IL SACRO CUORE DI GESÙ (19): Il Sacro Cuore di GESÙ e la società

Il Sacro Cuore di Gesù e la società.

Esiste Dio ed esiste l’uomo; Dio infinito ed eterno e l’uomo finito e mortale. Dio adunque è il Creatore, il padrone, il benefattore; l’uomo, la creatura, il servo, il beneficato. Potrà essere pertanto, che l’uomo creatura, servo e beneficato di Dio. possa fare a meno di Lui e vivere senza darsene alcun pensiero e senza rendergli alcun omaggio? E potrà essere ancora, che Iddio dopo d’aver creato l’uomo, lo lasci abbandonato nelle mani del caso, senza inchinarsi mai verso di quest’opera sua. senza punto curarsi della sua felicità? Il supporre tutto ciò sarebbe far dell’uomo un bruto, e di Dio un imbecille. No, l’uomo, dotato di ragione per conoscere e di cuore per amare, non può non tendere al conoscimento ed all’amore di Dio; e se egli non vi si applica per sua negligenza o per sua deliberata volontà, violenta la sua natura. E Dio da parte sua, avendo creato l’uomo nell’amore, non per necessità certamente, ma ancora per amore vuol farsi vicino all’uomo, mettersi in intima relazione con lui, pigliarsene cura, ascoltare i suoi gemiti, le sue preghiere, i suoi bisogni, come fa una madre col bambino, che ha dato alla luce. Ed ecco, o miei cari, in questo ammirabile discendimene di Dio con l’uomo e in questa sublime ascensione dell’uomo a Dio, ecco la Religione; ed ecco ancora per l’uomo il suo fine, la sua felicità. Fuori di Dio, senza Dio, lontano da Dio, l’uomo nella irreligione, per quanto possa apparire uomo e felice, non è che un miserabile in preda alle angosce più tormentose, alle torture più orribili. Ma quello che è dell’uomo individuo, non lo è meno dell’uomo-società. Poiché Iddio ha fatto l’uomo sociale, è Dio ancora, che ha fatto la società, e ne ha cura. E la società fatta da Dio e da Dio curata, ancor essa non può viver e senza di Lui, senza basarsi in Lui, senza stare sul le sue braccia, senza tendere al suo pieno possesso, giacché, come nota S. Tommaso, il fine della società non può esser altro che quello dell’uomo individuo. In quel dì pertanto, che la società si attenta di vivere senza Dio, comincerà a sentire nel suo seno dolori spaventosi, terribili sconvolgimenti, forieri della sua rovina nel tempo e nell’eternità. Or ecco, o miei cari, uno dei supremi benefizi, che Gesù Cristo, venuto al mondo per la salvezza dell’umanità, le ha recato. Egli per mezzo della sua Religione, della sua dottrina, dei suoi dogmi e della sua morale, non solo si è studiato di mettere Dio nel cuore dell’uomo individuo, perché l’uomo individuo con Dio nel cuore viva in pace quaggiù e un giorno sia felice in cielo, ma si è ancora adoperato per mettere Dio, più che era possibile, nel cuore, nell’anima, nella vita della società, perché la società animata in tutte le sue differenti classi, dalla fede, dall’amore e dal timore di Dio, godesse essa pure la pace qui in terra, e un giorno fosse incorporata nella società dei beati in cielo. Sì, certamente, la Religione santissima che Gesù Cristo è venuto a stabilire quaggiù è essa la base, la fonte, la generatrice dell’ordine, della pace, della prosperità di qualsivoglia popolo. Non è possibile adunque gettare lo sguardo sopra le fiamme, che invadono il Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo, senza rammentare questa prova così grande, e pur troppo così poco considerata e riconosciuta, della sua carità infinita per noi. Ma se vi è tempo tanto opportuno di considerarla e riconoscerla, è certamente questo, in cui il delitto esecrando, a cui si è posto mano, anche nell’Italia nostra, è propriamente questo: di rinchiudere Iddio nelle Chiese e nel cuore di chi ancora intende di aprirglielo, di sbandeggiare Iddio dalle credenze, dai costumi nazionali, dalle assemblee, dalle leggi, dall’esercito, dalle scuole, dalle officine, da tutto ciò insomma, che forma la vita della società. Vediamo adunque come Gesù Cristo con la sua Religione abbia dato alla società il gran mezzo del suo benessere.

I. Come ogni corpo umano è formato del capo, che governa, e delle membra che sono governate, e come le membra di questo corpo non sono tra di loro uguali, perché non hanno lo stesso fine e lo stesso ufficio da compiere, così ha da essere di un corpo sociale. Ancor esso deve avere il capo che governi e le membra che siano governate; e le membra di questo corpo non possono aver neppur esse nella vita sociale né le stesse proprietà, né lo stesso aspetto, né la stessa importanza. Queste sono verità di senso comune, e non hanno bisogno di altro che di essere enunciate. Coloro, che contro il senso comune sognano di togliere i capi alle società, ne attentano la dissoluzione, perché dove non vi è capo il popolo cade: Ubi non est gubernator, populus corruet; (Prov. IX, 14) e quegli altri, che si travagliano per togliere dalle società le disuguaglianze e i contrasti, anzitutto si travagliano intorno ad un opera inutile, perché le disuguaglianze ed i contrasti derivano da cause indistruttibili, che durano da che dura il mondo, e si rinnoveranno sino all’ultima generazione; e supponendo pure che avessero a riuscirvi non potrebbero far altro che ridurre la società presente bella, libera e grande nella sua varietà, ad una società uniforme, volgare, laida, abbruttita e vile. Ciò prestabilito, io dico tuttavia che uno degli spettacoli più meravigliosi, che possa presentare il mondo è quello della sussistenza di un popolo, i cui membri siano in unione, in armonia, in pace fra di loro. Questo popolo, come ogni altro si compone necessariamente di governanti e di sudditi, di padroni e di operai, di signori e di servitori, di ricchi e di poveri, di forti e di deboli, di grandi e di piccoli. Ma in tanta disparità di condizioni regna l’ordine tuttavia, perché i deboli sono sostenuti dai forti, i poveri non invidiano la sorte dei ricchi, e i ricchi aiutano i poveri, i servitori e gli operai prestano volentieri il lavoro delle loro mani ai signori ed ai padroni, e i signori ed i padroni danno agli stessi la conveniente mercede e li trattano con bontà e con amore, i sudditi obbediscono ai governanti che esercitano con autorità e giustizia i loro poteri. Or come accade, che in un popolo siffatto i forti non si fanno ad opprimere i deboli, i poveri, che sono assai più numerosi dei ricchi, non sì lanciano contro le porte dei loro palagi per abbatterle e penetrare nelle loro sale e spogliarli dei loro averi, e i ricchi non legano alla catena questi poveri ad impedire l’invasione delle loro sostanze, e i servitori e gli operai non rinunziano alla fatica ed al servizio dei padroni con animo di invertire le parti, e i signori e i padroni non stivano in fondo agli ergastoli e i servitori e gli operai, e i governanti non schiacciano i sudditi? Come accade ciò? Che cosa è, che impedisce tra queste classi così diverse i cozzi spaventosi? Che cosa ingenera la pazienza, l’obbedienza, il rispetto nei piccoli, e la moderazione, la giustizia, la carità nei grandi? Che cosa salva la libertà, la grandezza e l’onore di questo popolo? Questa, o miei cari, è la domanda che si fecero gli stessi filosofi antichi, ogni qual volta si incontrarono in un tal popolo o lo immaginarono. E a questa domanda essi seppero rispondere esattamente anche col solo lume della ragione. « Nello stabilimento di uno Stato, ha detto Platone, noi dobbiamo invocare Iddio, perché Egli ci sia benigno e propizio e ci insegni le leggi che ne formeranno il benessere e l’ornamento. La vera base di uno Stato è la vera religione; epperò di nulla devono essere maggiormente solleciti i magistrati che della cura della religione e della punizione di ogni empietà. » Gli stessi sentimenti furono espressi colla medesima chiarezza da Senofonte, da Cicerone e da Valerio Massimo. E Pindaro, con uno di quei voli, che sono del tutto suoi, ha proclamato che lo stolto ed il vile possono bene sovvertire le città, ma a tornarle in fiore non vi riesce che il prode, il quale sa che perciò fa d’uopo aver Iddio propizio. – In sostanza, la stessa sapienza pagana ha intuito, che fondamento dell’armonia, della pace e della prosperità di un popolo, è la religione e l a vera Religione. Ma ciò che essa intuì, non poté mai vedere attuato, appunto perché ai suoi popoli mancava la vera religione. Epperò lo stesso popolo romano, benché si grande nel culto degli dèi, fu il popolo più furente nella lotta tra le diverse classi sociali. La sola religione adunque, ma ben inteso la sola Religione che Gesù Cristo è venuto a stabilire nel mondo, è quella che può condurre un popolo all’unione, all’armonia, alla pace, alla sua possibile perfezione, perché la sola Religione di Gesù Cristo è quella che co’ suoi

dogmi, co’ suoi insegnamenti, produce quelle virtù, che sono perciò indispensabili. Ed in vero è solo la Religione di Gesù Cristo  quella, che chiaramente ci disvela che nella società ogni potere viene da Dio ed è perciò ministro e rappresentante di Dio per il bene dei sudditi. Che quindi bisogna star soggetti al potere come si sta soggetti a Dio, e che chi resiste al potere è a Dio che resiste. È la sola Religione di Gesù Cristo adunque quella che dice anzi tutto al pubblico potere: « Rispettati, perché rappresenti Iddio; » e poi ai sudditi: « Rispettate il potere, obbeditelo, non per timor della pena, ma per coscienza, aiutatelo anzi con le vostre preghiere, affinché Iddio gli sia largo di consiglio e di forza. » È la sola Religione di Gesù Cristo, che ne insegna che sebbene vi siano nel mondo disparità di classi, tuttavia tutti siamo fratelli, perché figliuoli tutti di uno stesso padre che è Dio, perché tutti fatti a sembianza di un solo, perché tutti destinati a possedere Iddio eternamente in cielo. Ed è perciò questa sola Religione, che anche ai grandi impone di rispettare i piccoli, di amarli anzi, e di usare ad essi quella carità che si usa a Dio, perché è questa sola Religione, che ci mostra un Dio di sapienza infinita, che nel farsi uomo elegge la sorte dei piccoli a preferenza di quella dei grandi, e ci apprende che questo Dio ritiene fatto a sé quello che si fa al più piccolo degli uomini. È la sola Religione di Gesù Cristo ancora, che a tutti impone il rispetto per l’altrui proprietà e per l’altrui vita, la rassegnazione al proprio stato, e persino il sacrifizio non solo per il bene proprio, ma anche per il bene altrui. Si, è questa Religione, che dice a tutti: Sacrificatevi. Ti sacrifica tu, o contadino, che ti alzi prima che spunti l’aurora e pigliando la tua marra in spalla ti avvii al campo ad irrorarlo de’ tuoi sudori per procacciare al tuo popolo il pane ed il vino, necessari alla vita fisica. Ti sacrifica tu, o minatore, che discendi nelle viscere della terra per cavarne fuori il carbon fossile, il ferro, l’oro e l’argento, tu, o operaio nel battere i metalli, nel segare i legni, nello scalpellar le pietre, essendo tutto ciò necessario alla vita industriale. Ti sacrifica tu, o impiegato alle poste, ai telegrafi, alle strade ferrate, vegliando e viaggiando, mentre gli altri uomini sono abbandonati al sonno, per agevolare la vita di relazioni. Ti sacrifica tu, o soldato, nelle asprezze degli esercizi, nelle privazioni del campo, nel furore della battaglia, por conservare alla patria la vita dell’onore. Ti sacrifica tu, o scienziato, tu, o magistrato, tu, o uomo del potere tu, o governante, per dare al tuo paese la vita del benessere intellettuale, morale e sociale. Ti sacrifica tu, o sacerdote, per dare ai tuoi compagni non già la vita del tempo, ma quella dell’eternità. Sì, sacrificatevi tutti, perché è il sacrifizio la strada della gloria e della felicità di un popolo. È infine la sola Religione di Gesù Cristo, che dopo aver dati alla società questi grandi insegnamenti, tutti li sancisce efficacemente con l’idea della libertà e della responsabilità umana, con quella di un Dio supremo rimuneratore dei buoni e terribile punitore dei malvagi, di un eterno godere e di un eterno patire, gridando: «Guai ai tiranni! i potenti saranno potentemente tormentati. Guai ai ribelli! saranno gettati eternamente in catene. Guai ai ricchi senza cuore per il povero! Saranno eternamente sepolti nell’inferno. Guai ai poveri, ai piccoli, che odiano i grandi e i ricchi, che maledicono alla lor sorte! Guai, guai a tutti coloro, che trasgrediscono non solo i doveri individuali, ma eziandio quelli sociali! Beati invece i saggi governanti, beati i forti aiuto del debole, beati i ricchi caritatevoli col povero, beati gli operai che lavorano, beati i poveri che soffrono, sì beati tutti costoro, perché a tutti costoro sarà dato un giorno l’eterno premio. » Ecco, o miei cari, dove sta il gran segreto di un popolo ordinato e prospero: nella Religione di Gesù Cristo. Quale carità adunque non ha mai dimostrato Gesù Cristo verso la società, avendole dato una Religione ed una dottrina sociale così sublime ed insieme così efficace! Eh! io so bene, che certi saputi, ebbri del moderno filosofismo, vanno predicando, che ad ottenere tutto ciò possono bastare benissimo e l’idea del dovere e dell’onore, e il pensiero del proprio interesse, e l’autorità delle leggi, e il timore della forza. Ma è così realmente? È vero, che l’idea del dovere, il puro suo sentimento, sia sufficiente a far sopportare l’ineguaglianza delle condizioni, la povertà, la fatica? È vero che faccia incontrare generosamente il sacrifizio per non infrangere l’ordine della società? Ma dove ha radice questo dovere? Come sussiste? Perché si impone ad una classe soltanto di uomini? alla classe dei diseredati, dei nulla abbienti? — È vero che abbia tanta efficacia l’idea dell’onore? Un pubblicista ha scritto: « Poiché noi più non abbiamo la follia della croce, abbiamo in sua vece la follia dell’onore. » Ma che cosa è l’onore, o meglio ancora il punto d’onore, quando più non vi ha la coscienza? Che cosa vale il punto d’onore per la massa degli esseri volgari? E ben anche per certe anime elevate che cosa è in certe materie? Chi ignora quante infamie morali si possono commettere pur restando uomini di onore? — Dunque sarà più efficace il pensiero dell’interesse? Ma vi sono cento occasioni, in cui non è affatto nel proprio interesse di soffrire, di obbedire, di lavorare; e quando pure fosse vero il dire, che rassegnarsi alla propria condizione, per quanto infelice, è sempre del proprio interesse, essendo che l’ordine, che procede da tale rassegnazione, non manca di produrre dei grandi vantaggi, ciò è qualche cosa di troppo elevato e sottile, perché la società in genere arrivi a comprenderlo. E poi alla fin fine, a che si riducono questi grandi vantaggi, quando non si possa sperare quello imperituro del cielo? Gesù Cristo ha detto: « Beati quelli che piangono; » ma ha tosto soggiunto: « perché saranno consolati. » Costoro invece, che alla Religione vogliono sostituire l’interesse, vorrebbero dare ad intendere agli uomini, che sono beati nel patire, sopprimendo che saranno consolati. Ma gli uomini non sono così stolti! E ragionando diranno: Se dunque l’interesse è lo scopo della vita, speculiamo; e quando abbiamo l’interesse ad obbedire, a servire, a faticare, obbediamo, serviamo, fatichiamo; quando in ciò non vi è per noi alcun interesse, facciamo il comodo nostro. Oh Dio! Nessuno vi ha che non veda quanto sia bassa e calamitosa questa dottrina, quanto invilisca le anime, quanto guasti i caratteri e perverta il senso morale! E dunque saranno di maggior efficacia l’autorità delle leggi, e il timor della forza? Ma le leggi, diceva già Aristotile, sono come la tela di ragno, che ferma i moscherini e lascia passare gli uccelli di rapina. E poi dove mai le leggi attingeranno la loro autorità, se la Religione non conta e più non si crede al Legislatore supremo? Se queste leggi non si basano che sull’autorità dell’uomo, io non so perché le debba osservare, perché uomo sono anch’io uguale a colui che le ha fatte, e agli uguali non si presta obbedienza di sorta. In quanto poi alla forza, io tosto mi domando: E così, io, uomo dotato di un’intelligenza per ragionare e di un cuore per amare, dovrò stare al mio posto e seguire la mia strada come il giumento, solo per le minacce della sferza e in vista dei colpi di bastone? Ma in questo caso non potrei io come il giumento sprangar calci fatali a chi mi percuote? Non potrei io rompere le briglie e pigliare una corsa sfrenata per condurre al precipizio con me chi mi sta sopra? Ah! si moltiplichino pure all’infinito le leggi, si accresca a dismisura la forza, si raddoppino le precauzioni, si triplichino le serrature, si allarghino le prigioni, si aumentino le galere e i domicili coatti, si mettano gli stati d’assedio, si istituiscano i tribunali militari, si sguinzaglino gli eserciti, si punti il cannone, quest’ultima ragione dei re, e si spari contro le moltitudini in rivolta: tutto ciò potrà atterrirle per qualche giorno e domarne la ferocia, ma non ristabilire il vero ordine e la vera tranquillità di un popolo. Anche i vulcani si calmano nelle loro eruzioni, ma non cessano mai per ciò di essere vulcani. E se queste moltitudini inferocite un dì riescono esse ad impadronirsi delle baionette e del cannone, quali stragi e quali rovine in quel dì non accadranno? Con tutto ciò, o miei cari, io non nego ogni efficacia e al dovere e all’onore, e all’interesse e alle leggi e alla forza. Ma gira e rigira, qualunque sia la efficacia, che queste cose esercitano e devono esercitare, non d’altronde la ritraggono, che dalla Religione cristiana, e solo allora la esercitano piena e giusta, quando nella Religione onninamente sono basate. Messa la nostra Religione da banda, una ragione, una ragione sola non vi ha più, perché, come ha detto assai fortemente un illustre autore, questo uomo che vi lucida le scarpe e vi porta l’acqua debba essere contento della sua sorte. Egli vi avrà aspettato sino oltre la mezzanotte che voi tornaste a casa dal festino per accendervi il lume nella stanza. E voi mettendovi in pianelle, gli direte: Giacomo, prendete le scarpe da lucidare: questo è il vostro dovere. Ma egli vi potrebbe rispondere: Ah! il mio dovere è quello di lucidarvi le scarpe! E il vostro è quello forse di andarvi a divertire fino alla mezzanotte e di tornare poi a casa per comandarmi con tanta sicumera? E perché questo diverso dovere? Perché voi siete ricco ed io sono povero? Ma non si potrebbe invertire le parti? — Ma caro Giacomo, il tuo onore richiede così. — Il mio onore! l’onore di lucidarvi le scarpe! Si dirà: Giacomo lucida bene le scarpe del suo padrone. Eccomi dunque molto onorato. Ma io rinunzio a quest’onore. — Folle! tu non puoi rinunziarvi che rinunziando al tuo interesse, perché se tu mi lucidi le scarne, io ti pago. — Bell’interesse non arrivare a guadagnare in un mese la metà di quello, che voi avete speso nel divertimento stasera. Il mio interesse sarebbe di andare a scassinare la vostra cassa forte per gettarvi entro la mano. — Ma temerario, e la legge? — Se io rubo molto la legge non è per me. — E la forza? — La forza? Allora forza contro forza; e in quanto a forza noi servitori ed operai stiamo meglio di voi padroni e signori. Uniti insieme, i milioni che siamo, potremo anche rompere i nostri ferri sul capo dei nostri tiranni, ed allora sarà fatto: noi avremo il dovere di comandare e di godere, e voi … avrete voi l’interesse di soffrire, di lavorare, di mangiar male e il bell’onore di lucidarci le scarpe! — Signori! ecco le conseguenze più logiche di una vita sociale senza Religione.

II. — Eppure … ecco a che siam giunti dopo tanti progressi! Noi siamo giunti a questo, che la religione non è più socialmente curata, e che anzi è combattuta. Non si dica, che vi ha piena libertà di parola, che le chiese si lasciano aperte ed è lecito a chiunque lo voglia di entrarvi e soddisfare la sua pietà! Guai! se non restasse ancora questo. Ma dal lasciar aperte le chiese al curare la Religione ci passa assai. E voi, uomini del potere, voi signori del comando, voi padroni di immensi stabilimenti e di smisurate possessioni, voi, alla cui dipendenza avete un nugolo di servitori, voi la Religione potete dire di curarla? Quando è, che vi radunate in corpo nella casa di Dio? Quando è, che pubblicamente invocate il suo aiuto? Quando è, che venite a chiedere la benedizione alle vostre assemblee, ai vostri lavori, alle vostre imprese, alle vostre armi? Quando venite ad ascoltare la parola di Dio, che deve predicarsi anche per voi? Signori! la risposta è data. Un dì li vedevamo gli uomini della toga e quelli della spada venirsi ad umiliare qui, nella chiesa, davanti a colui, pel quale reges regnant et potentes decernunt iustitiam. Come erano grandi in quelle umiliazioni! Oggidì più nulla di tutto ciò. L’Italia ufficiale e pubblica non ha più Religione, o dirò meglio, di Religione non ha più altro che un articolo, il primo dello Statuto, che non si comprende come non sia stato le mille volte radiato. Ora io domando: Non basta questo male esempio per scemare nel popolo la stima e l’amore per la Religione? Ma viva Dio! Egli è vero che il popolo in generale non verrà mai a perdere del tutto il sentimento religioso non ostante lo scandalo di coloro, che stanno in alto. Ma almeno gli date voi pieno agio di esplicare questo sentimento e ridurlo alla pratica? Alla domenica, per esempio, questi poveri soldati, che nel partire dalle loro case hanno inteso a ripetersi da una madre in lagrime: figlio, non dimenticarti di Dio e della Madonna; li lasciate sempre in libertà per tempo, perché vadano a sentire una Messa? E a questi poveri operai dei grandi stabilimenti ed opifici, a questi lavoratori delle miniere e delle immense possessioni, concedete voi sempre nel giorno del Signore di non esser gravati dal lavoro perché diano un po’ della lor vita al tempio e alla famiglia? E qual è la libertà, che date ai poveri ferrovieri, a questi uomini, che vivono quasi sempre appartati dalla società e dalla famiglia? quale comodità, quali mezzi date loro, perché soddisfacciano almeno ai doveri più essenziali della Religione? Ah! oggidì è gran cosa, che ad un povero manuale della ferrovia s i concedano in tutto l’anno dieci giorni di licenza. Eppure in mezzo al pericolo continuo di essere massacrati e stritolati sotto alle ruote di un treno non avrebbero bisogno più che altri di invocare sovente l’aiuto di Dio e di renderselo propizio? Ma ciò non è tutto. Non solo la Religione non è socialmente curata: essa è ancor combattuta. Perciocché non si impediscono le tante volte quelle grandi manifestazioni religiose, alle quali il popolo si sente irresistibilmente attratto? Negli uffici, nei banchi, nelle amministrazioni, nelle scuole, nei laboratori, negli opifici, e persino nei campi, non si prendono di meni coloro che praticano la Religione? Non vi hanno padroni e signori, che deridono i servi e le fantesche per la loro pietà? Col pretesto insensato di combattere un nemico non si osteggia, non si incaglia, non si inceppa tutto ciò che gli uomini di Religione vanno facendo per difenderla e sostenerla? E a noi sacerdoti non si pone forse il bavaglio alla bocca, perché più non diciamo liberamente quella parola di Dio, che Gesù Cristo ha pur fatto essenzialmente libera? Ah! voi uditori Cristiani, ci accusate talora che noi, banditori del Vangelo, non siamo più eloquenti? Ma possiamo noi esserlo, se non a pericolo della libertà e della vita? Non vi ha sempre di mezzo a noi chi sta col metro alla mano per misurare le nostre parole? Cosicché, chi è di noi che possa levarsi su, come un Crisostomo od un Ambrogio e dire apertamente dove sta il male, e correggere arditamente gli errori dei grandi? Togliete la libertà alla parola di Dio e l’eloquenza è perduta. Ma no, noi non la perderemo del tutto, perché Gesù Cristo ci ha mandati dicendo: « Andate e predicate; » e prima che agli uomini è a Gesù Cristo che obbediremo, sempre pronti alle catene e al supplizio; ma intanto il maggior bene delle anime non richiede per lo più, che noi siamo guardinghi e misurati? E qui, o miei cari, finisse il male! Ma peggio ancora, oltre al non curare e combattere la Religione, non di rado dai pubblici poteri si favorisce l’irreligione; si favorisce nella stampa atea, che ogni dì si lascia inondare il paese da un capo all’altro, si favorisce nelle società settarie, nemiche rabbiose di Dio e della Chiesa, alle quali si lascia ampia libertà di sussistenza, si favorisce nella educazione laica ed empia, che si lascia, o dirò meglio, che si fa impartire ai fanciulli ed ai giovani, si favorisce financo nelle dimostrazioni dichiaratamente in odio alla Religione, che si lasciano compiere pubblicamente alla piena luce del giorno. E mentre dagli uomini del potere si favorisce l’irreligione, da quelli del piacere non si fa altro che accendere viemaggiormente nel popolo le più funeste cupidigie. Molti di costoro si abbandonano ad un lusso incredibile; banchetti sontuosissimi, cavalli di gran prezzo, gioielli inestimabili, acconciature, mode, fantasie, capricci, nei quali in un’ora si profonde, ciò che sarebbe bastato a nutrire famiglie intere per un anno. E dopo tutto ciò non si è ancor paghi: e una specie di rabbia assale questi esseri degradati, che non cercano altro che nuove e straordinarie emozioni dei sensi. Essi se la pigliano coi pranzi, se la pigliano coi teatri, se la pigliano coi festini, se la pigliano coi pubblici spettacoli, perché in essi non vi è nulla di nuovo, che valga a compulsare più forte i loro sensi. Ah cercate altre cose, essi gridano, inventate altri piaceri. I Romani avevano trovato: essi avevano le murene, essi avevano i pesci dell’oceano, essi avevano il circo, avevano il combattimento delle bestie, avevano il combattimento degli uomini, facevano denudare gli attori e svestire le vergini, dandole in pasto ai leoni; cercate anche voi e non lasciateci perire di noia in mezzo a questi godimenti insipidi, che non ci dicono più nulla, e a quest’oro che più non sappiamo come spendere! E dopo tutto ciò, vi è ancora da meravigliare, che accada quel che accade, e non vi sia più né sicurezza né pace? Una volta la Religione diceva al povero chiaro e netto, perché egli è povero e nudo, intimava al ricco con voce potente di aver cura del povero, e d’impiegar ivi le sue sostanze superflue. Una volta la Religione spiegava efficacemente la disparità delle condizioni e a tutti additava il cielo, agli uni come premio del patire, agli altri come ricompensa del donare ; oggi la Religione non curata e combattuta non può più dire questi grandi verità alla società, che assai languidamente, e per di più la sua voce è sopraffatta da nuovi dottori che, presentandosi al popolo gli hanno detto: Tu hai diritto alla felicità, e chi te la nega sono i poteri; il potere spirituale, il potere proprietario, il potere civile; e il popolo a questa nuova parola si è scosso e si è levato su contro chi credeva nemico della sua felicità. Il popolo si è levato contro del potere spirituale, e ha detto con la più amara ironia: Tu, o prete, ne dicevi di pazientare fino al giorno della giustizia: di radunare le lagrime nostre e quelle delle nostre famiglie, le grida dei nostri figli e i singhiozzi delle nostre mogli per portarle ai piedi di Dio, nell’ora della morte. Ma tu sei un bugiardo, perché Dio non esiste e la felicità è nella vita presente. Odio adunque a te, che hai mentito a nostro danno per accarezzare il ricco! Il popolo si è levato su contro del potere proprietario ed ha detto: Voi dunque, o ricchi, o padroni, credete che noi, domestici e fantesche, testimoni quotidiani del vostro lusso, dei vostri pranzi, delle vostre danze, dei vostri ozi, dei vostri intrighi, noi, che vi aspettiamo fino a mezzanotte assiderati talvolta sulla cassetta delle vostre carrozze: credete che noi miseri ferrovieri, che vi vediamo salire in quei comodi carrozzoni salons, mentre a noi non è assegnata che una aperta garetta, ove si gela d’inverno e si cuoce di estate; credete che noi, poveri operai, inzaccherati in passando dalla vostra pompa equivoca, e che rientriamo la sera nella stamberga, dove ci aspettano la moglie e i figli in miseria; credete che noi non sentiamo la disparità immensa della nostra condizione? Sì, che la sentiamo, e se Dio non c’è, se la Religione non conta, noi malediciamo a noi stessi e faremo sentire sopra di voi la nostra indignazione, e tenteremo di mutare le parti. – Il popolo si è levato su infine contro del potere civile e ha detto: Se Dio non c’è, se tu non sei il rappresentante di Dio, se tu sei uguale a me, che al par di te sono uomo, io non ne voglio più sapere né delle tue leggi, né del tuo comando. E in quanto alla forza io risponderò con la forza. Così ha parlato il popolo, così ha operato. E torno a dirlo, o miei cari, come meravigliarsi di ciò? Come stupirsi che ogni superiorità si sia fatta intollerabile al popolo, e la cieca passione di tutto sconvolgere lo domini e lo punga per mutare una condizione, alla quale non può più adattarsi, perché condizione senza conforti e senza speranze? Il popolo è logico, come lo è stato sempre, e dai principii ha cavato le conseguenze. Voi, apostoli e ministri dell’inferno, avete fatto il popolo irreligioso, e il popolo perché irreligioso si è fatto ingovernabile. – Conchiudiamo adunque che è tempo: Di qui non si sfugge: Nella società o Religione o rivoluzione, o Vangelo o anarchia.

III. — Ma da questa conclusione, o miei cari, ne viene ancora per legittima conseguenza, che se si vuole procacciare efficacemente all’Italia nostra la pace, il benessere, la prosperità, bisogna assolutamente, ciascuno per la parte che gli spetta, rimettervi in fiore il Vangelo di Gesù Cristo, la cristiana Religione. Epperò se io potessi ora sollevare la mia voce e farla giungere sino ai supremi moderatori dello Stato, ai ricchi signori, ai grandi padroni, benché così piccolo e meschino, tuttavia perché ministro del Vangelo vorrei dir loro: Presto, all’opera, che il tempo urge; restituite al nostro paese la Religione. Restituitela anzi tutto a voi, al vostro cuore, alla vostra vita privata, perché è su di voi che il popolo tien volto lo sguardo, per decidere dalla condotta vostra in questo punto, qual è la condotta che deve tener egli. A voi, o governanti, guardano i sudditi, a voi, o padroni, guardano gli operai, a voi, o signori, guardano i servi e le fantesche, a voi, o ricchi, guardano i poveri, a voi insomma, o grandi, guardano i piccoli. Il vostro esempio adunque è ciò, che anzi tutto, si richiede. Ma il restituire la Religione alla vostra vita di privati, per voi che avete in mano il potere e la grandezza sarebbe troppo poco. So bene, che non pochi di voi si credono che ciò basti. Ma non è così affatto. Certamente a voi non incombe di regolare le coscienze altrui; ciò non potreste farlo senza ledere i diritti stessi di Dio; ma avendo voi ricevuto il potere e la grandezza per il bene del vostro paese e del vostro prossimo, come siete in obbligo di tutelare l’autorità paterna perché riesca sempre a procacciare alla famiglia i beni, di cui è fonte, così siete in dovere di tutelare i supremi interessi della Religione, di farla vivere di piena vita in tutta la società nostra, affinché per essa la nostra società si abbia i beni del tempo e più ancora quelli dell’eternità. Per opera vostra adunque sia di nuovo la Religione, che animi le vostre assemblee, le vostre legislazioni, le vostre magistrature, le vostre associazioni, i vostri eserciti, e tornerà in fiore la giustizia, la fedeltà, il valore. Per opera vostra sia di nuovo la Religione, che animi le vostre accademie, le vostre università, i vostri istituti, le vostra scuole, e la gioventù crescendo meno atea, sarà meno immorale e petulante. Per opera vostra sia di nuovo la Religione che animi le vostre officine, i vostri stabilimenti, le vostre possessioni, e l’operaio ed il povero saranno più rassegnati e contenti. Sì, di quella guisa medesima che la Religione cristiana un giorno spense la ferocia delle orde barbariche, ne ingentilì i costumi, e li rese docili alla voce della verità e della legge evangelica, così anche ora ammanserà gli istinti malvagi delle moltitudini. Senza discussione, senza coazione, facendo rilucere alle loro menti i grandi dogmi della fede e stillando nei loro cuori i santi precetti e gli ammirabili esempi della morale di Gesù Cristo, la Religione farà loro efficacemente sentire la voce della coscienza e del dovere. Ed allora le grandi questioni si avvieranno verso la migliore e più completa soluzione; l’autorità prenderà il posto della forza, la libertà impedita di degenerare in licenza servirà al bene e sarà degna dell’uomo, il rispetto e l’amore saliranno e scenderanno come due angeli tutelari, lungo la scala sociale e ne avvicineranno le estremità. Il povero più non invidierà il ricco, che si inchinerà teneramente verso di lui. L’operaio rispetterà il padrone, che amerà l’operaio. Il popolo non solo obbedirà al potere, ma lo amerà, e questo amore che dal popolo salirà ai governanti, ridiscenderà sopra di esso tramutato in benefizio. Non già che allora nel nostro paese non vi saranno più miserie; sempre una società sarà imperfetta, perché ogni società si compone quaggiù di esseri imperfetti. Ma delle miserie sociali l’Italia nostra sol conoscendo quelle, che sono inevitabili all’umana debolezza, piena di energia per sopportarle di buona voglia, cessati i pericoli e i danni di questi giorni, in pace all’interno, libera e rispettata al di fuori, incederà a grandi passi verso la felicità, e riavrà quelle grandezze e quelle glorie che un giorno la Religione e la Chiesa le hanno donate. Ma io getto il flato invano. La più parte di coloro, cui sono rivolte queste parole non sono qui ad udirmi, né per lo stato presente delle cose, quando pure fossero convinti, che quanto ho detto è quello che devono fare, non avrebbero certo la grandezza d’animo di farlo. Il potere pubblico soprattutto non ne sarebbe in grado. Gran cosa sarebbe se arrivasse, non dico a comprendere, ma a mostrarsi compreso, che nulla almeno ha da temere per il benessere e la sicurezza del paese dalla Religione, e che l’espediente più meschino e colpevole per farsi perdonare la politica è quello di dar a mangiare del prete alle passioni rivoluzionarie. Sì, ciò sarebbe una gran cosa, e la Religione già avrebbe spezzato un qualche anello delle sue catene. Sul fluire pertanto è a voi, o dilettissimi, che siete qui ad udirmi, che io mi rivolgo dicendo: voi almeno, per quanto piccola possa essere l’influenza, che vi sia dato esercitare sulla società cui appartenete, deh! non lasciate tuttavia di fare la parte vostra. La Religione, questa grande detronizzata, anche a voi protende la mano per essere riposta sul soglio, che le spetta; lavorate a suo prò con le parole, con le opere, con l’esempio; e lavorando per lei, non solo di lei vi sarete resi benemeriti, ma checché si pensi e si blateri dagli empi e dagli stolti, voi, sì veramente voi, avrete anche ben meritato della patria. E tu, o povero popolo, non respingere la parola di amore, perché la odi da questa cattedra. Tu, allontanato dalla Religione, tu sei tradito. Fuori della casa del gran Padre che è Dio, tu come il prodigo non puoi diventare che schiavo delle più torbide passioni, e sentire la fame più rabbiosa dell’anima e del corpo. Deh, scuotiti adunque dalla tua abbiezione: ricaccia in gola a’ tuoi esecrati maestri la orrenda parola: « Tu hai diritto alla felicità presente; » e fatto di nuovo libero e altero della tua Religione canta con gioia: Sì, ho diritto alla felicità, non a quella temporale, a quella imperitura del cielo. E voi, o Cuore Santissimo di Gesù che tanto amate tutte le nazioni cristiane, ma che con prove così grandi avete dimostrato un amore di predilezione verso dell’Italia nostra, soprattutto facendola il centro di quel Cristianesimo che è fonte di pace e di prosperità per i popoli, deh! continuate, non ostante i suoi tanti demeriti, a volgere pietoso lo sguardo sopra di lei. Ridonatele presto la fede avita, che già la rese sì grande presso le altre nazioni, nelle sue vittorie, ne’ suoi Comuni, nelle sue arti, nelle sue lettere, nelle sue scienze e specialmente nel suo amore per Voi. Fate che spinta soavemente dalla grazia vostra si getti un’altra volta pentita e fidente ai piedi vostri come un dì la povera Samaritana, e a voi chieda essa pure quell’acqua di salute, bevendo della quale sarà nel tempo una nazione felice e nell’eternità una nazione del cielo.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.