IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (27)

CATECHISMO CATTOLICO A CURA DEL CARDINAL PIETRO GASPARRI (27)

PRIMA VERSIONE ITALIANA APPROVATA DALL’AUTORE 1932 COI TIPI DELLA SOC. ED. (LA SCUOLA) BRESCIA

Brixiæ, die 15 octobris 1931.

IMPRIMATUR

+ AEM. BONGIORNI, Vic. Gen

TESTIMONIANZE DEI CONCILI ECUMENICI DEI ROMANI PONTEFICI, DEI SANTI PADRI E DELLE SACRE CONGREGAZIONI ROMANE CHE SI CITANO NEL CATECHISMO

DOMANDA 469°

Concilio di Lione (1274), Professio fidei Michaelis Paleologi:

« La medesima Santa Chiesa Romana crede inoltre ed insegna che son sette i Sacramenti della Chiesa…. un altro l’Estrema Unzione, che, secondo la dottrina del beato Giacomo, si amministra agl’infermi ».

(Mansi, XXIV, 70).

Concilio di Firenze, Decretum prò Armenis:

« Il quinto Sacramento è l’Estrema Unzione, materia del quale è l’olio d’oliva benedetto dal Vescovo. Questo Sacramento non si deve dare che all’infermo, di cui si teme la morte: e l’infermo si deve ungere sugli occhi per la vista, sulle orecchie per l’udito, sulle narici per l’odorato, sulla bocca per il gusto o la parola, sulla mani per il tatto, sui piedi per i passi, sulle reni per il diletto che lì ha sede. Ecco la forma di questo Sacramento: Per questa santa unzione e la sua pietosissima misericordia il Signore ti perdoni tutto ciò che per la vista etc. E similmente sulle altre membra. Ministro di questo Sacramento è il sacerdote; e l’effetto è la salute dell’anima e, in quanto è giovevole, anche del corpo. Dice di questo Sacramento l’Apostolo Giacomo: S’ammala alcuno di voi? Chiami i preti della Chiesa perché preghino per lui ungendolo coll’olio nel nome del Signore; e la preghiera salverà l’infermo e il Signore lo consolerà; e, se è in peccato, gli sarà rimesso.

(Giac, V, 14 ss.).

(Mansi, XXXI, 1058).

Concilio di Trento, Sess. XIV. Dottrina dell’Estrema Unzione, cap. 1:

« Ora questa sacra Unzione degli’infermi fu istituita come vero e proprio Sacramento, da Cristo nostro Signore; e ve n’è cenno già in Marco; Giacomo poi, Apostolo e fratello del Signore, lo raccomanda e promulga ai fedeli, dicendo: S’ammala alcuno tra voi? Mandi a chiamare i sacerdoti della Chiesa affinché preghino per lui nel nome del Signore; e la preghiera salverà l’infermo e il Signore lo consolerà; e. se è in peccato, gli sarà rimesso. (Giac, V, 14 ss.). la Chiesa con queste parole, come per tradizione apostolica imparò, insegna la  materia, la forma, il ministro competente e l’effetti di questo salutare Sacramento, intendendo che materia è l’olio benedetto dal Vescovo (difatti l’unzione significa benissimo la grazia dello Spirito Santo, da cui è invisibilmente imbalsamata l’anima dell’infermo); forma son poi quelle parole: per questa unzione, etc. ».

Innocenzo III, Epist. Eius exemplo 18 dic. 1208, Professione di fede ai Valdesi:

« Veneriamo l’unzione degl’infermi coll’olio consacrato ».

(P. L., 215, 1512).

Pio X, Decreto Lamentabili, 3 lug. 1907. Prop. 48 tra le condannate:

« Giacomo nella sua epistola (Giac, V, 14 ss.) non intende promulgare un Sacramento di Cristo, ma raccomandare una pia pratica; e se, in questa pratica vede un veicolo della  grazia, non lo considera nel senso rigoroso dei teologi, che stabilirono la definizione e il numero dei Sacramenti ».

(Acta Apostolicæ Sedis, XL. 473).

Concilio di Trento, Sess. XIV, Dottrina sul sacramento dell’Estrema, Unzione, cap. 2:

« La sostanza e l’effetto di questo Sacramento è dunque spiegato da quelle parole: E la preghiera salverà l’infermo e il Signore lo consolerà; e, se è in peccato, gli sarà rimesso. Infatti questa essenza è la grazia dello Spirito Santo, perché l’unzione sua deterge, se ancora ce n’è, i peccati e le reliquie de’ peccati e consola e conforta l’anima del malato coll’eccitarne la fiducia nella divina misericordia; sicché l’infermo, come più agevolmente sopporta i disturbi e gli affanni della malattia, così resiste più facilmente alle tentazioni del demonio, che insidia al calcagno, e talvolta ottiene la salute del corpo, se conviene a quella dell’anima ».

S. Cesario di Arles, Sermo CCLXV, 3:

« Ogni volta che sopravviene qualche infermità, il malato riceva il corpo e il sangue di Cristo e poi riceva sul suo corpo l’unzione, di modo che s’adempia quel che sta scritto: Cade malato alcuno? etc. (Giac, V, 14, ss.). Riflettete, fratelli, che chi ricorrerà alla Chiesa nella sua infermità, merita di ricuperar la salute del corpo e di ottenere il perdono de’ peccati ».

(P. L., 39, 2238).

DOMANDA 473a.

Concilio di Trento: Vedi D. 470.

DOMANDA 479a.

Concilio II° di Lione (1274), Professio fidei Michaelis Paleologi:

« La medesima Santa Romana Chiesa crede inoltre ed insegna che son sette i Sacramenti della Chiesa…. un altro è il Sacramento dell’Ordine ».

(Mansi, XXIV, 70).

Concilio di Firenze, Decretum prò Armenis:

«Sesto è il Sacramento dell’Ordine: sua materia è ciò per la cui consegna vien conferito l’Ordine: come il Presbiterato si amministra porgendo il pane col vino e la patena col pane; e il Diaconato colla consegna de’ Vangeli; e il Suddiaconato colla consegna del calice vuoto con sopra la patena vuota; e così per gli altri, cioè colla consegna degli oggetti che spettano al loro conferimento. La forma del Sacerdozio è: Ricevi la potestà di offrire il sacrifìcio nella Chiesa per i vìvi e per i morti, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. E così è delle forme degli altri ordini, com’è detto largamente nel Pontificale Romano. Ministro ordinario di questo Sacramento è il Vescovo. Effetto è l’accrescimento di grazia sicché uno sia idoneo ministro ».

(Mansi, XXXI, 1058).

Concilio di Trento, Sess. XXIII, Del Sacramento dell’Ordine, can. 3:

« Chi afferma che l’Ordine, o la sacra Ordinazione non è vero e proprio Sacramento istituito da Cristo Signore, o che è un’invenzione umana di uomini malpratici di cose di Chiesa, e solamente un rito qualsiasi di eleggere i ministri del verbo di Dio e de’ Sacramenti: sia scomunicato ».

Pio X, Decreto Lamentabili, 3 lug. 1907, propp. 49-50 tra le condannate:

« Quelli, ch’eran soliti presiedere alla Cena, assumendo essa a poco a poco la natura dì azione liturgica, acquistarono carattere sacerdotale.

« Gli anziani, che nell’adunanza de’ Cristiani avevano incarico d’invigilare, furono dagli Apostoli costituiti sacerdoti e vescovi per provvedere al necessario buon ordine delle crescenti comunità, non propriamente per continuare in perpetuo la missione e l’autorità Apostolica ».

(Acta Apostolicae Sedis, XL, 473).

DOMANDA 480a

Concilio di Trento, sess. XXIII, Del Sacramento dell’Ordine:

« Can. 2. Sia scomunicato chi afferma che, oltre al Sacerdozio, non ci sono nella Chiesa Cattolica altri Ordini, tanto maggiori quanto minori, per i quali, come per gradini, si sale al Sacerdozio ».

« Con. 6. Sia scomunicato chi afferma che nella Chiesa Cattolica non v’è una gerarchia istituita per divina ordinazione, che consta di Vescovi, di Preti, di Ministri ».

« Cann. 7. Sia scomunicato chi afferma che i Vescovi non sono superiori ai Preti o che non hanno potestà di cresimare e di ordinare, o che l’hanno in comune co’ Preti; o che siano invalide le ordinazioni da loro conferite, senza consenso o appello del popolo o del poter secolare; oppure che sono legittimi ministri della parola e de’ Sacramenti quelli, che non furono validamente ordinati, nè incaricati dalla ecclesiastica e canonica autorità, ma vengono d’altronde ».

DOMANDA 482a.

Pio XI, Lett. Officiorum omnium, 1 ag. 1922:

« Di tutti i compiti santissimi compresi nell’ampia missione Apostolica, nessuno davvero è più singolare nè più vasto che pensare e procurar di garantire alla Chiesa un numero agevole di buoni ministri pel disimpegno de’ suoi divini ufficii. Esso è infatti di tal natura che non solo si connette strettamente con la dignità e la vita stessa della Chiesa, ma della massima importanza per la salvezza del genere umano; in quanto che gl’immensi beneficii, guadagnati da Cristo Gesù Redentore per il mondo, non vengono partecipati agli uomini se non per mezzo de’ ministri di Cristo e dispensatori de’ misteri divini ».

(Acta Apostolicae Sedis, XIV, 449).

DOMANDA 487a.

Concilio di Firenze, Decretum prò Armenis:

« Settimo è il sacramento del Matrimonio, simbolo dell’unione di Cristo con la Chiesa, secondo le parole dell’Apostolo; Questo Sacramento è grande; ma in Cristo e nella Chiesa, dico io (Agli Efes., V, 32). Causa efficiente del Matrimonio è il reciproco consenso espresso di presenza con parole. Triplice il beneficio del Matrimonio. Anzitutto la figliuolanza da allevare ed educare al culto di Dio. Secondo la dovuta fedeltà scambievole de’ coniugi. Terzo l’indivisibilità del Matrimonio, perchè appunto significa l’unione indivisibile di Cristo con la Chiesa. Per motivo di adulterio è lecita la separazione di letto, ma non è lecito contrarre un altro Matrimonio, perchè il vincolo d’un Matrimonio, contratto legittimamente, è perpetuo ».

(Mansi, XXXI, 1058 s.).

Concilio di Trento: Vedi D. 325.

Il medesimo, sess. XXIV, Del Sacramento del Matrimonio, can. 1:

« Sia scomunicato chi afferma che il Matrimonio non è veramente e propriamente uno dei sette Sacramenti della legge evangelica, istituito da Cristo Signore, ma un’invenzione degli uomini, e che non conferisce la grazia ».

Leone XIII, Encicl. Arcanum divinae sapientiae, 10 feb. 1880:

« Si devono riportare all’insegnamento apostolico le verità che « i Padri nostri, i Concilii e la tradizione della Chiesa universale sempre insegnarono » (Concilio di Trento, sess. XXIV, a pr.): e cioè che Cristo Signore elevò a dignità di Sacramento il Matrimonio e insieme fece sì che i coniugi, coll’aiuto e la custodia della grazia celeste, guadagnata per suo merito, raggiungessero la santità propria nel matrimonio; che inoltre perfezionò in esso, modellato mirabilmente sul mistico suo connubbio colla Chiesa, l’amore, che è consentaneo a natura, e col vincolo della carità divina strinse più fortemente l’unione indivisibile per sua stessa natura dell’uomo e della donna ».

(Acta Leonis XIII, II, 16).

S. Cirillo d’Alessandria, In Joan. Evang., II, 1:

« Alla celebrazione delle nozze, naturalmente caste e decorose, è presente la Madre del Salvatore, ma egli pure interviene, invitato, insieme co’ suoi discepoli, non tanto per banchettare quanto per operare il miracolo e santificare inoltre il principio, per sè tutto carnale, dell’umana generazione ».

(P. G., 73, 223).

DOMANDA 488a.

Leone XIII, Encicl. Arcanum divinæ sapientiæ, 10 feb. 1880:

« Nè alcuno si lasci muovere da quella distinzione tanto decantata dai Regalisti, in forza della quale separano il contratto nuziale dal Sacramento con l’intenzione invero, di lasciare il contratto in arbitrio dei capi dello Stato, riservando alla Chiesa le ragioni del Sacramento. Non si può infatti approvare una siffatta distinzione, o più veramente separazione, essendo chiaro che nel matrimonio cristiano il confratto non può scompagnarsi dal Sacramento: e però non può darsi un vero e legittimo contratto, che non sia al tempo stesso Sacramento. Il matrimonio infatti venne arricchito della dignità di Sacramento da Cristo Signore; e il matrimonio è lo stesso contratto, quando sia fatto secondo le norme volute…. Perciò è chiaro che ogni giusto matrimonio tra Cristiani è in sè e per sè sacramento: e nulla è più contrario alla verità di questo che il sacramento sia un certo ornamento aggiunto, od una proprietà estrinseca, la quale si possa ad arbitrio degli uomini disgiungere e separare dal contratto »

(Acta Leonis XIII, II, 25-26).

DOMANDA 491a.

Leone XIII, Encicl. Arcanum divinæ Sapientiæ, 10 feb. 1880:

« Affinchè rispondesse meglio ai sapientissimi consigli di Dio quella prima unione dell’uomo e della donna, essa ebbe fin da quel momento sopratutto due nobilissime qualità, profondamente impresse, per così dire, e scolpite, cioè l’unità e la perpetuità…. Ciò vediamo chiaramente dichiarato e confermato dal Vangelo per la divina autorità di Gesù Cristo, il quale dinanzi a’ Giudei e agli Apostoli proclamò che, per sua stessa istituzione, il Matrimonio deve esistere soltanto tra due, cioè l’uomo e la donna; che dei due si forma, per così dire, una sola carne e che il vincolo nuziale, per volontà di Dio, è così intimamente e fortemente stabilito che da nessun uomo può essere disciolto nè spezzato. L’uomo starà unito alla sposa sua e saranno due in una carne sola. Dunque non son più due, ma una sola carne…. (Matt., XIX, 5-6).

(Acta Leonis XIII, II, 12-13).

S. Agostino, De nuptiis adulterinis, I, 9:

« Dunque, se dicessimo: Pecca di adulterio chiunque sposerà una donna respinta dal marito, senza motivo di adulterio — certamente diciamo la verità, senza però assolvere da colpa chi sposasse la donna respinta per motivo di adulterio; anzi non dubitiamo per nulla che sono ambedue adulteri. Alla stessa stregua dichiariamo adultero chi, senza motivo d’adulterio, respinge la moglie e ne sposa un’altra, senza però difendere dall’imputazione di questa colpa colui, che, sia pure per motivo di adulterio, respinta la moglie, ne sposa un’altra. Riconosciamo che ambedue sono adulteri, benché l’uno più gravemente dell’altro ».

(P. L., 40, 456).

Il medesimo, De nuptiis et concupiscentia, I , 10:

« Se ai fedeli sposati si raccomanda non soltanto la fecondità, di cui è frutto la prole, nè soltanto la pudicizia, di cui è vincolo la fedeltà, ma pure un Sacramento del matrimonio, come dice l’Apostolo: Uomini, amate le vostre mogli, come anche Cristo amò la Chiesa (Agli Efes., V, 25); senza dubbio essenza di questo Sacramento è che maschio e femmina, congiunti dal matrimonio, seguitino uniti finché vivono, nè sia lecito, tranne il caso d’adulterio, separar coniuge da coniuge (Matt., V, 32)… Se qualcuno fa ciò, secondo la legge evangelica (e non secondo la legge positiva di questo mondo, la quale, ammesso il ripudio, permette che si possano celebrare senza peccato altre nozze, come per testimonianza del Signore, Mosè lo permise agli Israeliti per la durezza del loro cuore) commette adulterio; così pure la donna quando passi ad altre nozze. Così rimane tra loro vivi un vincolo coniugale che non può essere tolto nè da separazione nè da unione con altri. Ma rimane per rimprovero della colpa, non per legame di contratto; come l’anima dell’apostata, ritraendosi, per così dire, dalle nozze di Cristo, non perde, anche se perduta è la fede, il Sacramento della fede, ricevuto nel lavacro di rigenerazione ».

(P. L., 44, 420).

DOMANDA 492a

Concilio di Trento, Sess. XXIV, Del Sacramento del Matrimonio, can. 2:

« Sia scomunicato chi afferma che a’ Cristiani è lecito aver più mogli e che ciò non è proibito da nessuna legge divina ».

Innocenzo III, Epist. Gaudeamus in Domino, princ. Del 1201, al Vescovo di Tiberiade:

« Siccome i pagani dividono l’affetto coniugale contemporaneamente fra più mogli, non a torto si affaccia il dubbio se, convertiti, possono conservarle tutte oppure quale di tutte. Cosa assurda e contraria alla fede cattolica se pensiamo all’unica costa cangiata in unica donna e al detto della Scrittura divina: perciò l’uomo abbandonerà padre e madre e starà unito a sua moglie e saranno due in una sola carne (Gen. II, 24; Matt., XIX, 5; agli Efes., V, 31). Non ha detto tre o più, ma due; nè ha detto starà unito alle mogli, ma alla moglie. Non fu mai lecito ad alcuno d’aver più mogli, se non a chi fu permesso per divina rivelazione; ciò talvolta è ritenuto un costume, talvolta persino pratica legittima; in forza di essa com’è scusato da menzogna Giacobbe e Israele da furto e Sansone da omicidio, così pure tanto i Patriarchi quanto altri uomini giusti, di cui si legge ch’ebbero più mogli, sono scusati da adulterio. Per certo questa sentenza riceve conferma di verità dalla testimonianza della Verità, che dice nel Vangelo: Chiunque respinge la moglie sua, (se non) per causa di adulterio, e ne prenda un’altra, è adultero (Matt., XIX, 9; Marc. X, 11). Dunque, se non è lecito, respinta la moglie, prenderne un’altra, meno ancora, se si ritiene anche la prima; di qui è evidente che in materia di Matrimonio la pluralità deve essere esclusa per ambo i sessi, che non si giudicano a differente stregua. Chi d’altra parte ha ripudiato, secondo la sua religione, la moglie legittima, non potrà mai, viva questa, prenderne un’altra, nemmeno dopo convertito alla fede di Cristo, a meno che, dopo la sua conversione, quella ricusi di coabitare con lui o, se pure consente, non senza offesa del Creatore o per tirarlo a peccato mortale. In questo caso si rifiuterebbe la restituzione a chi la esige, benché risultasse ingiusta la spogliazione. È parola dell’Apostolo: A questo proposito nè fratello nè sorella è soggetto a schiavitù (I ai Cor., VII, 15). Se invece, anch’essa convertita, segue il marito convertito alla fede, prima ch’egli, per le ragioni predette, prenda una moglie legittima, bisognerà costringerlo ad accoglierla. Ancora, sebbene sia adultero chi sposa una ripudiata (Matt., XIX, 9), secondo la verità del Vangelo, non potrà però chi l’ha respinta obiettare l’adulterio della respinta, per il fatto che ha sposato un altro, dopo il ripudio; se d’altronde non abbia commesso adulterio ».

(P. L., 216, 1269 ss.).

DOMANDA 493a

Concilio di Trento, sess. XXIV, Del Sacramento del Matrimonio.

« Can. 6. Sia scomunicato chi afferma che il matrimonio rato, non consumato, non si sciolga per la solenne professione religiosa dell’uno dei coniugi ».

« Can. 7. Sia scomunicato chi afferma che la Chiesa è in errore quando insegnò ed insegna, secondo la dottrina evangelica ed Apostolica, che per l’adulterio d’uno dei coniugi non può assere sciolto il vincolo del matrimonio e che ciascun coniuge, anche innocente, non avendo dato occasione all’adulterio, non può, vivo l’altro, contrarre nuovo matrimonio, e ch’è adultero chi, ripudiata l’adultera, ne sposa un’altra, e adultera colei che, ripudiato l’adultero, ne sposa un altro ».

Pio IX, prop. 67 delle condannate nel Sillabo:

« Per diritto di natura non è indissolubile il vincolo del matrimonio e in casi svariati dall’autorità civile può essere sancito il divorzio vero e proprio ».

(Acta Pii IX, I, III, 103).

Leone XIII, Encicl. Arcanum divinæ Sapientiæ, 10 feb. 1880:

« Inoltre richiamò il matrimonio alla primitiva dignità di origine, sia col rimproverare agli Ebrei i lor costumi, perché abusavano tanto della facoltà del ripudio quanto del numero delle mogli; sia sopratutto col prescrivere che nessuno s’attentasse di sciogliere il vincolo perpetuo stretto da Dio stesso. Perciò, liquidate tutte le opposizioni, frapposte dalle istituzioni mosaiche, così volle sancire, con autorità di supremo legislatore, a proposito dei coniugi: Ora io dico a voi, che chiunque ripudierà sua moglie, se non per motivo d’adulterio, e ne sposerà un’altra, è adultero; ed è adultero chi sposa la ripudiata (Matt. XIX, 9) »..

(Acta Leonis XIII, II, 15).

DOMANDA 497a.

Concilio di Trento, sess. XXIV, Del Sacramento del Matrimonio, can. 4:

« Sia scomunicato chi afferma che la Chiesa non poteva costituire gli impedimenti dirimenti del matrimonio: o errò nel costituirli ».

DOMANDA 507a.

Concilio di Trento, sess. XXIV, Del Sacramento del Matrimonio, can. 12:

« Sia scomunicato chi afferma che le cause di matrimonio non sono di competenza dei giudici ecclesiastici ».

DOMANDA 514a

Concilio di Trento, Sess. VI, Decretum de justificatione, cap. 7:

« Perciò, proprio nell’atto della giustificazione, l’uomo riceve, per l’unione con Gesù Cristo, insieme colla remission de’ peccati, queste virtù infuse tutte a un tempo, fede speranza e carità. Difatti la fede, senza speranza e carità, non ci unisce perfettamente a Cristo, nè ci fa membra vive del suo corpo. In questo senso con tutta verità si dice che la fede senza le opere è morta e inutile ».

Clemente V, Costit. De Summa Trinitate et fide catholica, nel Concilio di Vienna, 1311, contro gli errori di Pier Giovanni Oliva:

« Quanto all’effetto del Battesimo ne’ fanciulli s’incontrano alcuni maestri di teologia d’opinione contraria. Gli uni sostengono che, per virtù del Battesimo, vien sì rimessa la colpa, ma non è conferita la grazia ai bambini; gli altri invece che, come vien loro cancellata la colpa nel Battesimo, così sono infuse le virtù e la grazia santificante, almeno come abito, se non come uso, per quell’età. Ora noi, riflettendo all’efficacia generale della morte di Cristo, che grazie al Battesimo è applicata parimenti a tutti i battezzati, abbiamo deciso, coll’approvazione del sacro Concilio, di scegliere, come più probabile e più consentanea e concorde all’espressioni de’ santi e dottori moderni di teologia, la seconda opinione, cioè che nel Battesimo è conferita ai bambini non meno che agli adulti la grazia informante e le virtù.

(Clement., I , 1).

S. Policarpo, Epist. ad Philippenses, 3:

« (Paolo) da lontano vi scrisse lettere, comprendendo le quali resterete edificati nella fede che v’è stata data e che è madre di tutti noi (ai Gal., IV, 29) seguita dalla speranza, preceduta dalla carità verso Dio e Cristo e il prossimo. Difatti chi si tiene in queste virtù, ha adempiuto al suo compito di santificazione, perchè chi possiede la carità è lontano da ogni peccato ».

(P. G., 5, 1007).

S. Giovanni Crisostomo, In Actus Apostolorum, XL, 2 :

« Nel Battesimo abbiamo la sorgente de’ beni: abbiamo cioè ricevuto la remissione de’ peccati, la santità, la partecipazione dello Spirito, l’adozione, la vita eterna. Che volete di più? I segni? Ma son cessati. Hai la fede, la speranza, la carità che sopravvivono: queste chiedi: queste son superiori ai segni. Niente pareggia la carità: prima fra tutte, la carità ».

(P. G., 60, 285).

DOMANDA 516a.

Benedetto X III; Vedi D. 62.

S. Clemente Romano, Epist. ad Corinthios, I, 49:

« Chi può esprimere il vincolo della carità di Dio? chi, come conviene, sa perfettamente parlare della stupenda sua bontà? È indicibile l’altezza, cui trasporta la carità. La carità c’immedesima con Dio, la carità copre il cumulo dei peccati (I di Piet., IV, 8), la carità tutto sostiene tutto sopporta con pazienza: nella carità non c’è sordidezza nè superbia; la carità non ammette divisioni, non suscita sedizioni, ma compie tutto in concordia; nella carità raggiungono la perfezione tutti gli eletti di Dio e senza carità niente a Dio è gradito. Il Signore ci sollevò a sè nella carità; per la sua carità verso noi il Signor nostro Gesù Cristo, con atto di volontà divina, versò per noi il suo sangue e la sua carne per la nostra carne e l’anima sua per la nostra ».

(P. G., I , 310 s.).

DOMANDA 517a,

Alessandro VII, prop. la condannata il 24 sett. 1665:

« L’uomo non è obbligato in nessun momento della sua vita a esprimere un atto di fede, di speranza, di carità, in forza de’ precetti divini riguardanti tali virtù ».

(Du Plessis, III, II, 321).

Innocenzo XI, propp. 6, 7, 16, 17 tra le condannate il 2 marzo 1679:

« Prop. 6. È probabile che il precetto dell’amore verso Dio non obbliga per sè stesso rigorosamente nemmeno ogni quinquennio.

« Prop. 7. Obbliga solo quando siam tenuti a giustificarci e non abbiamo per giustificarci altro mezzo,

« Prop. 16. La fede non si considera che cada sotto precetto speciale a sè.

« Prop. 17. Basta che Fatto di fede sia espresso una volta in vita ».

DOMANDA 518a.

Concilio Vaticano, Costit. Dei Filius, c. 3, De fide:

«Siam obbligati a prestar con fede pieno ossequio di mente e di volontà a Dio rivelante, perchè l’uomo dipende totalmente da Dio come suo creatore e Signore e la ragione creata è affatto suddita della Verità increata. La Chiesa Cattolica professa che questa fede, principio dell’umana salvezza, è virtù soprannaturale, per la quale crediamo vere colla grazia di Dio che ispira e aiuta, le cose da Lui rivelate non in virtù d’una verità intrinseca in esse conosciuta col lume naturale della ragione, ma per l’autorità di Dio stesso che rivela e che non può nè ingannarsi nè ingannare. Dice infatti l’Apostolo: Fede è sostanza delle cose sperate e argomento delle non apparenti (Agli Ebr., XI, 1) ».

S. Leone Magno, Sermo, XXVII, 1:

« Accostandoci a intendere il mistero della natività di Cristo, perchè nacque da una madre vergine, allontaniamo da noi la nebbia dei ragionamenti umani, e dallo sguardo della fede illuminata il fumo della mondana sapienza; perché è divina l’autorità, alla quale crediamo, e divino l’insegnamento che seguiamo ».

(P. L., 54, 216).

S. Giovanni Crisostomo : Vedi D. 373.

DOMANDA 519a.

Innocenzo XI, propp. tra le condannate dalla S. Congregazione del S. Ufficio, il 12 mar. 1679:

« Prop. 22. Di necessità di mezzo sembra necessaria la fede soltanto in Dio uno, non esplicitamente in Dio Rimuneratore.

« Prop. 64. È capace di assoluzione l’uomo, quantunque ignori i misteri di fede e benché per negligenza, sia pure colpevole, non sappia il mistero della SS. Trinità e dell’Incarnazione del Signor nostro Gesù Cristo ».

(Du Plessis, 1. c).

S. Congregazione del S. Ufficio, Decreto del 25 gennaio 1703:

« 2. Si domanda se, prima di dare il Battesimo a un adulto, il ministro sia in obbligo di spiegargli tutti i misteri della nostra fede, specie se moribondo, che in tal caso gli turberebbe l’anima. Non potrebbe bastare che il moribondo promettesse, superata la malattia, di procurarsi l’istruzione per tradurre in pratica i precetti impostigli?

« Al 2. Non basta la promessa, ma il missionario è in obbligo di spiegare all’adulto anche moribondo, che non sia incapace del tutto, i misteri della fede, che son necessari per necessità di mezzo, quali principalmente i misteri della Trinità e dell’Incarnazione ».

(Codicis iuris canonici Fontes IV, 41-42).

DOMANDA 520a.

Concilio Vaticano, Costit. Dei Filius, c. 4, De fide et ratione:

« Ma, benché la fede sia sopra la ragione, non vi può mai esser vero contrasto tra fede e ragione, perché il medesimo Dio, che svela i misteri e infonde la fede, ha acceso il lume della ragione nell’animo umano. Ora Dio non potrebbe negar sè stesso nè la verità contraddire mai la verità. Ebbene, l’inconsistente apparenza di siffatta contraddizione nasce specialmente perchè o i dogmi della fede non sono stati compresi od esposti secondo il pensiero della Chiesa, oppure si stimano per buone ragioni i trovati delle varie opinioni, Dunque definiamo affatto falsa ogni asserzione contraria alla verità della fede illuminata ».

DOMANDA 521a .

Concilio Vaticano: Vedi D. 520.

Pio IX, Encicl. Qui pluribus, 9 nov. 1846:

Sapete purtroppo, Venerabili Fratelli, che questi accaniti nemici del nome cristiano, trascinati come da un cieco impeto di pazza empietà, a tal punto di avventatezza giungono nel ragionare che, aprendo la lor bocca alle bestemmie contro Dio (Apoc. XIII, 6) con affatto inaudita audacia, non arrossiscono d’insegnare in pubblico e apertamente che sono storielle, invenzioni umane i sacrosanti misteri della nostra santa religione, che la dottrina della Chiesa contrasta il bene e i vantaggi della civiltà umana; anzi non si peritano di rinnegare Cristo stesso e Dio. E per illudere più facilmente i popoli e ingannare sopratutto gl’incauti e gl’ignoranti e travolgerli seco nell’errore, danno a intendere di conoscer essi soli i mezzi della prosperità e non dubitano di attribuirsi la nomea di filosofi, come se la filosofia, che consiste tutta nell’investigare la verità di natura, dovesse respingere quel che Dio stesso, clementissimo e supremo autore proprio di tutta la natura, s’è degnato manifestare agli uomini per singolare beneficio e misericordia allo scopo ch’essi raggiungessero la vera felicità e salvezza. « Perciò non cessano mai, con ragionamento impertinente affatto e falsissimo d’invocar la forza e l’eccellenza della umana ragione, di esaltarla contro la fede santissima di Cristo; anzi blaterano con tutta impudenza che contraddice all’umana ragione. Non si può immaginare o escogitare nulla di più strambo, di più empio, di più ripugnante proprio alla ragione. Difatti, benché la fede sia superiore alla ragione, tuttavia non si può mai trovar tra loro vero contrasto, vero dissidio; perchè tutt’e due sgorgano dall’unica e medesima sorgente della verità immutabile ed eterna, cioè Dio ottimo massimo: anzi talmente s’aiutano tra loro che la retta ragione dimostra la verità della fede, la custodisce, la difende; e a sua volta la fede libera la ragione da ogni errore e l’illumina meravigliosamente nella cognizione del divino, la rafforza, la perfeziona. « E certamente non minore inganno commettono, Venerabili Fratelli, codesti nemici della rivelazione esaltando esageratamente il progresso umano, che vorrebbero con atto di audacia temeraria e davvero sacrilega introdurre nella Religione Cattolica, quasi che proprio la Religione non fosse opera di Dio, ma degli uomini oppure una qualsiasi elucubrazione filosofica suscettibile di perfezione, per vie puramente umane. Contro costoro, che così miserabilmente delirano, cade opportuno davvero il giusto rimprovero di Tertulliano a’ filosofi del suo tempo « i quali misero in voga un cristianesimo stoico e platonico e dialettico » (De Præscript. c. 8). E invero, poiché la nostra santissima Religione fu non invenzione di mente umana, bensì rivelazione di Dio clementissimo agli uomini, ognuno può facilmente comprendere che per l’appunto la Religione attinge dall’autorità del medesimo Dio, che parla, tutta la sua forza, nè può esser mai dedotta o perfezionata dalla ragione umana. « Proprio la ragione umana, per non ingannarsi e sbagliare in cosa di tanta importanza, bisogna che indaghi con ogni cura il fatto della rivelazione divina, sicché si accerti che Dio ha parlato e si presti, secondo l’insegnamento sapientissimo dell’Apostolo, un ragionevole ossequio (Ai Rom., XII, 1). Chi difatti ignora o può ignorare che a Dio, quando parla, bisogna prestar fede intera e che nulla è più consentaneo precisamente alla ragione quanto consentire e creder con fermezza alle cose rivelate da Dio, che non può nè ingannarsi nè ingannare, se tali constano?

« Ma quanti e splendidi e meravigliosi argomenti per convincere a luce meridiana la ragione ch’è divina la Religione di Cristo e che « ogni principio de’ nostri dogmi ha radice lassù nel Signore de’ cieli » (S. Giovanni Crisost., Om. I in Isa.), e che perciò non esiste nulla di più certo, di più sicuro, di più santo della fede, nè di più ben fondato. Questa fede, maestra di vita, insegna di salvezza, nemica d’ogni vizio, madre feconda e provvida di virtù, confermata dalla nascita e dalla vita, morte, risurrezione, dalla sapienza, dai prodigii, dalle profezie di Gesù Cristo suo divino fondatore e perfezionatore, tutta circonfusa dallo splendore della celeste dottrina e arricchita dai tesori delle celesti ricchezze, dalle predizioni di tanti profeti, dalla luce di tanti miracoli, dalla costanza di tanti martiri, splendentissima e famosa per la gloria di tanti Santi, che squaderna le leggi salutari di Cristo e persino dalle più crudeli persecuzioni attinge forza, coll’unico vessillo della Croce penetrò in tutto il mondo per terra e per mare, da oriente a occidente e, abbattuta l’idolatria, dissipata la nebbia dell’errore e sgominati nemici d’ogni sorta, riempì di luce divina e sottomise al giogo soavissimo di Cristo, annunciando a tutti pace e bene (Isa. LII, 7), tutti i popoli, le genti, le nazioni per quanto barbare e crudeli, per quanto diverse di carattere, di costumi, di leggi, d’istituzioni. E questo fatto splende di tanta sapienza e potenza divina da persuadere ogni mente, ogni pensiero che la fede cristiana è opera di Dio. « Pertanto la ragione umana conoscendo, da questi argomenti fulgidi e insieme solidissimi, con chiarezza e manifestamente che Dio è autore della fede medesima, non può procedere oltre, ma — messo da parte affatto ogni difficoltà e dubbio — conviene che presti intero l’omaggio alla fede, tenendo ben fermo che, quanto la fede propone da credere e da operare agli uomini, è rivelazione di Dio ».

(Acta Pii IX, I, 1 6-9).

DOMANDA 522a.

Concilio di Laterano V, Vedi D. 60.

Concilio Vaticano, Costit. Dei Filius, c. 4, De Fide et rottone:

« E non soltanto fede e ragione non possono mai tra loro discordare, ma si recano vincendevole aiuto, perchè la retta ragione dimostra i fondamenti della fede e illuminata dalla sua luce coltiva la scienza delle divine verità, mentre la fede libera e protegge dagli errori la ragione e l’arricchisce di molteplici cognizioni. Perciò la Chiesa non è contraria alla scienza delle arti e discipline umane, tutt’altro; anzi la promuove ed aiuta in molti modi. Difatti non ignora o disprezza i vantaggi che ne provengono alla vita umana; anzi ammette che esse come sono venute da Dio, Signor delle scienze, così a Dio conducono, con l’aiuto della sua grazia, se rettamente si studiano. E in verità essa non proibisce a queste discipline di adoperare, ciascuna nel suo ambito, principii e metodi proprii; ma, riconoscendo questa giusta libertà, sta bene attenta che, riluttanti all’insegnamento divino, non incappino negli errori, oppure, violando i proprii confini, invadano e turbino il campo della fede ».

DOMANDA 527a.

Benedetto XII; Vedi D. 62a

S. Giovanni Crisostomo, In Epist. ad Romanos, XIV, 6:

« Che cosa dunque t’ha salvato? la sola speranza in Dio e l’aver fede in lui per le promesse fatte e i benefici compartiti: nè alro hai avuto da offrire. Se dunque t’ha salvato questa fede, anche adesso conservala: essa, che ti ha procurato tanti beneficii, senza dubbio non si smentirà in avvenire. Essa difatti d’un morto, d’un perduto, d’un prigioniero e d’un nemico ha fatto un amico, un figlio, un libero, un giusto e un erede e l’ha favorito tanto quanto nessuno avrebbe potuto aspettarsi: or come non ti proteggerà in futuro, dopo così liberale benevolenza?… Che cos’è dunque la speranza? È un confidare nelle cose future ».

(P. G., 60, 532).

DOMANDA 530a.

S. Gregorio Magno, In Evangelia, II, 30, 1, 2:

« Ma ecco: se ciascun di voi fosse richiesto se ama Dio, risponderebbe con tutta fiducia e sicura coscienza: Io l’amo. Ora, proprio a principio della lettura avete udito quel che dice la Verità: Se uno mi ama, osserverà la mia parola (Gio., XIV, 23). La prova dunque dell’amore è la pratica delle opere. Perciò il medesimo Giovanni dice nella sua lettera: Chi dice: Amo Dio e non ne osserva i comandi è bugiardo (I di Gio., II, 4). In verità noi amiamo Dio, se ci sappiamo trattenere dai nostri piaceri a norma de’ suoi precetti. Chi difatti è ancora naufrago de’ suoi illeciti desideri, certo non ama Dio, perchè nella sua volontà è in contrasto con Lui. « …. Chi dunque ama Dio davvero e ne osserva i precetti, il Signore entra nel cuore di lui e vi fa dimora, perchè talmente lo penetra l’amor di Dio che non se ne distacca poi al momento della tentazione. Dunque ama davvero colui, che non si lascia vincere a consentir coll’anima nel cattivo compiacimento. Infatti tanto più ci si distacca dall’amore, quanto più si accoglie il basso compiacimento. Perciò è anche detto subito dopo: Chi non mi ama non osserva i miei precetti (Gio., XIV, 24) ».

(P. L., 76, 1220 ss.).

DOMANDA 535a.

Concilio di Trento, Sess. VI, Decretum de justificatione, cap. 15:

« Bisogna affermare, contro le sottili trovate di certa gente, che con dolci parole e le lusinghe ingannano la coscienza degli innocenti, questa verità: che si perde la grazia ricevuta della giustificazione, non soltanto col peccato contro la fede, che distrugge la fede stessa, ma con qualunque peccato mortale, pur non perdendo la fede. Bisogna difender l’insegnamento della legge divina, che respinge dal regno di Dio non solamente gl’infedeli, ma pure i fedeli colpevoli di fornicazione, d’adulterio, di sensualità, di sodomia, di furto, di avarizia, di ubbriachezza, di maldicenza, di violenza e così via, perchè da siffatti peccati mortali possono astenersi coll’aiuto della grazia e a cagione di essi si separano dalla grazia di Cristo.

Can. 27. Sia scomunicato chi afferma che non v’è peccato mortale se non quello contro la fede; oppure che la grazia, una volta ricevuta, non si perde per nessun altro peccato, sia pur grave ed enorme quanto si vuole, se non per quello contro la fede ».

« Can. 28. Sia scomunicato chi afferma che, perduta col peccato la grazia, sempre si perde insieme anche la fede; oppure che la fede superstite non è vera fede, per quanto non sia più viva: oppure che non è Cristiano chi ha fede senza la carità ».

DOMANDA 537a.

Innocenzo XI, propp. 10, 11 tra le condannate dalla S. Congregazione del S. Ufficio, il 2 marzo 1679:

« Prop. 10. Non siamo in obbligo di amar il prossimo con atto interno e formale ».

« Prop. 11. Possiamo sodisfare al precetto di amar il prossimo con i soli atti esterni ».

(Du Plessis, III, II, 348).

IL CATECHISMO CATTOLICO DEL CARDINAL GASPARRI (28)

MESSA DELLA FESTA DELL’EPIFANIA (2021)

Doppio di I classe con Ottava privil. di II Ord.- Paramenti, bianchi.

MESSA DELLA FESTA DELL’EPIFANIA (2021)

Stazione a S. Pietro

Questa festa si celebrava in Oriente dal III secolo e si estese in Occidente verso la fine del IV secolo. La parola “Epifania” significa: manifestazione. Come il Natale anche l’Epifania è il mistero di un Dio che si fa visibile; ma non più soltanto ai Giudei, bensì anche ai Gentili, cui in questo giorno Dio rivela il suo Figlio (Or.). Isaia scorge in una grandiosa visione, la Chiesa, rappresentata da Gerusalemme, alla quale accorrono i re, le nazioni, la moltitudine dei popoli. Essi vengono di lontano con le loro numerose carovane, cantando le lodi del Signore e offrendogli oro e incenso (Ep.). – I re della terra adoreranno Dio e le nazioni gli saranno sottomesse • (Off.). Il Vangelo mostra la realizzazione di questa profezia. – Mentre il Natale celebra l’unione della divinità con l’umanità di Cristo, l’Epifania celebra l’unione mistica delle anime con Gesù. – Oggi – dice la liturgia – la Chiesa è unita al suo celeste Sposo, poiché, oggi Cristo ha voluto essere battezzato da Giovanni nel Giordano: oggi una stella conduce i Magi con i loro doni al presepio: oggi alle nozze l’acqua è stata trasformata in vino. Ad Alessandria d’Egitto pubblicavasi ogni anno, il 6 gennaio, l’Epistola Festalis, lettera pastorale in cui il Vescovo annunziava la festa di Pasqua dell’anno corrente. Di qui nacque l’uso delle lettere pastorali in principio di Quaresima. In Occidente, il IV sinodo d’Orléans (541) ed il sinodo d’Auxerre (tra il 573 ed il 603) introdussero la stessa usanza. Nel medioevo vi si aggiunse la data di tutte le feste mobili. Il Pontificale Romano prescrive di cantar oggi solennemente, dopo il Vangelo, detto annunzio (Liturgia, Paris, Bloud et Gay, 1931, pag. 628 sg.).

Incipit

In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Malach 3:1 – 1 Par XXIX:12
Ecce, advénit dominátor Dóminus: et regnum in manu ejus et potéstas et impérium

[Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero.]

Ps LXXI: 1
Deus, judícium tuum Regi da: et justítiam tuam Fílio Regis.

[O Dio, concedi al re il tuo giudizio, e la tua giustizia al figlio del re.]

Ecce, advénit dominátor Dóminus: et regnum in manu ejus et potéstas et impérium

[Ecco, giunge il sovrano Signore: e ha nelle sue mani il regno, la potestà e l’impero.]

Oratio

Orémus.
Deus, qui hodiérna die Unigénitum tuum géntibus stella duce revelásti: concéde propítius; ut, qui jam te ex fide cognóvimus, usque ad contemplándam spéciem tuæ celsitúdinis perducámur.

[O Dio, che oggi rivelasti alle genti il tuo Unigenito con la guida di una stella, concedi benigno che, dopo averti conosciuto mediante la fede, possiamo giungere a contemplare lo splendore della tua maestà.]

Lectio

Léctio Isaíæ Prophétæ.
Is LX:1-6
Surge, illumináre, Jerúsalem: quia venit lumen tuum, et glória Dómini super te orta est. Quia ecce, ténebræ opérient terram et caligo pópulos: super te autem oriétur Dóminus, et glória ejus in te vidébitur.
Et ambulábunt gentes in lúmine tuo, et reges in splendóre ortus tui. Leva in circúitu óculos tuos, et vide: omnes isti congregáti sunt, venérunt tibi: fílii tui de longe vénient, et fíliæ tuæ de látere surgent. Tunc vidébis et áfflues, mirábitur et dilatábitur cor tuum, quando convérsa fúerit ad te multitúdo maris, fortitúdo géntium vénerit tibi. Inundátio camelórum opériet te dromedárii Mádian et Epha: omnes de Saba vénient, aurum et thus deferéntes, et laudem Dómino annuntiántes.

“Levati, o Gerusalemme, e sii illuminata, perché la tua luce è venuta, e la gloria del Signore è sorta su te. Poiché, ecco le tenebre ricoprono la terra e l’oscurità avvolge le nazioni; su te, invece, spunta il Signore, e in te si vede la sua gloria. Le nazioni cammineranno; alla tua luce, e i re allo splendore della tua aurora. Alza i tuoi occhi all’intorno, e guarda: tutti costoro si son radunati per venire a te. I tuoi figli verranno da lontano, e le tue figlie ti sorgeranno a lato. Allora vedrai e sarai piena di gioia; il tuo cuore si stupirà e sarà dilatato, quando le ricchezze del mare si volgeranno verso di te, quando verranno a te popoli potenti. Sarai inondata da una moltitudine di cammelli, di dromedari di Madian e di Efa: verranno tutti insieme da Saba, portando oro e incenso, e celebrando le glorie del Signore”

OMELIA I

[Artig. Pavia, A. Castellazzi, La scuola degli Apostoli, Pavia, 1929]

GESÙ CRISTO RE

Isaia, il profeta suscitato da Dio a rimproverare e a consolare il popolo eletto in tempo di grande afflizione, ci dipinge in esilio, prostrato a terra, immerso nel dolore per voltate le spalle a Dio. È bisognoso d’una consolazione; e il profeta questa parola l a fa sentire. Gerusalemme risorgerà. Il Messia vi comparirà come un faro risplendente sulla sponda di un mare in burrasca. E nella sua luce accorreranno le nazioni uscendo dalle tenebre dell’idolatria. Gerusalemme deve alzar gli occhi econtemplar lo spettacolo consolante dei suoi figli dispersi che  ritornano, e dei popoli della terra che verranno ad essa, cominciando da quei dell’oriente, recando oro ed incenso, annunziando le lodi del Signore. Questa profezia ha compimento nel giorno dell’Epifania, poiché in questo giorno comincia il movimento delle nazioni verso la Chiesa, la nuova Gerusalemme, I Magi che venuti dall’oriente domandano ove è il nato Re dei Giudei, ci invitano a far conoscenza con questo Re. Vediamo, dunque, come Gesù Cristo è:

1. Il Re preannunciato,

2. Che esercita su noi l’autorità legittima,

3. E al quale dobbiamo dimostrare la nostra sudditanza.

1.

Isaia che invita Gerusalemme a vestirsi di luce ne dà ragione: perché la tua luce è venuta, e la gloria del Signore è sorta su di te. Il Messia promesso, ristoratore non solo di Israele, ma di tutto il genere umano è venuto dall’alto ad illuminare chi giace nelle tenebre e nell’umbra della morte. La notte in cui nasce il Salvatore una luce divina rifulge attorno ai pastori che fanno la guardia, al gregge nelle vicinanze di Betlemme; e contemporaneamente in altre contrade un’altra luce, una stella, appare ai Magie li guida a Gerusalemme. «Dov’è il nato re dei Giudei? Perché noi abbiam veduto la sua stella in Oriente a siam venuti per adorarlo» (Matth. II, 2). A questa domanda che essi fanno, arrivati a Gerusalemme, Erode e tutta la cittàsi conturba. Eppure, niente era più esatto di quella domanda.Il Messia era stato ripetutamente predetto dai profeti come un restauratore, che avrebbe iniziato un regno nuovo. Gli Ebrei potevano errare nella interpretazione diquesto regno; ma i n essi l’idea del Messia era inconcepibile,se disgiunta dalla dignità reale. Del resto i profeti l’avevano annunciato chiaramente come re. Davide dice:«Tu sei sacerdote in eterno secondo l’ordine di Melchisedech» (Ps. CIX). È lo stesso che dire che il Messia sarebbe stato sacerdote e re. «Poiché questo Melchisedech era re di Salem, Sacerdote del Dio Altissimo… Egli primieramente, secondo l’interpretazione del suo nome, re di giustizia, e poi anche re di Salem, che significare di pace» (Hebr. VII, 1-2). Anche il regno del Messia sarà regno di giustizia e di pace. Sentiamo Geremia « Così parla il Signore, Dio d’Israele,ai pastori che pascono il mio popolo. … Ecco che vengono i giorni, e io susciterò a Davide un germe giusto; e regnerà come re, e sarà sapiente e renderà ragione, e farà giustizia in terra» (Ger. XXIII, 2, 5.) . Isaia, parlando della nascita del Messia, così si esprime: «Ecco, ci è nato un pargolo, e ci è stato donato un figlio, e ha sopra i suoi omeri il principato » (Is. IX, 4). A lui segue Zaccaria: «Egli sarà ammantato di gloria, e sederà, e regnerà sul suo trono» ( Zac. VI, 13). Quando poi l’Angelo annunzia a Maria l’Incarnazione, parlando del Messia che nascerà da lei, dice: «Questi sarà grande e sarà chiamato Figliuolo dell’Altissimo: il Signore Iddio gli darà il trono di David, suo padre, ed egli regnerà in eterno sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà mai fine» (Luc. I, 32-33). Non solo è predetto come re, ma come re è salutato e venerato. Abbiamo visto che i Magi dichiarano apertamente di essere venuti ad adorare «il nato Re Giudei ». Quando Natanaele è condotto da Filippo a vedere « quello di cui scrissero Mosè nella legge e i profeti, Gesù », al primo incontro esclama: «Maestro, tu sei il Figliuolo di Dio: tu sei re d’Israele» (Giov. I, 49). Nel giorno del trionfo, quando entra in Gerusalemme per celebrare l’ultima Pasqua, la grande folla accorsa per le feste gli va incontro con rami di palma, gridando : «Osanna! Benedetto chi viene nel nome del Signore, il Re d’Israele» (Giov. XII, 13). In parecchie circostanze, perfino quando sta lasciando la terra per salire al cielo, gli si fanno domande relative al suo regno. Infine, Gesù Cristo stesso dichiara d’essere re; d’avere un regno (Giov. XVIII, 36). Un regno non umano, nè caduco, « ma di gran lunga superiore e più splendido » (S. Giov. Crisost. In Ioa. Ev. Hom. 83, 4).

2.

Le nazioni camminano alla tua luce e i re allo splendore della tua aurora: … tutti costoro si son radunati per venire a te. Re e sudditi, che vanno a mettersi aipiedi di Gesù Cristo, attratti dalla luce che si diffondedal suo Vangelo, riconoscono praticamente che Egli hail diritto di dominare su di loro. Difatti chi è Gesù Cristo? Il centurione romano, che coi soldati è posto a guardia della croce, esclama alla morte di Gesù: «Costui era veramente Figlio di Dio» (Matth. XXVII, 54). È Figlio di Dio — nota a questo punto S. Ilario — ma non come noi che siam figli di Dio adottivi. «Egli, invece, è Figlio di Dio vero e proprio, per origine, non per adozione» (S. Ilario, De Trin. 1. 3, c. 11). La sua vita dunque, lo fa superiore a tutto quanto è al disotto di Dio: superiore non solo a tutti gli uomini, ma anche a tutti gli Angeli. A nessuno di loro Dio ha detto: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato» (Ps. II, 7). Essi sono posti al comando di Dio; sono a disposizione di Gesù Cristo. « Pensi tu — egli dice a S. Pietro — che io non possa chiamare in aiuto il Padre mio, il quale mi manderebbe sull’atto più di dodici legioni di Angeli?» (Matth. XXVI, 53). Non solo gli Angeli sono a disposizione di Gesù Cristo, ma lo devono adorare, come è scritto nei libri santi: «E lo adorino tutti gli Angeli di Dio »: (Hebr. I, 6). A Gesù, dunque, tutte le creature, uomini e Angeli, devono l’adorazione, la soggezione, l’obbedienza; tutte devono riconoscere la sua sovranità. Oltre che per diritto di natura, Gesù Cristo è nostro re per diritto di investitura. Il Messia, Figlio ed erede di Dio, Creatore e Signore del cielo e della terra, ha diritto al dominio universale sul mondo. Al momento propizio il Padre gliene darà l’investitura, secondo Egli ha dichiarato: « Chiedimi, e ti darò in eredità le nazioni e in possesso i confini della terra » (Ps. II, 8). Nell’incarnazione Gesù Cristo è costituito « erede di tutte le cose » (Hebr. I, 2). e riceve, così, la promessa investitura del suo dominio universale. Ma Gesù Cristo è anche nostro Re per diritto di conquista. Noi eravamo schiavi del peccato, destinati alla morte eterna. Egli ci ha liberati dalla schiavitù del peccato, sottraendoci alla morte eterna. «Quando combatté per noi — dice S. Agostino — apparve quasi vinto; ma in realtà fu vincitore. In vero fu crocifisso, ma dalla croce, cui era affisso, uccise il diavolo, e divenne nostro Re» (En. in Ps. 149, 6). A differenza degli altri conquistatori, egli non ci ha liberati versando il sangue altrui, ma versando il proprio sangue. «Non sapete — dice S. Paolo ai Corinti — che voi non vi appartenete? Poiché siete stati comprati a caro prezzo» (I Cor. VI, 19-20). Noi non possiamo disconoscere l’autorità di chi ha sborsato per noi un prezzo che supera ogni prezzo. I popoli liberati dalla schiavitù passano sotto il dominio del loro liberatore; e noi siamo passati sotto il dominio di chi ci ha liberati dalla schiavitù di satana. Lui dobbiamo riconoscere per nostro re, proclamare apertamente nostro Re,  non solo a parole, ma all’occorrenza anche con della propria vita, come ce ne hanno dato esempio i martiri di tutti i tempi. Tra coloro che furono martirizzati al Messico nel Gennaio del 1927 si trovava un tal Nicolas Navarro. Alla giovane moglie che piangendo lo pregava ad aver pietà del figlioletto: «Anzitutto la causa di Dio! — rispose — E quando il figlio crescerà gli diranno: Tuo padre è morto per difendere la Religione». Percosso, ferito con le punte dei pugnali, strascinato così brutalmente da non esser più riconoscibile, come avvenne anche ai suoi compagni, riceve per di più tanti colpi sulla faccia da aver sradicati i denti. Caduto a terra colpito da due palle, incoraggia i compagni, e rammenta loro la promessa di seguire fino alla morte l’esempio di Gesù. Trapassato da due pugnalate, muore gridando : « Viva Cristo Re » (Civiltà Cattolica, 1927, vol. IV p. 181).

3.

Isaia predice che le nazioni faranno a gara per entrare nel regno di Gesù Cristo. Verranno i nuovi sudditi. portando oro e incenso, e celebrando le glorie del Signore.

Così fanno subito i re Magi, i quali, venuti alla culla di Gesù, « prostrati lo adorarono: e, aperti i loro tesori, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra » (Matth. II, 11). « Offrono l’incenso a Dio, la mirra all’uomo, l’oro al re » (S. Leone M. Serm. 31, 2). Quell’oro, forse una corona reale, essi offrono a Dio come tributo che i sudditi devono al re in segno di sudditanza.Quale tributo dobbiamo noi portare a Gesù Cristoin segno della nostra sudditanza? Il regno di Gesù Cristonon è un regno materiale. È un regno spirituale, che siesercita principalmente sulle anime. In primo luogo è ilregno della verità. Tra le fitte tenebre dell’errore che coprivanola faccia della terra, Gesù comparve come il soleche illumina ogni cosa, fugando l’ignoranza, la menzogna,l’inganno. Tra gl’intricati sentieri, che non permettono all’uomo, o gli rendono assai difficile, di prendere unagiusta direzione nel cammino di questa vita, Egli è laguida sicura.Egli poteva dire alle turbe : «la luce è in voi… Sinchéavete la luce credete nella luce, affinché siate figliuolidi luce» (Giov. XII, 35-36). Primo tributo da rendere al nostro Re saràdunque quello di accogliere con docilità e semplicità lasua parola che è contenuta nel Santo Vangelo. È un regno di giustizia. Se c’è un regno in cuicontano più i fatti che le parole, è precisamente il regnodi Gesù Cristo. Come tutti i re, Gesù Cristo è legislatore.E le sue leggi vuol osservate. Sulla terra, quantitrasgrediscono le leggi e si credono sudditi fedeli e amanti del loro re! Gesù dichiara apertamente che non puòessere o dichiararsi amico suo chi trasgredisce le sue leggi: «Se mi amate osservate i miei comandamenti (Giov. XIV, 15). – Per conseguenza egli eserciterà un altro potere reale: quello di giudicare coloro che sono osservanti delle leggi e coloro che le trasgrediscono. Nessuno potrà sfuggire al suo giudizio e alla sua sanzione. «Poiché bisogna che tutti noi compariamo davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva le cose che gli spettano, secondo quello che ha fatto, o in bene o in male» (2 Cor. V, 10.).Lo ubbidiremo, dunque, in modo da non meritarsi alcuna riprensione. – Il regno di Gesù Cristo è un regno universale. I suoi confini sono i confini del mondo, i suoi sudditi sono tutte le nazioni dell’universo. È un dominio che si estende su l’individuo e sulla società; e che quindi va riconosciuto e onorato in privato e in pubblico. Purtroppo non tutti riconoscono ancora di fatto il dominio di Gesù Cristo. Un numero sterminato d’infedeli, non sa ancora chi sia Gesù Cristo. Molti Cristiani gli si ribellano; violano i suoi diritti, e gli rifiutano il dovuto omaggio. Tributo d’omaggio del buon Cristiano sarà quello di affrettare con la preghiera il giorno in cui tutte le nazioni conosceranno questo Re, e intanto rendergli l’omaggio, che altri gli negano, riparare le offese, che altri gli recano. Fede viva, esatta osservanza dei comandamenti, zelo per concorrere a farlo regnare, nei singoli individui, nelle famiglie, nella società, ecco i tributi, che dobbiam recare a Gesù Cristo Re, in attestazione della nostra sudditanza.

Graduale

Isa LX: 6;1
Omnes de Saba vénient, aurum et thus deferéntes, et laudem Dómino annuntiántes.

[Verranno tutti i Sabei portando oro e incenso, e celebreranno le lodi del Signore.]

Surge et illumináre, Jerúsalem: quia glória Dómini super te orta est. Allelúja, allelúja.

[Sorgi, o Gerusalemme, e sii raggiante: poiché la gloria del Signore è spuntata sopra di te.

Allelúja.

Allelúia, allelúia
Matt II:2.
Vídimus stellam ejus in Oriénte, et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum. Allelúja.

 [Vedemmo la sua stella in Oriente, e venimmo con doni per adorare il Signore. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthǽum
Matt II: 1-12

Cum natus esset Jesus in Béthlehem Juda in diébus Heródis regis, ecce, Magi ab Oriénte venerunt Jerosólymam, dicéntes: Ubi est, qui natus est rex Judæórum? Vidimus enim stellam ejus in Oriénte, et vénimus adoráre eum. Audiens autem Heródes rex, turbatus est, et omnis Jerosólyma cum illo. Et cóngregans omnes principes sacerdotum et scribas pópuli, sciscitabátur ab eis, ubi Christus nasceretur. At illi dixérunt ei: In Béthlehem Judæ: sic enim scriptum est per Prophétam: Et tu, Béthlehem terra Juda, nequaquam mínima es in princípibus Juda; ex te enim éxiet dux, qui regat pópulum meum Israel. Tunc Heródes, clam vocátis Magis, diligénter dídicit ab eis tempus stellæ, quæ appáruit eis: et mittens illos in Béthlehem, dixit: Ite, et interrogáte diligénter de púero: et cum invenéritis, renuntiáte mihi, ut et ego véniens adórem eum. Qui cum audíssent regem, abiérunt. Et ecce, stella, quam víderant in Oriénte, antecedébat eos, usque dum véniens staret supra, ubi erat Puer. Vidéntes autem stellam, gavísi sunt gáudio magno valde. Et intrántes domum, invenérunt Púerum cum María Matre ejus, hic genuflectitur ei procidéntes adoravérunt eum. Et, apértis thesáuris suis, obtulérunt ei múnera, aurum, thus et myrrham. Et re sponso accépto in somnis, ne redírent ad Heródem, per aliam viam revérsi sunt in regiónem suam,”

[Nato Gesù, in Betlemme di Giuda, al tempo del re Erode, ecco arrivare dei Magi dall’Oriente, dicendo: Dov’è nato il Re dei Giudei? Abbiamo visto la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo. Sentite tali cose, il re Erode si turbò, e con lui tutta Gerusalemme. E, adunati tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, voleva sapere da loro dove doveva nascere Cristo. E questi gli risposero: A Betlemme di Giuda, perché così è stato scritto dal Profeta: E tu Betlemme, terra di Giuda, non sei la minima tra i prìncipi di Giuda: poiché da te uscirà il duce che reggerà il mio popolo Israele. Allora Erode, chiamati a sé di nascosto i Magi, si informò minutamente circa il tempo dell’apparizione della stella e, mandandoli a Betlemme, disse loro: Andate e cercate diligentemente il bambino, e quando l’avrete trovato fatemelo sapere, affinché io pure venga ad adorarlo. Quelli, udito il re, partirono: ed ecco che la stella che avevano già vista ad Oriente li precedeva, finché, arrivata sopra il luogo dov’era il bambino, si fermò. Veduta la stella, i Magi gioirono di grandissima gioia, ed entrati nella casa trovarono il bambino con Maria sua madre qui ci si inginocchia e prostratisi, lo adorarono. E aperti i loro tesori, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non passare da Erode, tornarono al loro paese per un altra strada.]

Omelia II

Sopra i Re Magi.

 [Discorsi di S. G. B. M. VIANNEY, curato d’Ars – Vol. I, IV ed., Ed. Marietti, Torino-Roma, 1933]

Vidimus stellam ejus, et venimus adorare eum.

Abbiamo visto la sua stella e siam venuti ad adorarlo.

Giorno felice per noi, giorno sempre memorabile, nel quale la misericordia del Salvatore ci ha tratto dalle tenebre dell’idolatria per chiamarci alla conoscenza della fede, nella persona dei Magi, che vengono dall’Oriente ad adorare e riconoscere il Messia per loro Dio e loro Salvatore in nostro nome. Sì, M. F., essi sono i nostri padri e i nostri modelli nella fede. Avventurati se noi siamo fedeli nell’imitarli e nel seguirli. Oh! esclamava con trasporti di amore e di riconoscenza S. Leone, Papa: “Angeli della città celeste, prestateci le vostre fiamme d’amore per ringraziare il Dio delle misericordie della nostra vocazione al Cristianesimo ed al salvamento eterno. „ Celebriamo, M. F., così ci dice il gran santo, con allegrezza, gli inizi delle nostre felici speranze. Ma, all’esempio dei Magi, siamo fedeli alla nostra vocazione, altrimenti tremiamo che Dio non ci faccia subire lo stesso castigo dei Giudei che erano il suo popolo eletto. Da  Abramo sino alla sua venuta, li aveva condotti come per mano, (Hebr. VIII, 9) e da per tutto si era mostrato il loro protettore e il loro liberatore; e poscia li rigettò e li respinse per causa del disprezzo che avevano fatto delle sue grazie. Sì, questa fede preziosa ci sarà tolta e sarà trasportata in altri paesi, se non ne pratichiamo le opere. Ora, vogliamo noi conservare fra di noi questo prezioso deposito? Seguiamo fedelmente le tracce dei nostri padri nella fede. Per formarci una debole idea della grandezza del beneficio della nostra vocazione al Cristianesimo, non abbiamo che a considerare quello che erano i nostri antenati prima della venuta del Messia, loro Dio, loro Salvatore, loro luce, loro speranza. Essi erano abbandonati in balia di ogni sorta di delitti e di disordini, nemici di Dio medesimo, schiavi del demonio, vittime destinate alle eterne vendette. Possiamo noi considerare uno stato così deplorevole, senza ringraziare Dio con tutto il nostro cuore, di aver voluto chiamarci alla conoscenza della vera religione, e di aver fatto tutto quello che ha fatto per salvarci? O favore, o grazia inestimabile, così preziosa e così poco conosciuta nel secolo sciagurato nel quale viviamo, dove la maggior parte non sono Cristiani che di nome! Ora, M. F., che cosa abbiamo fatto per averci preferiti a tanti altri che sono periti, e che periscono ancora tutti i giorni, nell’ignoranza e nel peccato? Ah! che dico? Noi siamo forse più indegni di questa sorte che non il popolo sventurato dei Giudei. Se noi siamo nati nel seno della Chiesa Cattolica, mentre tanti altri periscono fuori di essa, è per un effetto della bontà di Dio verso di noi. Parliamo dunque della vocazione alla fede. Considerando la fede nei Magi, noi vedremo che essi ne praticavano le opere e che la loro fedeltà alla grazia fu pronta, generosa e perseverante. Poscia noi confronteremo la nostra fede così debole con quella dei Magi che era così viva. Finalmente parleremo della riconoscenza che dobbiamo a Dio per il dono della fede che ci ha conceduto. Potremo mai abbastanza ringraziare il Signore di una tal sorte?

I. — 1° Noi diciamo dapprima che la fedeltà dei Magi alla grazia fu pronta. Infatti, appena hanno veduto la stella miracolosa, che, senza nulla esaminare, essi partono per recarsi a cercare il loro Salvatore, così solleciti, così divorati dal desiderio di arrivare al termine al quale la grazia, figurata dalla stella, li chiama, che nulla può trattenerli. Ah! quanto siamo lontani dall’imitarli! Da quanti anni Dio ci chiama colla sua grazia, ispirandoci il pensiero di abbandonare il peccato, di riconciliarci con lui? Ma sempre noi siamo insensibili e ribelli. Oh! quando sorgerà questo fausto giorno nel quale ci condurremo come i Magi, i quali abbandonarono ogni cosa per consacrarsi a Dio?

2° In secondo luogo noi diciamo che la loro fedeltà alla loro vocazione fu generosa, perché vinse tutte le difficoltà che vi si opponevano, per seguire la stella. Ahi quali sacrifici non hanno da fare? È necessario abbandonare il loro paese, la loro casa, la loro famiglia, il loro regno, o per meglio dire, è necessario allontanarsi da tutto ciò che hanno di più caro al mondo; è necessario che si aspettino di sopportare le fatiche di lunghi e penosi viaggi, e ciò, nella più rigorosa stagione dell’anno: tutto sembrava opporsi al loro disegno. Quanti scherni non ebbero da soffrire dalla parte dei loro eguali, come dal popolo! Ma no! nulla è capace di trattenerli in un atto così importante. Ed ecco precisamente in che consiste il merito della fede, di rinunciare ad ogni cosa, e di sacrificare quello che si ha di più caro per obbedire alla voce della grazia che ci chiama. Ah! se ne bisognasse di fare, par acquistare il cielo, dei sacrifici come quelli dei Magi, come sarebbe piccolo il numero degli eletti! Ma no, facciamo solamente quanto facciamo per gli affari temporali e noi siamo sicuri di acquistare il cielo. Vedete: un avaro lavorerà giorno e notte per adunare o per guadagnare del denaro. Vedete un ubriacone: egli si esaurirà e soffrirà tutta la settimana per avere qualche denaro per bere la domenica. Vedete quei giovani tutti dati ai piaceri! Essi faranno due o tre leghe nello scopo di trovare qualche piacere scipito, e mescolato d’amarezza. Ritorneranno la notte, sotto un tempo perverso. Arrivati in famiglia, invece d’essere compassionati, saranno ripresi, almeno se i genitori non hanno ancora perduta la memoria che Dio un giorno domanderà conto della loro anima. E voi medesimi vedete che in tutto ciò vi sono dei sacrifici da fare, tuttavia nulla scoraggia, e si viene a capo di tutto; gli uni per frode, gli altri per inganno, si riesce in tutto. Ma ah! quando si tratta di ciò che riguarda il salvamento, che cosa facciamo noi? Quasi ogni cosa ci sembra impraticabile. Confessiamo, che il nostro accecamento è molto deplorevole, di fare tutto quello che facciamo per questo miserabile mondo e di non far nulla per assicurarci la nostra felicità eterna. – Vediamo ancora sino a qual punto i Magi spingono la loro generosità. Arrivati a Gerusalemme, la stella che li aveva condotti nel loro viaggio scomparve. Essi si credevano, certamente, nel luogo dove era nato il Salvatore che venivano ad adorare, e si avvisavano che tutta Gerusalemme sarebbe al colmo della più grande gioia, per la nascita del suo liberatore. Quale meraviglia! quale sorpresa per essi! Non solamente Gerusalemme non presenta alcun segno di gioia, essa ignora persino che è nato il suo liberatore. I Giudei sono pure sorpresi di vedere i Magi recarsi ad adorare il Messia, come i Magi sono meravigliati che un tal avvenimento sia loro annunciato. Qual prova per la loro fede! Qual altra ne occorreva per farli rinunciare al loro disegno e farli ritornare il più segretamente possibile nel loro paese, per tema di servir di favola a tutta Gerusalemme? Ah! ecco quello che molti di noi avrebbero fatto, se la loro fede fosse stata sottoposta ad una simile prova. Non fu senza mistero che la stella scomparve: era per risvegliare la fede dei Giudei che chiudevano gli occhi sopra un tale avvenimento; era necessario che venissero degli stranieri per rimproverare il loro accecamento. Ma tutto ciò, lungi dallo scuotere i Magi, all’opposto non fa che raffermarli nella loro risoluzione. Abbandonati in apparenza da questo lume, si scoraggeranno i nostri santi Re? Abbandoneranno tutto? Ah! se fossimo stati noi, certamente sarebbe stato necessario molto meno. Essi si volgono da un’altra parte: si recano a consultare i dottori che sapevano avere tra le mani le profezie che loro indicavano il momento nel quale il Messia nascerebbe, e domandano loro in qual luogo il nuovo Re dei Giudei deve nascere. Mettendosi sotto dei piedi ogni rispetto umano, essi penetrano persino nel palazzo di Erode, e gli domandano dov’è questo Re nuovamente nato, dichiarandogli, senza alcun timore, che sono venuti per adorarlo. Che il re si offenda di questo linguaggio, nulla vale a trattenerli in una ricerca così importante. Essi vogliono a qualunque costo trovare il loro Dio. Quale coraggio, quale fermezza! A qual punto ci troviamo noi che temiamo un piccolo scherno? Un “che si dirà” ci impedisce di compiere i nostri doveri di religione e di frequentare i sacramenti. Quante volte non abbiamo arrossito di fare il segno della croce prima e dopo di aver preso il nostro cibo? Quante volte il rispetto umano ci ha fatto trasgredire le leggi dell’astinenza e del digiuno, nel timore d’essere segnati a dito e di essere tenuti in conto di buoni Cristiani? A qual punto siamo noi? Oh! qual onta, quando, al giorno del giudizio, il Salvatore confrontando la nostra condotta con quella dei Magi, i nostri padri nella fede, i quali hanno tutto abbandonato e tutto sacrificato piuttosto che resistere alla voce della grazia che li chiamava.

3° Vedete di giunta quanto fu grande la loro perseveranza. I dottori della legge dicono loro che il Messia doveva nascere a Betlemme e che il tempo era arrivato. Appena hanno ricevuto la risposta, che essi partono per questa città. Non dovevano aspettarsi che accadesse quello che accadde alla Ss. Vergine e a S. Giuseppe? Il concorso non sarebbe così grande, che essi non troverebbero luogo? Potevano essi dubitare che i Giudei i quali, da quattro mila anni attendevano il Messia, non corressero in folla a gettarsi ai piedi di questa culla, per riconoscerlo per loro Dio e per loro liberatore? Ma no, nessuno si muove: i Giudei sono immersi nelle tenebre, e vi restano. Bella immagine del peccatore che non cessa di udire la voce di Dio che gli grida colla voce dei suoi pastori di abbandonare il suo peccato per consacrarsi a Lui, e non ne rimane che più colpevole e più indurato. Ma torniamo ai santi re Magi. Essi partono soli da Gerusalemme; come sono esatti! Oh! qual fede! Dio li abbandonerà senza ricompensa? No, certamente. Appena sono usciti dalla città, che quella stella miracolosa ricomparve davanti ad essi, sembra prenderli per la mano per farli arrivare a questo povero tugurio di miseria e di povertà. Essa si ferma e sembra dir loro: Ecco colui che io vi ho annunciato. Ecco colui che è aspettato. Sì, entrate: voi lo vedrete. Egli è colui che è generato da tutta l’eternità, e che nasce, vo’ dire, che prende un corpo umano che deve sacrificare per salvare il suo popolo. Che questo apparato di miseria non vi ributti. Egli è in fasce, ma è quel medesimo che sprigiona la folgore dal più alto dei cieli. La sua vista fa tremare l’inferno, perché l’inferno vi vede il proprio vincitore. Questi santi Re sentono, in questo momento, i loro cuori così divampanti d’amore che si gettano ai piedi del loro Salvatore bagnando quella paglia delle loro lagrime. Quale spettacolo, che dei re riconoscano per loro Dio e Salvatore un bambino adagiato in un presepio tra due vili animali! Oh! la fede è qualche cosa di prezioso! Non solamente questo stato di povertà non li ributta; ma essi ne sono più commossi ed edificati. I loro occhi sembravano non potersi saziare dal considerare il Salvatore del mondo, il Re del cielo e della terra, il Padrone di tutto l’universo in un tale stato. Le delizie delle quali i loro cuori furono inondati furono talmente abbondanti, che essi consacrarono al loro Dio tutto quello che avevano. Da questo momento offrono a Dio le loro persone; non vogliono essere padroni neppure delle loro persone. Non contenti di questa offerta, offrono ancora tutto il loro regno. Giusta il costume degli Orientali, i quali non avvicinavano mai i grandi principi senza fare dei presenti, essi offrono a Gesù le più ricche produzioni del loro paese, cioè dell’oro, dell’incenso e della mirra, e, con questi presenti, essi esprimono perfettamente le idee che avevano concepite del Salvatore, riconoscendo la divinità sua, la sua sovranità e la sua umiltà. La sua divinità, coll’incenso, che non è dovuto che a Dio solo; la sua umanità, colla mirra, che serve ad imbalsamare i corpi; la sovranità sua, con l’oro, che è il tributo ordinario, del quale ci serviamo per pagare i sovrani. Ma questa offerta esprimeva ancor meglio i sentimenti del loro cuore: la loro ardente carità era manifestata dall’oro che è il simbolo; la loro tenera devozione era figurata dall’incenso; i sacrifici che essi facevano a Dio di un cuore mortificato, erano rappresentati dalla mirra. Quale virtù in questi tre Orientali! Dio, vedendo la disposizione dei loro cuori, non doveva dire quello che disse alcun tempo dopo, che non aveva veduto fede più viva in tutto Israele (Matt. VIII, 10)! Infatti, i Giudei avevano il Messia in mezzo a loro, e non vi ponevano mente ; i Magi, benché molto lontani, venivano a cercarlo ed a riconoscerlo per loro Dio. I Giudei, dopo alcun tempo, lo trattano come il più colpevole che la terra abbia portato, e finiscono coll’appenderlo alla croce nell’atto stesso che Egli forniva delle prove evidenti della sua divinità; mentre i Magi lo veggono adagiato sopra la paglia, ridotto alla più vile condizione, si gettano ai suoi piedi per adorarlo, e lo riconoscono per loro Dio, loro Salvatore e loro liberatore. Oh! che la loro fede è qualche cosa di prezioso! Se noi avessimo la sorte di ben comprenderlo, quale cura non avremmo di conservarla in noi!

II. — Quali sono quelli che noi imitiamo, i Giudei o i Magi? Che cosa vediamo nella maggior parte dei Cristiani? Ah! una fede debole e languida; e quanti non hanno neppure la fede dei demoni i quali credono che esiste un Dio e tremano alla presenza sua? „ (Jac. II, 19) Torna facile l’esserne convinti. Vedete se noi crediamo che Dio risiede nelle nostre chiese, quando parliamo, volgiamo il capo da una parte e dall’altra e che non ci mettiamo solamente ginocchioni nel momento che Egli ci addimostra l’eccesso del suo amore, vo’ dire nel momento della comunione e della benedizione. Crediamo noi che esiste un Dio? Oh! no, o se noi lo crediamo è per oltraggiarlo. Qual uso facciamo noi del dono prezioso della fede e dei mezzi di salvamento che troviamo nel seno della Chiesa Cattolica? Quale rassomiglianza tra la nostra vita e la santità della nostra religione? Possiamo noi asserire che la nostra professione è conforme alle massime del Vangelo, agli esempi che Gesù Cristo ci ha dati? Stimiamo noi, pratichiamo tutto quello che Gesù Cristo stima e pratica? Vo’ dire, amiamo la povertà, le umiliazioni, il disprezzo? Preferiamo la qualità di Cristiani a tutti gli onori e a tutto quello che possiamo possedere e desiderare sopra la terra? Abbiamo noi per i sacramenti quel rispetto, quel desiderio e quell’impegno per approfittare delle grazie che il Signore ci prodiga? Ecco gli oggetti sopra i quali ciascuno di noi deve esaminarsi. Ah! quanto sono grandi ed amari i rimproveri che noi dobbiamo muovere a noi stessi sopra questi diversi oggetti! Alla vista di tante infedeltà e ingratitudini, noi dobbiamo tremare che Gesù Cristo ci tolga, come ai Giudei, questo dono prezioso della fede, per trasportarlo in altri regni dove se ne farà un uso migliore. Perché i Giudei hanno cessato di essere il popolo di Dio? Non è stato per causa del disprezzo che hanno fatto delle sue grazie? State sull’avviso, ci dice S. Paolo (Rom. X, 20), se voi non restate incrollabili nella fede, sarete come i Giudei, rigettati e respinti. Ah! chi non tremerebbe che ci incolga una simile sventura, considerando che esiste così poca fede sopra la terra? Infatti qual fede si scorge tra i giovani i quali dovrebbero consacrare la primavera dei loro giorni al Signore, per ringraziarlo d’averli arricchiti di questo prezioso deposito? All’opposto non si veggono occupati, gli uni a soddisfare le loro vanità, gli altri ad accontentarsi nei piaceri?  Non sono costretti di confessare che sarebbe necessario di insegnar loro che hanno un’anima? Sembra che Dio non l’abbia loro conceduta che per perderla. — Qual fede troviamo noi fra coloro che hanno toccato l’età matura, che cominciano ad essere disingannati delle follie della giovinezza? Non sono essi tutto occupati, notte e giorno, per aumentare  i loro beni? Pensano essi a salvare la povera anima, della quale la fede loro dice che se la perdono, tutto è perduto per essi? No, no, poco loro importa che sia perduta o salvata, purché aumentino le loro ricchezze! — Finalmente, qual fede scorgesi fra i vecchi i quali, fra breve, saranno citati a comparire davanti a Dio per render conto della loro vita, la quale, forse, non è stata che una serie di peccati? Pensano essi ad approfittare del poco tempo che Dio, nella sua misericordia, vuol loro ancora concedere, e che non dovrebbe essere consacrato che a piangere le loro colpe? Non si veggono e non si udranno, quante volte l’occasione si presenti, encomiare i piaceri che hanno gustato nelle follie della loro giovinezza? Ah! M. F., non saremo dunque costretti di confessare che la fede è quasi spenta, o piuttosto, è quello che dicono tutti coloro che non hanno ancora abbandonato la loro anima alla tirannia del demonio. Infatti, qual fede si può sperare di trovare in un Cristiano il quale resterà tre, quattro o sei mesi senza frequentare i sacramenti? Ah! e quanti che restano un anno intero, e molti altri, tre o quattro anni? Temiamo, M. F., temiamo di provare gli stessi castighi coi quali Dio ha colpito tante altre nazioni, le quali, forse, li avevano meno meritati di noi che siamo stati collocati nel luogo dei Giudei, e dai quali tuttavia la fede è stata trasportata altrove. E che; cosa dobbiamo fare per avere la sorte di non esserne mai privati? Converrà fare come i Magi i quali si studiarono continuamente di rendere la loro fede più viva. Vedete come i Magi sono attaccati a Dio colla fede! Quando sono ai piedi della culla, essi più non pensano ad abbandonare il loro Dio. Essi si conducono come un fanciullo che sta per separarsi da un buon padre, che sempre indugia, e ondeggia per cercare dei pretesti, affin di prolungare la sua felicità. A grado che il tempo si avvicina, scorre il pianto, il cuore si strazia. Della guisa medesima i santi Re. Quando convenne lasciare la culla, essi piangono a calde lagrime, sembravano essere legati da catene. Da una parte erano pressati dalla carità di recarsi ad annunciare questa felicità a tutto il loro regno; dall’altra essi erano obbligati di separarsi da colui che erano venuti a cercare di lontano, e che avevano trovato dopo molte difficoltà. Essi si guardavano l’uno l’altro per vedere colui che partirebbe il primo. Ma l’angelo disse loro che bisognava partire, recarsi ad annunciare questa felice novella ai popoli dei loro regni, ma di non ritornare da Erode: che se Erode aveva loro detto di prendere tante precauzioni, di informarsi minutamente per indicargli il luogo della sua nascita, ciò non era che per farlo morire; ma che era necessario battere un’altra strada. Bella figura d’un peccatore convertito, che ha lasciato il peccato per consacrarsi a Dio; egli non deve ripresentarsi nel luogo nel quale prima si recava. Queste parole dell’angelo li costrinsero del più vivo dolore. Nel timore di avere la sventura di essere la causa della sua morte, dopo di aver preso commiato da Gesù, da Maria e da Giuseppe, essi partono il più segretamente possibile, non battono la grande strada, per tema di destare qualche sospetto. Invece di alloggiare nelle locande, passano le notti ai piedi degli alberi, nel seno delle rocce, e a questo modo percorrono quasi trenta leghe. Appena sono arrivati nel loro paese che essi annunciano a tutti i loro regnicoli il loro disegno di lasciar tutto, di abbandonar tutto ciò che possedevano, non potendo risolversi a possedere qualche cosa, dopo di aver veduto il loro Dio in una così grande povertà; e si reputavano infinitamente felici di poterlo imitare almeno in questo. Le notti sono consacrate alla preghiera, e i giorni a recarsi nelle case, per mettere ognuno a parte della felicità loro, di tutto ciò che avevano veduto in questa stalla, delle lagrime che questo Dio che nasceva aveva già sparse per piangere i loro peccati. Essi esercitavano rigorose penitenze sui loro corpi; rassomigliavano a tre angeli i quali percorrevano le province del loro paese per preparare le vie del Signore; essi non potevano parlare del dolce Salvatore senza versare continue lagrime, ed ogni volta che si intrattenevano insieme di questo felice momento nel quale si trovavano in questa stalla, sembrava loro di morire d’amore. Oh! non potevano essi dire a se medesimi come i discepoli di Emmaus (Luc. XXIV, 32.)  “I nostri cuori non erano ardenti d’amore quando eravamo prostrati ai suoi piedi in quel povero tugurio di miseria? „ Ah! se essi avevano avuto la sorte che noi ora abbiamo, di portarlo nel loro cuore, non avrebbero esclamato coi medesimi trasporti d’amore che in progresso di tempo S. Francesco: “Oh! Signore, diminuite l’amor vostro, e aumentate le mie forze, io non posso più reggere? „ Oh! con quale gran cura non l’avrebbero conservato! Se si avesse loro detto che un sol peccato glielo farebbero loro perdere, non avrebbero cento volte preferito di morire che di attirarsi una tale sventura? Oh! che le loro vite furono pure ed edificanti nel volgere degli anni che sopravvissero alla nascita del Salvatore! – Si narra che S. Tommaso dopo l’ascensione del Salvatore, si recò ad annunciare il Vangelo nel loro paese. Li trovò tutti e tre. Dopo che erano usciti dalla stalla, non avevano cessato di estendere la fede nel loro paese. S. Tommaso rapito di vederli così ripieni dello spirito di Dio e giunti ad una così prestante santità, trovò tutti i cuori già disposti a ricevere la grazia del salvamento, per le sollecitudini che avevano preso i santi Re. Raccontò loro tutto quello che il Salvatore aveva operato e sofferto dal momento che avevano avuto la sorte di vederlo nella mangiatoia, che era vissuto sino all’età di trenta anni, che aveva lavorato nell’oscurità, che era sottomesso alla Ss. Vergine ed a S. Giuseppe, che erano vissuti con lui, e che S. Giuseppe era morto molto tempo prima di lui; ma che la Ss. Vergine viveva ancora, che era uno dei discepoli di Gesù che ne aveva la cura. Raccontò loro che il Salvatore aveva sofferto nel volgere degli ultimi tre anni della sua vita tutto quello che si avrebbe potuto far soffrire al più grande ribaldo del mondo: che quando annunciava che era venuto per salvarli, che era il Messia aspettato da tanti secoli, che insegnava loro quello che era necessario di fare per approfittare delle grazie che loro recava, era cacciato dalle assemblee. Egli aveva percorsi molti paesi guarendo gli ammalati che gli si recavano innanzi, risuscitando i morti e liberando le persone possedute dal demonio. La causa della sua morte fu uno di coloro che aveva scelti per annunciare il Vangelo, il quale, dominato dall’avarizia, lo vendette per 30 denari. Lo si era legato come un ribaldo, attaccato ad una colonna, flagellato crudelmente, in modo da essere irriconoscibile. Lo si era trascinato per le vie di Gerusalemme, carico di una croce che lo faceva cadere ad ogni passo; il suo sangue bagnava le pietre per dove passava, e, come cadeva, i carnefici lo facevano alzare percuotendolo; che avevano finito coll’appenderlo alla croce e che, lontano dal vendicarsi di tanti oltraggi, non aveva cessato di pregare per essi; che era spirato sopra questa croce, sotto della quale coloro che passavano e i Giudei lo coprivano di maledizioni. Poi, tre giorni dopo, era risuscitato, come aveva predetto; e scorsi quaranta giorni era salito al cielo. Tommaso ne era stato testimonio, come gli apostoli che avevano seguito Gesù nella sua missione. Al racconto di tutto ciò che il Salvatore avea sofferto, i santi Re sembravano non poter più vivere. L’hanno fatto morire, quel tenero Salvatore! dicevano essi. Hanno potuto essere così crudeli? Ed Egli ha loro perdonato! Oh! quanto è buono! quanto è misericordioso! E non potevano frenare le loro lagrime, né i loro singhiozzi, tanto profondamente erano penetrati dal dolore. S. Tommaso li battezzò, li ordinò sacerdoti, e li consacrò Vescovi, perché avessero maggior potere di propagare la fede dopo la loro consacrazione. Essi erano così animati dell’amore di Dio, che gridavano a quanti incontravano: Venite, venite, noi vi racconteremo quello che ha sofferto questo Messia che noi abbiamo veduto in quella mangiatoia. Sembrava che ad ogni istante, essi fossero rapiti fino in cielo, tanto l’amore di Dio divampava nel loro cuore. Tutta la loro vita con fu che una serie di miracoli e di conversioni. Come erano stati uniti nel tempo della loro vita in un modo così intimo, Dio permise che fossero sepolti nella medesima tomba. Il primo che morì fu collocato dalla parte destra; ma alla morte del secondo, come lo si collocava a lato dell’altro, colui che era sepolto il primo cedette il suo posto all’altro; finalmente quando venne la volta dell’ultimo, i due morti prima si scostarono per fargli luogo nel mezzo, come fosse più glorioso per lui, di aver per un tempo più lungo lavorato per il Salvatore. Essi erano stati così ripieni dell’umiltà del loro Maestro, che lo manifestarono anche dopo la loro morte. Dopo la loro vocazione alla fede, essi avevano sempre aumentato in virtù ed in amore di Dio. Oh! quanto saremmo felici, se seguissimo le tracce dei nostri avi nella fede, i quali credevano che tutto quello che operavano era nulla.

III. — E che dobbiamo noi fare per addimostrare a Dio la nostra riconoscenza, di averci somministrati dei mezzi così facili per salvarci? Noi dobbiamo essergli riconoscenti. Se nel mondo, il più piccolo servigio non è ricambiato, noi siamo mossi a mormorare; qual giudizio deve recare il nostro Dio della nostra ingratitudine? Mosè, prima di morire, fa radunare il popolo intorno a sé, e gli racconta tutti i benefizi di cui il Signore non aveva cessato di ricolmarlo, soggiungendo che, se non fosse riconoscente, doveva aspettarsi i più grandi castighi; ed è ciò che precisamente gli accadde, poiché è stato abbandonato da Dio! Ah! M. F., i benefizi dei quali Dio ci ha ricolmi sono di gran lunga più preziosi di quelli dei Giudei. Oh! se voi poteste interrogare i vostri avi e comprendere per quale via siete venuti fino al battesimo, per quale via la Provvidenza vi ha condotti fino a questo momento fortunato nel quale voi siete rivestiti del dono prezioso della fede! Dopo di aver rimossi tutti i pericoli e tutti gli accidenti che avrebbero potuto soffocarvi, come tanti altri, nel seno delle vostre madri, il Signore, appena vedeste la luce del giorno, vi accolse tra le sue braccia, il mio figlio diletto. Da questo momento, non vi ha più perduto di vista. A grado che la vostra ragione si è svolta, i vostri padri, le madri vostre e i vostri pastori non hanno cessato di annunciarvi i benefizi che il Salvatore ci promette se lo serviamo. Egli non cessa di vegliare sopra la nostra conservazione come su la pupilla del suo occhio. Lo Spirito Santo ci dice che il Signore, facendo uscire il suo popolo dall’Egitto e conducendolo nella Terra promessa, si rassomiglia ad un’aquila la quale vola intorno a’ suoi piccini per eccitarli a volare, li prende e li porta sopra le sue ali (Deuter. XXXII, 11); „ ecco precisamente quello che opera Gesù Cristo per noi. Egli protende le sue ali, vo’ dire le sue braccia in croce, per riceverci e per eccitarci cogli insegnamenti suoi e co’ suoi esempi a staccarci da questo mondo, e ad ergerci al cielo con lui. La Scrittura santa ci narra che gli Israeliti furono stabiliti, per un favore singolare della bontà sua, nel paese di Canaan, per gustarvi il miele così eccellente che trovavano nel cavo delle pietre, per nutrirsi del fiore più puro del frumento, e per bere il vino più squisito (ibid. 13, 14). Sì, tutto ciò non è che una pallida immagine dei beni spirituali dei quali possiamo usufruire nel seno della Chiesa. Non è nelle piaghe di Gesù Cristo che noi troviamo le più grandi consolazioni? Non è nei sacramenti che noi gustiamo quel vino così delizioso la cui dolcezza e la cui forza inebriano le nostre anime? Qual cosa Dio poteva fare di più per noi? Quando il profeta Nathan fu mandato a Davide per riprenderlo del suo peccato, gli disse: “Ascolta, o principe, ecco quello che dice il Signore: Io ti ho salvato dalle mani di Saulo per farti regnare in suo luogo; io ti ho concesso tutti i beni e tutte le ricchezze della casa di Giuda e d’Israele, e, se tu tieni ciò in poco conto, soggiunse, io sono pronto a fare ancora di più „ (II Reg. XII, 7,8). Ma per noi, che può Egli concederci di più, quando ci mette a parte di tutti i suoi tesori? Qual è la nostra riconoscenza, o piuttosto qual disprezzo, qual abuso ne facciamo noi? Qual caso, qual uso facciamo noi della parola di Dio che ci si annuncia così spesso? Oh! quanti infelici che non conoscono Gesù Cristo! ai quali questa parola santa non è mai stata annunciata, e che diventerebbero gran santi se avessero solamente i rilievi di questo sacro pane, che non si cessa di prodigarvi e che voi lasciate perdere! Qual uso facciamo noi della confessione, nella quale Dio ci appalesa quanto grande è la misericordia sua, nella quale basta il far conoscere le piaghe della nostra povera anima per essere guariti? Ah! la maggior parte disprezzano questo rimedio, e gli altri vi si accostano il più raramente che possono. Qual uso facciamo noi della santa comunione e della santa Messa? Se non esistesse nel mondo cristiano che una sola chiesa nella quale si celebrasse questo augusto mistero, nella quale si consacrasse e nella quale fosse permesso di visitare e di ricevere il corpo e il sangue prezioso di Gesù Cristo, noi sentiremmo certamente una grande invidia verso coloro che fossero alle porte di questa chiesa, i quali potrebbero visitarlo e riceverlo tutte le volte che lo desiderassero. Noi siamo questo popolo scelto; noi siamo alla porta di questo luogo così santo, così puro, nel quale Dio si immola ogni giorno. Qual uso facciamo noi di questa felicità? Quando Dio verrà a giudicare il mondo, un Giudeo, un idolatra, un maomettano potrà dire: Oh! se io avessi avuto la fortuna di vivere nel seno della Chiesa Cattolica, se fossi stato Cristiano, se avessi ricevuto le grazie che aveva questo popolo eletto, io sarei vissuto in altro modo. Sì, M. F., noi abbiamo ricevuto queste grazie e questi favori di predilezione. Ma, ancora una volta, qual uso ne facciamo, dov’è la riconoscenza nostra? No, no, la ingratitudine nostra non rimarrà impunita; Dio, nella sua collera, ci toglierà quei beni che teniamo in sì poco pregio, o piuttosto che noi disprezziamo e facciamo servire a commettere il peccato. Io non dico che la siccità, le inondazioni, i geli, le gragnuole, le malattie e tutti i flagelli della sua giustizia ci incoglieranno: tutto ciò è nulla, benché tutto ciò sia una parte della punizione della nostra ingratitudine. Ma un tempo verrà, nel quale Dio vedendo il disprezzo che noi facciamo di questo dono prezioso che ci è stato trasmesso dai nostri padri nella fede, ci sarà tolto per essere concesso ad altri. Ah! non siamo noi stati vicini a perdere la nostra fede, nei giorni nefasti che abbiamo trascorsi? Non fu un avvertimento col quale Dio sembrava dirci, che se noi non ne facevamo un uso migliore, ci sarebbe tolta? Questo solo pensiero non dovrebbe farci tremare e raddoppiare le nostre preghiere e le nostre buone opere, affinché Dio non ci privi di questa felicità? Non dovremmo, come i Magi, essere pronti a ogni cosa piuttosto che perdere questo tesoro? Sì, M. F., imitiamo i Magi. E per essi che Dio ci ha trasmesso la fede; è in essi che noi troviamo il modello il più perfetto d’una fede viva, generosa e perseverante. Uniti di spirito e di cuore ai santi Re Magi, rechiamoci a Gesù Cristo, e adoriamolo come nostro Dio: amiamolo come Salvator nostro, attacchiamoci a Lui come a Re nostro. Presentiamogli l’incenso d’una preghiera fervorosa,  la mirra d’una vita penitente e mortificata,  l’oro d’una carità pura; o meglio, facciamogli, come i Magi, una offerta universale di tutto ciò che noi abbiamo e di tutto ciò che noi siamo; e non solamente Dio ci conserverà questo deposito prezioso della fede, ma la renderà ancor più viva, e, con tal mezzo, noi piaceremo a Dio e ci assicureremo una felicità che non avrà termine. È quello che io vi desidero.

Credo…

IL CREDO

Offertorium

Orémus
Ps LXXI:10-11
Reges Tharsis, et ínsulæ múnera ófferent: reges Arabum et Saba dona addúcent: et adorábunt eum omnes reges terræ, omnes gentes sérvient ei.

[I re di Tharsis e le genti offriranno i doni: i re degli Arabi e di Saba gli porteranno regali: e l’adoreranno tutti i re della terra: e tutte le genti gli saranno soggette.]

Secreta

Ecclésiæ tuæ, quǽsumus, Dómine, dona propítius intuere: quibus non jam aurum, thus et myrrha profertur; sed quod eisdem munéribus declarátur, immolátur et súmitur, Jesus Christus, fílius tuus, Dóminus noster:

[Guarda benigno, o Signore, Te ne preghiamo, alle offerte della tua Chiesa, con le quali non si offre più oro, incenso e mirra, bensì, Colui stesso che, mediante le medesime, è rappresentato, offerto e ricevuto: Gesù Cristo tuo Figlio e nostro Signore.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Matt II:2
Vídimus stellam ejus in Oriénte, et vénimus cum munéribus adoráre Dóminum.

[Vedemmo la sua stella in Oriente, e venimmo con doni ad adorare il Signore.]

Postcommunio

Orémus.
Præsta, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, quæ sollémni celebrámus officio, purificátæ mentis intellegéntia consequámur.

[Concedici, Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, che i misteri oggi solennemente celebrati, li comprendiamo con l’intelligenza di uno spirito purificato.]

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA