio di luce: esso può cadere sopra un diamante come sopra il fango: la luce è sempre luce e non si contamina illuminando le sozzure. Il padre pagano cessa di essere padre perché è pagano, e cessa forse nei suoi figli il dovere di rispettarlo ed ubbidirlo? Un ministro dell’altare potrebb’essere malvagio, empio, miscredente : ma il fulgore del carattere che suggella in lui il potere divino non si eclissa, non si spegne mai; così è il potere sovrano: esso può essere nel pagano, nell’eretico, nell’empio, e noi gli dobbiamo rispetto ed ubbidienza: non è l’uomo, ma Dio che in lui rispettiamo ed ubbidiamo. Ma l’imperatore era legittimo? Legittimo Nerone! Quale domanda! Allora non si facevano siffatte questioni, sempre difficilissime a sciogliersi anche dai dotti. Si diceva soltanto: Questi è l’imperatore: il potere supremo è nelle sue mani: il mio dovere è di ubbidire: il bene pubblico lo esige: non cerco altro, ubbidisco. E in che cosa dovevano ubbidire i cristiani? S. Pietro non determina nulla: vuole dunque che si ubbidisca in ogni cosa fin là dove un’altra autorità superiore dice: Qui comincia il mio regno e qui finisce quello dell’imperatore. — In altre parole: si deve ubbidire all’autorità terrena in tutto ciò che non si oppone alla legge di Dio; a Lui è soggetto ogni potere terreno, e allorché questo vuole ch’io mi ribelli a Dio ed alla sua Chiesa, io gli rispondo: Non ubbidisco a te, ma a Dio, che è mio e tuo Re. — Così fece Pietro con Nerone! E questa la gran regola tracciata dal Principe degli apostoli e costantemente osservata nella Chiesa e che noi custodiremo fedelmente. Con questa sommessione a tutti i poteri della terra voi non solo adempirete la volontà di Dio e farete il bene, scriveva S. Pietro, ma imporrete silenzio alla ignoranza di uomini insipienti. „ Con queste parole S. Pietro chiaramente ci fa conoscere le condizioni difficili e dolorose, nelle quali si trovavano i cristiani, sospettati non solo, ma denunciati pubblicamente come nemici dell’imperatore, sprezzatori delle leggi, pronti alla rivolta. Col vostro rispetto all’imperatore e a tutte le autorità, colla obbedienza alle leggi, voi, diceva S. Pietro, chiuderete la bocca a questi calunniatori, che, non conoscendovi, vi rappresentano come ribelli. – Miei cari! Alcun che di simile avviene anche al giorno d’oggi, nella nostra Italia. Certi giornali, certi scrittori, certi uomini ci designano pubblicamente come nemici della patria, come avversi alle sue istituzioni, alla sua libertà, alla sua grandezza, alla sua indipendenza: questa sì atroce accusa cade particolarmente sopra di noi, uomini di Chiesa. Ma seguendo l’esempio dei primi cristiani e il precetto di S. Pietro, colle opere, col nostro rispetto, colla nostra ubbidienza sincera e costante alle leggi ed alle autorità tutte ci studieremo di mostrare il nostro amore alla patria, e secondo le nostre forze ne procureremo la prosperità e la gloria, perché questo è pure un dovere impostoci da Dio. S. Pietro passa oltre e tocca una verità utile allora, oggi per noi necessaria, e che vorrei fosse da voi tutti debitamente ponderata. Udite: “Diportatevi come liberi, e non pigliando la libertà a mantello di malizia, ma come servi di Dio. „ Voi siete stati redenti da Gesù Cristo, e per Lui avete acquistata la libertà di figli di Dio. Ma che libertà è questa, che Gesù Cristo vi ha data? E la forza di vincere le vostre passioni, di conoscere la verità e rigettare l’errore, di praticare la virtù: Gesù Cristo vi ha chiamati alla libertà del bene, ma non vi ha sottratto ai vostri doveri, non vi ha sciolto dall’obbedienza, che dovete ai principi. Voi a ragione dite: Noi siamo liberi; ma badate bene di non usare della libertà per servire la iniquità, per gettarvi in braccio alle passioni, per coprire la licenza. Oggi la bella e santa parola di libertà per molti vuol dire “mantello di malizia” — “Velamen habentes malitiæ libertatem”.— Vogliono la libertà, ma quale libertà? La libertà di ingiuriare, di calunniare, di opprimere il fratello: la libertà di spargere la discordia: la libertà di scuotere il giogo della autorità paterna e sovrana: la libertà di farsi schiavi della superbia, della gola, dell’avarizia, della lussuria, del peccato. È questa libertà vera, o fratelli? Chiamereste voi libertà quella di potervi strappare gli occhi, di potervi tagliare, le braccia, di potervi togliere la ragione, di potervi gettare in un precipizio? Questo è abuso di libertà, non mai libertà. – Quella è vera libertà, che ci rende padroni di noi stessi, signori delle nostre passioni, che ci affranca dal vizio e dal peccato, che ci fa maggiormente simili a Dio, il quale non può far il male. Allora la nostra libertà è perfetta quando non offendiamo l’altrui, quando adempiamo tutti i nostri doveri, primo dei quali è ubbidire a Dio: Sicut servi Dei. Seguono quattro bellissime esortazioni di Pietro. “Onorate tutti, amate i fratelli, tetemete Dio, riverite il re. „ Il Vangelo fu e sarà sempre il più perfetto codice non solo di morale, ma eziandio di quella che dicesi civiltà ed educazione. Esso vuole che colle parole e colle opere sempre ed in ogni luogo onoriamo sinceramente non pure quelli che per dignità, scienza o per qualsiasi altro titolo ci sono superiori, ma gli eguali ed anche gli inferiori: “Omnes honorate”, prevenendovi gli uni gli altri con quegli atti, che sono segni di stima e di onore, come altrove insegna san Paolo. E onoreremo tutti, se tutti ameremo come fratelli: “Fraternitatem diligite”. Chi ama una persona la onora e vuole che da tutti sia onorata, e l’onore che le rende è sempre in ragione dell’amore. Quei superbissimi e terribili uomini della rivoluzione francese, che scossero tutta Europa e rovesciarono l’ordine antico di cose, scrissero sulla loro bandiera queste tre parole famose: Libertà, eguaglianza, fratellanza. Parole sante bene intese e bene applicate! Quei Titani della rivoluzione avevano l’orgoglio di credere d’aver essi pei primi proclamata la fratellanza universale, ignoravano che diciotto secoli prima S. Pietro aveva scritto: Fraternitatem diligite. — Amate la fratellanza. ” Temete Iddio — Deum timete. „ Temiamo Iddio, perché è infinita maestà e giustizia e non lascia impunita colpa alcuna; temiamo Iddio, non come lo schiavo teme il padrone, ma come il figlio teme il padre suo; il nostro sia timore di offenderlo, un timore misto ad amore. “Riverite il re — Regem honorificate. „ Ripete ciò che disse sopra per mostrare come la cosa gli stia a cuore, e non fa bisogno il dire, che questa riverenza dovuta al capo dello Stato deve manifestarsi nella obbedienza e nella preghiera, che per lui si deve fare, secondo ché S. Paolo comanda nella sua lettera a Timoteo (I. II, 1). – S. Pietro da Dio discende al re e dal re discende ai padroni ed ai servi e, rivolto a questi, dice: “Voi, servi, siate sottomessi, con ogni riverenza, ai padroni, non solo buoni e discreti, ma anche capricciosi. „ Quale insegnamento, o dilettissimi! La condizione dei servi, dirò meglio, degli schiavi, era orribile: potevano essere venduti e barattati come merce; potevano essere maltrattati, percossi ed anche uccisi: la legge non si curava di loro, perché li teneva in conto di proprietà del padrone, che poteva farne quell’uso, che voleva. Voi potete comprendere qual fosse la condizione di questi sventurati, venuti a mano dei padroni pagani, spesso senza cuore. L’apostolo non dice loro: Rivendicatevi a libertà, fate valere la vostra ragione: non avrebbe fatto che rendere più dolorosa la loro sì misera condizione: il Vangelo di Gesù Cristo ha collocato il rimedio dei maggiori mali nel grande segreto della pazienza e della rassegnazione che finisce col vincere e guadagnare gli stessi oppressori. S. Pietro vuole che questi infelici ubbidiscano ai loro padroni, ed ubbidiscano con ogni riverenza, e ubbidiscano ad essi non solo quando sono buoni, discreti, ma anche quando sono puntigliosi, capricciosi, cattivi, perché è questo il miglior modo di scemare i proprii mali e di rendere mansueti e trattabili i padroni. — Servi, dipendenti, che mi ascoltate e che forse talvolta trovate i vostri padroni difficili, duri, indiscreti, esigenti, capricciosi, ingiusti, ricordate le parole di san Pietro e fatene regola della vostra condotta. Il più terribile problema che si affacci alla mente dell’uomo, è questo: vedere la virtù avvilita, tribolata, oppressa, e la malvagità onorata, felice, trionfante. Se non ci fosse la fede, che ci mostra al di là della tomba la giustizia, che infallibilmente sarà fatta, sarebbe da disperare, da maledire la virtù, e ripetere col fiero Romano : “O virtù, tu non sei che un sogno. „ Ma la fede fa scendere dall’alto un raggio della sua luce e ci assicura che Dio un giorno renderà a ciascuno secondo le opere sue, e la ragione si calma, il cuore respira ed il problema è sciolto. Ecco ciò che insegna S. Pietro in quest’ultimo versetto: “Questo è cosa grata, se alcuno per coscienza innanzi a Dio sostiene molestie, soffrendo ingiustamente. „ – Sì, o cari, è un favore del cielo, è una gloria per noi soffrire molestie, dolori e persecuzioni ingiuste per amore di Dio, perché queste saranno il seme che ci frutterà la gioia eterna del cielo!
Omelia sul Vangelo della III Domenica dopo Pasqua
[del canonico G.B. Musso, Vol. II – 1851]
– Recidivi –
“Miei cari (così Gesù Cristo a’ suoi discepoli nell’ultima cena, come abbiamo da S. Giovanni nell’odierno Vangelo), miei cari, fra poco più non mi vedrete, “Modicum, et non videbitis me”; e dopo un altro poco voi ritornerete a vedermi,” – “Modicuum, et videbitis me”. Attoniti i discepoli a questo parlare si domandano a vicenda qual ne sia il significato, e si protestano di non intenderlo. Fra non molto (dir voleva, secondo alcuni sacri spositori, il divino Maestro) fra non molto verrà l’ora e la potestà delle tenebre, sarà percosso il pastore e disperso il gregge, avverrà quel che più volte ho predetto, il Figliuol dell’uomo sarà dato in man dei gentili, sarà flagellato, deriso, crocifisso, sepolto, e perciò più non mi vedrete, “Modicum et non videbitis me”; ma poi dopo un altro poco, cioè dopo tre giorni, risorto da morte apparirò a voi in Galilea, e di nuovo mi rivedrete, “Modicum, et vìdebitis me”. Questa vicissitudine rinnovano in strano senso colpevole non pochi cristiani. Dicono anch’essi (almeno col fatto) ai lor piaceri, ai lor vizi, in vicinanza di Pasqua o di qualche altra solennità: convien accostarsi ai santi Sacramenti, bisogna lasciar il peccato, male pratiche, giuochi, ridotti, fra poco non mi vedrete. “Modicum, et non videbitis me”; ma siccome ogni cosa ha il suo tempo, dopo poco, passati i giorni santi torneremo a vederci. “Modicum, et vìdebitis me”. Ad impedire, quanto per me sia possibile, questa dannevolissima alternazione dal male al bene, dal bene al male, io vengo a dimostrarvi, che il far passaggio dal peccato alla grazia, dalla grazia al peccato, in una parola , che il ricader nel peccato egli è un delitto, che merita maggior castigo, sarà il primo punto della presente spiegazione; egli è un delitto che porta all’ultimo dei castighi, cioè l’impenitenza finale, sarà il secondo, se mi degnate di attenzione cortese.
I – Il ricadere in peccato merita maggior castigo. Volete vederlo? rammentate Caino, allorché tinte le mani del sangue di Abele, andava fuggiasco sulla faccia della terra. Ahimè, diceva egli preso dall’orrore del suo misfatto, ahimè, chiunque m’incontrerà vendicherà col sangue mio il sangue del mio tradito fratello. No, rispose Iddio, nol voglio. Perciocché ti porrò in fronte un tal segno, in cui ognuno legga il mio divieto. Anzi chi avesse 1’ardire di ucciderti, sarà punito sette volte di più, “punietur septuplum”: ma come? Il primogenito dei presciti uccide il primogenito degli elètti, e non dev’essere ucciso, e l’uccisore di questo scellerato, sette volte di più sarà punito, “septuplum punietur” (Gen. IV, 15)? Adoro, o Signore, i vostri profondi giudizi; ma non gl’intendo. Scioglie la Glossa la difficoltà, per questa ragione, perché sarebbe questi un secondo omicida, del primo assai più reo, “quia est homicida secundus”. E qual differenza passa tra il primo, ed il secondo omicida? Eccola, il primo, cioè Caino, non avea ancor veduta in faccia la morte, né della morte i tristi effetti e le lagrimevoli conseguenze, e perciò in questo senso è meno grave il suo reato. Ma il secondo omicida, dopo aver veduto morto un simile a sé, a terra steso, senza colore, senza moto, senza respiro, e poco dopo putrido, fetente, inverminito, ridotto ad uno scheletro, risolversi poi a dar morte ad un altr’uomo, merita costui di essere più gravemente punito “septuplum punietur”. – Ecco il vostro caso, peccatori fratelli, voi quando la prima volta peccaste per bollore di gioventù, o per impeto di passione, o per debolezza d’animo, o per sconsigliato trasporto, foste in qualche modo degni di compassione e di scusa; ma dopo aver conosciuto che il vostro peccato vi ha ucciso l’anima in seno, dopo aver conosciuto che, secondo la giusta espressione di S. Paolo, avete, quanto è da voi, rinnovata la Crocifissione e la morte al Figliuolo di Dio, dopo aver provato angustie d’animo, reclami della sinderesi, timori della rea coscienza, frutti amarissimi del peccato, dopo averlo detestato e pianto a piè del confessore, a piè del Crocifisso, tornando di nuovo a commetterlo, la malizia si fa maggiore, maggior la gravezza, merita per conseguenza punizione maggiore, “septuplum punietur”. – Fingete che il figliuol prodigo, dopo essere stato accolto fra i dolci amplessi e le tenere lacrime del suo buon genitore, da lui distinto con ricco anello, con abito sontuoso, con lauto banchetto, con i tratti dell’amor più sviscerato, colle rimostranze della più viva allegrezza, si fosse dopo pochi giorni nuovamente partito dalla casa paterna, senza dargli un addio, per portarsi in quei lontani paesi a ricominciare le sue scostumatezze, e consumare le sue sostanze; che avreste voi detto? Figlio disleale? figlio snaturato! Mostro d’ingratitudine! Sarebbero state queste le vostre giuste invettive. Or queste stesse invettive ricadrebbero sopra di voi, se dopo esser tornati a Dio ritornaste al peccato. Voi come il prodigo fuggiste dal Padre celeste, e al par delle sue furono le vostre dissolutezze e le vostre disgrazie. Pentiti poi de’ vostri traviamenti faceste a lui ritorno, ed egli accogliendovi a braccia spiegate, e a cuore aperto vi rivestì dell’abito preziosissimo della grazia santificante, foste ammessi alla sacra mensa, pasciuti delle carni immacolate del divino Agnello, e si fece in cielo gran festa pel vostro ravvedimento, come ne assicura il Vangelo. Se dopo tali grazie e tal finezze voltaste di nuovo a Dio le spalle per ripigliare il primiero costume di vita licenziosa, qual termine potrebbe esprimere la vostra sconoscenza, e qual vi trarreste addosso esemplare castigo! – Ma che dissi sconoscenza? Ingiuria invece, ingiuria atroce, insulto gravissimo. Udite come parla a Dio, colla voce del fatto più esprimente che le parole, chiunque dopo essersi riconciliato con Dio ritorna ai peccati di prima : Signore, ho provato quanto è tristo il mondo, quanto costa lo sfogo delle passioni, quanto è amaro il peccato, e punto da rimorsi, sazio di me stesso e stufo di peccare, sono a voi ricorso ravveduto e pentito. Ho allora sperimentato colla quiete di mia coscienza il bene della vostra amicizia, ho gustato il dolce della vostra grazia. Con tutto ciò mi sento ora nausea del vostro servizio, mi trovo allettato dai miei trascorsi piaceri, voglio di nuovo provare se starò meglio, se sarò più contento con soddisfar nuovamente i miei sensi, i miei capricci, le mie passioni. A tanto affronto, a tanto insulto, lascio a voi considerare, uditori, quale e quanta convenga rigorosa punizione e tremenda vendetta. – Né solo il ricader in peccato merita maggior castigo, ma porta all’ultimo e massimo di tutti i castighi, qual è l’impenitenza finale.
II – Io leggo che tutti i veri penitenti, entrati una volta nella strada della salute, d’ordinario non si sono più voltati addietro. Cosi Adamo, cosi Eva, cosi Davide, così Manasse. Mirate Matteo, mirate Zaccheo, si convertono, fanno restituzioni e limosine, ed usure non più. Piange Pietro, piange la Maddalena, questa abbandona per sempre le sue vanità, quegli abbomina per sempre i suoi spergiuri. Si converte Paolo, da persecutore si cangia in Apostolo, da lupo in agnello, e più non si muta, e compie col martirio l’intrapresa carriera. Si converte Agostino, scrive le sue Confessioni, e versa lacrime sui suoi trascorsi fino all’estrema agonia. Un S. Camillo, un S. Andrea Corsino, le sante Maria Egiziaca, Margherita da Cortona, escono dalla via di perdizione, e non ci metton piede mai più. Volgete l’antico Testamento ed il nuovo, leggete la storia della Chiesa, e vedrete che un vero penitente d’ordinario non cangia più strada, non muta più volontà. Una volontà per l’opposto, che domani ripiglia quel che ieri lasciò, che colla stessa facilità pecca e si pente, si pente e torna a peccare, mostra che la sua conversione non è sincera, ma di sola apparenza; ciò non di meno quest’istessa apparenza va lusingando il peccatore recidivo per modo che, non ostante la sua incostanza, crede una cosa facile passare dal peccato alla giustificazione onde ingannato s’incammina ad un morbo insanabile, che lo porta a morire impenitente. – Insegnano i fisici che una piaga non si può rimarginare se non colla quiete e col riposo, e perciò se avvenga che si apra una piaga nel nostro polmone, difficilmente si può saldare; perché essendo questo sempre in moto giorno e notte, nella veglia e nel sonno, per dare al corpo il necessario respiro, quel moto continuo impedisce che si chiuda la piaga, che congiunta con lenta etica febbre cagiona la morte. Non altrimenti passando voi, recidivi fratelli miei, con un movimento continuo dal peccato alla grazia, dalla grazia al peccato, o per dir meglio dalla confessione alla colpa, dalla colpa alla confessione, questo moto, questa incostanza farà che le piaghe della vostr’anima non possano rimarginarsi, e come avviene agli etici vi lusingherete di sempre star meglio, mentre sarete già marci, già morti agli occhi di Dio, e prossimi a chiudere la vita nell’ impenitenza finale, ultimo e massimo di tutt’i castighi. – Avverrà a voi, che Dio non voglia, ciò che avvenne ad Assalonne. Questo discolo figlio di Davide, dopo aver ucciso il suo fratello Ammone, fugge dall’indignato padre, esce fuori del regno; ma dopo tre anni, mal soffrendo il lungo esilio, tanto si adopra, tanto promette, che finalmente ottiene grazia e perdono. Eccolo di ritorno in Gerusalemme, eccolo nella reggia fra le braccia del genitore, che gl’imprime in volto mille teneri baci. “Post haec” (II Re, XV, 1), dopo sì amorevoli tratti chi il crederebbe? Macchina il perfido contro del padre, forma disegni a toglierli la corona di fronte, e gli eseguisce. Già innalzato lo stendardo della ribellione, gli ha contro sollevato tutto Israele, e già coll’armi alla mano s’impegna in sanguinosa battaglia: ma disfatto il suo esercito nella foresta di Efraim, si dà avvilito a precipitosa fuga, passa sul suo destriero sotto una quercia, il vento gli solleva la chioma, s’impaccia questa fra i rami, gli sfugge di sotto il cavallo, ed ei resta in aria sospeso per i suoi capelli: si divincola in questo stato, si vuol liberare, ma non può, ma non vi riesce: vede appressarsi Gioabbo, e come io ne penso, gli avrà detto il cuore un pensiero: “Quegli è Gioabbo mio parente, quegli, che già una volta si è tanto adoprato per riconciliarmi col padre, senza dubbio ei viene a liberarmi: porta in mano una lancia, con quella senz’altro reciderà l’impaccio della mia chioma. Si accosta Gioabbo, e gli trapassa il cuore con tre colpi di lancia. – Cristiani penitenti, già vel dissi, voi avete data la morte co’ vostri peccati a Gesù Cristo vostro fratello, che con questo nome s’è compiaciuto appellarsi. Iddio compatendo la vostra fragilità, mosso dal vostro pentimento, dalle vostre preghiere, dalle vostre promesse, vi ha accordato il perdono, ed abbracciandovi vi ha stampato in fronte il bacio di pace. “Post hæc”, se dopo tratti così amorevoli, vi rivoltate contro un Dio sì pietoso, se armati di peccato gli muovete guerra, aspettatevi pure il tragico fine di Assalonne. Verrà sì, verrà anche per voi il giorno estremo, il punto di morte, in cui, come sospesi tra il tempo e l’eternità, agitati confusi non vi sarà dato di liberarvi dai vostri affannosi timori. Chiamerete allora quel confessore, quel Gioabbo, che già vi riconciliò con Dio: verrà alla sponda del vostro letto; ma sarete in quel punto da tre pensieri, come da tre lance, trafitti. Il pensiero del passato: “Oh! io era in grazia di Dio, feci quella buona confessione, se mi fossi mantenuto a Dio fedele non mi troverei in queste angosce”. Il pensiero del presente: Ecco il ministro di Dio che mi assolve, ma quest’assoluzione sarà forse un colpo per me di pesantissimo sacrilegio. Il pensiero del futuro: Ah! che la spada della divina giustizia mi pende sul capo, e tra poco scaricherà su di me il colpo fatale della giusta sua collera, e della mia eterna condanna. – Ecco l’ordinario fine dei peccatori recidivi. Si rassomigliano costoro al cane, che torna a divorarsi quel cibo che vomitò: “Sicut canis qui revertitur ad vomitum suum”, così nei Proverbi: “Sicut canis reversus ad vomitum” [Cap. XXVI, 11], così S. Pietro [2 Piet. II, 22]. Or che sarà di questi sordidi cani? Che ne sarà? Udite S. Giovanni. “Foris canes, et venefici, et impudici” [Apoc. XXII, 15], fuori del regno dei cieli, fuori questa razza di cani stomachevoli, che vomitano il veleno de’ propri peccati, e ritornano ad ingoiarlo colla stessa franchezza,“foris canes”! – I convertiti per lume celeste, conchiude l’Apostolo, i quali gustarono quanto è dolce star bene con Dio, e di nuovo cadono in peccato, egli è impossibile che si rialzino ad abbracciare un’altra volta la penitenza. “Impossibile est eos, qui semel sunt illuminati, gustaverunt bonum Dei, et prolapsì sunt, rursus reverti ad poenitentiam” [Ebr. VI, 4,5,6.]: non già che sia ciò assolutamente impossibile, come insegnano Padri e Teologi. Finché c’è vita, c’è speranza, c’è luogo a perdono; ma la scrittura santa in più luoghi e S. Paolo nel testo citato, si servono della parola “impossibile” per significare la grande grandissima difficoltà di risorgere, e di salvarsi per quei che ricadono nel mortale peccato già detestato e pianto. Se questo tuono non ci riscuote, v’è a temere il fulmine che c’incenerisca; che Dio ci liberi!
Credo…
Offertorium V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Ps CXLV:2 Lauda, anima mea, Dóminum: laudábo Dóminum in vita mea: psallam Deo meo, quámdiu ero, allelúja. [Loda, ànima mia, il Signore: loderò il Signore per tutta la vita, inneggerò al mio Dio finché vivrò, allelúia.]
Secreta His nobis, Dómine, mystériis conferátur, quo, terréna desidéria mitigántes, discámus amáre coeléstia. [In virtú di questi misteri, concédici, o Signore, la grazia con la quale, mitigando i desiderii terreni, impariamo ad amare i beni celesti.]
Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.
Communio
Joannes 16:16 Módicum, et non vidébitis me, allelúja: íterum módicum, et vidébitis me, quia vado ad Patrem, allelúja, allelúja. [Ancora un poco e non mi vedrete più, allelúia: ancora un poco e mi vedrete, perché vado al Padre, allelúia, allelúia.]
Postcommunio S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Sacramenta quæ súmpsimus, quæsumus, Dómine: et spirituálibus nos instáurent aliméntis, et corporálibus tueántur auxíliis. [Fai, Te ne preghiamo, o Signore, che i sacramenti che abbiamo ricevuto ci ristòrino di spirituale alimento e ci siano di tutela per il corpo.]
Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.