DOMENICA IV dopo PASQUA

DOMENICA IV dopo PASQUA

Introitus Ps CXVII:1; XCVII:2

Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja. [Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Salvávit sibi déxtera ejus: et bráchium sanctum ejus. [Gli diedero la vittoria la sua destra e il suo santo braccio.]

V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. – R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in sæcula sæculórum. Amen.

Cantáte Dómino cánticum novum, allelúja: quia mirabília fecit Dóminus, allelúja: ante conspéctum géntium revelávit justítiam suam, allelúja, allelúja, allelúja. [Cantate al Signore un cantico nuovo, allelúia: perché il Signore ha fatto meraviglie, allelúia: ha rivelato la sua giustizia agli occhi delle genti, allelúia, allelúia, allelúia.]

Oratio

V. Dóminus vobíscum. – R. Et cum spiritu tuo.

Orémus. Deus, qui fidélium mentes uníus éfficis voluntátis: da pópulis tuis id amáre quod praecipis, id desideráre quod promíttis; ut inter mundánas varietátes ibi nostra fixa sint corda, ubi vera sunt gáudia. [O Dio, che rendi di un sol volere gli ànimi dei fedeli: concedi ai tuoi pòpoli di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti; affinché, in mezzo al fluttuare delle umane vicende, i nostri cuori siano fissi laddove sono le vere gioie.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli. Jac. I:17-21. “Caríssimi: Omne datum óptimum, et omne donum perféctum desúrsum est, descéndens a Patre lúminum, apud quem non est transmutátio nec vicissitúdinis obumbrátio. Voluntárie enim génuit nos verbo veritátis, ut simus inítium áliquod creatúræ ejus. Scitis, fratres mei dilectíssimi. Sit autem omnis homo velox ad audiéndum: tardus autem ad loquéndum et tardus ad iram. Ira enim viri justítiam Dei non operátur. Propter quod abjiciéntes omnem immundítiam et abundántiam malítiæ, in mansuetúdine suscípite ínsitum verbum, quod potest salváre ánimas vestras.” [Caríssimi: Ogni liberalità benéfica e ogni dono perfetto viene dall’alto, scendendo da quel Padre dei lumi in cui non è mutamento, né ombra di vicissitudine. Egli infatti ci generò di sua volontà mediante una parola di verità, affinché noi siamo quali primizie delle sue creature. Questo voi lo sapete, miei cari fratelli. Ogni uomo sia pronto ad ascoltare, lento a parlare e lento all’ira. Poiché l’uomo iracondo non fa quel che è giusto davanti a Dio. Per la qual cosa, rigettando ogni immondezza e ogni resto di malizia, abbracciate con animo mansueto la parola innestata in voi, la quale può salvare le vostre ànime.] R. Deo gratias.

DOMENICA IV. DOPO PASQUA

[mons. Bonomelli, Omelie – vol. II; Torino 1899, impr.]

Omelia XXI.

 “Ogni buon dono ed ogni perfetto presente viene dall’alto, discendendo dal Padre dei lumi, presso il quale non vi è mutamento, od ombra di vicende. Egli di sua volontà ci ha generati colla parola di verità, affinché in certo modo fossimo la primizie dell’opera sua. Intendetelo bene, fratelli miei diletti. Ognuno sia pronto ad udire, tardo al parlare, lento all’ira. Perché l’ira dell’uomo non fa quello che è giusto dinanzi a Dio. Perciò smessa ogni bruttura e malvagità, accogliete docilmente la parola seminata in voi, la quale può salvare le anime vostre „ (S. Giacomo, I; 17-21).Queste poche sentenze leggiamo nella Messa odierna e si trovano nella epistola di S. Giacomo. Se non erro, è questa la prima volta che mi accade di dover togliere a soggetto dell’omelia un tratto di questa lettera. Essa, come si legge a principio, fu scritta da S. Giacomo apostolo. Son due gli apostoli di questo nome; il primo, detto il Maggiore, fratello di Giovanni e figliuolo di Zebedeo, ed uno dei tre prediletti da Cristo. Questi fu messo a morte da Erode Agrippa, dieci anni dopo l’Ascensione di nostro Signore, l’anno 42 dell’era nostra. L’altro, detto il Minore, forse per ragione dell’età, figliuolo di Alfeo o Cleofa e di Maria, sorella o cugina della Vergine, e perciò detto fratello di Cristo, ossia cugino. Visse sempre in Gerusalemme, ne fu il primo vescovo, venerato per la sua santità anche dai Giudei, ebbe la corona del martirio l’anno 62 dell’era nostra, ad istigazione del pontefice Anano, otto anni prima dello sterminio di Gerusalemme. La lettera è di questo apostolo e fu indirizzata, non molto prima della sua morte, a tutti i Giudei convertiti e sparsi in varie provincie. Il suo scopo è tutto pratico e morale e riflette mirabilmente il fare degli Evangeli e mostra la perfetta opposizione, che esiste tra Dio ed il mondo, l’amore dell’uno e dell’altro. Sembra anche, per avviso di alcuni autorevoli interpreti, che S. Giacomo si proponesse in questa lettera di correggere l’abuso, che per molti si faceva della lettera di S. Paolo ai Romani. Interpretando male quella lettera, essi dicevano, che la sola fede bastava a salute senza le opere, mentre san Paolo aveva insegnato soltanto che nessuno, né Giudeo, né Gentile poteva colle opere meritare il dono della fede. S. Giacomo stabilisce che la fede senza le opere è morta, e che queste sono necessarie a salvezza. Premesse queste comuni e non inutili avvertenze, io tolgo a chiosare i cinque versetti, che or ora ho voltato nella nostra lingua.«Ogni buon dono ed ogni perfetto presente, viene dall’alto, discendendo dal Padre dei lumi. „ Nei versetti che precedono, san Giacomo parla della concupiscenza e del peccato, che ne è il figlio e che genera la morte dell’anima. Ecco il mondo e l’opera del mondo: a questa l’apostolo contrappone il dono e l’opera di Dio, che produce la vita, e dice: “Ogni dono, ogni grazia perfetta non viene dal basso, dalla terra, ma discende dall’alto, discende da Dio, Padre e fonte d’ogni lume e d’ogni verità. „ Vi è un doppio ordine di beni o doni, che vengono da Dio: i beni dell’ordine naturale, che sono la vita, la ragione, la libertà e tutto ciò che conserva la vita e svolge le sue forze o facoltà: i beni dell’ordine sopranaturale, che sono la grazia, la fede e andate dicendo. Di quali doni scrive qui S. Giacomo? Di tutti, io credo, perché tutti provengono da Dio, ma certamente intende parlare dei sovranaturali in particolar modo, perché più eccellenti, e di questi soli ragiona nel versetto che segue. Miei cari! come i raggi della luce emanano dal sole e con essi il calore, che avviva ogni cosa sulla terra, così tutti i beni sgorgano da Dio, ed incessantemente si spargono sulle anime per fecondarle, abbellirle e santificarle. Tutti i beni derivano da Dio! Ma forse, donando continuamente a tutti, Dio si muta? Forse perde alcun che dell’essere suo? Porse passa sopra di Lui un’ombra sola d’imperfezione? No, mai. Egli dà sempre e nulla perde opera sempre e non si muta, tutto muove e non si muove. Egli è come la verità: essa è sempre la stessa: conosciuta da milioni di intelligenze in vari modi e applicata in tutte le forme, è sempre la stessa in tutti i luoghi ed in tutti i secoli passati, presenti e futuri. In cielo, in terra, corpi e spiriti, intelligenze e volontà acquistano o perdono, risplendono, si eclissano e si mutano, Dio solo è immutabile. « Presso di lui, grida S. Giacomo, non vi è mutamento, non ombra di vicende. „ A noi torna difficile concepire come Dio operi sempre e disponga ogni cosa, eppure non si muti. Io vi presenterò un fatto naturale, certissimo, che ci aiuterà a concepire l’immutabilità e la continua azione di Dio. Voi sapete che la terra e gli astri tutti del nostro sistema si muovono intorno al sole. Chi li muove incessantemente? Il sole colla forza, che dicono di attrazione. E il sole è immobile nel loro centro: esso tutti li muove in ogni istante e li illumina e li riscalda sempre egualmente, ed essi si muovono sempre e sempre sono illuminati e riscaldati variamente secondo i vari punti, in cui si trovano. Così Dio è immutabile in sé e muta le cose tutte. Non comprendete il mistero? Spiegatemi come il sole immutabile nel centro muti gli astri tutti, ed io vi spiegherò come Dio immutabile nella sua natura possa mutare le cose. S. Giacomo ha detto in genere, che Dio è fonte d’ogni dono, d’ogni grazia perfetta: ora passa a menzionarne una principalissima, che ne comprende molte altre. Udite: ” Dio, così Egli, di sua volontà, ci generò colla parola di verità. „ Dio Padre, della sua stessa sostanza, da tutta l’eternità genera il Figliuol suo in ogni cosa a sé eguale: questo Figliuolo, unico come unico è il Padre, è l’immagine perfetta e sostanziale di Colui che lo genera, è l’oggetto delle eterne sue compiacenze, lo specchio, in cui contempla se stesso e si bea e si letizia. Ma piacque a Dio formarsi altri figli fuori di sè, che fossero l’immagine del Figliuol suo, che in qualche modo crescessero e rispecchiassero le sue infinite perfezioni: tra questi figli di Dio, dopo gli angeli, sono gli uomini. – E come forma di noi, poveri uomini, suoi figli? Forse ci genera della sua sostanza, come l’eterno Figliuol suo? No, sarebbe empietà il dirlo e cosa impossibile: noi siamo creati dal nulla, e chi è creato dal nulla non può essere eguale a Dio. Come dunque? Dio ci fa suoi figliuoli, non per generazione naturale, ma per adozione. Che cosa è questa adozione ? E forse come quella che avviene tra gli uomini? No: l’adozione, che avviene tra gli uomini non mette nulla del padre adottante nel figlio adottato, doveché l’adozione divina mette in noi una forza, una qualità, un elemento divino. – Spieghiamoci meglio. Un pittore ritrae sulla tela una figura, uno scultore effigia sul marmo una statua: che fanno essi? Imprimono sulla tela o nel marmo una immagine: quella immagine donde la traggono? Certamente dalla loro mente, dalla loro anima. Quella immagine, pur rimanendo nella mente e nell’anima del pittore e dello scultore, si è impressa e stampata nella figura e nella statua e forma con essa una cosa sola ed è divenuta l’immagine esterna dell’immagine interna dell’artista, ed in qualche senso si può dire che la figura e la statua sono figlie dell’artista stesso e si chiamano parto del suo genio. Meglio ancora, o carissimi: un maestro ha intorno a sé una bella corona di figliuoli, che l’ascoltano: il maestro li istruisce a poco a poco. Non è egli vero, che il maestro, istruendo quei figliuoli, piglia le cose o verità, che insegna, e mediante la parola, le viene acconciamente travasando dalla propria nella loro tenera intelligenza, senza che egli nulla ne perda? Non è egli vero, che il maestro in tal modo viene ritraendo se stesso nei discepoli, e ponendo in loro ciò che ha di più proprio in sé, cioè le sue idee, la sua mente? Non è egli vero, che in quei fanciulli il maestro ritrarrà se stesso ed essi saranno sue immagini più o meno fedeli e formeranno la sua gioia, la sua gloria? Non è egli vero che quei fanciulli in qualche senso si potranno dire del maestro, perché nello spirito formati a sua immagine? Ciò è sì vero, che i nomi di maestro e di discepolo, di padre e di figlio si scambiano, perché, se non eguali, sono somigliantissimi. – Voi ora potete alcun poco intendere la nostra adozione in figli di Dio, accennata da san Giacomo. Dio ci adotta come figli, ma non mai come un padre adotta un figlio qualunque senza comunicargli nulla del proprio: Dio fa come e più assai del pittore, dello scultore con i lavori delle loro mani, del maestro con i suoi scolari: colla parola comunica alle anime nostre le eterne verità, che emanano da Lui e le stampa in esse per modo che vi restano e diventano la loro forma. Non è tutto: Dio versa nelle anime nostre la sua grazia, specialmente coi Sacramenti: essa le penetra, le investe, come l’acqua, come il calore penetrano i corpi, e le viene trasformando mirabilmente. Come sotto la mano dell’artista la figura e la statua acquistano a poco a poco la forma da lui vagheggiata, e sotto la parola e l’azione del maestro i fanciulli acquistano la fisionomia intellettuale e morale da lui voluta, così sotto la luce della verità evangelica, annunziata dalla Chiesa, e sotto l’azione della grazia interna, che Dio largisce in tanti modi, l’anima riceve l’immagine, i lineamenti di Gesù Cristo medesimo, divien simile a Lui, e si dice ed è figlio di Dio: “Ut filii Dei nominemur et simus”. – Questa adozione, generazione o rigenerazione, che Dio opera in noi, è il capolavoro della sua sapienza, è la sua gloria più bella fuori di sé, e qui S. Giacomo la chiama volontaria — “Voluntarie genuit nos verbo veritatis”,— per distinguerla dalla naturale, necessaria ed eterna, colla quale Dio Padre produce il suo Figliuolo unigenito. La nostra adozione in figli di Dio è dono della bontà sua, tutto suo dono, giacche a tanto onore non aveva diritto di sorta la nostra natura, né potevamo avere ombra di merito. È dunque nostro dovere riconoscere l’alto beneficio ricevuto, ringraziare Iddio e mostrare la nostra gratitudine colla più fedele corrispondenza. Dio, colla predicazione evangelica, ci ha chiamati alla dignità di suoi figliuoli, ed in tal modo, continua S. Giacomo, ci ha fatto l’onore insigne d’essere la primizie dell’opera sua, cioè della sua Chiesa: “Ut simus initium aliquod creatura ejus”. Tutte le cose che esistono in cielo ed in terra sono opere della mano di Dio, perché d’ogni cosa egli è Creatore; ma quelle creature si dicono specialmente sue, nelle quali più bella e più perfetta riluce la sua immagine e somiglianza: tali sono in cielo gli angeli e sulla terra gli uomini, che mercé il Battesimo fanno parte dell’ovile, della famiglia di Gesù Cristo, che è la Chiesa. Questa è la sposa di Gesù Cristo, che Gli genera i suoi figli, ed è l’opera sua per eccellenza. I Cristiani, ai quali S. Giacomo scriveva, erano entrati pei primi in questa Chiesa, primi de’ suoi figli, e perciò meritamente si dicono principio o primizie della sua conquista. Seguitiamo il commento. “Intendetelo bene, o fratelli diletti.„ Con queste parole l’apostolo richiama l’attenzione dei suoi lettori, e fa conoscere che la cosa che vuol dire, è di grande importanza, e lo è veramente nella vita pratica. Sopra, nel quinto versetto di questo capo, S. Giacomo esorta i Cristiani a far acquisto della verace sapienza coll’esercizio della preghiera e della pazienza nelle tentazioni: e qui passa, se ben vedo, a dare tre ammonimenti, che valgono non poco a far tesoro della sapienza: “Ogni uomo sia pronto ad udire, tardo a parlare e lento all’ira. „ Il mezzo più spedito e sicuro per apprendere qualunque scienza e la scienza stessa delle cose divine, egli è di ascoltare quelli che la insegnano. Senza dubbio il leggere i libri che ne trattano, o il meditare da sé le cose, sono mezzi utilissimi per apprendere; ma non tutti hanno tempo, ingegno e volontà ferma per studiare sui libri e meditare da sé e giungere con sicurezza e presto per queste vie al conoscimento della verità, mentrechè tutti possono ascoltare chi le annunzia e impararle con facilità e senza pericolo di errare. Gesù Cristo volendo ammaestrare tutti gli uomini nelle verità della fede non disse agli apostoli ed ai discepoli: Andate, scrivete, dettate libri, ma disse: Andate, predicate, ammaestrate! — E S. Paolo ci fa sapere che la fede viene dall’udito, cioè dalla parola predicata. E questo il mezzo per eccellenza che genera e nutre la fede nelle anime nostre, la parola di Dio. Sia dunque ognuno di voi pronto ad udire quelli che per ufficio vi ammaestrano. La scuola delle verità celesti è sempre aperta a tutti, ed è questa Chiesa; noi, che abbiamo il dovere di annunziarle, faremo del nostro meglio per adempirlo, e voi venite sempre e prontamente ad udirle. Che se dobbiamo essere pronti ad udire, secondo l’apostolo, dobbiamo essere tardi a parlare. — Perché questa differenza tra l’udire e il parlare? Perché coll’udire riceviamo la verità, col parlare la partecipiamo altrui, e prima di comunicare ad altri ciò che abbiamo appreso, si richiede che lo meditiamo attentamente, ed il conoscimento della nostra miseria ci persuade a preferire d’essere discepoli anziché farci maestri, come di sé scriveva sant’Agostino: “Io amo piuttosto imparare che insegnare — Ego plus amo discere quam ducere (Qæest. ad Ducitium). Di Maria non si legge che mai insegnasse se non coll’esempio, e si dice per contrario che ascoltava le parole di Gesù e le meditava in cuor suo: “Conservabat omnia verba hæc in corde suo” (Luca II, 51). Che più? Gesù, che venne per ammaestrarci, tacque fino ai trent’anni, e parlò solo per tre anni. La stessa natura, avverte S. Basilio, fa che dobbiamo essere pronti più ad udire che a parlare, perché se ci ha dato due orecchi, non ci ha dato che una sola lingua (De Verginitate.), e il molto favellare non è senza, colpa, è indizio d’animo leggero e stolto (Multum loqui stultitia est. S. Bernardus, De Interiori domo, c. 50), e recherà danno a se stesso. “Ognuno sia lento all’ira.„ Forse questa espressione si deve collegare colla antecedente in questa forma: Se vuol essere lento all’ira sia tardo a parlare —, e il senso è buono, perché generalmente è la lingua, come più innanzi dice ancora S. Giacomo, come una scintilla che appicca l’incendio, che è fonte funesta d’ogni male, che sparge un veleno mortifero. Ma questa sentenza si può pigliare anche separatamente, e in tal caso essa suppone che talvolta si possa secondare anche l’ira, volendo soltanto l’apostolo che siamo lenti, onde sta scritto: Sdegnatevi, ma non peccate —, cioè sdegnatevi contro il male, ma in guisa che non pecchiate, conservando sempre il pieno dominio sopra di voi stessi. S. Tommaso spiega assai bene questo luogo. Conviene distinguere, secondo il santo dottore, ira da ira. V’è un’ira, che previene la ragione, che spinge ad operare senza riflettere, seguendo la passione, e questa è riprovevole, perché operare senza la guida della ragione non è da uomo, ma da bruto; ma vi è un’ira, che è voluta, che è quasi un aiuto della ragione per operare, ne accresce le forze, e questa è buona; nobile è la santa indignazione, che proviamo alla vista del delitto, è lo zelo dei profeti, degli uomini di Dio, è quella ch’ebbe Cristo medesimo, del quale si dice nel Vangelo, che un giorno, vedendo la perfidia dei Farisei, li guardò con ira: “Circumspexit eos cum ira” (S. Thom. p. 3, q. 15, a. 9). Non sia mai, o dilettissimi. che noi ci lasciamo strappare di mano le redini della ragione e ci rendiamo schiavi neppure per un istante della brutta passione, che è l’ira. Essa stia sempre ai cenni della ragione e a lei non comandi, ma obbedisca, come il destriero ubbidisce al cavaliere. L’uomo, dice lo Spirito Santo, che raffrena l’ira, è più grande del conquistatore, perché vince se stesso.“Il perché, smessa ogni bruttura e malvagità, accogliete docilmente la parola seminata, in voi, la quale può salvare le anime vostre: „ è questa l’ultima sentenza della nostra epistola. Dopo avere esortato i fedeli a stare in guardia contro l’ira, S. Giacomo li esorta in genere a sbandire da sé qualunque passione, la gola, la lussuria, l’avarizia, l’invidia, comprese tutte in quella parola “ogni bruttura, omnem immundìtiam, ogni malvagità, che ribocca, et abundantìam malitiæ.„ E mondato il cuore, nettata l’anima di quelle sozzure, che devono essi fare? Allorché un vaso è purgato d’ogni feccia, lo si può riempire d’ogni liquore che sia buono: così devesi fare del vaso del nostro cuore. Purificato da tutte le immondezze dei peccato e delle passioni che lo insozzavano, con docilità di spirito e con amore, riceviamo e custodiamo in esso la verità e la grazie che sole possono salvare le anime nostre. La mente sia vuota dell’errore e ripiena di verità: il cuore sia sgombro d’ogni affetto sregolato, e come una coppa d’oro vi accolga il preziosissimo liquore dell’amore divino.

Alleluja Allelúja, allelúja Ps CXVII:16. Déxtera Dómini fecit virtútem: déxtera Dómini exaltávit me. Allelúja [La destra del Signore operò grandi cose: la destra del Signore mi ha esaltato. Allelúia.] Rom VI:9 Christus resúrgens ex mórtuis jam non móritur: mors illi ultra non dominábitur. Allelúja. [Cristo, risorto da morte, non muore più: la morte non ha più potere su di Lui. Allelúia]

Evangelium

Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen. Jube, Dómine, benedícere. Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen. V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem. R. Gloria tibi, Domine! Joannes XVI:5-14 In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Vado ad eum, qui misit me: et nemo ex vobis intérrogat me: Quo vadis? Sed quia hæc locútus sum vobis, tristítia implévit cor vestrum. Sed ego veritátem dico vobis: expédit vobis, ut ego vadam: si enim non abíero, Paráclitus non véniet ad vos: si autem abíero, mittam eum ad vos. Et cum vénerit ille. árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício. De peccáto quidem, quia non credidérunt in me: de justítia vero, quia ad Patrem vado, et jam non vidébitis me: de judício autem, quia princeps hujus mundi jam judicátus est. Adhuc multa hábeo vobis dícere: sed non potéstis portáre modo. Cum autem vénerit ille Spíritus veritátis, docébit vos omnem veritátem. Non enim loquétur a semetípso: sed quæcúmque áudiet, loquétur, et quæ ventúra sunt, annuntiábit vobis. Ille me clarificábit: quia de meo accípiet et annuntiábit vobis. [In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: Vado a Colui che mi ha mandato, e nessuno di voi mi domanda: Dove vai? Ma perché vi ho dette queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore. Ma io vi dico il vero: è necessario per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito, ma quando me ne sarò andato ve lo manderò. E venendo, Egli convincerà il mondo riguardo al peccato, riguardo alla giustizia e riguardo al giudizio. Riguardo al peccato, perché non credono in me; riguardo alla giustizia, perché io vado al Padre e non mi vedrete più; riguardo al giudizio, perché il príncipe di questo mondo è già condannato. Molte cose ho ancora da dirvi: ma adesso non ne siete capaci. Venuto però lo Spirito di verità, vi insegnerà tutte le verità. Egli infatti non vi parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito: vi annunzierà quello che ha da venire, e mi glorificherà, perché vi annunzierà ciò che riceverà da me.] R. Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Omelia della domenica IV dopo Pasqua

[Del canonico G. B. Musso- Seconda edizione napolitana Vol. II -1851-]

-Dio principio e fine-

“Vado ad eum qui misit me”. Sono queste le parole colle quali il Divin Redentore prese congedo dai suoi discepoli, come ci narra S. Giovanni nell’odierno sacrosanto Vangelo. “Miei cari, più poco mi resta da star con voi, venni al mondo mandato dal Padre mio, ora men vado a Lui che mi mandò, “vado ad eum, qui misit me”.

Oh se queste divine parole potessimo noi ripetere appropriate a noi stessi, in giusto senso di verità! Felici noi. “Io men vado a Colui che mi mandò: Dio è il mio principio, Dio è il mio ultimo fine, da Lui vengo, a Lui mi porto; da Lui vengo come mia prima cagione, mi porto a Lui come mio centro; da Lui vengo per via di creazione, a Lui mi porto per la via dei suoi comandamenti”. Felici noi, lo ripeto, poiché saremo beati nel tempo e nell’eternità. Su questo pensiero io mi fermo, e per animarvi ad apprezzarlo colla mente, e a secondarlo coll’opera, passo a dimostrarvi che Dio è nostro principio, che Dio è nostro ultimo fine, e che nella cognizione di questo principio, e nel condurci direttamente a questo fine, consiste la nostra temporale ed eterna felicità. Di quanto peso sia l’argomento, e quanto debba impegnare e la vostra attenzione, e il mio e vostro interesse, voi lo conoscete, discreti ascoltanti. Diam principio.

.I. Ego sum alpha, et omega … principium et finis” (Apoc. XXII. 13). Così definisce se stesso il grande Iddio nel divino Apocalisse. Io sono di tutte le cose il principio, di tutte le cose il fine. A comprendere come Dio è nostro principio, ponderate questa proposizione. L’uomo non dà l’essere a se medesimo, perciocché dar l’essere a se medesimo involge contraddizione. Se l’uomo ha dato l’essere a se stesso, dunque esisteva, qual necessità di darsi 1’essere? Se poi non esisteva, come fece a darsi l’esistenza? Esisteva adunque al tempo stesso e non esisteva, era e non era, contraddizione manifesta, assurdo madornale, riprovata dal senso comune. Or se 1’uomo non può dare a sé l’esistenza, io domando, da chi egli mai 1’ebbe? Ascendiamo di generazione in generazione, e arriveremo a quel primo uomo da cui cominciò l’umana natura, cioè ad Adamo. Onde se voi mi dite che il primo uomo ebbe per padre un altro Adamo, io vi domando, e quest’altro Adamo da voi immaginato da chi ha avuto principio? Da un terzo, e questi da un quarto, e poi da un quinto, da un centesimo Adamo, e così fino all’infinito; ma questo progredire in infinito è una chimera fantastica, contraria al buon senso ed alla naturale ragione; perciocché convien ridursi a un punto fisso, ad un principio determinato. Questo punto, questo principio è il primo uomo; ma abbiamo veduto che quest’uomo da se stesso non si poté dar l’essere, dunque dovette averlo da una causa preesistente, da un principio eterno, indipendente, necessario, infinito, e questo è Dio. – Intelligenti delle cifre aritmetiche, ditemi se si può dare un numero che necessariamente non presupponga, che necessariamente non parta dal primo numero, qual è l’unità. Qualunque piccolo o grande numero necessariamente è basato sull’unità, come suo principio e fondamento; così che dall’unità comincia, e nell’unità con passo retrogrado conviene che ritorni e si fermi. Non altrimenti tutte le creature necessariamente suppongono una prima causa, un principio, da cui derivano, senza del quale non solo non sarebbero esistenti, ma né pur sarebbero possibili. Questa causa, questo principio è Dio, che da se stesso esiste, che “ab eterno” esiste, che necessariamente esiste, tolto il quale non v’è più creatura esistente, né possibilità di alcuna esistenza. – E perché di questo Dio, dite voi, non abbiamo un’idea chiara e adeguata? E di molte cose sensibili e naturali possiamo aver noi una chiara ed adeguata idea? Chi mi spiega la forza del moto, l’origine de’ venti, il modo onde l’anima è unita al corpo, e come il corpo materiale agisca sull’anima, e questa per mezzo degli organi corporei provi sensazioni or piacevoli, or dolorose, ed acquisti le necessarie nozioni a esulare i suoi moti, i suoi pensieri, i suoi voleri? Chi mi spiega la natura della luce così meravigliosa nella sua velocità, così meravigliosa nei suoi cambiamenti? Conosciamo noi la natura dell’aria, di questo fluido così terribile ne’ suoi fenomeni? Conosciamo l’essenza del fuoco così formidabile nei suoi effetti? Sudano i filosofi nello spiegare queste ed altre meraviglie che offre ai nostri sguardi la natura, ma un sistema di perfetto convincimento resta ancora a vedersi. Se dunque non possiamo penetrare nei segreti dell’ordine naturale, se di queste fisiche cose, delle quali abbiamo vista, tatto ed esperienza, non siamo capaci a formarci un’idea che sia compiuta, quale presunzione sarà la nostra pretendere idee e cognizioni perfette nell’ordine soprannaturale? Uomo meschino, non può fissar gli occhi in faccia al sole, e presume fissarli in volto a Dio? Sarebbe più facile racchiudere l’oceano in un vaselletto, che avere una idea adeguata di Dio; che tra un vaselletto e l’oceano vi à certa proporzione, tra noi e Dio v’è una infinita distanza. A finirla, se di Dio potessimo avere una compiuta idea, una delle due: o Dio cesserebbe d’essere Dio, o l’uomo sarebbe un altro Dio. – Basta che di Dio possiamo avere, come abbiamo di fatto, una cognizione, un’idea proporzionata alla limitata nostra capacità, un’idea giusta, veritiera secondo la retta ragione, e, senza paragone di più, secondo i lumi della rivelazione e della fede. E quale idea più elevata e più sublime di quella che Dio medesimo ci diede della sua esistenza? “Ego sum, qui sum” [Esod. III, 14] disse a Mosè dal misterioso roveto. Io sono quel che sono, vale a dire l’essere per essenza, la pienezza dell’essere, il principio di ogni essere, l’unico e solo che esiste per sua propria natura, ed ogni altro essere non si può dire che esista, mentre da Lui dipende e nella sua origine, e nella sua conservazione, così che tolta una, cessata l’altra, cessa la sua esistenza. – Ecco, o fedeli, la Causa prima, unica, eterna da cui discendiamo. Siam creature d’uno Dio, che colla sua onnipotenza ci trasse dal nulla.Unus est altissimus creator omnipotens[Eccl. I, 8]. Egli è d’ogni cosa il principio, e d’ogni cosa termine e fine. “Principium et finis, primus et novissimus. In questa cognizione ammessa e tenuta per fede, dice lo scrittore del libro della Sapienza, sta la nostra giustificazione. “Nosse te consummata iustitia est[Sap. 15, 3]. Ma questa cognizione esser non dee di puro intelletto, sterile, inefficace, ma una cognizione che muova la volontà, che ci porti a Dio per la via della giustizia, per la strada de’ suoi comandamenti, se vogliamo essere felici nel tempo e nell’eternità.

.II. Il cuore dell’uomo per naturale necessaria pendenza è portato a cercare la propria felicità; onde come l’ acqua corre al declive, come la pietra tende al centro, per simil modo il cuore dell’uomo è sempre in moto, e sempre in cerca d’un bene, ove crede trovare la sua pace, il riposo, la sua felicità. Questa quiete, questa felicità non può trovarsi che in Dio sommo ed unico bene; ma siccome la bontà, come parlano i teologi, è di se stessa diffusiva, così Iddio, Fonte inesausto d’ogni bene sparge varie stille di bene nelle sue creature, in alcune la bellezza, in altre il gusto, in queste il comodo, in quelle il vantaggio; così l’uomo, allettato da queste stille, abbandona sovente il fonte da cui derivano, quel fonte che solo può spegnere la sete dell’uman cuore, che è Dio, fonte d’acqua viva che sale in vita eterna. Avviene allora, all’uomo ingannato, d’incontrare la mala sorte d’una incauta farfalla, che si aggira intorno al lume sedotta dal suo splendore; uomo deluso, dice lo Spirito Santo, simile ai pesci ingannati dall’esca lusinghiera, simile agli augelletti allettati dal pascolo insidiosamente esposto dal cacciatore. – Convien distinguersi. Il nostro cuore è fatto per Dio; se fuor di Dio cerca il suo bene, in pratica resterà convinto che lo cerca dove non è, o che è un bene d’apparenza ingannevole, che non può fare il cuor contento, anzi il più delle volte un bene avvelenato, che affligge l’animo, e cagiona la morte. – Chi più d’un Salomone gustò i piaceri di questa vita, le delizie di questa terra? In quarant’anni di regno pacifico accumulò ricchezze immense, oltre le ereditate del suo padre Davide. La sua sapienza fu superiore a tutti i saggi del mondo che erano e che saranno; fu in altissima stima presso tutt’i popoli nazionali e stranieri, e nel colmo degli onori, e nell’apice della grandezza non negò a’ suoi sensi alcun piacere, né sfogo alcuno alle sue passioni. Lo confessò egli stesso: “Omnia quae desideraverunt oculi mei non negavi eis, nec prohibui cor meum, quin omni voluptate frueretur(Eccl. II, 10) . Questo grand’uomo dunque, questo gran re sarà arrivato al sommo grado della felicità, sarà stato pienamente, perfettamente contento. Per chiarircene, andiamo a trovarlo nel regio suo gabinetto. Osservate com’è tutto occupato da torbidi pensieri, come serio nel volto, come inquieto nell’animo, udite ciò che pronunzia: “La vita mi è di tedio e di peso”, tædet me vitæ meæ (Eccl. II, 17). Leggete ciò che scrive delle sue grandezze e dei suoi goduti piaceri, “vanitas vanitatum, universa vanitas et afflictio spiritus(Eccl. I, 14), tutto è vanità, non basta, è vanità di vanità, non basta ancora, è afflizione di spirito. – Cosi è, così sarà; un cuore che non è con Dio è fuori dell’ ordine da Dio stabilito, e un pesce fuor dell’acqua, e un osso fuor della propria giuntura, in istato di penosa violenza. Signore, il nostro cuore l’avete fatto per voi, e sarà sempre inquieto finché in Voi non riposi. Fecisti nos, Domine, ad te, et irrequietum est cor nostrum donec requiescat in te.” Lasciò scritta questa grave sentenza l’ingegno più acuto che vanti la Chiesa, un uomo, che, oltre l’impareggiabile talento, ebbe trentatré anni di esperienza: Desso è S. Agostino, che passò di accademia in accademia, di setta in setta per trovare la verità che lo convincesse, passò di piacere in piacere, lecito illecito, per trovare la pace del proprio cuore, ma vane furono le sue ricerche; finalmente e la verità e la pace trovò in abbracciare la fede di Gesù Cristo che è la via, la verità e la vita, via a conseguire la pace, verità a mantenerla, vita a goderne nel tempo e nell’eternità. – Questa pace, che cercano e trovano in Dio le anime giuste, oltr’esser la vera, essa anche è stabile permanente; perciocché, soggiunge il citato Agostino, siccome ha per oggetto un bene immutabile qual è Dio, così non è soggetta a disgustose vicissitudini. Chi ripone il suo contento in qualche bene di terra, al mancare questo convien che cessi ancor quello, ma chi lo mette in Dio, essendo eterno l’oggetto, sarà invariabile il suo godimento. “Vir habere gaudium sempiternum? Adhære illi, qui sempiternus est.” Ripetiamolo ancor una volta, “fecisti nos, Domine ad te”. Il nostro cuore è fatto per Dio, fatto per godere Dio, e perciò niun bene creato può appagarlo. Che mai sono i beni dì quaggiù? Onori, ricchezze, piaceri, ma gli onori son fumo, le ricchezze son terra, i piaceri son fango. Come dunque volete che l’anima nostra, nobilissimo spirito, fatto ad immagine di Dio, nel pascersi di fumo, di terra, di fango, trovi la propria felicità? – Me ne appello alla vostra esperienza. Quanto vi costa un piacere proibito, un’illecita soddisfazione; quanto vi tiranneggia una malnata passione; quante gelosie, quanti sospetti, quanti timori che non si scopra quell’amicizia, che non venga alla luce quel furto, quel delitto, quel fallo ignominioso? Se voi trovate la pace e la felicità nel peccato, e perché temete che il vostro peccato si sveli? Perché cercate le tenebre, perché raccomandate il segreto, perche vi copre di confusione il solo spavento che giunga all’altrui notizia? Accordate la pace del vostro cuore con tante apprensioni, con tanti timori, con tanti palpiti, con tanti affanni. Eh via che per i malvagi non v’è pace, non vi sarà mai pace, non può esservi pace. Lo dice Colui che ha fatto il cuore di tutti, lo dice Colui che vede il cuore in seno a tutti, lo dice Iddio: “Non est pax impiis, dicit Dominus Deus” (Isaia LVII, 21). – Conchiudiamo, miei cari. Se vogliamo esser felici di una felicità cominciata su questa terra e poi consumata e perfetta lassù nel cielo, con vivezza di fede riconosciamo Dio per nostro principio, con purità di cuore portiamoci a Dio come nostro ultimo fine. Viviamo ed operiamo in modo da poter dire in vita: Dio è mio principio, da Lui venni per creazione, e a Lui mi porto per la via de’ suoi precetti “vado ad eum, qui misit me”, e da poter ripetere in morte con dolce e fondata speranza, “vado ad eum qui misit me”.

Credo

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Ps LXV:1-2; LXXXV:16 Jubiláte Deo, univérsa terra, psalmum dícite nómini ejus: veníte et audíte, et narrábo vobis, omnes qui timétis Deum, quanta fecit Dóminus ánimæ meæ, allelúja. [Acclama a Dio, o terra tutta, canta un inno al suo nome: venite e ascoltate, tutti voi che temete Iddio, e vi narrerò quanto il Signore ha fatto all’anima mia, allelúia.]

Secreta

Deus, qui nos, per hujus sacrificii veneránda commércia, uníus summæ divinitátis partícipes effecísti: præsta, quaesumus; ut, sicut tuam cognóscimus veritátem, sic eam dignis móribus assequámur. [O Dio, che per mezzo degli scambi venerandi di questo sacrificio ci rendesti partecipi dell’unica somma divinità: concedici, Te ne preghiamo, che come conosciamo la tua verità, così la conseguiamo mediante una buona condotta.]

Communio

Joann XVI:8 Cum vénerit Paráclitus Spíritus veritátis, ille árguet mundum de peccáto et de justítia et de judício, allelúja, allelúja. [Quando verrà il Paràclito, Spirito di verità, convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio, allelúia, allelúia.]

Postcommunio

S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Adésto nobis, Dómine, Deus noster: ut per hæc, quæ fidéliter súmpsimus, et purgémur a vítiis et a perículis ómnibus eruámur. [Concédici, o Signore Dio nostro, che mediante questi misteri fedelmente ricevuti, siamo purificati dai nostri peccati e liberati da ogni pericolo.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.