MORTE AL CLERICALISMO O RESURREZIONE DEL SACRIFICIO UMANO -VII- di mons. J. J. Gaume [capp. XXIII-XXVI]

CAPITOLO XXIII

AFRICA OCCIDENTALE.

I.

Dalle isole del Capo Verde sino al Congo, le coste occidentali d’Africa su d’una larghezza di venti a quaranta leghe, e forse più, rosseggiano continuamente di sangue umano; e ciò da’ secoli i più remoti. Allorché alla fine del decimoquinto secolo, verso il 1481, gli Europei approdarono alle coste occidentali d’Africa, trovarono il regno di Benin in pieno potere dei sacerdoti de fetisci. Questi sacerdoti, oracoli della nazione, vantavano familiari rapporti col demonio, e l’arte di penetrare nell’avvenire, per mezzo d’un vaso che portava tre fori, onde traevano un certo suono. Erano consultati dai negri in tutti gli affari di Religione, e tutto si faceva secondo i loro consigli.

II.

Regolatori del culto, essi avevano stabiliti molti giorni consacrati al servizio degli dèi. Il giorno di riposo aveva luogo ogni cinque giorni. Veniva celebrato con offerte e con sacrificio I grandi immolavano vacche, montoni e capre, in quella che il popolo contentavasi di sacrificar cani, gatti e polli. – Nella festa anniversaria, celebrata ad onore dell’ultimo re defunto, si sacrificavano non solo un gran numero d’animali, ma molte vittime umane; ed erano d’ordinario rei condannati a morte, riservati per questa solennità, giusta il consueto in numero di venticinque.

III.

Quando non arrivassero a questo numero, gli officiali del re dovevano percorrere le vie di Benin, durante la notte, e portar via indistintamente chiunque avessero incontrato senza lume. Era permesso ai ricchi di riscattarsi, ma i poveri erano immolati senza pietà. Gli schiavi d’un grande potevano essere riscattati dal loro padrone, purché apprestasse altre vittime. [Walkenarer, Hist. gen. dos. Voy., t 4, p. 91].  

IV.

Dopo la scoperta degli Europei, il regno di Bènin non ha punto rimesso della sua ferocia. Come uno de’più potenti Stati della Nigrizia marittima, estendesi da Lago sino a Bonny, e conta tra i suoi vassalli i regni d’Avissia, di Kosia, e la repubblica di Bonny. Anche oggidì i suoi abitanti feroci e guerrieri, immolano vittime umane, vendono quel che non uccidono, e riguardano il loro re siccome un dio, che vive senza nutrirsi. Un pozzo profondo serve di sepoltura a questo capo, e precipitano sopra il suo corpo una folla di persone, specialmente i favoriti da lui. Nel 1648 il loro numero giunse alcune volte fino a trecento.

V.

La repubblica di Bonny si distingue per un’atrocità tutta propria. Ogni anno in una certa stagione, gettasi all’imboccatura del Niger, fiume del paese, una gran quantità di carne, per attirare i pesci. Si prende in seguito una fanciulla di sei a sette anni, e si pone in una piccola piroga ornata di foglie. La calano all’imboccatura del fiume, tra mille grida selvaggie e al suono del tam-tam. Giunta al luogo indicato, fan capovolgere la piroga, e cosi la povera fanciulla cade in mezzo ai pesci, che ne fan loro pasto. Il sacrificio di quest’innocente vittima si fa al genio del fiume, collo scopo d’attirarvi i commercianti. Questa ributtante crudeltà non fa più meraviglia, quando si sa che un grosso serpente appellato nel Gabon, Guelè-Toppia, è il dio degli abitanti. Ecco quel che accade tuttavia nel regno di Benin, che ancora non ha ricevuta la predicazione del Clericalismo. E oggidì vogliono sterminare il Clericalismo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone! [Lettera del R, P. Deforme, miss, al Gabon, 7 sett. 1876].

VI.

Costeggiando verso il sud, la parte occidentale d’Africa, arriviamo al Congo. Nel quindicesimo secolo l’antica idolatria vi regnava con pieno potere, e senza misura esigeva dai poveri negri il doppio tributo del corpo e dell’anima. Scoperto nel 1487 dal capitano portoghese Diego Cans, questo paese vide giungere, due anni dopo, i primi missionari cattolici. Allorché gli apostoli della buona novella posero il piede su questa sventurata terra furono testimoni de’ seguenti barbari riti.

VII.

Il negro che voleva offrire un sacrificio a qualunque delle numerose divinità, di cui é pieno il paese, ne dava avviso al ministro dell’idolo. Questi non perdeva l’occasione di esagerar l’importanza del servigio domandato, e di esortare il negro a non mostrarsi avaro nelle oblazioni prescritte. Minacciavate della collera dell’idolo, che saprebbe prender vendetta della sua avarizia. – Il negro, rientrato nella sua casa, faceva venire i migliori musici della contrada, affin di pubblicar l’ora in cui avrebbe luogo la cerimonia. Nel giorno stabilito ritornava, accompagnato dai suoi parenti e dai suoi amici, alla casa del sacerdote, e lo supplicava di voler intervenire qual suo mediatore appresso l’idolo.

VIII.

Questi seduto in circolo coi suoi colleghi, si levava all’avvicinarsi del negro, correva alla porta, esaminava la presentata mercede; e se la trovava maggiore della convenuta, atteggiandosi a gravità diceva al negro, che acconsentiva rendergli un tal servigio. Seguito da’ suoi colleghi, portavasi all’abitazione dell’idolo, dove entrava battendo le mani, in segno di gioia. Diceva ad alta voce il nome e il grado di colui che offriva il sacrificio, il numero ed il valore delle oblazioni; quindi deponendole sull’altare con aria di profondo rispetto, pregava l’idolo di conservare in pace ed in salute quegli, che, offrendo il sacrificio, nulla risparmiava per onorarlo.

IX.

Fatta questa preghiera, ecco scoppiare col più terribile fracasso la musica dei barbari concertisti, miscuglio di grida e di suono che si riproducevano di lontano. Questo violento esercizio non si sarebbe potuto continuar lungo tempo dai musici, se il negro non avesse loro dato da bere; ma prodigava ad essi i liquori più forti del paese, e li riscaldava talmente che il frastuono andava crescendo sino a che il sacerdote non lo facesse cessare.

X.

Dopo tre ore di questo orribile strepito, si recavano alla casa del negro, attorno alla quale i canti, la musica e la danza duravano tre giorni e tre notti. Il quarto giorno, che era propriamente quello del sacrificio, tutto il rumoroso corteggio andava di nuovo all’abitazione dell’idolo. Vi si conducevano gli uomini e le bestie che dovevano essere immolati. Il sacerdote li presentava al nume, e li scannava. Il numero delle vittime umane era proporzionato alla qualità dell’idolo, la cui figura era subito imbrattata del sangue fumante, che tutti si davano premura di bere. Quando il sangue delle vittime infelici cessava di scorrere; si tagliavano in pezzi i corpi; si mettevano in sul fuoco; e senza aspettar nemmeno che fossero cotti, gli assistenti vi si gettavano sopra e li divoravano avidamente. Quelli che erano tanto insensati da far tali dispendiosi sacrifici, d’ordinario impoverivano totalmente, altro loro non rimanendo che il vano onore d’essere impoveriti per cotal festa abominevole. [Relazione storica dell’Etiopia occidentale, del P. Labat, t. I, p. 312]. Ecco quel che accadeva nel Congo, prima della predicazione del Clericalismo. Ed oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

CAPITOLO XXIV

AFRICA OCCIDENTALE (Continuazione.)

I.

Non men tristo era lo stato dei vicini regni di Cacongo e d’Angoy. Alle superstizioni più crudeli e ridicole aggiungevasi il sacrificio umano. I negri di questo paese credevano che l’uomo lasciasse, morendo, una vita miserabile, per entrare in un’altra piena di felicità; e si tenevano a questa credenza per affrettar la morte ai malati. Si vede qui la gran malignità del demonio, che travolge a barbari atti il domma più consolante del Cristianesimo.

II.

Laonde i parenti d’un negro agonizzante gli tiravano con tutta forza il naso e le orecchie; gli davano pugni nel viso, gli agitavano con violenza le braccia e le gambe, e gli chiudevano la bocca per più presto soffocarlo. Altri il prendevano per i piedi e per la testa; e dopo averlo alzato in alto il più possibile, lo lasciavano di botto cadere; altri ancora ponevano le ginocchia sul suo petto e lo premevano tanto da schiacciarlo. Facevano questo, dicevano, per compassione, per togliere all’agonizzante i dolori d’una lunga lotta e liberarlo senza indugio dalle pene della vita terrestre. [Ecco da dove prende origine la nobile e civile EUTANASIA! –ndr.-.]

III.

Morto che era il malato, i suoi schiavi, i suoi parenti e i suoi amici si radevano affatto la testa in segno di duolo, e ungendosela ben bene di olio, si ricoprivano di polvere di differenti colori, mista a piume e foglie secche triturate. I funerali cominciavano col sacrificio di qualche pollo, del cui sangue si spruzzava la casa di dentro e di fuori. Poscia si gettava lo scheletro sul letto, ad impedire che l’anima del morto non facesse il Zumbi, ossia non tornasse ad impaurire gli abitanti con apparizioni; imperocché credevano che chiunque vedesse l’anima d’un morto, cadrebbe morto anch’egli all’istante.

IV.

Dopo la cerimonia dei polli, si continuavano i lamenti sul cadavere. Allorché si era pianto e gridato per qualche tempo, si passava ad un tratto dalla tristezza alla gioia, banchettando a spese de’ più prossimi parenti del defunto. Il banchetto finiva con la danza, terminata la quale, si procedeva alla sepoltura.

V.

Il cammino doveva farsi in linea retta, e se si incontrava qualche muro, ed anche qualche casa per via, non s’esitava punto di abbatterla. L’uso ordinario (bell’uso veramente!) era di seppellir nella medesima tomba, per servizio del morto, qualche persona viva con una provvisione di viveri e di liquori. Questo accadeva nei regni di Cacongo e di Angoy prima della predicazione del Clericalismo. Ed oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

VI.

Veniamo ad un’altra parte considerevole dell’Africa: la Guinea o le due Guinee. Questo vasto paese è compreso fra la colonia inglese di Sierra-Leone al Nord, ed il capo Lopez al sud. Gli spagnoli e i portoghesi lo scoprirono successivamente negli anni 1446 e 1484. Siccome tutte le altre parti della costa, essi trovaron questo paese sotto la dominazione sanguinaria ed assoluta del demonio. Intanto l’ora della misericordia giunse per questo povero popolo, che i figli del venerabile Padre Libermann continuano anche ai nostri giorni ad evangelizzare con eroico sacrificio.

VII.

Nel 4605, il celebre missonario gesuita Balthazar Barreira, sbarcò sulla costa di Guinea. Erasi imbarcato a Lisbona con molti de’ suoi fratelli. Tutti arrivarono felicemente all’isola di Sant-Iago, la principale dell’Arcipelago del Capo Verde. Era questa come il deposito generale degl’infelici schiavi negri, i quali v’eran condotti dall’interno della Guinea, per esser esportati lontano. Il primo benefico atto dei mis-sionari fu d’aprire gli occhi a questi poveri negri sui prestigi dei loro indovini, che sotto colore di rendere la sanità ai malati, nuocevano egualmente ai loro corpi ed alle loro anime.

VIII.

Un altro male non men deplorabile, si è che gli appaltatori, impazienti di guadagno, facevan battezzare frettolosamente gli schiavi, talvolta a truppe di seicento uomini, affin di trasportarli al più presto in differenti contrade del mondo. I Padri ottennero la libertà per un gran numero di questi sventurati, che venivano con violenza strappati dalla patria e dalla famiglia. Per tutti essi ottennero la dilazione che richiedeva l’insegnamento della religione, che si faceva abbracciare loro.

IX.

Avanzandosi nell’interno delle terre, il Padre Barreira arrivò a Quinola, il 7 gennaio 1605; ma non potè abboccarsi col vecchio re di Bissan che avevagli date speranze di conversione. Solamente ottenne dal ministro protezione pel Cristianesimo, e la promessa di non macchiar di sangue umano i funerali del re; imperocché era uso di quel popolo di scannare sulla tomba del loro principe le sue donne, i suoi principali servitori, e il suo cavallo di battaglia, affinché, nell’altro mondo, potesse presentarsi con un corteggio reale. [Du Iarric, Storia delle cose più memorabili, t. III, p. 377]. – Nel 1607, il generale dei gesuiti spedì molti ausiliari al Padre Barreira, fra gli altri il Padre Emmanuele Alvarez. Questo coraggioso missionario s’internò nelle terre, e sua prima cura fu di raddolcire i costumi degli abitanti. Ottenne la soppressione dei sacrifici umani, accompagnati da circostanze atroci, con le quali i negri pretendevano onorare i loro principi defunti. Il re di Quinola abolì questa barbara usanza, e domandò il battesimo. Ecco quel che accadeva nella Guinea prima della predicazione del Clericalismo! Ed oggi vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone! [Du Iarric. Storia delle cose più meviorabili, t. III, p. 377].

CAPITOLO XXV

AFRICA OCCIDENTALE

(Continuazione.)

I.

Continuiamo il nostro viaggio sulle coste africane. Il 18 ottobre 1801 un dei nostri missionari venuto a Parigi dopo dodici anni di dimora nelle diverse parti dell’Africa occidentale, ne diceva, e più tardi ne scriveva quanto segue: « Era il mese di settembre 1850. Io stesso mi trovava nei luoghi, dove si compì il sacrificio di cui voglio parlarvi. È da notare che questo non è già un fatto unico, perché tal sorta di sacrifici son d’un uso frequentissimo. La vittima era un bel giovane, preso da una popolazione vicina. Per quindici giorni, fu legato mani e piedi ad un tronco d’albero, in mezzo alle case del villaggio.

II.

«.L’infelice conscio del destino che lo attendeva, fece, durante la notte del quattordicesimo al quindicesimo giorno, un ultimo sforzo per sciogliersi dai suoi legami; e vi riuscì. Sbalordito giunse avanti giorno ad una posta francese. Non intendendo alcuno la sua lingua, fu preso per uno schiavo fuggitivo; e senza difficoltà fu consegnato ai negri, che, essendosi posti ad inseguirlo, non tardarono a reclamarlo. Ricondotto al villaggio, il sacrificio fu stabilito pel medesimo giorno, che era di venerdì, ed ebbe luogo nel modo usato.

III.

« La vittima vien legata su di una pietra che ha forma d’altare, nel centro della gran piazza. Attorno alla piazza son collocate sul fuoco pentole piene di acqua. Una musica assordante accompagnata da numerosi tamburi, occupa una delle estremità della piazza, e attende il segnale. La popolazione del villaggio e dei villaggi vicini, sovente in numero di tre a quattro mila persone, vestite de’i oro abiti di festa, si dispone in circolo attorno la vittima. È in piccolo un anfiteatro Romano.

IV.

« Dato che è il segno, la musica, i tamburi, le grida della folla riempiono l’aria d’uno strepito infernale: è questo l’annunzio del sacrificio. I sacrificatori s’approssimano alla vittima, armati di coltelli», e danno mano all’atroce ministero. La vittima deve essere, secondo il rito, fatta a pezzi ancor viva. « Incominciasi dalla mano diritta che viene staccata dal braccio, tagliando l’articolazione del polso. Quindi si passa al piede sinistro che vien reciso disotto la noce; poi si viene alla mano sinistra e al piede destro. Dai polsi passano ai gomiti, dai gomiti ai ginocchi, dai ginocchi alle spalle, dalle spalle alle cosce, alternando sempre fino a che resti il solo busto, sormontato dalla testa. In tal guisa fu immolato quel giovane infelice.

V.

« A misura che vengono recise, le membra della vittima son portate nelle caldaie piene di acqua bollente. Si pone fine all’operazione troncando, o meglio, segando la testa che gettasi nel mezzo della piazza. Allora comincia uno spettacolo di cui mai si potrebbe dare una debole idea; gli astanti sembrano presi da un furore diabolico. « Al suono d’una musica orribilmente assordante, allo schiamazzo di fiere vociferazioni, le donne scapigliate, e gli uomini presi da non so qual diabolica frenesia, s’abbandonano a certe danze, o piuttosto a contorsioni orrende. La ridda infernale obbliga ciascun danzatore di batter col piede, ballando continuamente, la testa della vittima, che si fa cosi rotolare su tutti i punti della piazza; di prender con un coltello, mentre passano vicino alle caldaie, un pezzo di carne, e mangiarlo colla voracità della tigre. Credono così di placare il fetisco adirato.» [Lettera di Mons. Duret, vic. apost. della Senegambia].

VI.

Ascoltiamo ora il racconto d’un altro missionario, testimone oculare del fatto che ci racconta. « Da qualche mese, la febbre infieriva in una delle nostre tribù, e mieteva un gran numero di vittime. Il re si porta a trovare il sacerdote del serpente, e: Non hai tu, gli dice, un mezzo di far cessare il flagello? — Gli dèi sono irritati, risponde il sacerdote, e chiedono del sangue. — Vai, gli dice il re, scegli nella tribù la gioventù più bella e più pura, e tu stesso la scorticherai viva. »

VII.

« All’indomani, nell’uscir io di mia casa, ahi! quale scena spaventevole non mi s’offrì alla vista: un corpo rosseggiante ancora di sangue, ond’esalavano ineffabili singhiozzi, coi piedi avvinti da un nodo scorritoio, trascinato con lunga fune, da una folla delirante, attraverso i bronchi della foresta. Era una giovanetta stata da poco scorticata, e la madre era li che dietro la traccia del sangue e dei brani di carne attaccati alle spine, seguiva il corpo della figlia, immolala al demonio! »

VIII.

I fatti seguenti, d’una data affatto recente, poiché sono accaduti nel mese di dicembre 1874, e nel mese d’aprile 1875, mostrano l’ostinata persistenza del sacrificio umano, sulla disgraziata terra dell’Africa. – « Messi, re di Porto-Nuovo, scrivono i nostri missionari, é morto vittima della dissolutezza e della crapula. Nella notte seguente alla sua morte, si è scavata in una parte isolata della sua dimora una larga fossa. A mezzanotte, le vittime imbavagliale e mezzo ebbre, in numero di sei, son portate via dal migan, o carnefice. Queste vittime sono il confidente, la prima donna del re, il suo piccolo schiavo, la donna addetta a rinfrescare il re con un largo ventaglio, quella che distende la stoia sotto i suoi piedi e quella che tiene l’ombrellino.

IX.

« Posto sull’orlo della fossa, il capo delle Bottiglie (il Gogan) le presenta al sacrificatore che le riceve e le offre agli dèi, spargendo sopra d’esse un po’ d’olio d’oliva mescolato a farina di formentone. Poscia s’accordano alle vittime, come ultima consolazione, alcune gocce d’acquavite. Le tre prime avvinte e inginocchiate ricevono il colpo fatale, e le loro teste cadono sotto la sciabola del fetiscio. « Le altre tre, distese nella fossa, son battute alla nuca con un bastone rotondo e liscio. I carnefici prendono il sangue caldo e fumante, che esce in abbondanza dalla bocca e dal naso delle vittime, e lo spargono sul fondo e sulle pareti della fossa. Ricevono dalle mani del capo delle Bottiglie, trecce e stoffe, e le stendono su questo letto di sangue.

X.

« Ai primi raggi del sole, la bara reale è discesa nella fossa. A un lato avvolti in una stuoia si depongono i cadaveri della prima donna del re e del piccolo schiavo, e la fossa si ricopre di terra. Gli altri cadaveri son gettati in una fossa a parte. « Tre mesi dopo, han luogo i funerali solenni. Son dessi occasione d’orribili sacrifici umani, che si succedono per lo spazio di nove giorni, con incredibile barbarie. La testa del re, tratta di nuovo fuor della fossa, vien portata alla casa fetiscia di Mezé, e i funerali si compiono in un boschetto vicino, celebre per secolari delitti. Questi secondi funerali sono l’apoteosi del re, che addiviene allora fetiscio.

XI.

« Per rialzare lo splendor di sua corte nel suo nuovo regno, gli s’inviano alcuni ministri e un gran numero di donne e di schiavi, che sono immolati con gran cerimonia. Queste povere vittime, riccamente vestite, portano le insegne degli alti personaggi che esse rappresentano. Lo schiavo o il capo del palazzo porta il nome e le decorazioni del suo padrone; è condotto al sacrificio tenente nelle sue mani una pelle di leopardo ed un piatto. La vittima del secondo ministro arriva al rogo funebre, traendo un cavallo per la briglia. « I principi delle campagne conducono pur essi i loro schiavi destinati al sacrifizio. Le principesse ancora offrono al re defunto una giovane e bella negra, per danzare e cantare avanti a lui.

XII.

« A mezzanotte cominciano le uccisioni, e continuano fino a giorno. Si compiono nella corte del palazzo, presso una capanna di bambù. Vi è prima condotto uno sventurato che vedendosi fra le mani brutali dei carnefici, comprende che dev’essere immolato, e manda fuori grida di dolore: « Aiuto! mi vogliono uccidere! che ho io fatto? Bianchi, soccorretemi. » Ma invano, perché nessuno può intervenire sotto pena di morte. Intanto non viene imbavagliato, per dargli prima di spirare commissioni per l’altro mondo.

XIII.

« Il sangue della vittima vien raccolto in una zucca; si recide al cadavere una mano e si sospende alla porta del fetiscio; si distacca abilmente la pelle dalle reni, per farne un tamburo che servirà alle prossime festiscerie. I grumi di sangue si spargono qua e là, misti allo sterco di vacca, e se ne strofina il suolo della capanna. Quanto agli ultimi pezzi di carne, vengono strascinati e vergognosamente esposti dinanzi al palazzo, alla vista di tutto il popolo.

XIV.

« Si conduce quindi una nuova vittima. È un giovane che ignora del tutto quanto l’attende. Vien menato alla capanna, e mentre è invitato a sonar la trombetta, è afferrato dagli esecutori, che gli danno le usate commissioni per 1’altro mondo, lo gettan per terra e l’ammazzano sotto una grandine di colpi di bambù. Il suo sangue è raccolto per finir d’asperger la casa. Nella maniera stessa furono per tre giorni immolate le altre vittime.

XV.

«Avvicinandosi il nono giorno, tutta la città rimbomba di grida, di canti, d’urli, di strepito di moschetterie. Si passa così la mattina in festa. Si ripartiscono le vittime, di cui la maggior parte ignora la sorte che l’attende. Verso le due pomeridiane, si preparano all’ultima cerimonia. Tutti gli sgherri del Porto-Nuovo si dispongono in battaglioni nella piazza, vicino ai loro capi di guerra, i quali hanno il loro parasole. Si pongono in marcia, al suono lugubre del tamburo, formato colla pelle della vittima immolata il primo giorno.

XIV.

« Dalla casa della missione possiamo vedere tutto ciò che sia per accadere. In faccia a noi, a cinquanta passi fuor del bastione, s’innalza nel mezzo della pianura un boschetto sacro, di forma rotonda, foltissimo. I negri vi aprirono nella vigilia a colpi di sciabole, un largo e tortuoso sentiero, che conduce ai piedi di un grande albero, ove si debbono immolare le vittime. Una lunga schiera d’uomini armati giunge colle bandiere spiegate, e viene ad ordinarci in battaglione da ciascun canto del boschetto. Ecco la prima vittima: è bianco vestita, e conduce un cavallo per la briglia; è dessa il rappresentante del capo delle scuderie del re. Cammina d’un passo accelerato e par felice; gli è un giovane d’in su ì venti anni.

XVII.

« Il palafreniere capo gli dice alla vigilia: « Desidero far presente d’un cavallo al re; vuoi tu condurglielo là in quella boscaglia, ove va a ricrearsi?» Il giovane accetta. «Bene, dice il palafreniere, va a lavarti e torna, mangia e bevi assai. Domani tu condurrai il cavallo, e porterai al re le commissioni che ti si daranno. » – « Ed ecco avanzarsi il povero giovane. Giunto dinanzi al boschetto, si ferma col cavallo, e trova in sull’entrata l’esecutore, e più lungi i suoi figli e i suoi schiavi, armati di sciabole e di bastoni.

XVIII.

« Arriva la seconda vittima, vestita come il capo che rappresenta, e tenente un parasole sopra la testa. Piantasi un sedile fuori del boschetto. La vittima vi s’asside, e i negri vengono a prostrarsele dinanzi ed a complimentarla. A vedere l’infelice che parla, gestisce, sorride, si siede e s’alza, parrebbe fosse un vero capo. « Tosto arrivano due uomini e quattro donne che debbono portare nel boschetto le teste delle vittime immolate al palazzo. Infelici! ignorano che vanno a preparare l’altare che deve divorarli.

XIX.

Finalmente si pone fuoco al rogo. Gli esecutori snudano le loro armi, e si precipitano sopra le vittime, che vengono così immolate. Frattanto un giovine si svincola da’carnefici, slanciasi nel bosco e cerca di porsi in libertà. Una fila d’uomini gli interdice il passo; riceve un colpo di fuoco alla testa, e vien tratto al supplizio. Nella confusione prodotta da questo accidente, la giovane che le principesse spedivano al re per cantare e danzare avanti a lui poté sfuggirsela nel bosco. La sventurata, bentosto raggiunta, manda fuori grida, che il tumulto c’impedisce d’intendere. Coloro che eran più d’accosto l’hanno intesa gridare: « Soccorso! Soccorso! » Molti curiosi spaventati son fuggiti. Altre vittime han mandato questo grido che io ho udito : « Ou pa mi ó ! mi uccidono. » Malgrado le sue lacrime e le sue supplicazioni, la giovine è sacrificata siccome pure il conduttore del cavallo ed un gran numero d’altre vittime, i cui corpi ancora palpitanti sono gettati sul rogo. « L’orribil sacrificio è consumato. I colpi di fuoco, in segno di festa, continuano ancora per due ore, e ciascuno riprende il cammino di sua casa. – « Io non so se gl’ Inglesi lasceranno impunite queste crudeltà, ovvero chiederanno riparazione della violazione del trattato che hanno fatto con Sungi padre di Toffa, e che questi non ha rispettato. » [Annal. de la Prop. de la foi, n. 98i, Gennaio 1876]. – Tali sono gl’ incredibili orrori che si commettono tuttavia sulle coste occidentali della malavventurata terra di Cam. La ragione n’è perché il Clericalismo non v’è stato predicato. Ed oggidì vogliono sterminarlo! E dicono che tutte le religioni sono egualmente buone!

CAPITOLO XXVI.

L’AFFRICA OCCIDENTALE. — IL DAHOMEY.

I.

Entriamo finalmente nel terribil regno del Dahomey, le cui principali città sono Abomey, Cana, e Widah sul lido del mare. Il sangue umano vi scorre tuttavia, non in ruscelli, ma a torrenti. In ciascun anno vi si celebra una festa solenne, appellata la festa delle Costumanze. Ecco qui la relazione di questa festa, scritta, nel 1860, da un viaggiatore europeo, testimone oculare di ciò che riferisce.

II.

« Il 16 luglio è presentato al re, successore e figlio del re defunto, un prigioniero tutto imbavagliato. Il re gli dà commissioni per suo padre, gli fa dare pel viaggio una piastra ed una bottiglia d’acquavite, e quindi lo spediscono. Due ore dopo, quattro altri messaggieri partivano colle stesse condizioni. Il 23, io assistei alla nomina di ventitré officiali e musici, che dovevano esser sacrificati per entrare al servizio del re defunto. Il 28, immolazione di quattordici prigionieri, le cui teste son portate su differenti punti della città, al suono d’una campanella. – « Il 29, si preparano ad offrire alla memoria del re Ghezo le vittime d’uso. I prigionieri portano un bavaglio a forma di croce, che li fa oltremodo soffrire; poiché gliene applicano in bocca la punta aguzza sulla lingua, ciò che impedisce di muoverla e per conseguenza di gridare. Questi infelici han quasi tutti gli occhi schizzanti fuori delle occhiaie. I canti non cessano, siccome le uccisioni. Durante la notte del 30 e del 31 son cadute a terra più di cinquecento teste. Moltissimi fossati della città sono colmi d’ossa umane. Nei giorni seguenti, continuazione de’ medesimi massacri. – « La tomba d’un ultimo re è una gran fossa, scavata nella terra. Ghezo è nel mezzo di tutte le sue donne, le quali, prima d’avvelenarsi, si sono disposte attorno a lui, secondo l’ordine che occupavano alla corte. Queste morti volontarie possono ammontare a seicento.

III.

« II 4 agosto, esibizione di quindici donne prigioniere, destinate a prender cura del re Ghezo, nell’altro mondo. Saranno uccise questa notte con un colpo di pugnale nel petto. Il 5 è riservato alle oblazioni del re; quindici donne e trentacinque uomini vi figurano, imbavagliati e legati, colle ginocchia ripiegate sino al mento, le braccia attaccate al basso delle gambe, e posti ciascuno in un paniere che è portato in testa; lo sfilare ha durato più d’un’ ora e mezzo. Era uno spettacolo diabolico il vedere i gesti, i contorcimenti di tutti quei negri.

IV.

« Dietro a me vedevo quattro magnifici negri, far l’ufficio di cocchieri attorno una piccola carrozza, destinata ad essere spedita al defunto, insieme coi quattro infelici. Essi ignoravano la sorte loro. Allorché furono chiamati, s’avanzarono, tristemente, senza profferir parola. Uno di loro aveva due grosse lacrime che luccicavano come perle sulle sue guancie. Sono stati uccisi tutti e quattro qual polli, dal re in persona.

V.

« Dopo l’immolazione, il re è salito su d’un palchetto, ha acceso la pipa e ha dato il segnale del sacrificio generale; e ad un tratto si cavarono fuori le scimitarre, e caddero le teste. Il sangue scorreva da ogni parte; i sacrificatori ne erano ricoperti, e gli infelici che attendevano il loro turno, ai piedi del palco reale, erano anch’essi tinti di sangue. – « Queste cerimonie dureranno ancora un mese e mezzo, dopo il qual tempo il re si porterà in campagna per fare nuovi prigionieri, e ricominciare la festa delle Costumanze. Verso la fine d’ottobre vi saranno eziandio sette ad otto cento teste abbattute. [L’autore di questo racconto non è un missionario cattolico. Abbiamo veduto un missionario che ci ha confermato tutti i particolari, aggiungendo che da dodici anni che è in Africa, si può, senza esagerazione portare a 46.060 il numero delle vittime umane, immolate nel regno di Dahomey, che conta quasi un milione d’abitanti. Vedi il Voyage del Stg. Repin, medico di Marina, e Annales de la Prop. de la Foi, Marzo 4664, p. 422 e seg.]. « Al re Ghezo è succeduto suo figlio, il principe Badon. L’ascensione al trono del novello monarca è stato il trionfo delle antiche leggi, che hanno ripreso tutto il vigor sanguinario reclamato dai sacerdoti fetisci. » Non bisogna credere che la carneficina umana si limiti alle grandi feste. Neppur una ne passa senza che qualche testa cada sotto la scure del fanatismo. Ultimamente l’Europa fremette al sapere che il sangue di tremila creature umane aveva innaffiato il sepolcro di Ghezo. Oimè! altro che tremila. [Annales, maggio 4862].

VI.

Infatti, non solamente a Cana, città santa del Dahomey, ma ancora ad Abomey, capitale del regno, han luogo queste sanguinose tragedie. « Chiamati al palazzo del re, scrive recentemente un viaggiatore, vedemmo novanta teste umane troncate la mattina stessa: il loro sangue scorreva ancora per terra. Questi spaventevoli avanzi erano esposti a ciascun lato della porta, di maniera che il pubblico potesse bene osservarli.

VII.

« Tre giorni dopo, novella visita al palazzo, e lo stesso spettacolo. Settanta teste di fresco recise, disposte come le prime, in ciascun canto della porta, e tre giorni più tardi, ancora trentasei. Il re aveva fatto costruire, sulla piazza del mercato principale, quattro terrazzi, donde gettò al popolo dei cauris, conchiglie che passavano per monete, e sui quali fece ancora immolare sessanta vittime umane.» [le tour du Monde, N. 163, p. 107].

 

VIII.

Ecco quale fu la forma di questo nuovo sacrifìcio: « Si portarono grandi zane o ceste, contenenti ciascuna un uomo vivo, di cui solo la testa sporgeva fuori. Furon allineati per un istante sotto gli occhi del re, poscia precipitati, l’un dopo l’altro, dall’alto dei terrazzi sul lastrico della piazza, dove la moltitudine danzando, cantando e urlando, se ne disputavano gli avanzi come in altre contrade i fanciulli si disputano i confetti del battesimo. « Ogni Dohomyese, a cui arridesse la sorte di afferrare una vittima e segarle la testa, poteva cambiare al momento stesso questo trofeo in una collana di cauris, circa LI. 2,50. Io non potei tornare a casa, se non dopo che l’ultima vittima fu decollata, e due sanguinosi mucchi, l’una di teste, 1’altra di busti, furono innalzati alle.due estremità della piazza. » [Le tour du Monde, ibid., p. 410].

IX.

E dei cadaveri che ne fanno? La storia ci dice che sempre e dappertutto la manducazione, sotto una forma o sotto un’altra, accompagna il sacrificio. Che accade dunque dei corpi delle innumerevoli vittime del Moloch Dahomyese? « Io ho spesso, scrive un viaggiatore, posta questa questione ai Dahamyesi di diverse classi, e giammai ho potuto ottenere una risposta categorica. Non credo antropofagi gli abitanti del Dahomey. Potrebbe accadere nondimeno che essi ammettessero qualche idea superstiziosa alla consumazione di questi avanzi, e che questi servissero ad occulte e ributtanti agapi; ma, lo ripeto, i miei su ciò non sono che sospetti fatti nascer nel mio animo dall’esitazione e dall’imbarazzo dei negri, da me interrogati su tal affare. » [Le tour du Monde, ibid., p. 110].

X.

A giudicare dalla tirannia assoluta che il grande Omicida esercita su questo sventurato paese, è probabilissimo che i sospetti del viaggiatore non tarderanno a diventare una spaventevole realtà. Coll’odio dell’uomo e colla sete del suo sangue, questa tirannia si rivela da un ultimo fatto. « In Abomey trovasi la tomba dei re, vasto sotterranea scavato da mani d’uomo. Quando un re muore, gli si erige, nel centro di questa tomba, una specie di cenotafio attorniato da sbarre di ferro e sormontato da un feretro, cementato col sangue d’un centinaio di prigionieri, provenienti dalle ultime guerre, e sacrificati per servire di guardie al sovrano nell’altro mondo. Il corpo del monarca è deposto in questo feretro, colla testa riposante sui crani dei re vinti. Come altrettante reliquie della sovranità defunta, si deposita ai piedi del cenotafìo, quanto si può di crani e d’ossa.

XI.

« Terminati tutti i preparativi, si apre la porta del sepolcro, e vi si fanno entrare otto Abaies, ballerine della corte, in compagnia di cinquanta soldati; ballerine e soldati, che muniti d’una certa quantità di provvisioni, sono incaricati di accompagnare il loro sovrano nel regno delle ombre: in altri termini, sono offerti vivi in sacrificio ai mani del re morto.

XII.

« Diciotto mesi dopo, per l’ascensione al trono del novello re, il feretro è aperto, ed il cranio del re morto n’è tratto fuori. Il reggente prende questo cranio nella mano sinistra, e, tenendo una piccola accetta colla mano destra, la presenta al popolo, proclama la morte del re e l’innalzamento al trono del suo successore. Coll’argilla impastata nel sangue di vittime umane, formasi un gran vaso, in cui il cranio e le ossa del defunto re sono definitivamente suggellate. Non v’è altro caso in cui la sete di sangue del Moloch africano tanto si manifesti quanto in questa solennità. Migliaia di vittime umane sono immolate, sotto pretesto di mandare al defunto re la nuova dell’incoronazione del suo successore. » [Le tour da Monde, p. 103-104].

XIII.

Tutti questi orrori si commettono a qualche centinaio di leghe dalle coste di Francia. E 1’Europa cristiana, che ha migliaia di soldati per fare la guerra al Papa, non ne ha pur uno a far rispettare le più sante leggi dell’umanità! Una sola cosa ha liberata 1’Europa da crudeltà simili, una sola cosa ne impedisce il ritorno; il Cristianesimo. E si trovano oggi in Europa migliaia d’uomini che non han voce se non per insultare al Cristianesimo e chiederne lo sterminio; che non han penne se non per calunniarlo; non han mani se non per flagellarlo! Ingrati! che, senza il Cristianesimo, sarebbero forse stati offerti vittime a qualche Ghezo d’una volta, o bruciati vivi in un paniere di vinchi in onore di Teutate!