DOMENICA I DOPO PENTECOSTE (2019)
[Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani – L.I.C.E. Berruti &C. Torino, 1936]
Semidoppio. • Paramenti verdi.
Questa Domenica era un tempo detta vacante perché la liturgia delle Ordinazioni del sabato di Pentecoste si celebrava durante la notte e serviva di Messa per la Domenica: infatti l’Epistola ci ricorda che l’amor di Dio — che è lo Spirito Santo — ci è stato donato nelle feste di Pentecoste. Il Signore ci ha amato inviando a noi suo Figlio, allorquando eravamo suoi nemici per il peccato: il suo amore dunque permane in noi se noi amiamo, come Lui, quelli che ci odiano. Ed è per questo che il Vangelo ci dice che dobbiamo essere misericordiosi come lo è stato il nostro Padre perdendoci e donando a noi il Figlio suo e lo Spirito Santo. « Tenendoci alla porta di questo padre di famiglia grande e possente, che è Dio, noi gemiamo nelle nostre preghiere, dice S. Agostino, e noi vogliamo ricevere un dono: e questo dono è Dio stesso » (Mattutino). «O Signore, dice l’Introito, io ho riposta la mia speranza nella tua bontà». «Dà ascolto, o Signore alle mie parole », aggiunge l’Alleluia. « Ascolta la mia voce che supplica » insiste l’Offertorio. « L’ho detto, o Signore, guarisci la mia anima perché ha peccato contro di te. Beato colui che soccorre il povero e il miserabile, poiché il Signore lo libererà », completa il Graduale. Per ricevere da Dio, bisogna donare. « Un mendicante ti chiede l’elemosina, spiega S. Agostino, e sei tu stesso il mendicante del Signore; poiché tutti noi siamo mendicanti quando preghiamo. Infatti, che cosa chiede il mendicante? un po’ di pane. E tu che cosa chiedi a Dio se non il Cristo, che ha detto: Io sono il pane della vita? » (Mattutino). Se Dio ci ama al punto da donarci l’unico Figlio suo e, per lui, lo Spirito Santo « che è il dono dell’Altissimo», noi pure dobbiamo amarci senza misura. — La Messa della prima Domenica dopo Pentecoste, poiché è sostituita dalla Messa della SS. Trinità, si celebra in uno dei primi tre giorni della settimana, i quale o sia di rito semplice, ovvero giorno fra un’Ottava. In quei giorni la Messa si può mettere in rapporto della lettura del Breviario. All’Ufficio del lunedì della prima settimana dopo l’Ottava di Pentecoste si comincia la lettura del Libro dei Re, che si inizia con la storia di Anna, la donna di Elcana. Il Signore aveva colpito Anna con la sterilità ed essa andò a trovare il gran sacerdote Eli e fece un voto al Signore nel tempio, promettendogli che se avesse compassione del dolore della sua serva, e non l’avesse dimenticata (versetto dell’Introito, Grad., All., Off.) e le donasse un figlio, essa glielo avrebbe consacrato per sempre. Dio «che è tutto amore» (Ep.). le donò un figlio, che essa chiamò Samuele, perché lo aveva chiesto al Signore. E Anna esultò di gioia e di riconoscenza (Intr., Com.) e offrì il figlio suo nel tempio perché egli servisse il Signore.
Incipit
In nómine Patris, ✠ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus
Tob XII: 6
Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam.
Ps VIII: 2
Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in univérsa terra!
Benedícta sit sancta Trínitas atque indivísa Unitas: confitébimur ei, quia fecit nobíscum misericórdiam suam.
Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui dedísti fámulis tuis in confessióne veræ fídei, ætérnæ Trinitátis glóriam agnóscere, et in poténtia majestátis adoráre Unitátem: quǽsumus; ut, ejúsdem fídei firmitáte, ab ómnibus semper muniámur advérsis.
Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum, qui….
Lectio
Epistulae B. Jonnis Ap. 1, IV, 6-21
Qui non diligit, non novit Deum: quoniam Deus caritas est. In hoc apparuit caritas Dei in nobis, quoniam Filium suum unigenitum misit Deus in mundum, ut vivamus per eum. In hoc est caritas : non quasi nos dilexerimus Deum, sed quoniam ipse prior dilexit nos, et misit Filium suum propitiationem pro peccatis nostris. Carissimi, si sic Deus dilexit nos: et nos debemus alterutrum diligere. Deum nemo vidit umquam. Si diligamus invicem, Deus in nobis manet, et caritas ejus in nobis perfecta est. In hoc cognoscimus quoniam in eo manemus, et ipse in nobis : quoniam de Spiritu suo dedit nobis. Et vos vidimus, et testificamur quoniam Pater misit Filium suum Salvatorem mundi. Quisquis confessus fuerit quoniam Jesus est Filius Dei, Deus in eo manet, et ipse in Deo. Et nos cognovimus, et credidimus caritati, quam habet Deus in nobis. Deus caritas est : et qui manet in caritate, in Deo manet, et Deus in eo. In hoc perfecta est caritas Dei nobiscum, ut fiduciam habeamus in die judicii : quia sicut ille est, et nos sumus in hoc mundo. Timor non est in caritate : sed perfecta caritas foras mittit timorem, quoniam timor poenam habet : qui autem timet, non est perfectus in caritate. Nos ergo diligamus Deum, quoniam Deus prior dilexit nos. Si quis dixerit, Quoniam diligo Deum, et fratrem suum oderit, mendax est. Qui enim non diligit fratrem suum quem vidit, Deum, quem non vidit, quomodo potest diligere? Et hoc mandatum habemus a Deo : ut qui diligit Deum, diligat et fratrem suum.
OMELIA I
A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – [Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1929]D
AMIAMO DIO
“Carissimi: Dia è amore. L’amore di Dio verso di noi si è manifestato in questo: che Dio ha mandato il Figlio suo Unigenito nel mondo, affinché per lui noi avessimo la vita. E in questo sta l’amore: che non noi abbiamo amato Dio, ma che egli per il primo ha amato noi, e ha mandato il suo Figlio quale propiziazione per i nostri peccati. Carissimi: se Dio ci ha amati in tal modo, noi pure dobbiamo amarci l’un l’altro. Nessuno non ha mai visto Dio. Se noi ci amiamo l’un l’altro Dio dimora in noi, e il suo amore in noi è perfetto. Che noi dimoriamo in lui; e che egli dimori in noi conosciamo da questo: che ci ha dato del suo Spirito. E noi abbiamo visto e testifichiamo, che il Padre ha mandato il suo Figlio quale Salvatore del mondo. Chiunque confesserà che Gesù Cristo è Figlio di Dio, Dio dimora in lui, d egli in Dio. E noi abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amare. Chi sta nell’amore sta in Dio, e Dio in lui. La perfezione dell’amore di Dio in noi sta in questo: nell’aver fiducia pel giorno del giudizio: poiché come è lui tali siamo anche noi in questo mondo. Il timore non sta con l’amore, ma l’amore perfetto scaccia il timore, perché il timore va congiunto col castigo. E chi teme non è perfetto nell’amore. Noi, dunque, amiamo Dio, perché Egli ci ha amati pel primo. Se alcuno dice: «Io amo Dio, e odia il suo fratello, è bugiardo. Poiché, chi non ama il suo fratello che vede, come può amar Dio che non vede! E da Dio abbiam ricevuto questo comandamento: che chi ama Dio, ami anche il proprio fratello”. (1 Giov. IV, 8-21).
L’epistola è tolta dalla prima lettera di S. Giovanni. L’Apostolo dichiara che chi non ama, non conosce Dio, perché Dio è amore. Il suo amore l’ha manifestato mandando il suo Figlio a dar la vita a noi che eravamo peccatori. Anche noi dobbiamo, dunque, amarci scambievolmente, se vogliamo che Dio dimori in noi, e che il nostro amore per lui sia sincero. Se coi fratelli avremo lo spirito di carità, conosceremo che Dio è in noi. Non si può, però, aver vera carità, senza la fede nella divinità di Gesù Cristo. Se noi aspettiamo senza timore il giorno del giudizio, il nostro amore è perfetto. Amiamo, pertanto, Dio che ci ha amati pel primo; amiamo il prossimo, perché chi non ama il prossimo non ama Dio, e perché Dio ci comanda di amare il prossimo. — Avendo già parlato dell’amor del prossimo nella Domenica IV. dopo l’Epifania, quest’oggi parliamo dell’amor di Dio.
Amiamo Dio,
1. Ricambiando il suo amore,
2. Credendo con fede viva in Gesù Cristo,
3. Amando i nostri fratelli.
1.
Dio è amore. Dio è l’amore per essenza: amore che Egli manifesta in mille modi, soprattutto verso l’uomo. Dio mostra il suo amore all’uomo creandolo, lo dimostra nella sua conservazione e nell’abbondanza dei beni di cui lo circonda. Ma specialmente l’amor di Dio verso di noi si è manifestato in questo: che Dio ha mandato il Figlio suo Unigenito nel mondo, affinché per Lui noi avessimo la vita. Dimostrazione più grande dell’amor di Dio non si può immaginare. Da qualunque lato tu voglia considerare, il mistero, trovi che esso è la manifestazione dell’amore di Dio verso gli uomini. Dio che esiste dall’eternità, che non dipende da nessuno, che non ha bisogno di nessuno, che ha posto la sua magnificenza nei cieli, si prende cura dell’uomo, abisso di miseria e di fragilità, dall’esistenza breve come il fiore del prato, fuggevole come la nube sospinta dal vento. Onde il salmista si domanda meravigliato: «Che è mai l’uomo, perché tu lo ricordi, e il figlio dell’uomo perché tu te ne curi?» (Salm. VIII, 5). Qualunque dono, anche minimo, l’uomo ricevesse da Dio, sarebbe di un pregio incalcolabile. È il padrone che dona al servo, è l’Immenso che fa regalo al verme della terra. Ma Dio dà all’uomo nientemeno che il proprio Figlio. Dio come Lui, a Lui uguale in essenza, in sapienza, in potenza e in tutte le altre perfezioni. Questo amore di Dio verso di noi risalta ancor più, se si riflette che noi nulla avevamo fatto per meritarlo; anzi, avevamo offeso Dio eoi nostri peccati. Ed Egli ha mandato il suo Figlio quale propiziazione per i nostri peccati. Le pagine del Vangelo, infatti, ci dimostrano continuamente che Gesù era venuto per cercare e salvare i peccatori, tanto da attirarsi la critica, dei Farisei: « Costui accoglie i peccatori e mangia con loro » (Luc. XV, 2). Esse ci dicono come Egli abbia pianto per loro, come per loro abbia consumato la sua vita sulla croce. È cosa tanto ovvia che l’inferiore tanto più è portato ad amare il superiore, quanto più si accorge d’essere da lui amato, specialmente se non aveva motivi di ripromettersi questo amore. E l’uomo peccatore che poteva ripromettersi da Dio suo giudice, da lui offeso? Gesù Cristo è venuto principalmente, affinché l’uomo conoscesse quanto Dio lo ami; e perché questa conoscenza lo infiammasse nell’amore di Lui, che lo amò pel primo. Dunque « se prima ci rincresceva di amarlo, ora almeno non ci rincresca di riamarlo » (S. Agost.. De Cathec. Rud. 4, 8).
2.
A ricambiar l’amor di Dio è necessaria la fede in Gesù Cristo. Chiunque confesserà che Gesù è il Figlio di Dio, Dio dimora in lui, ed egli in Dio. La fede in Gesù Cristo non manca al Cristiano, il quale la confessa esplicitamente in varie circostanze: « Io credo in Dio Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, e in Gesù Cristo suo unico Figliuolo, Nostro Signore ecc.», dice egli ogni qualvolta recita il simbolo apostolico nelle sue azioni private. « Credo in un solo Dio… E in un solo Signore Gesù Cristo, Figliuolo unigenito di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli », ripete, quando accompagna le preghiere del Sacerdote nella Santa Messa. «Credo nel Figliuolo incarnato e morto per noi, Gesù Cristo, il quale darà a ciascuno, secondo i meriti, il premio o la vita eterna », ripete ancora quando recita l’atto di fede. Ma questa può anche essere una fede morta; e allora la sua professione di fede in Gesù Cristo poco gli giova per vivere con Dio in unione intima, così da poter dire: Dio dimora in lui, ed egli in Dio. – Il professar la fede con la bocca è buona cosa, anzi ottima, e in parecchie circostanze può esser cosa doverosa; ma non è tutto. Oltre confessare Gesù Cristo con la bocca, devi rivolgerti a Lui con la mente. Un padre, una madre, non possono allontanare il loro pensiero dai figli. Un esule non può allontanare il pensiero dalla patria. Un monte, un colle, una vallata, una prateria, una foresta, un fiume, gli rammentano il luogo nativo, il luogo ove trascorse la fanciullezza e la gioventù. Egli li contempla oggi, li contempla domani, li contempla fin che dura l’esilio. Il suo occhio è su questi luoghi, ma la sua mente, e il suo cuore sono rivolti alla patria lontana. Quante circostanze ricordano al Cristiano Gesù Cristo, senza che a Lui rivolga un pensiero duraturo, senza che si commuova un istante. Vuol dire che egli professa la fede in Gesù Cristo a fior di labbra, ma non lo ama. Se lo amasse, i suoi pensieri e i suoi affetti sarebbero rivolti a Lui un po’ più frequentemente: « Poiché dov’è il tuo tesoro là v’è anche il tuo cuore» (Matt. VI, 21.). La lingua batte dove il dente duole — dice un proverbio — e Gesù Cristo afferma che: « La bocca parla dalla pienezza del cuore » (Matt. XXII, 34). Chi odia una persona ne parla continuamente per metterla in cattiva vista e per farne risaltare i difetti. Chi ama una persona ne parla continuamente per metterne in evidenza i meriti e, così, farla amare dagli altri. Dall’abbondanza del cuore parlava la profetessa Anna, quando, avendo visto Gesù che era stato presentato al tempio, comunicava il suo entusiasmo agli altri «… e parlava di Lui a quanti aspettavano la liberazione in Gerusalemme » (Luc. II, 38). Dall’abbondanza del cuore parlavano Pietro e Giovanni, i quali al Sinedrio che proibiva loro di non parlar più ad alcuno in nome di Gesù Cristo, rispondono: «Noi non possiamo non parlare di quello che abbiam visto e udito» (Act. IV, 21). Il Salmista, costretto a star lontano dal Santuario di Gerusalemme, arde dal desiderio di poter ritornare in quel luogo santo a godervi la presenza di Dio. E dal cuore gli salgono alle labbra i commossi accenti : «L’anima mia ha sete del Dio forte e vivo: quando verrò e comparirò davanti al cospetto di Dio?» (Ps. XLI, 5), Gesù Cristo, nostro Dio, è là nel tabernacolo; ma quanti hanno sete di lui? quanti si danno premura di comparire al suo cospetto? Egli è là nel tabernacolo ed attende i Cristiani che vadano a trovarlo; pronto a riceverli, ad ascoltare le loro confidenze, a lenire i loro dolori, e la maggior parte dei Cristiani non se ne cura. Quanti varcano la soglia del tempio per andare a far visita a Gesù? Quando le visite agli amici si fanno rare, è segno infallibile che l’amore va diminuendo; quando cessano, l’amore è spento. Si può dire che ami Gesù, che abbia fede in Lui, quel Cristiano che non va mai a trovarlo? Non solo si deve confessare che Gesù Cristo è il Figlio di Dio; ma come tale va onorato e amato; « e tanto più degnamente dev’essere amato dagli uomini, quanto più Egli per gli uomini sostenne cose indegne » (S. Gregorio Magno. Hom. 6, 1).
3.
E da Dio abbiamo ricevuto questo comandamento: che chi ama Dio ami anche il proprio fratello. È tanto importante questo comandamento, che Gesù Cristo l’ha comparato al primo ed al più grande dei comandamenti. « Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, e con tutta la tua mente; questo è il più grande e il primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Matt. XXII, 37-39); disse Egli un giorno a un dottore della legge. – Non si tratta di un semplice consiglio; ma di un comando molto chiaro, al quale nessuno può sottrarsi. Amor di Dio e amor del prossimo non possono disgiungersi. Ove c’è amor di Dio deve necessariamente esserci l’amor del prossimo. Anzi l’amor del prossimo è la prova e la dimostrazione dell’amor di Dio. Nel prossimo noi abbiamo sotto gli occhi l’immagine di Dio, e quando facciamo del bene al prossimo non possiamo allontanare il pensiero da Dio. Quando nei fratelli consideriamo riflessa l’immagine di Dio non diamo peso ai loro demeriti; nulla ci costa mettere un velo sui nostri occhi per non vederne i difetti; e poco ci costa chiudere gli orecchi alle accuse che muovono dal nostro amor proprio. E per questo, tanto più riesce efficace il conforto che si porta agli infelici, quanto più chi benefica innalza la mente a Dio. – Il Padre Kronenburg, Redentorista, andò un giorno al lebbrosario di Batavia. Fu subito preso da meraviglia al vedersi salutato da tutti i lebbrosi in modo festivo e a vedere sul volto di tutti un’aria sorridente. Un negro dai diciotto ai diciannove anni, con le labbra rose della malattia dichiara a quanti l’interrogano, di essere felice. Un medico ebreo gli domanda: Sei contento? — « Oh!— risponde — sono contento come un re ». — «Perché mai? » — « Prima non avevo nessuno che mi fasciasse le piaghe; adesso le Suore me le fasciano tre volte al giorno con molta premura. Prima mi si buttava un pezzo di pane, ora mi si dà da mangiare a piacimento più volte al giorno ». — Non vuoi dunque ritornare a casa? » —Ah! giammai ». Intanto da un’altra parte gli uomini innalzano giulivi un cantico di speranza: «Il Cielo! IlCielo! Il Cielo è nostro premio! » (Der Katholishen Missionen. Friburg, 1903, p. 249). Miracoli che compie la carità cristiana che nel prossimo ama Dio. Come il re viene onorato o disprezzato nella sua immagine, così Dio è amato o odiato nell’uomo. Di ciascun uomo, anche se per avventura ci odiasse, noi dobbiamo dire: « Riconosco in te l’immagine del mio padre » (S. Agost. Serm. 357, 4). Se noi non amiamo l’uomo, non amiamo Dio, di cui l’uomo è immagine. E come l’amor del prossimo è la prova che amiamo Dio, la mancanza dell’amor del prossimo è la prova che non amiamo Dio. Non si ama il padre quando si disprezza il figlio. E « non è uno solo il Padre di tutti noi? Non è un solo Dio quegli che ci ha creato? » (Malach. II, 10). Perché dunque non ameremo i nostri fratelli? Amiamoli sinceramente. Poiché, chi non ama il suo fratello che vede, come può amare Dio che non vede?
Graduale
Dan III: 55-56
Benedíctus es, Dómine, qui intuéris abýssos, et sedes super Chérubim,
V. Benedíctus es, Dómine, in firmaménto cæli, et laudábilis in sǽcula. Allelúja, allelúja.
Dan III: 52
V. Benedíctus es, Dómine, Deus patrum nostrórum, et laudábilis in sǽcula. Allelúja.
Evangelium
Sequéntia +︎ sancti Evangélii secúndum Matthǽum
Matt XXVIII: 18-20
In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Data est mihi omnis potéstas in cœlo et in terra. Eúntes ergo docéte omnes gentes, baptizántes eos in nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti: docéntes eos serváre ómnia, quæcúmque mandávi vobis. Et ecce, ego vobíscum sum ómnibus diébus usque ad consummatiónem sǽculi.
OMELIA II
[A. Carmignola, Spiegazione dei Vangeli domenicali, S. E. I. Ed. Torino, 1921]
SPIEGAZIONE XXIX
“In quel tempo disse Gesù ai suoi discepoli: Siate misericordiosi, come anche il Padre rostro è misericordioso. Non giudicate, e non sarete giudicati: non condannate e non sarete condannati. Perdonate e sarà a voi perdonato. Date e sarà dato a voi: misura giusta, e pigiata e scossa, e colma sarà versata in seno a voi: perché con la stessa misura, onde avrete misurato, sarà misurato a voi. Diceva di più ad essi una similitudine: È egli possibile, che un cieco guidi un cieco? non cadranno essi ambedue nella fossa? Non v’ha scolaro da più del maestro: ma chicchessia sarà perfetto, ove sia come il suo maestro. Perché poi osservi tu una pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, e non badi alla trave che hai nel tuo occhio? Ovvero come puoi tu dire al tuo fratello: Lascia, fratello, che io ti cavi dall’occhio la pagliuzza, che vi hai: mentre tu non vedi la trave, che è nel tuo occhio? Ipocrita, cavati prima dall’occhio tuo la trave: e allora guarderai di cavare la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”. (Luc. VI, 36-42).
Una delle più belle prove della somma bontà del nostro divin Redentore sono certamente le calde raccomandazioni, che Egli fece più volte della bontà, della misericordia, della carità, la quale Ei vuole da tutti esercitata verso del prossimo, perché essendo Egli buono verso tutti, vuole parimenti che tutti lo siano. Dopo dell’amor di Dio, di null’altra cosa Gesù così spesso ragiona, quanto della bontà di cuore, della compassione degli uni verso gli altri, cioè del vicendevole amore. La sua legge è legge d’amore. E questa legge Egli la promulgò massimamente in un tratto del celebre discorso fatto sul monte ai suoi discepoli e ad una gran turba di popolo: tratto che la Chiesa ci invita a considerare nel Vangelo di questa domenica.
1. Disse adunque Gesù: Siate misericordiosi, come anche il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate, e non sarete giudicati: non condannate e non sarete condannati. Et reliqua …
Ecco adunque gli ammaestramenti che Gesù Cristo ci dà nel Vangelo di quest’oggi riguardo alla carità fraterna. In sostanza, come avete ascoltato, Gesù Cristo con le sue divine parole ci comanda di esercitare la carità verso del prossimo nei pensieri, nelle parole e nelle opere. Ed anzi tutto ci comanda di esercitare la carità nei pensieri, proibendoci di fare contro del nostro prossimo dei giudizi temerari. Non vogliate giudicare, Egli dice, e non sarete giudicati. I giudizi temerari sono quelli, in cui noi teniamo per certo che il nostro prossimo sia colpevole di qualche fallo, benché non ne siamo sicuri in modo da non poterci ingannare. E si chiamano temerari tali giudizi, perché gli uomini che li fanno non sono giudici gli uni degli altri, e giudicando usurpano l’ufficio del Salvatore; temerari, perché la malizia principale del peccato dipende dall’intenzione e dal consiglio del cuore, che noi troppo difficilmente possiamo conoscere; temerari, perché ognuno ha che fare, per giudicar sé medesimo, senza prendere a giudicar il suo prossimo. E donde mai hanno origine cotesti giudizi? Ecco. Alcuni giudicano temerariamente per superbia, dandosi a credere di rialzare l’onor proprio, a misura che deprimono gli altri. Sono spiriti arroganti e presuntuosi, i quali ammirano sé medesimi e pongono tanto in alto la propria stima, che riguardano tutto il resto come cosa piccola e bassa. Io non sono come gli altri uomini, diceva lo sciocco fariseo. Altri non hanno questa manifesta superbia, ma hanno tuttavia una certa compiacenza nell’osservare l’altrui male, affine di far ammirare di più agli altri il bene opposto, di cui essi si stimano dotati. Parecchi altri poi in preda alla correzione del cuore, per lusingarsi e scusarsi interamente e per mitigare i rimorsi delle loro coscienze, giudicano essi volentieri, che gli altri sian presi dello stesso vizio, a cui essi sono dediti, o da qualche altro ugualmente grande, pensando che la moltitudine dei colpevoli renda men biasimevole la loro colpa. Non mancano neppur di coloro che fanno giudizi pel solo piacere, che prendono a filosofare ed indovinare i costumi e le inclinazioni delle persone, come per esercizio d’ingegno. Finalmente l’ambizione, l’invidia, la gelosia, l’avversione sono pur esse altrettante cause, da cui originano i giudizi temerari. Or bene non basta riguardare alle sorgenti avvelenate di questi giudizi per comprenderne la gravità? Del resto considerate quale colpa sarebbe, se voi distruggeste la riputazione del vostro fratello nella mente di un altro, e se denigrandolo presso di lui, veniste a rovinare tutta la stima e tutta la buona opinione, che ne aveva. Ora non minore è l’ingiuria che voi gli fate, quando senza motivo o senza alcuna prova sufficiente, concepite di lui nella mente vostra una falsa idea, perché egli non desidera meno di conservare la sua buona riputazione presso di voi che presso di un altro. Dite, o miei cari, non vi offendereste voi, quando sapeste che altri ha concepito di voi una cattiva opinione? Pertanto giudicate degli altri da voi medesimi, e non penerete a rilevare il male, che vi ha nel giudizio temerario. Comprendete adunque perché oggi Gesù Cristo ci dica: Nolite iudicare et non iudicabimini: non vogliate giudicare, e non sarete giudicati; animandoci per tal guisa ad evitare i giudizi temerari col pensiero dell’immenso vantaggio, che ne ritrarremo, del non essere poi severamente giudicati da Dio. – Ma per mettere in pratica questo gran precetto di Gesù Cristo conviene combattere costantemente in noi lo spirito di superbia, di invidia, di ambizione, di odio, e riempierci, più che è possibile, l’anima della carità cristiana. Essa ci libererà da quei cattivi umori, che in noi son causa di tali storti giudizi. La bella virtù della carità è così lontana dall’andar in cerca del male, che ha persin timore di incontrarlo. Essa, come dice l’Apostolo, non pensa mai malamente. Ed è perciò l’unico rimedio potente, a cui dobbiamo appigliarci. Il giudizio temerario è una specie d’itterizia spirituale, la quale fa comparir tutte cattive le cose agli occhi delle persone che ne sono prese; ma chi vuol guarirne bisogna che applichi il rimedio non agli occhi, ma bensì al cuore, agli affetti dell’anima. E così se i nostri affetti saranno piacevoli, sarà piacevole il nostro giudizio, se caritatevoli, anche il nostro giudizio sarà pieno di carità.
2. In secondo luogo nel Vangelo d’oggi Gesù Cristo ci comanda la carità fraterna nelle parole, vietandoci ogni maldicenza contro del nostro prossimo col dirci: Non condannate e non sarete condannati. Come puoi tu dire al tuo fratello: Lascia, fratello, che io ti cavi dall’occhio la pagliuzza che vi hai, mentre tu non vedi la trave, che è nel tuo occhio? – La maldicenza è una specie di omicidio: perché noi abbiamo tre vite: la spirituale che consiste nella grazia di Dio, la corporale che consiste nell’anima, la civile che consiste nella reputazione. La prima ci è tolta dal peccato, la seconda dalla morte, la terza dalla maldicenza. Se non che il maldicente con un sol colpo della sua lingua cagiona per ordinario tre morti; uccide spiritualmente l’anima sua, e quella di chi lo ascolta, e toglie la vita civile a colui del quale egli sparla. Per il che, al dire di S. Bernardo, il maldicente e chi l’ascolta, hanno ambedue il diavolo addosso, il primo nella lingua e il secondo nell’orecchio. Davide parlando dei maldicenti, dice così: Hanno appuntato le loro lingue come un serpente. Dicono taluni che il serpente ha la lingua bipartita; ma comunque sia la cosa, certo è, che è tale quella del maldicente, il quale con un sol colpo ferisce ed avvelena l’orecchio della persona che l’ascolta, e l’onore di quella, di cui si ragiona. – Tra i maldicenti poi coloro, che alle loro maldicenze mandano innanzi preamboli onorevoli, o vi intrecciano qualche piccola leggiadra facezia, sono i maldicenti più fini e più velenosi di tutti. Ah! dice taluno, al tale io voglio bene, perché alla fin fine è un’ottima persona, ma bisogna nondimeno dire il vero: ha fatto male a commettere quella tale azione. Quel giovane è virtuosissimo, dice un altro, ma già i capitomboli li fanno sempre quelli, che stanno più in alto; ed è così che il poveretto è caduto, e altrettante introduzioni. Or non vedete qui l’artifizio? Chi vuol tirar d’arco, trae quanto può la freccia verso di sé, ma non ad altro fine che per scoccarla con maggior forza. Così sembra che costoro tirino indietro o riducano ad una facezia innocente la loro maldicenza, ma non lo fanno per altro, che per vibrarla con più vigore, onde penetri maggiormente nei cuori degli ascoltanti. Difatti mentre la maldicenza, che è entrata sola da un orecchio, uscirebbe presto dall’altro, quando invece è preceduta da proteste di amore e di stima ed è presentata sotto il velo di qualche sottile e faceta espressione, s’imprime assai più in chi l’ascolta. Epperò di questi maldicenti Davide dice che hanno il veleno dell’aspide nelle labbra. L’aspide fa una ferita pressoché impercettibile e il suo tossico produce sulle prime un prurito piacevole, per cui il cuore e le viscere dilatandosi ricevono il veleno, contro il quale non c’è più rimedio. Così queste maldicenze artificiose e raffinate producendo alle volte un certo gusto in coloro che le ascoltano, avvelenano non di meno il loro cuore e lasciano in esso la cattiva stima per il prossimo, la quale molto difficilmente si muta poi in buona. Vi ha poi una maldicenza che più d’ogni altra è grave, ed è quella rivolta contro di coloro, che per qualsiasi ragione sono a noi superiori; perciocché le maldicenze, le mormorazioni e i biasimi diretti contro i superiori cadono sopra Iddio stesso. Come ubbidendo ai superiori, noi ubbidiamo a Dio, ch’essi rappresentano, e di cui tengono il luogo, così quando offendiamo con le nostre parole il rispetto dovuto ai superiori, offendiamo il rispetto, che dobbiamo a Dio medesimo. Perciò il Salvatore dopo aver detto dei superiori: Chi ascolta essi ascolta me, aggiunse subito: Chi disprezza essi, disprezza me. San Paolo ci dice similmente: Ogni potestà viene da Dio, e però chi resiste alla potestà, resiste all’ordine di Dio. Infine, la Scrittura è piena di passi che confermano questa verità. D’altronde i castighi straordinari con cui Iddio ha così sovente punito le offese e le mormorazioni contro i superiori, ci provano quale interesse Egli prenda a tutto ciò che li riguarda, e come della lor causa Egli faccia la sua propria causa. Da quale orribile punizione non fu mai seguita la mormorazione di Core, Dathan e Abiron contro Mosè ed Aronne, ai quali essi rimproveravano di prender troppa autorità nel governo del popolo! La terra si aprì sotto i loro piedi, e li inghiottì vivi con le loro famiglie e con tutte le loro ricchezze, ed il fuoco del cielo divorò duecento e cinquanta uomini per aver seguito il loro partito. S. Tommaso osserva a questo proposito che Dio castigò più rigorosamente coloro che avevano mormorato contro i loro superiori, che non quelli i quali avevano offeso Lui stesso direttamente, adorando il vitello d’oro. Gli Israeliti, avendo mormorato in un’altra circostanza contro Mosè ed Aronne, Dio tosto mandò dei serpenti, i quali ne fecero morire un gran numero. Poco mancò un’altra volta, che Dio sterminasse tutto quel popolo in occasione di nuove mormorazioni, ch’ei fece al ritorno di coloro i quali erano stati inviati per esplorare la terra promessa. Egli lo perdonò alla preghiera di Mosè, ma non perdonò già a coloro, i quali erano stati causa della mormorazione. Essi, dice la Scrittura, furono puniti di morte alla presenza del Signore. Maria, sorella di Mosè, non fu ella pure punita per aver mormorato contro suo fratello? Dio la colpì con una lebbra orribile, e non volle né guarirla, né perdonarla, non ostante le preghiere di Mosè, prima che fosse stata sette giorni fuori del campo, separata da tutto il rimanente del popolo. Se tali pertanto sono i castighi che Dio infligge a coloro che si fanno audacemente a criticare le azioni e le disposizioni dei loro superiori, non è egli vero, che questo mancamento torna a Lui di grave dispiacere, e che perciò dobbiamo attentamente guardarcene? Sì, evitiamo assolutamente di mormorare contro i nostri superiori. Ma non solo contro dei superiori: guardiamoci ancora da ogni maldicenza contro qualsiasi dei nostri fratelli. Sì, mettiamo il massimo impegno per non mormorare mai né direttamente, né indirettamente d’alcuno: guardiamoci dall’imputar falsi delitti e peccati al prossimo, dallo scoprir quelli che son segreti, dall’ingrandir quelli che son manifesti, dall’interpretar in male un’opera buona, dal negar quel bene che sappiamo trovarsi in qualcuno, dal dissimularlo maliziosamente, o sminuirlo con le parole; perché in tutte queste maniere col nostro parlare ingiurioso del prossimo offenderemmo Iddio grandemente, ed un giorno ne saremmo severamente condannati, conforme allo spirito della sentenza di questo Vangelo: non vogliate condannare e non sarete condannati: nolite condannare et non condemnabimini. E quando vi accadesse di sentire a parlar male degli altri, mettete in forse l’accusa, se giustamente potete farlo; se non potete, scusate l’intenzione dell’accusato; se neppur questo può farsi, mostrate di compassionarlo o divertite altrove il discorso, ricordando a voi stessi e facendo che si ricordino gli altri, che è troppo facile il veder la pagliuzza uell’occhio del fratello e non veder la trave che sta nel proprio, e che quei che non cadono in errore, devono riconoscer tutto dalla grazia di Dio. Anzi usate qualche soave maniera, onde il maldicente rientri in se stesso, e dite qualche altra enea in vantaggio della persona offesa, se ne sapete. Per tal modo impedirete del male e farete del bene.
3. Finalmente Gesù Cristo ci raccomanda oggi la carità nelle opere. Siate misericordiosi, dice egli, come anche il Padre vostro è misericordioso. Date e sarà dato a voi; misura giusta, e pigiata, e scossa, e colma sarà versata in seno a voi; perché con la stessa misura, onde avrete misurato, sarà misurato a voi. E questo precetto della elemosina così chiaro, così positivo, che il Divin Redentore ci dà con queste parole, è pure il precetto, che tante altre volte ripete nel santo Vangelo. Ed invero altrove dice: « Ciò che sopravanza ai vostri bisogni datelo ai poveri. Chi ha due vesti ne dia una al bisognoso, e chi ha già oltre il necessario, ne faccia parte a chi ha fame ». Altrove ci assicura, che quanto facciamo pei poveri, Egli lo considera fatto a sé medesimo. « Tutto quello, dice Gesù Cristo, che farete ad uno dei miei fratelli più infelici, lo avete fatto a me. Desiderate poi che Dio vi perdoni i peccati e vi liberi dalla morte eterna? Fate limosina. Volete impedire che la vostra anima vada alle tenebre dell’inferno? Fate limosina ». Insomma ci assicura Iddio che la limosina è un mezzo efficacissimo per ottenere il perdono dei peccati, farci trovare misericordia agli occhi di Dio e condurci alla vita eterna. Perciò il santo Tobia diceva a suo figlio queste memorabili parole: « Fa limosina secondo la tua sostanza, e non mai rivoltare la faccia da alcun povero; perché così avverrà, che neppure la faccia del Signore sia rivoltata da te. Sii misericordioso nel modo che potrai. Se hai molto, dà in abbondanza, se hai poco, dà quel poco, che potrai, ma volentieri, imperciocché la limosina ti sarà un premio che ti guadagnerai, e ti sarà poi un tesoro dinanzi a Dio nel giorno della necessità. Ricordati, o figlio, che Iddio ama colui che dà volentieri ». Adunque, o miei cari, quando potete, fate volentieri qualche elemosina anche voi. Ma forse voi direte: Noi non abbiamo ricchezze, e siamo in condizione da non poter fare elemosina. Ma in questo caso dovrete richiamare alla mente che qualunque opera di misericordia o temporale o spirituale esercitata verso il prossimo è una elemosina. Non vi sono adunque persone inferme da visitare, da assistere e vegliare? Non vi sono amici da ammonire, dubbiosi da consigliare, afflitti da consolare, risse da calmare, ingiurie da perdonare? Vedete con quanti mezzi voi potete fare limosina e meritarvi la vita eterna! Di più: non potete voi fare qualche preghiera, qualche confessione e comunione, recitare un Rosario, ascoltare una Messa in suffragio delle anime del purgatorio, per la conversione dei peccatori, o perché siano illuminati gl’infedeli e vengano alla fede? – Ma qui notiamo bene che Gesù Cristo vuole che noi esercitiamo la misericordia con grande rettitudine d’intenzione, vale a dire secondo il suo spirito e non secondo lo spirito del mondo. È egli possibile, dice Gesù Cristo, che un cieco guidi un cieco? non cadranno ambedue nella fossa? Non v’ha scolaro da più del maestro, ma chicchessia sarà perfetto ove sia come il suo maestro. Colui che nell’esercitare la misericordia verso il prossimo si lascia guidare dallo spirito del mondo è un povero cieco che pretende di essere guidato da un altro cieco. Perciocché il mondo riguardo alla misericordia è cieco; non vede propriamente che essa sia una virtù cristiana; la riguarda solo come una virtù umana, cui dà il nome di filantropia, epperò anima ad essa unicamente con motivi umani, di acquistarsi un gran nome, di essere ammirati, di evitare dei danni, e simili. Chi pertanto si lascia guidare da questo spirito mondano nella misericordia verso il prossimo finirà per cadere nella fossa, in cui cadranno tutti i mondani, vale a dire le sue opere di misericordia a nulla gli gioveranno per l’altra vita e non ostante le medesime, andrà tuttavia all’eterna perdizione. Ma colui invece, che farà opere di misericordia con buono spirito, cioè per amor vero di Dio, per farsi dei meriti per il cielo, seguendo gli esempi di Gesù Cristo suo divino Maestro, se non arriverà giammai ad eguagliare la carità di Lui, avrà tuttavia quella perfezione che rassomiglia a quella di Lui, e perciò sarà un giorno grandemente lodato e premiato da Dio. No, non vi ha discepolo da più del maestro, ma chicchessia sarà perfetto, se sarà come il suo maestro. Coraggio adunque, secondo lo spirito di Gesù Cristo mettetevi con grande impegno ad esercitare la misericordia verso il prossimo, stampando bene nella vostra mente quello che dice ancora Gesù Cristo nel Santo Vangelo: Con la stessa misura, con cui avrete misurato agli altri, sarà misurato a voi; epperò siamo misericordiosi come è misericordioso il nostro Padre celeste.
Credo
Credo in unum Deum, Patrem omnipoténtem, factórem coeli et terræ, visibílium ómnium et in visibílium. Et in unum Dóminum Jesum Christum, Fílium Dei unigénitum. Et ex Patre natum ante ómnia saecula. Deum de Deo, lumen de lúmine, Deum verum de Deo vero. Génitum, non factum, consubstantiálem Patri: per quem ómnia facta sunt. Qui propter nos hómines et propter nostram salútem descéndit de coelis. Et incarnátus est de Spíritu Sancto ex María Vírgine: Et homo factus est. Crucifíxus étiam pro nobis: sub Póntio Piláto passus, et sepúltus est. Et resurréxit tértia die, secúndum Scriptúras. Et ascéndit in coelum: sedet ad déxteram Patris. Et íterum ventúrus est cum glória judicáre vivos et mórtuos: cujus regni non erit finis. Et in Spíritum Sanctum, Dóminum et vivificántem: qui ex Patre Filióque procédit. Qui cum Patre et Fílio simul adorátur et conglorificátur: qui locútus est per Prophétas. Et unam sanctam cathólicam et apostólicam Ecclésiam. Confíteor unum baptísma in remissiónem peccatórum. Et exspécto resurrectiónem mortuórum. Et vitam ventúri sæculi. Amen.
Secreta
Sanctífica, quǽsumus, Dómine, Deus noster, per tui sancti nóminis invocatiónem, hujus oblatiónis hóstiam: et per eam nosmetípsos tibi pérfice munus ætérnum. [Santífica, Te ne preghiamo, o Signore Dio nostro, per l’invocazione del tuo santo nome, l’ostia che Ti offriamo: e per mezzo di essa fai che noi stessi Ti siamo eterna oblazione.]
Communio
Tob XII: 6
Benedícimus Deum cœli et coram ómnibus vivéntibus confitébimur ei: quia fecit nobíscum misericórdiam suam. [Benediciamo il Dio dei cieli e confessiamolo davanti a tutti i viventi: poiché fece brillare su di noi la sua misericordia.]
Postcommunio
Orémus.
Profíciat nobis ad salútem córporis et ánimæ, Dómine, Deus noster, hujus sacraménti suscéptio: et sempitérnæ sanctæ Trinitátis ejusdémque indivíduæ Unitátis conféssio. [O Signore Dio nostro, giòvino alla salute del corpo e dell’ànima il sacramento ricevuto e la professione della tua Santa Trinità e Unità.]