18 GIUGNO 1968: FONDAZIONE DELLA GERARCHIA DELLA SINAGOGA DI sATANA (3)

  18 giugno 1968: Fondazione della gerarchia nella sinagoga di satana. (3)

(Studio redazionale dal comitato internazionale “Rore sanctifica”)

Continuiamo a discutere con le idee un po’ più chiare, circa l’Invalidità intrinseca del rito del “Pontificalis Romani”, per quanto concerne la consacrazione episcopale. Ricordiamo in quali termini San Tommaso d’Aquino pone la questione: “Dio è il solo a realizzare l’effetto interno al Sacramento? Risposta: « Ci sono due modi di realizzare un effetto: in qualità di agente principale o in qualità di strumento. Secondo la prima maniera, è Dio solo che realizza l’effetto del Sacramento. Ecco perché Dio solo penetra nelle anime ove risiede l’effetto del Sacramento, e un essere non può agire direttamente là dove Egli non c’è. Anche perché appartiene solo a Dio il produrre la “grazia”, che è l’effetto interiore del Sacramento (Sum. Theol. I-II, Q.112, a. 1). Inoltre, il carattere, effetto interiore di certi Sacramenti, è una virtù strumentale derivante dall’Agente principale, che è qui Dio. Ma, nella seconda maniera, cioè agendo in qualità di ministro, l’uomo può realizzare l’effetto interiore del Sacramento; perché il ministro e lo strumento hanno la stessa definizione: l’azione dell’uno conduce ad un effetto interiore sotto la mozione dell’Agente principale che è Dio. » (Summa theologiæ III, Q.64, 1). In poche parole, l’uomo non è che il ministro, lo strumento dell’azione di Dio in un Sacramento. E qui sorge la domanda: “Chi è che ci assicura in modo assolutamente certo che Dio agisca al meglio in un rito creato nel 1968”?

Seguiamo ancora San Tommaso, che si chiede: “L’istituzione dei Sacramenti ha solo Dio per Autore? – « È a titolo di strumento, lo si è visto, che i Sacramenti realizzino degli effetti spirituali. Ora lo strumento trae la sua virtù dall’Agente principale. Vi sono due agenti, nel caso di un Sacramento: Colui che lo istituisce, e colui che usa del Sacramento già instituito applicandolo quanto a produrre il suo effetto. Ma la virtù del Sacramento non può venire da colui che non fa che usarne, perché non si tratta così se non al modo di un ministro. Rimane dunque che la virtù del Sacramento gli viene da Colui che l’ha instituito. La virtù del Sacramento non venendo che da Dio, ne risulta che Dio solo abbia istituito i Sacramenti. » Summa theologiæ (III, Q.64, 1). Dio solo ha istituito i Sacramenti, e allora, ripetiamo la domanda: Chi ci assicura in modo assolutamente certo che un rito creato nel 1968 trasmetta la “virtù” di un Sacramento che ha solo Dio come autore? – “Gli elementi necessari istituiti dal Cristo secondo San Tommaso d’Aquino: L’istituzione dei sacramenti ha Dio solo per autore?« Obiezione n°1: Non sembra, perché è la Santa Scrittura che ci fa conoscere le istituzioni divine. Ma ci sono alcuni elementi dei riti sacramentali che non si ritrovano menzionati nella Santa Scrittura, come la santa Cresima, con la quale si da’ la confermazione, e l’olio con cui si ungono i Sacerdoti, e certe altre parole e gesti che sono in uso nei Sacramenti. Risposta all’obiezione n° 1: Gli elementi del rito sacramentale che sono d’istituzione umana non sono necessari al Sacramento, ma contribuiscono alla solennità di cui lo si circonda per eccitare devozione e rispetto in quelli che lo ricevono. Quanto agli elementi necessari ai Sacramenti, essi sono stati istituiti dal Cristo stesso, che è nello stesso tempo Dio ed uomo; e se essi non ci sono tutti rivelati nelle Scritture, la Chiesa comunque li ha ricevuti dall’insegnamento ordinario degli Apostoli [la tradizione – ndr. – ]; è così che San Paolo scrive (1 Co XI, 34) : « Per gli altri punti, io li regolerò alla mia venuta ». (Summa theologiæ III, Q.64, 1). Se gli elementi del rito “necessari” al Sacramento sono stati istituiti dal Cristo stesso, ci domandiamo ancora più perplessi, chi è che ci assicura in modo assolutamente certo che gli elementi del rito creato  (… nientemeno che da dom B. Botte su commissione di Buan 1365/75!?!) nel 1968 contengano effettivamente gli elementi necessari al Sacramento istituito dallo stesso N.S. Gesù Cristo? Ricordando, al proposito, il giudizio di San Pio X « … allorché si sappia bene che la Chiesa non ha il diritto di innovare nulla che tocchi la sostanza del Sacramento » [San Pio X, 26 dicembre 1910, “Ex quo nono”]. Quindi veniamo alle “1+3” condizioni di validità del Sacramento di consacrazione: 1) Perché una consacrazione episcopale sia valida, si richiede innanzitutto che il consacratore abbia egli stesso il potere d’ordine, cioè che egli sia validamente (ed ontologicamente) Vescovo. Successivamente, sono necessarie 3 condizioni all’esistenza del Sacramento della consacrazione episcopale (vale a dire alla sua validità) : • la materia e la forma: « I Sacramenti della nuova legge devono significare la grazia che essi producono e produrre la grazia che essi significano. Questo significato deve ritrovarsi … in tutto il rito essenziale, e cioè nella materia e nella forma; ma esso appartiene particolarmente alla “forma”, perché la materia è una forma indeterminata per se stessa, ed è la “forma che la determina” ». [Leone XIII, Apostolicae Curae, 1896]. • l’intenzione del consacratore: « la forma e l’intenzione sono egualmente necessarie all’esistenza del Sacramento », «Il pensiero o l’intenzione, dal momento che è una cosa interiore, non cade sotto il giudizio della Chiesa; ma Essa deve giudicarne la manifestazione esteriore » [Leone XIII, Apostolicae Curae, 1896]. E il Santo Padre Pio XII sottolinea efficacemente la questione alla Conclusione dei lavori del 1° congresso internazionale della liturgia pastorale d’Assisi, il 22 settembre 1956: «Ricordiamo a questo proposito ciò che Noi diciamo nella Nostra Constituzione Apostolica “Episcopalis Consecrationisdel 30 novembre 1944 (Acta Ap. Sedis, a. 37, 1945, p. 131-132). Noi vi determiniamo che nella consacrazione episcopale i due Vescovi che accompagnano il Consacratore, debbano avere l’intenzione di consacrare l’Eletto, e che essi debbano per conseguenza compiere i gesti esteriori e pronunciare le parole, per mezzo delle quali il potere e la grazia da trasmettere siano significate e trasmesse. Non è dunque sufficiente che essi uniscano la loro volontà a quella del Consacratore principale e dichiarino che essi fanno proprie le sue parole e le sue azioni. Essi stessi devono compiere quelle azioni e pronunziare le parole essenziali. »! E allora, quali sono state le modifiche o le soppressioni “sospette” (per usare un eufemismo) del rito montiniano. Ecco cosa è stato soppresso: – 1) Il giuramento del futuro Vescovo che promette a Dio « di promuovere i diritti, gli onori, i privilegi dell’autorità della santa Chiesa romana… d’osservare con tutte le sue forze, e di farle osservare agli altri, le leggi dei santi Padri, i decreti, le ordinanze, le consegne ed i mandati apostolici … di combattere e di perseguire secondo il suo potere gli eretici [una delle principali funzioni del Vescovo!!!], gli scismatici ed i ribelli verso il nostro San Pietro: il Papa ed i suoi successori ». – 2) L’esame attento del candidato sulla sua fede, comprendente la domanda di confermare ciascuno degli articoli del credo. – 3) L’istruzione del Vescovo: « Un Vescovo deve giudicare, interpretare, consacrare, ordinare, offrire il sacrificio, battezzare e confermare ». In nessuna parte quindi, il nuovo rito menziona che la funzione del Vescovo sia quella di ordinare, di confermare e di giudicare (di slegare e legare). -.4) La preghiera che precisa le funzioni del Vescovo, dopo la preghiera consacratoria. Nel Pontificalis Romani, si definisce quindi una forma essenziale insufficiente. Per Pio XII, la forma deve significare in modo univoco l’intenzione del rito di fare un Vescovo per ordinare dei preti: « allo stesso modo, la sola forma sono le parole che determinano l’applicazione di questa materia, parole che significano in un modo univoco gli effetti sacramentali, cioè il potere di ordine e la grazia dello Spirito-Santo, parole che la Chiesa accetta ed impiega come tali» [Pio XII, Sacramentum Ordinis, 1947]. –

[la vera formula consacratoria di sempre in uso nella Chiesa Cattolica]

La forma designata come “essenziale” da Paolo VI non indica né il potere d’ordine, né la grazia dello Spirito-Santo come grazia del Sacramento:

« La forma consiste nelle parole di questa preghiera consacratoria; tra di esse, ecco quelle che appartengono alla natura “essenziale”, sicché sono quelle esatte perché l’azione sia valida:

« Et nunc effunde super hunc electum eam virtutem, quæ a te est, Spiritum principalem, quem dedisti dilecto Filio Tuo Jesu Christo, quem ipse donavit sanctis apostolis, qui constituerunt Ecclesiam per singula loca, ut sanctuarium tuum, in gloriam et laudem indeficientem nominis tui »

[ed ora effondi su questo eletto quella virtù che viene da Te, lo Spirito “principale”, che desti al Figlio tuo diletto, e che Egli donò ai suoi Apostoli, perché si costituisse la Chiesa come tuo santuario a gloria e lode del tuo Nome …]. (Inoltre non è specificato di quale spirito si tratti! “Principalem”, in latino, significa pure: “del principe” [si consulti un normale vocabolario della lingua latina]… quindi non è per caso che ci si riferisca, viste le referenze degli autori, allo … spirito del “principe … di questo mondo”?) – (Paolo VI, Pontificalis Romani, 1968.]. I termini supposti per definire il Vescovo figurano in un’altra parte del prefazio: «ut distribuát múnera secúndum præcéptum tuum » [Paolo VI, Pontificalis Romani, 1968). Alla maniera degli anglicani, i difensori del rito montiniano devono allora invocare l’“unità morale” del rito. Nel Pontificalis Romani, la forma essenziale è senza dubbio, insufficiente. Il Sacramento (ex opere operato) non può operare ciò che esso non significa!!! « La sola forma sono le parole che determinano l’applicazione di questa materia, parole che significano in modo univoco gli effetti sacramentali, cioè il potere d’ordine e la grazia dello Spirito-Santo, parole che la Chiesa accetta ed impiega come tale». [Pio XII, Sacramentum ordinis, 1947]. Le parole del prefazio del Pontificalis romani “non” significano affatto il potere d’ordine: “Ut distribuant munera secundum praeceptum tuum”. [Che essi distribuiscano dei “doni” (!?! forse come santa Claus o la befana !?) secondo il tuo comandamento]. Il termine adottato “distribuant munera” è equivoco, esso esprime dei doni, dei carichi, delle funzioni (vedere il diz. Gaffiot per “munus”), si tratta di un termine profano che non esprime nemmeno lontanamente il potere d’ordine. Dom Botte traduce il greco κλήρους (Klerous) con ‘carichi’ (La Tradition apostolique, Ed. Sources chrétiennes, maggio 1968). Ora un “carico” ecclesiastico non è un ordine. Un anglicano può accettare l’espressione di distribuzione di carichi, un luterano ugualmente. Questa ambiguità è voluta … siamo ben lontani dalle parole essenziali del rito latino (comple sacerdote tuo). Queste parole esprimono in modo univoco il potere d’ordine (Episcopum oportet … ordinare – il Vescovo deve ordinare!). Il sacramento (ex opere operato) non può operare ciò che esso non significhi e quindi la forma è da considerarsi “difettosaA questo punto, a differenza di tutti i riti precedentemente adottati, è patente la “contro-intenzione” del rito, quella di “non” significare il potere di ordinazione dei Sacerdoti, e quindi la volontà di non ordinare! Si mette dunque in evidenza una contro-intenzione a livello della forma del rito, contro-intenzione che appare in un contesto ecumenico-modernista che fornisce la “chiave” per la comprensione della posa in atto di questo rito. Non a caso Jean Guitton, scriveva: « Questa Chiesa ha cessato di chiamarsi cattolica per chiamarsi ecumenica », ed il massone Bugnini (col nome d’arte BUAN, sempre lui, quello della messa del baphomet “signore dell’universo”!) dichiarava sull’Osservatore Romano del 19 marzo del 1965: Noi dobbiamo spogliare le nostre preghiere Cattoliche e la liturgia Cattolica da tutto ciò che potrebbe rappresentare l’ombra di una pietra d’inciampo per i nostri “fratelli” separati (quelli che la “vera” Chiesa ha sempre chiamato “eretici” e “scismatici”, vale a dire i Protestanti.”).

Un caso simile, a proposito delle false ordinazioni anglicane, fu inesorabilmente ed infallibilmente stroncato da un Papa “vero”, Leone XIII nella sua famosa lettera Enciclica del 1896 (oggi occultata con ogni mezzo dagli apostati modernisti conciliari!), la già più volte citata “Apostolicæ curæ” nella quale si dimostravano 4 punti: –

1) La forma del Sacramento è stata rimpiazzata da una forma ambigua che non significa precisamente la grazia che produce il Sacramento [appunto come l’attuale -ndr. -]. –

2) Il rito anglicano è stato composto e pubblicato in circostanze di odio del Cattolicesimo ed in uno spirito settario ed eterodosso (come quello ecumenico e neoterico della setta modernista, ampiamente scomunicato da Papi di felice memoria, uno tra tutti: Pio II in Execrabilis– ndr, – ); –

3) Le espressioni del rito anglicano non possono avere un senso cattolico (esattamente come quello esaminato –ndr. – ).–

4) L’intenzione del rito anglicano è contraria a ciò che fa la Chiesa • Una conclusione infallibile e senza appello!!!.

Tale conclusione, viste le premesse, può essere tranquillamente e serenamente applicata, con identica fermezza, a quella del rito di Montini e del “trio blasfemo”. Si tratta come si vede, di una ulteriore impostura sacrilega a-canonica ed a-cattolica introdotta a devastazione della Gerarchia cattolica, e la formazione di una nuova gerarchia farlocca, completata di li a poco (1972) dall’abolizione indebita della tonsura ecclesiastica, e che ha “confezionato”, come vedremo, dei laici mai consacrati, dei prelati-zombi, ridicoli travestiti ed usurpanti ignobilmente titoli e giurisdizioni!

.- Continuiamo a parlare di questa cosa gravissima, della quale pochi sono a conoscenza, e chi sa e la conosce, si guarda ovviamente bene dal farne parola, e cioè della INVALIDITA’ formale e materiale della consacrazione episcopale del “Pontificalis Romani”, che sta producendo in apparenza, l’estinzione dell’Ordine sacerdotale cattolico e di conseguenza di tutti i Sacramenti: quella che oggi appare essere la Chiesa Cattolica, è costituita in realtà da un esercito di “zombi” spirituali, da “finti” e presunti sacerdoti e vescovi che stanno lentamente ma inesorabilmente soppiantando i pochi veri “residui” Vescovi e Sacerdoti, oramai solo ultraottantenni, e cioè i Vescovi ordinati con il “rito Cattolico” di sempre contenuto nel Magistero irreformabile ed eterno, o i Sacerdoti ordinati da “veri” Vescovi a loro volta ordinati prima del fatidico 18 giugno 1968. – L’Apostolicità della Chiesa Cattolica, prosegue nelle “catacombe” in cui è relegato il vero Pontefice Romano, successore di S.S. Gregorio XVII, Giuseppe Siri, che anche se con estrema difficoltà e prudenza ordina e garantisce l’operato dei Vescovi da lui nominati.

Adesso discorreremo addirittura delle ERESIE contenute nella formula del rito del “Pontificalis Romani”!! Effettivamente costateremo nella “forma” essenziale: 1) un‘eresia monofisita, 2) un’eresia anti-filioque, 3) un’eresia anti-Trinitaria, tali da configurare una forma essenziale “kabbalista e gnostica” (la Gnosi in generale, e quella talmudica-cabbalista in particolare, è propriamente la “teologia” di lucifero), e creare quindi un perfetto “eletto manicheo”. Una forma quindi, che non solo rende invalida ed illecita ogni presunta consacrazione, ma ne inverte i valori spirituali, consacrando cioè un “servo di lucifero”. E allora ci chiediamo: ma se è così come sembra, e come ci accingiamo a dimostrare, cosa pensare del prossimo “santo” G.B. Montini, Paolo VI? Possiamo affermare, con piglio categorico, sicuro e senza … peli sulla lingua: il “dannato subito” della “sinagoga di satana”, infiltrata lentamente fraudolentemente nella Chiesa Cattolica, è da ritenersi come il più grande eresiarca della storia di tutti i tempi, al cui confronto Lutero, Calvino, Fozio, Ario, Krenmer, Soncino e compagnia cantando, sono dilettanti di serie Z, di ultima categoria!”.

PORTRAIT DE CALVIN

gli eretici dilettanti e…

… Il più grande eresiarca di tutti i tempi!

C’è chi ha attaccato la Chiesa dal tetto, chi dalle mura esterne, chi dal portone e dalle finestre, ma Montini “la ruspa” L’ha praticamente rasa al suolo (si fieri potest), scardinandone i pilastri portanti: la Santa Messa, la Consacrazione episcopale, la tonsura abolita e quindi Sacerdozio cattolico abolito, con la conseguente invalidità di tutti i Sacramenti e di ogni rito! Ma torniamo alla invalida ed illecita consacrazione episcopale, alla blasfema formula di ispirazione fanta-copto-etiopica, come dimostrato in precedenza: « Et nunc effunde super hunc electum eam virtutem, quæ a te est, Spiritum principalem, quem dedisti dilecto Filio Tuo Jesu Christo » [Pontificalis Romani, 1968 (forma essenziale)]. Qui è palese l’affermazione dell’eresia monofisita, l’eresia dei monofisiti etiopici [che negano cioè la natura divina di Cristo]. Queste due righe citati infatti si ritrovano tal quali nel loro rito abissino di consacrazione episcopale. Questa eresia consiste nel considerare che il Cristo abbia bisogno di ricevere dal Padre lo Spirito-Santo per divenire ’Figlio di Dio’, e per poter comunicare a sua volta, lo Spirito-Santo ai suoi Apostoli. Il Figlio riceve lo Spirito ad un dato momento (al battesimo secondo gli Etiopi), cosa quindi che nega la natura del “Fiat” della Santissima Vergine Maria, “Fiat” che permette nello stesso momento la sua verginale Concezione, realizzando così il Mistero centrale della Fede Cattolica: l’Incarnazione di Nostro Signore Gesù-Cristo, vero Uomo e vero Dio per mezzo dello Spirito-Santo). Quindi: negazione totale della verità cattolica dell’Incarnazione del Verbo! Ma nella “forma essenziale” c’è anche spazio per l’eresia anti-Filioque [l’eresia di Fozio e dei sedicenti “Ortodossi”, che negano il procedere dello Spirito-Santo dal Padre “e” dal Figlio]. In questa forma, infatti, si afferma l’eresia anti-Filioque etiopica, secondo la quale “Non è più il Figlio che spira, con il Padre, lo Spirito-Santo (cf. il “Filioque” del Simbolo di Nicea), ma è il Figlio che riceve dal Padre lo Spirito-Santo. Si tratta di un’inversione (secondo un tipico costume satanico), delle relazioni nella Santa Trinità tra il Figlio e lo Spirito-Santo. Incredibile! Pensare che al Credo della Messa “di sempre” la Chiesa ci fa cantare a proposito dello Spirito-Santo « qui ex Patre Filioque procedit »! Questa formula esprime la fede della Chiesa nello Spirito Santo come terza Persona della Santa Trinità. Lo Spirito-Santo procede dal Padre e dal Figlio come da un solo Principio e possiede, con il Padre ed il Figlio, gli stessi attributi di onnipotenza, di eternità, di santità; Esso è uguale al Padre ed al Figlio a causa della divinità che è Loro propria. L’utilizzazione del termine Puer Jesus Christus nella “forma”, in Ippolito, «modello» del rito della consacrazione dei Vescovi riformato da Montini (il sedicente marrano Paolo VI), è rimpiazzato da: “dilectus Filius” = tuo Figlio diletto, Gesù Cristo. Malgrado tutto, questa correzione indica ancora e sempre una inferiorità del Figlio poiché il Cristo è designato anche, come nei Greci scismatici, come canale transitorio dello Spirito-Santo. Manca dunque allo Spirito-Santo la relazione essenziale in seno alla Santa Trinità come Persona emanante dal Padre e dal Figlio dall’eternità. Un errore grossolano, fondamentale, che rende, una volta di più, la forma dell’ordinazione intrinsecamente inoperante e dunque assolutamente invalida! Ed anche se la rettitudine della fede del Vescovo consacrante fosse certa, questa non potrebbe “sopperire” né correggerebbe la forma e l’intenzione che è normalmente veicolata dal rito.

Ma non è ancora finita: la “forma” inventata da B. Botte per Bugnini, su richiesta di Montini, proclama anche una eresia anti-Trinitaria! Ed infatti il « Signore » che è: Dio, il Padre; il Figlio Gesù-Cristo, consustanziale al Padre; e « lo Spirito che fa i capi (!?!) e che Tu hai dato al tuo Figlio diletto, Gesù-Cristo » non costituiscono affatto una designazione teologicamente corretta delle tre Persone divine nell’unità della sostanza e distinte per le loro Relazioni proprie! Qui il discorso è sottile e non alla portata di ogni mente non abituata (e dove sono più oramai?) al “tomismo” (la teologia di S. Tommaso), ma è palese il voler rinnegare la formulazione di San Tommaso quando dice: Pater et Filius et Spiritus Sanctus dicuntur “unum” et non unus. (Quodl. 6,1+2) [si dicono un “unico” e non uno]. Di conseguenza la nuova formula di consacrazione episcopale è egualmente invalida a causa di questa eresia antitrinitaria.

Ma c’è ancora dell’altro: questa “forma” sembra a ragione, provenire addirittura da un sistema gnostico e kabbalista! Riportiamo ancora la formula: « Et nunc effunde super hunc electum eam virtutem, quæ a te est, Spiritum principalem, quem dedisti dilecto Filio Tuo Jesu Christo» Con la modifica di “Spiritus principalis” in “Spiritum principalem”: cioè un genitivo che diviene un accusativo, l’essere dello Spirito è assimilato ad una qualità (forza), lo Spirito diviene cioè una sorta d’ “energia”, e non più una “Persona”. Questo concetto eretico deriva da un sistema “gnostico” immanentista panteista (il discorso sui concetti della “gnosi spuria” e di kabbala “spuria”, richiederebbe un’opera monumentale). La messa in equivalenza mediante un accusativo, proprio della “fabbricazione” di Dom Botte (“originalità” luciferina che non si ritrova né presso gli etiopi, né nella sinossi della ’Tradizione apostolica’ e neppure nelle Costituzioni apostoliche), tra la “forza” (virtus) che viene dal Padre e lo Spiritus principalis, fa nuovamente assimilare la Persona dello Spirito-Santo ad una semplice “qualità” proveniente da Dio, ma senza essere Dio. Questo è nuovamente un negare lo Spirito-Santo come Persona divina e quindi la sua consustanzialità divina. Ma addirittura in certe traduzioni “diocesane” lo Spirito vi appare con una minuscola, ed egualmente il ’Figlio’ vi appare con una minuscola: “Signore, spandi su Colui che tu hai scelto la tua forza, lo spirito sovrano che tu hai dato a tuo figlio”. Facendo il legame di questi elementi con la concezione kabbalista di Elia Benamozegh (cf. le sue opere in proposito), si arriva alla riduzione dello Spirito e del Figlio a due “eoni” inviati da Dio, ma che non sono Dio, bensì degli “éoni” [coppia di entità che Dio manderebbe ogni tanto per illuminare gli uomini], come nel sistema dell’eretico gnostico Valentino (o della neognosi massonica attuale), o delle forze semplici, “virtù” o energie spirituali. Questo riduce la Santa Trinità ad un concetto puramente simbolico, espressione di un sistema gnostico sotto le apparenze monoteiste (monoteismo appunto del “signore dell’universo”: lucifero, cosa di cui ci ha informato il sig. Margiotta, massone ex 33° del palladismo di Pike e Mazzini). Questo lascia trasparire la profonda conoscenza che il “marrano” Patriarca degli Illuminati di Baviera dell’epoca, Montini [la cui famiglia materna era giudaica] aveva della kabbala e della gnosi spuria che egli ha travasato nel Cattolicesimo facendola apparire “cristiana” agli “ignari” fiduciosi della sua (finta) infallibilità! A chi ne volesse sapere di più, si consiglia : “Dell’Origine dei Dogmi Cristiani”, di Elia Bénamozegh. Cap. III. Caratteri dello Spirito-Santo, pag. 271, e, sempre dello stesso rabbino, gli: Atti del convegno di Livorno (settembre 2000) Alessandro Guetta (ed.), Edizioni Thalassa de Paz, Milano, coop srl. – Dicembre 2001 Via Maddalena, 1 – 20122 Milano. Quindi la SS. Trinità è intesa seconda la “gnosi spuria”: « Non è più la Trinità di Persone nell’unità della sostanza, ma è l’Infinito, l’Assoluto, l’Eternità, l’Immensità incomprensibile, inintelligibile, vuota e senza alcuna forma, l’“ensof” in cui le tre Persone non sono più che delle emanazioni temporali (…). Secondo il paganesimo, l’Essere primordiale, che è nello stesso tempo il Non-essere, si differenzia e si rivela solamente dopo un certo tempo, facendo emanare dal suo vuoto interiore le tre divinità che i pagani hanno adorato. Così si elimina la S.S. Trinità in vista della religione noachide. E qui il discorso si allargherebbe a dismisura esulando dalle intenzioni di questo scritto. Ricordiamo solo che la negazione dell’eternità della Trinità divina è la negazione della creazione “ex nihilo”, è la negazione della differenza essenziale tra Dio e l’universo; è l’abbassamento del Creatore al livello della sua creatura o la deificazione della creatura, in particolare dell’uomo… è il panteismo» In verità questa è stata sempre la costante del “falso” pontificato di Montini: sostituire l’uomo a Dio, sostituire alla Redenzione di Gesù-Cristo, la redenzione gnostico-cabalista della triplice e blasfema trinità massonica.

Oltre a queste chiare eresie e l’intento noachide, la “forma” montiniana, nasconde un’ulteriore intenzione “occulta”, quella di designare un « Eletto » manicheo, aggiungendo l’espressione: “super hunc Electum”. “Electus” ha due sensi (cristiani) secondo il Gaffiot (termine electus) • scelto da Dio per la salvezza: VULG. Luc. XVIII,7 • scelto per ricevere il Battesimo: AMBR. Hel. 10, 34. Poi il Gaffiot aggiunge un ultimo senso: • membro d’élite della setta dei manichei, [eretici gnostici, seguaci di Mani]: MINUC. 11,6. Ora, essendo gnostica la natura del sistema dal quale deriva questa formula, questo è il vero senso, e cioè l’intenzione del rito d’ordinazione episcopale di sua satanità Paolo VI è un rito che conferisce dei poteri ad un eletto manicheo! A questo punto abbiamo bisogno di respirare aria pura, non ne possiamo più di tutti questi inganni! Certo, non vorremmo ritrovarci nei panni “infuocati” di un vescovo (falsamente) consacrato dopo il 1968, cioè un “eletto manicheo” anti-Cristo! Alla prossima per ricapitolare il tutto!

Quali sono le origini del Pontificalis Romani, da dove proviene questa formula dell’antipapa Paolo VI? Le Ragioni addotte da Paolo VI nel Pontificalis Romani per promulgare questa riforma ufficialmente sono: – « … Si è giudicato bene di ricorrere, tra le fonti antiche, alla preghiera consacratoria che si trova nella “Tradizione apostolica di Ippolito di Roma”, documento dell’inizio del terzo secolo, e che, in una grande parte, è ancora osservata nella liturgia dell’ordinazione presso i Copti ed i Siriaci occidentali. In tal modo, si rende testimonianza, nell’atto stesso dell’ordinazione, dell’accordo tra la tradizione orientale ed occidentale sul carico apostolico dei Vescovi » Paolo VI (Pontificalis Romani,1968). L’inganno è palese, poiché è provato (come vedremo più avanti) che: – La pretesa (*) Tradizione apostolica attribuita ad Ippolito di Roma, o ad altri autori, è un tentativo di ricostituzione fatto da Dom Botte dopo il 1946, ed « in modo costruttivo », secondo l’espressione di R.P. Hanssens, nel 1959. – La Tradizione apostolica d’Ippolito suscita dal 1992 un dibattito tra specialisti che la qualificano come di « pretesa Tradizione apostolica », quindi quantomeno dubbia, se non fantomatica! Questa controversia divenne oggetto di un seminario nel 2004 nel quale si concluse che: –1) La preghiera di consacrazione di Paolo VI si ispira, ma non s’identifica, con la pretesa Tradizione apostolica attribuita ad Ippolito; essa rappresenta una creazione “artificiale” di Dom Botte nel 1968. 2) La preghiera consacratoria di Paolo VI, la cui forma essenziale è ispirata alla pretesa (*) Tradizione Apostolica d’Ippolito, presenta delle similitudini con i riti Abissini, riti di eretici “monofisiti”, i quali non costituiscono dei riti validi, ma piuttosto dei riti risultanti da dibattiti teologici nati alla fine del XVII secolo. 3) I riti copto e siriaco non utilizzano affatto la formula detta d’Ippolito, (dello stesso avviso è perfino Dom Botte!). inoltre i riti utilizzati dal siriaco al copto, ai quali ci si è falsamente ispirati, venivano utilizzati per insediare un Patriarca già consacrato Vescovo, e quindi non conferivano in alcun caso il Sacramento dell’Ordine!  – 4) La formula di Paolo VI non manifesta alcun « accordo tre le tradizioni orientale ed occidentale», ma viene recuperata piuttosto da una pretesa (*) ‘Tradizione apostolica d’Ippolito’, testo che secondo alcuni proviene invece da ambiti egiziano-alessandrini, nei quali i riti traducono, secondo Burton Scott Easton, le influenze della sinagoga (The Apostolic Tradition of Hippolytus, Burton Easton, 1934, pag. 67 ed. del 1962, Archon Books).

(*) [Noi abbiamo preferito scrivere, in accordo con il comitato internazionale “rore sanctifica”: La ‘pretesa’ Tradizione apostolica a proposito di questo documento denominato “la Tradizione apostolica attribuita ad Ippolito” (o a diversi autori “Ippoliti”), conformandoci così alla denominazione dei lavori Scientifici ed universitari che si è imposta da un paio di decenni nel mondo degli specialisti che trattano di questo soggetto.]

In sostanza, la “contestazione d’Ippolito”, conosciuta dagli specialisti già dal 1946, ossia ben 22 anni prima del Pontificalis Romani, continua nel 1990 ed oltre, anche da parte dei Bollandisti (Gesuiti seguaci di Bolland, particolarmente eruditi nelle documentazioni ecclesiastico-liturgiche). Sarebbe troppo lungo e noioso riportare tutti i documenti, veri o presunti, ed i dibattiti successivi sul tema, ma a quanti, incuriositi, volessero delle indicazioni precise, consigliamo di consultare il sito del comitato “Rore Sanctifica” o i diversi Tomi di “Démontration et bibliographie” editi da ESR. In conclusione, la preghiera consacratoria di Paolo VI s’ispira, ma non riproduce affatto neppure quella della pretesa (*) “Tradizione Apostolica d’Ippolito’ che è stata quindi solo un po’ di “fumo negli occhi”, un “bluff” per prendere tempo in attesa di tempi migliori e … di nuove invenzioni, e costituisce pertanto una creazione artificiale di Dom Botte nel 1968. L’inganno verrà meglio compreso successivamente, quando qualche “topo di biblioteca”, un inopportuno ed inatteso “figlio di topa….” va a scovare le formule ed i riti orientali nelle lingue originali, fraudolentemente addotti essere un modello di ispirazione onde fondere le consuetudini liturgiche occidentali ed orientali, sicuri che nessuno mai andasse a verificarle, fidandosi della perizia dei falsi e ben oleati “sapienti” incaricati. Per il momento ci fermiamo qui, ma le sorprese continuano: “Esse ci fanno capire la volontà sottile con la quale si sia perpetrato l’inganno tra l’indifferenza, l’insipienza e, non voglia Iddio, la connivenza di tanti presunti “conoscitori di cose divine”, mollemente adagiati nei loro dorati e comodi giacigli, magari in compagnia di qualche “amichetto”.. Tremate, il giudizio arriverà anche per voi … come un ladro, quanto meno lo aspettate … e lì sarà pianto e stridor di denti!

     Concludiamo con una certa tensione il nostro esame circa la totalmente invalida e blasfema consacrazione episcopale la cui “forma” è contenuta nel (falso) pontificalis romani del 1968, forma progettata, redatta e confezionata ad arte dal trio massonico-modernista BBM [Botte, Buan 1365/75, Montini], esame che ci ha messo a conoscenza di cose sconvolgenti e scrupolosamente celate da chi “sa”, cose che descrivono una realtà totalmente artefatta ed ingannevole. A riguardo degli attuali falsi-vescovi vaticano-secondisti (compreso quelli “sedicenti” di Roma), è bene rileggere le parole, oggi tragicamente attuali, contenute in una lettera famosa che reca le firme delle più belle ed appropriate penne del Cattolicesimo, ossia di trentatré Vescovi, tra i più insigni dell’epoca della peste giudaico-ariana abbattutasi sulla Cristianità, tra i quali Melezio di Antiochia, primo presidente del Concilio Ecumenico di Costantinopoli, di S. Gregorio Nazianzeno, grande Padre della Chiesa, che presiedette il suddetto Concilio Ecumenico alla morte di Melezio, San Basilio, anch’esso Padre della Chiesa, S. Giovanni Crisostomo, ed altre personalità insigni per fama e santità. La lettera famosa riporta quanto segue: “… si getta lo scompiglio nei dogmi della Religione, si confondono le leggi della Chiesa. L’ambizione di coloro che non temono il Signore li spinge a scavalcare le autorità e ad attribuirsi l’Episcopato quale premio alla più sfacciata empietà, di modo che colui che proferisce le più gravi bestemmie venga ritenuto il più adatto per reggere il popolo come Vescovo. È scomparsa la serietà episcopale. Mancano pastori che pascolino con coscienza il gregge del Signore. I beni dei poveri sono costantemente impiegati dagli ambiziosi per proprio tornaconto e regalati senza riguardo. Il fedele compimento dei canoni si è oscurato (….) Per tutto questo gli increduli ridono, i deboli vacillano nella fede, la fede stessa è dubbiosa, l’ignoranza si distende sulle anime, quindi assumono aspetto credibile coloro che insozzano la divina parola con loro malizia, visto anche che la bocca dei più osserva il silenzio” [Opere di S. Giovanni Crisostomo. Bibliot. di Autori Cristiani. La Editorial Catolica S. A., introd. Pag. 7 -grassetto e sottolineatura redaz.-]. Nulla è cambiato oggi rispetto alla quella tragica situazione, anzi oggi è ancora peggio, perché abbiamo da un lato 1°- finti vescovi non-consacrati dell’ecumenico-modernismo, setta oggi padrona illegittima usurpante nella Chiesa; dall’altro altrettanto 2° – finti non-vescovi mai consacrati, a cominciare dal cavaliere kadosh A. Lienart, massone 30° già quattro anni prima della sua sacrilega ed invalida consacrazione, invalida poiché un Sacramento non può operare in un pluriscomunica scomunicato “latæ sententiæ” od imprimere il sigillo del sacerdozio anche ordinario in uno che grida alzando un pugnale al cielo: “Adonay nokem” [Adonai vendetta], nei brindisi inneggianti a lucifero delle agapi massoniche. (Inutile e falso dire che anche Giuda fosse stato costituito Vescovo da Gesù-Cristo, malgrado le sue intenzioni nefaste, ma il Salvatore ha lasciato fare, perché sapeva già a quale fine il reprobo traditore andasse incontro … da lì a poco). Invalida quindi la sua consacrazione, invalide tutte quelle da lui operate e quelle operate dai suoi falsi consacrati, a cominciare dal “santo” “Marcello” Giuda-Lefebvre, ben consapevole della cosa, e che oltretutto poi, senza alcun mandato, contravvenendo a tutte le regole ed ai Canoni della Chiesa, ed in dispregio a qualunque autorità, anche alle false, ha sacrilegamente ed invalidamente “finto” di consacrare, con cognizione di causa, altri poveri disgraziati peggiori di lui, destinati anch’essi alla fine di Giuda, che continuano il turpe ed infame costume di perdizione delle anime incaute. Delle pittoresche balorde consacrazioni di mons. Thuc, ai limiti della patologia psichiatrica, che in preda ad enfasi misticheggianti, ha consacrato cani e p…., senza mandato apostolico e giurisdizione, avallando scismatici ed eretici movimenti sedevacantisti pseudo-tradizionalisti, non è neppure il caso di accennare. E qui non abbiamo Santi come il Crisostomo, Basilio, Gregorio Nazianzeno. Ci resta solo la Santissima Vergine e la potentissima arma del Rosario… Ella ce l’ha promesso … “Ma alla fine il mio Cuore Immacolato trionferà!!!” [Messaggio di Fatima].

Ricordiamo pure come il grande autore cattolico francese Dom Guéranger (quando in Francia c’erano ancora Sacerdoti cattolici! … bei tempi …) nelle “Instituzioni Liturgiche”, presenta in 12 punti fondamentali la «Marcia dei pretesi riformatori del cristianesimo» : – Egli dimostra che l’eresiarca antiliturgista odia la Tradizione, rimpiazza le formule liturgiche con i testi della Scrittura Santa per interpretarli a suo modo, introduce delle formule «perfide», rivendica i diritti dell’antichità di cui si fa beffe cambiandone il rito, sopprime tutto ciò che esprime i misteri della fede cattolica, rivendica l’uso della lingua volgare, sopprime le genuflessioni ed altri atti di pietà della liturgia cattolica, odia la Potenza Pontificia Romana, organizza la distruzione dell’episcopato, rigetta l’autorità di Roma per gettarsi nelle braccia del principe temporale. Alla luce delle considerazioni di dom Guéranger, della cui retta dottrina c’è da essere assolutamente certi, siamo quindi alla presenza di eresie antiliturgiste, e del maggiore eresiarca antiliturgista mai comparso sulla faccia della terra: G. B. Montini, il marrano sedicente Paolo VI, “giustamente” pseudo-canonizzato, “santo” della attuale “sinagoga di satana” [si legga: “dannato” della chiesa Cattolica] che oggi domina la Sede di Pietro ed i Sacri palazzi dell’urbe e dell’orbe così come da visione “purtroppo” profetica del Santo Padre S. S. Leone XIII! – Ma torniamo al nostro argomento, facendo un po’ di riepilogo. Ci pare di aver capito, nella nostra grossolana ignoranza, che il rito Romano, soppresso il 18 giugno del 1968, sia un rito antico, invariabile nella sua forma essenziale da più di 17 secoli, ed infatti tutti i Vescovi cattolici di rito latino (tra i quali Santi straordinari, tipo S. Francesco di Sales o S. Alfonso Maria de’ Liguori, tanto per citarne qualcuno), sono stati consacrati con questo rito. Che cosa ha questo nuovo Rito che non va? Ecco la risposta pronta: “ Il rito di Pontificalis Romani è stato creato nel 1968 e non è MAI stato utilizzato nella Chiesa. Nessun Vescovo cattolico è mai stato consacrato in questo rito. Questo rito non possiede gli «elementi necessari», secondo la teologia sacramentale. (v. San Tommaso): Esso è INTRINSECAMENTE invalido. Questo non è un rito cattolico!!! A tal proposito cerchiamo, prima di un riepilogo dettagliato sulla questione, di comprendere meglio cosa si intendesse, accennando all’“eletto manicheo”, che sarebbe in realtà l’unico titolo che il rito, o meglio questa “pantomima”, spacciata per consacrazione episcopale, conferirebbe! Gli “eletti” manichei, o “i perfetti”, costituivano, nell’ambito del Manicheismo, una “religione” di carattere gnostico che annoverava influssi disparati derivanti da tradizioni giudaiche, iraniane, ed afro-orientali, in un “minestrone” ecumenico comprendente elementi di buddismo, cristianesimo, zoroastrismo, tradizioni iraniche, giudaismo talmudico e paganesimo variegato, il tutto ben cementato dalla cosmogonia e teogonia gnostica, in un sistema codificato secondo presunte “rivelazioni” spirituali di un “paracleto”, il presunto “spirito gemello” di Mani (da cui Manicheismo, definire compiutamente il quale richiederebbe tempo e spazio), nobile personaggio vissuto nel III secolo d.C. In Persia: gli “eletti”, erano un gruppo ristretto di religiosi osservanti rigorose norme morali e comportamentali, che libererebbero le “fiammelle” divine imprigionate nei corpi materiali creati da un “demiurgo” malefico, il Dio dei Cristiani [sempre la stessa “solfa” gnostica]: agli “eletti” si contrapponevano gli “auditores” che erano i collaboratori degli “eletti”, verso i quali avevano doveri servili (elemosine), che non li avrebbero però liberati dalla materia, continuando così essi, poverini, ad essere obbligati a trasmigrare in corpi diversi (metempsicosi gnostica e teosofica!). L’obiettivo inconfessato della sceneggiata della “falsa” consacrazione cattolica episcopalele, non è altro quindi che la blasfema “istituzione” di eletti manichei (vescovi della chiesa gnostica) nell’ambito della dottrina gnostica, “gnosticismo” del quale è infarcito il talmudismo “spurio” giudaico, al quale si “abbeverava”, per tradizione familiare, l’apostata Montini. – Chiudiamo allora con il riepilogo succinto di quanto abbiamo cercato di esporre in questa serie di scritti dedicati alle “false consacrazioni episcopali” iniziate il 18 giugno del 1968. I fatti e gli argomenti precedentemente riportati hanno dimostrato quanto segue, per il rito di consacrazione episcopale promulgato dal falso Papa, l’antipapa Giovan Battista Montini, sedicente Paolo VI, il 18 giugno 1968 a Roma, nel Pontificalis Romani:

1) Questo rito non è antico, ma è stato creato nel maggio 1968 da diversi materiali.

2) Questo rito rivendica una origine oggi contestata dagli specialisti (veri) della questione

3) Questo rito non riproduce affatto quello della pretesa (*) “Tradizione apostolica” attribuita ad Ippolito.

4) Questo rito non è, e non lo è mai stato, praticato in Oriente, presso i copti ed i siriaci occidentali.

5) Questo rito si rivela, dall’inchiesta, non essere null’altro che una “costruzione” puramente umana di Dom Botte.

6) Questo rito possiede una “forma” essenziale insufficiente.

7) Questo rito non esprime l’intenzione di conferire il potere di ordinare dei sacerdoti cattolici.

8) Questo rito subisce le condanne che Leone XIII infallibilmente indirizzò (in “æa Trinità.

9) Questo rito nega l’unione ipostatica delle due nature nella Persona di N.S. Gesù Cristo.

10) Questo rito nega la “spirazione” dello Spirito dal Figlio, nega cioè il “Filioque”.

11) Questo rito veicola una concezione kabbalista e gnostica dello Spirito-Santo.

12) Questo rito rilancia, nel 1968, l’attacco contro lo Spirito-Santo sviluppato mezzo secolo prima dal rabbino di Livorno, Elia Benamozegh (1828-1900).

13) Questo rito serve a creare, in modo sacrilego e blasfemo, gli “eletti” Manichei, e quindi vescovi gnostici!

   Ne risulta da ciò che precede, così come dai testi infallibili di Leone XIII, di Pio XII e del Magistero tutto della Chiesa di sempre, che sia assolutamente IMPOSSIBILE considerare un rito tale come INTRINSECAMENTE VALIDO e capace di consacrare dei veri Vescovi cattolici, veri successori degli Apostoli di Nostro Signore Gesù-Cristo. In tal modo quindi, come da copione scritto nelle retro logge giudaico-massoniche, e recitato dai pupazzi della “quinta colonna” ecclesiastica infiltrata, si è cercato di distruggere l’Apostolicità della Chiesa Cattolica Romana, almeno spiritualmente, lasciando poi che si distruggesse materialmente, con opportune guerre inventate per i più futili motivi, anche l’Apostolicità delle chiese orientali greco-Cattoliche, ad esempio in Ucraina, Libano, Siria, Egitto, etc., che non hanno modificato il loro rito antichissimo, così come la Messa di S. Basilio e S. Giovanni Crisostomo degli uniati.

L’Apostolicità è unicamente conservata solo nella Chiesa d’occidente, la Chiesa Cattolica Romana, dalla Gerarchia in esilio, che da Gregorio XVII, Cardinal Siri, Papa “impedito”, in poi è rimasta l’unico filo conduttore che da San Pietro in poi giunga ai nostri giorni e continuerà la serie ininterrotta dei Papi, come da Magistero solenne (v. C. A. Pastor Æternus in Conc. Vaticano), e da promessa del divin Salvatore Gesù-Cristo. A Lui sia onore e gloria, a Lui che vive e regna, con il Padre e lo Spirito Santo, per tutti secoli dei secoli.

Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat!

FESTA DI SAN PIETRO PRINCIPE DEGLI APOSTOLI (2023)

SAN PIETRO

OTTO HOPHAN: GLI APOSTOLI – Marietti ed. Torino, 1951

In Roma, al Laterano, la chiesa « caput et mater » di tutte le chiese dell’orbe cristiano, s’eleva grande e solenne, in apostolica autorità e maestà, la statua di Simone Pietro: egli sta là con le vesti svolazzanti, come scendesse dall’eternità per venire in questo misero mondo, con la destra benedicente e insieme alzata sull’ « Urbs et Orbis » a comandare, tenendo con la sinistra le pesanti chiavi d’oro, che legano e sciolgono, e sotto il braccio sostiene, dolce e sacro peso, il Vangelo, ch’egli portò al di là di Gerusalemme e di tutta la Giudea e Samaria, sino ai confini della terra e al quale quivi, nell’antica e potente Roma, creò un’altra patria ed un altro luminoso mattino. Quale figura eccezionale di dominatore dovette essere Simone Pietro! quale geniale personalità religiosa! – La basilica di San Pietro a Roma, sul colle Vaticano, la più grande casa, che la cristianità abbia consacrata al Signore, una delle più poderose creazioni del genio umano, che con travolgente giubilo s’inarca sulle spoglie mortali dell’Apostolo, è il degno monumento di questo signore del mondo. Nella cupola di Michelangelo spiccano, scritte a caratteri giganteschi, quelle parole, che nostro Signore Gesù Cristo rivolse a Pietro e che mai passeranno, anche se cielo e terra passano: « Tu es Petrus! Et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam — Tu sei Pietro, la roccia! E su questa roccia Io edificherò la mia Chiesa ». Quando nei giorni di grande solennità il Successore di Pietro è portato nella basilica fra gli evviva osannanti d’una folla mareggiante, e quando alla consacrazione echeggiano le trombe d’argento e il Sacerdote Sommo, stringendo fra le mani l’Ostia e il Calice, si volge benedicente ai quattro punti cardinali, le migliaia di fedeli hanno la sensazione che si faccia loro incontro il rappresentante d’un uomo, che s’è elevato sino all’eternità, dove può toccare le soglie della stessa Divinità. Quanto grande e sublime Pietro!

LA PERSONALITÀ DI PIETRO

Se, allontanandoci dalla statua di San Pietro e dalla sua basilica e da tutta la grande Roma, ci inoltriamo nel santo Vangelo, restiamo quasi interdetti dinanzi alla semplicità personale di quest’uomo, intorno al quale guizzano i bagliori di Dio; la sua semplicità è così manifesta e così accentuata, che ci domandiamo storditi che cosa mai il Signore abbia scoperto in questo Pietro per risolvere di stabilirlo, proprio lui, pastore del suo gregge, padre dei re, fondamento della sua Chiesa, condottiero di questo mondo; se fosse stato eletto Paolo, l’uomo famoso nei secoli, o il geniale Giovanni o anche Giacomo, così energico, l’avremmo compreso, sebbenenil peso della dignità e della responsabilità avrebbe oppresso anche loro; ma Pietro? chi era questo Simone Pietro?

Patria e Famiglia.

Non sortì come patria Roma, Atene, Gerusalemme, Tarso, no, ma Bethsaida, una città di nessuna importanza, sulla riva orientale del lago di Genezareth, che era la residenza del tetrarca Filippo, o forse addirittura il piccolo nido di Bethsaida sulla spiaggia occidentale; in qualunque caso Bethsaida entrò nella storia del mondo solo perchè fu patria di Pietro. Al tempo della vita pubblica di Gesù, Pietro aveva preso domicilio nella vicina Cafarnao, dove possedeva una casa; il Signore si degnò di entrarvi e uscirne, come fosse ivi in casa propria. Questo suolo, ove Pietro ebbe i suoi natali, contribuì evidentemente alla sua formazione; in nessun altro Apostolo è impressa profonda come in lui la caratteristica dei Galilei: lo storico Giuseppe Flavio dice che i Galilei sono facili all’entusiasmo, precipitosi nelle decisioni e ardenti. – Anche la condizione familiare di Pietro era tanto semplice: suo padre si chiamava Giona o Giovanni — può essere che questa differenza sia dovuta a un errore di scrittura nella trascrizione greca del Vangelo di Matteo —, un Giovanni qualunque, ignorato, di niun conto, che non apparteneva nè al Sinedrio né alla classe dei finanzieri; ma, poichè lo sguardo del Signore si posò su suo figlio, anche il suo nome divenne celebre per tutti i tempi: « Beato sei tu, Simone, figlio di Giona…! ». « Simone, figlio di Giovanni, Mi ami tu? ». Il Vangelo ricorda un fratello di Pietro, il quieto Andrea, cui pure toccò l’ambito onore d’essere chiamato da Gesù all’ufficio apostolico. Pietro, secondo la stessa informazione evangelica, era sposato; uno dei primi miracoli anzi operati da Gesù fu la guarigione della suocera sua, che giaceva a letto a motivo « della grande febbre », come nel suo Vangelo ne precisa la diagnosi Luca, il medico. Nel Vangelo invece non si fa mai menzione esplicita della sposa di Pietro; secondo Girolamo, sarebbe morta presto; e forse, dopo la guarigione miracolosa, vediamo la buona suocera così attiva e sollecita nel prestare i suoi servizi, perché non c’era altra donna in casa, che ne curasse i bisogni. Altri commentatori della Scrittura invece ravvisano la sposa di Pietro in quella « sorella », ch’è ricordata da Paolo, nella prima lettera ai Corinti, come coadiutrice di Pietro nei suoi viaggi apostolici “. Clemente di Alessandria riferisce che, quando l’Apostolo vide la sua sposa condotta alla morte, si rallegrò perché veniva chiamata e ricondotta in Patria, la esortò e consolò dicendole: « Oh, ricordati del Signore! ». Girolamo accenna pure a più figli di Pietro; altre informazioni meno attendibili s’attardano specialmente su d’una figlia di nome Petronilla, che compare negli atti del martirio dei santi Nereo e Achilleo; questa santa « Petronilla » però era più probabilmente della famiglia di « Petronio », il quale apparteneva alla celebre famiglia romana dei Flavi.

Professione e Vocazione.

Di professione Pietro era pescatore; e pescatore non vuol dire senz’altro proletario o, peggio, miserabile, come talora, esagerando, si vorrebbe far credere di Pietro; possedeva infatti una casa, delle barche con tutti gli annessi e connessi attinenti alla pesca e forse, come sappiamo della famiglia di Zebedeo, aveva pure a suo servizio degli operai; un individuo, che proveniva dalla povertà d’una stamberga in rovina, non si sarebbe presentato al Signore con quella affermazione così ferma e sicura: « Ecco, noi abbiamo abbandonato ogni cosa e Ti abbiamo seguito ». Noi abbiamo abbandonato tutto! Persino il lago Pietro aveva lasciato per il Signore, il lago vasto e azzurro, per sostituirgli le strade polverose e gli sporchi villaggi. Chissà quante volte più tardi, quand’era gravato dalle cure della giovane Chiesa e camminava per le vie di Antiochia, di Corinto e di Roma, avrà richiamato in sorridente mestizia il lago della sua giovinezza! Sì, quel lago! Eppure proprio in quel lago Pietro si era addestrato alle fatiche, alle tempeste e alla diffusione della Chiesa nel mondo. Nondimeno, considerata ogni circostanza, l’origine, la condizione familiare, la posizione sociale, nessuno avrebbe predetto a quest’uomo l’ufficio più eccelso, che Cielo e terra possono concedere. Più d’uno, senza dubbio, nella sua giovinezza ha custodito le capre ed è poi asceso fino a divenire reggitore di popoli; ma Pietro non ha, anche come persona, abilità straordinarie che lo elevino al di sopra dell’aurea mediocrità; è vivace, di spirito sveglio, di volontà pronta e sopratutto ha un cuore ardente, è vero; ma, se si confronta con Giovanni o, più ancora, con Paolo, che mise sossopra un mondo intero, Pietro manca dell’impulso alle gesta geniali e gloriose. È l’uomo semplice, leale, e come un dì attese con onestà e lodevole sollecitudine alla sua famiglia, così ora si adopera per la giovane Chiesa; è l’uomo della vita pratica e dell’azione immediata; non rifugge dai piani arditi e dalle alte speculazioni, ma, messo dinanzi ad essi, si fa circospetto, come possiamo arguire dal suo benevolo giudizio su Paolo: «Il nostro diletto fratello Paolo ha scritto secondo la sapienza, che gli è stata data, come fa in tutte le lettere, quando parla di questi argomenti; in esse vi sono certi punti difficili ad intendersi, che le persone senza istruzione e malsicure stravolgono a loro propria perdizione». Dal Sinedrio è giudicato “indotto e incolto”, sebbene questo giudizio non escluda ogni formazione, bensì l’istruzione rabbinica, della quale forse aveva approfittato Paolo. Gli era invece molto familiare la Sacra Scrittura, come lo provano tanto bene i suoi discorsi, riportati negli Atti degli Apostoli, così pregni del profumo della Parola di Dio. È possibile che per tutta la vita sia sopravissuto nel pescatore di Bethsaida un non so che di goffo; qualcuno della plebaglia di Gerusalemme si burlò del modo impacciato di comportarsi del povero Apostolo e della sua lingua e pronunzia rozza, genuinamente di Galilea “. E così in Pietro tutto è semplice ed umano, ad eccezione del suo sovrumano ufficio; non è un dominatore, dello stampo di quelli che s’incontrano nella storia, nè un eroe, che sia penetrato nelle stratosfere dello spirito; le più antiche immagini (Dagli antichi monumenti cristiani non è possibile concludere a un tipo uniforme per Pietro. Gli antichi sarcofaghi presentano teste di lui abbastanza differenti; quello di Basso, ad esempio, della metà del V secolo, dà a Pietro un capo alto, coperto di capelli corti, con fronte liscia, naso stretto e quasi verticale, bocca decisamente tagliata, barba arricciata, ma fluente. Si conservano però, quasi dello stesso tempo, delle raffigurazioni, che gli danno un capo calvo nella parte anteriore, fronte rugosa, larga base del naso, labbra rigonfie e barba rotonda. Col passar del tempo s’andò delineando una netta distinzione fra le figurazioni di Pietro e Paolo: gli artisti assegnarono al primo la barba rotonda e i capelli tutti ricciuti, al secondo il capo calvo e la barba fluente.) lo rappresentano con i lineamenti dell’uomo intelligente e buono, ma insieme anche con quelli dell’uomo semplice del popolo. Proprio qui dunque, di fronte a quest’essere ordinario ch’è Pietro, ci si presenta di nuovo la domanda: perchè appunto quest’uomo comune fu chiamato ad una dignità così straordinaria? Certamente anche questa disadorna semplicità presentava il suo aureo rovescio; è sufficiente una scorsa al Vangelo per essere attratti dall’incanto della rettitudine e schietta cordialità di Pietro, dalla purezza della sua anima, che ricorda l’amabile e illibata ingenuità d’un bambino. Si consideri la sua lealtà dopo la pesca miracolosa: con una parola, che dice insieme tutto il suo stupore e la sua profonda umiltà, riversa l’interaanima sua dinanzi al Signore: “Allontanati da me, o Signore, io sono un uomo peccatore”. All’Evangelista Marco, che mise in iscritto la sua predicazione, non permise che tramandasse alle future generazioni, come l’evangelista Matteo, le sublimi parole, che il Signore gli aveva rivolte a Cesarea di Filippo. Pietro era l’uomo semplice, modesto e puro sino nel più profondo dell’anima. È questo forse il motivo di quell’elezione del Signore, che a primo aspetto sembrerebbe inconcepibile? La condizione essenziale richiesta dal Signore per le guide del suo gregge è: “Il maggiore fra voi sia come il più piccolo e il superiore come il servo”. Grazie alla sua semplice indole, Pietro aveva già nella sua natura un salutare contrappeso al pericoloso sovraccarico di dignità, che il Signore intendeva concedergli; possiamo anzi dire che Gesù, eleggendo Pietro così alla buona, lasciava intravvedere fin da principio quale doveva essere la norma direttrice di quell’arrischiato ufficio, perché mai avesse a degenerare in presuntuosa avidità di dominio nè irrigidirsi in carte e paragrafi e neppure avesse a straniarsi dalla vita con speculazioni teoriche. – Agostino sulla elezione del semplice Pietro ha la seguente profonda e brillante osservazione: « Pietro era un pescatore… Se Iddio avesse scelto un oratore, questi avrebbe potuto dire: “Sono stato scelto a motivo della mia oratoria “. Se avesse scelto un senatore, il senatore avrebbe detto: “Sono stato eletto a motivo della mia dignità “. E infine, se Egli da principio avesse eletto un imperatore, questi avrebbe potuto dire: “Sono stato scelto in vista della mia potenza politica…”. Dammi, dice però il Signore, quel pescatore, dammi l’incolto, dammi quell’indotto, dammi colui, col quale il senatore, dovendo acquistare un pesce, non si sarebbe degnato neppure di parlare! Dammi costui, e se lo potrò riempire, sarà ben manifesto che l’ho fatto Io. Sebbene Io sia per chiamare anche un senatore e un oratore e un imperatore…, col pescatore però sono più sicuro». – Questo pescatore fu chiamato la prima volta dal Signore nei pressi del Giordano; perché, come i futuri Apostoli Andrea, Giovanni, Filippo, forse anche Giacomo e Bartolomeo, egli apparteneva al gruppo del Battista, che laggiù, al Giordano, aveva in loro attizzata la brama e la speranza del Messia: “Preparate la via del Signore…! In mezzo a voi sta Colui, Che voi non conoscete; io non sono degno di scioglierGli i calzari”. Un giorno splendido di primavera Andrea si precipitò ansante alla volta di suo fratello e gli gridò giulivo: “Abbiamo trovato il Messia”; e Gesù e Pietro si trovano già l’uno dinanzi all’altro per la prima volta: Pietro, curioso e lontano da ogni sospetto, come la maggior parte degli uomini nell’ora di Dio; Gesù invece tutt’intento a ponderare e a misurare la portata e la vastità di questo momento, che si protenderà sino all’eternità. Qual sole estivo, il suo sguardo penetrò nelle profondità del semplice Pietro, poi elevò i suoi occhi verso i confini della terra, e poi pensoso disse più a Se stesso quasi che a Simone: “Tu sei Simone, figlio di Giovanni; tu ti chiamerai Kefas (roccia)”. Simone se ne stette lì senza parole; avrebbe mai potuto sospettare che quest’incontro con Gesù l’avrebbe tolto ai suoi modesti binari per incamminarlo sulle vie del Cielo e della terra? Parecchi mesi più tardi seguì la seconda chiamata, perchè i primi discepoli, dopo quei giorni passati con Gesù presso il Giordano, non restarono stabilmente con Lui; pesava su di loro la necessità di guadagnare il pane quotidiano per sè e per i loro cari, il lavoro quindi urgeva ed il lago ve li invitava. Sul lago stavano anche quel giorno, nel quale Gesù ritornò per posare la sua mano su Pietro la seconda volta e definitivamente, per sempre. I pescatori stavano accoccolati sulla spiaggia, amareggiati: s’erano «affaticati tutta la notte e non avevano preso nulla»; ma il Signore ama introdursi in queste ore della disperazione. « Prendete il largo e gettate le vostre reti per la cattura », grida a Simone in tono di comando. Obbediscono; Egli è il Signore; non però un pescatore…, se no, non ordinerebbe un viaggio in pieno giorno, senza speranze. Ma ecco, le reti cominciano a tendere all’ingiù e sempre più pesantemente, tanto che la barca perde quasi l’equilibrio; « presero una così grande quantità di pesci, che le loro reti minacciavano di stracciarsi; allora fecero cenno ai loro compagni dell’altra barca, perchè venissero e li aiutassero; vennero anche quelli; e si riempirono tutte e due le barche in modo che quasi sprofondavano ». – Luca annette la chiamata di Pietro e degli altri tre primi Apostoli, Andrea, Giacomo e Giovanni, al racconto della pesca miracolosa, e in questa cornice la chiamata diviene tanto più manifesta e la cattura dei pesci profondamente simbolica: Pietro « d’ora innanzi diverrà pescatore di uomini »; i compagni verranno e l’aiuteranno; e anche alle fatiche e alle veglie del pescatore di uomini il Signore accorderà un successo così lusinghiero, che le barche stracariche quasi affonderanno. Tutti e tre gli Evangelisti notano quello, che tenne dietro immediatamente a questo glorioso incontro con Gesù: « Lasciarono le reti sull’istante e Lo seguirono » “. Solo poche settimane dopo, il Signore scelse come suoi Apostoli questi primi quattro con a capo Pietro e aggiunse ad essi altri otto.

Temperamento e Carattere.

Del tempo, che passò fra la vocazione degli Apostoli e la professione di fede emessa da Pietro a Cesarea di Filippo, in quel gran giorno della sua vita, il Vangelo ci ha conservato tre note, che si direbbero di nessuna importanza e invece illuminano un nuovo aspetto del suo carattere. Mentre Gesù andava alla casa di Giairo, « molto popolo Lo accompagnava e si stringeva intorno a Lui »; quando la povera donna emorroissa, protetta dalle folle, riuscì a spingersi tanto innanzi da toccare l’orlo della veste sua e « Gesù sentì che una forza era uscita da Lui, Egli si rivolse alla folla e domandò: “Chi ha toccato le mie vesti? “. Poiché tutti negavano, Pietro e i suoi compagni dissero: “Maestro, le folle Ti circondano e opprimono, e Tu domandi: Chi Mi ha toccato? ». Una seconda notizia intorno a Pietro riguarda la notte, che seguì alla moltiplicazione miracolosa dei pani. Alla quarta vigilia della notte, Gesù s’accostava agli Apostoli camminando sulle onde del lago in tempesta. « Quand’essi Lo videro camminare sul lago, pensarono che fosse uno spettro e per paura gridarono ». Dopo la parola rassicurante di Gesù: « Consolatevi, non temete, sono Io », Pietro disse al Signore: « Signore, se sei Tu, fa ch’io venga a Te sulle acque! »; ed Egli rispose: « Vieni ». Allora Pietro uscì dalla barca e camminò sulle onde per raggiungere Gesù; ma quando ebbe avvertito il vento, fu preso da terrore e, cominciando a sprofondare, gridò con tutta forza: « Signore, salvami! ». Gesù stese subito la mano, lo prese e gli disse: « O uomo di poca fede, perché hai dubitato? » . In questo intervallo di tempo Pietro fa capolino una terza volta dopo le censure, che il Signore aveva fatte sulla condotta dei Farisei, e precisamente a motivo delle parole: « Non quello che entra per la bocca contamina l’uomo, ma quello che esce dalla bocca… ». « Allora Pietro disse: “Spiegaci questa parabola”. Queste tre brevi notizie mettono in luce un secondo tratto essenziale nella figura di Pietro: il suo temperamento spigliato e anzi impetuoso. Pietro evidentemente è un sanguigno, che si lascia impressionare e influenzare facilmente, cambia presto d’umore e di disposizioni d’animo; è il primo nella parola, il primo anche nell’azione, ma non è il primo nella riflessione, spesso vi arriva solo in ritardo o anche troppo tardi. Qualcuno ha presentato Pietro come un collerico; ma a lui la caratteristica del collerico manca assolutamente, e cioè la costanza paziente e tenace, necessaria per superare le avversità e gli ostacoli della vita; egli è troppo vivace e volubile per spuntarla con se stesso, come comporta l’indole del collerico. La sua caratteristica balza da parecchi testi del Vangelo: risolve alla svelta, su due piedi, precipitoso e a sbalzi. Egli interruppe bruscamente le auguste e gravi parole, con le quali il Signore dava il primo annunzio della sua passione. Pensò che anche nella sublime solennità della Trasfigurazione bisognasse dire qualche cosa: « Maestro, è buona cosa per noi lo star qui. Erigiamo tre tende, una a Te, una a Mosè e una a Elia ». A questa uscita inopportuna Marco fa seguire la timida osservazione: “Non sapeva cioè che cosa dicesse, tanto erano storditi”. Con un sì pronto e irriflessivo Pietro rispose pure alla domanda del ricevitore delle tasse: « Il vostro Maestro non paga il didramma? » . Quando si trattò della lezione sul perdono per i torti ricevuti dai fratelli, egli credette di giungere al massimo dello spirito conciliativo con la sua proposta: « ” Signore, se il mio fratello ha mancato verso di me, quante volte gli debbo perdonare? forse fino a sette volte?” Gesù gli rispose: “Io ti dico, non sette volte, ma settanta volte sette volte” ». L’ultima sera, durante la lavanda dei piedi, Pietro sollevò dall’imbarazzo i colleghi rompendo il silenzio: « Signore, Tu non mi laverai i piedi in eterno », ma subito dopo, persuaso dal Signore, cadde nell’estremo opposto: “Allora, o Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mie mani e il mio capo”. Dopo l’annunzio del tradimento, egli non resse più e fece cenno al « discepolo che riposava sul petto di Gesù », egli disse: “Domanda chi Egli intenda!” Fu pure Pietro, proprio Pietro, che nel modo più risoluto protestò al Signore: « Anche se tutti si sbandassero, ma io, io no! ». E sul Monte degli Olivi fu solo lui che prese a difendersi decisamente con la spada, anche se allora non gli riuscì di più che « mozzare un orecchio a uno dei servi del Sommo Sacerdote », sia pure « l’orecchio destro », come non manca di constatare con tutta esattezza Luca, il medico. Che figura il nostro Pietro, svelto, bollente e tuttavia di cuore così buono! Il suo temperamento balza subito agli occhi anche oggi, specialmente dal Vangelo di Marco, che di tutti e quattro è il più vivo e drammatico; ma già l’antica arte cristiana ha messo in luce quest’aspetto suo d’uomo ardente e impetuoso; così in un frammento di sarcofago di San Sebastiano in Roma, che risale all’inizio del quarto secolo, Pietro è ritratto come un vecchio vivace e quasi nervoso. Ma ora di nuovo, dinanzi a questo esuberante temperamento sanguigno, si ripresenta e ancor più urgente la precedente questione: Pietro, essere così impetuoso e talora addirittura imprudente, sarà idoneo a divenire il condottiero e il fondamento della Chiesa di Cristo? Su quale base instabile e traballante edifica Cristo la sua Chiesa! E sarà adatto a fare il pastore un individuo, che tutt’al più arriva a perdonare « sette volte »; che s’avventa indignato con la spada e ferisce e mutila?! Povero quel gregge, cui presieda un pastore violento! Eppure per l’ufficio ed i compiti di Pietro quest’indole viva e immediata offre anche dei preziosi contributi: grazie alla sua prontezza, Pietro è l’Apostolo più chiaroveggente, dall’udito fine, di delicato sentire; si potrebbe definire l’Apostolo dal sesto senso. L’idea gli brilla in mente per primo; egli trova la parola prima degli altri; lui prende la decisione, passa all’azione, salva la situazione. La grazia profitterà di queste disposizioni della natura: fra tutti i Dodici Pietro sarà il primo a riconoscere e a proclamare Gesù Messia e Figlio di Dio vivente. Questa snellezza può tornare benefica anche per la direzione del gregge: Pietro pascerà il gregge di Cristo con occhio vigile e s’avvedrà subito del suo bene e del suo male e vi provvederà senza solenni formalità e prolissità soffocante. Il suo sguardo va alla sostanza delle cose e scorge e scevera subito l’essenziale dal puro accessorio; sa adattarsi con mirabile elasticità alle mutate circostanze e non si irrigidisce inflessibile su posizioni ormai sorpassate; posto dal Signore qual roccia in mezzo ai flutti che s’accavallano rumorosamente, egli li deve certamente sfidare e superare, ma si fa pure togliere via da essi di continuo la polvere dei secoli. Pietro può anche andare sulle furie e colpire dolorosamente, come ebbe a sperimentare Malco, cui tagliò l’orecchio, ma la sua natura svelta lo fa essere presto buono di nuovo e riparare il suo errore con sincero e intenso affetto. In un’antica scrittura coptica leggiamo di Pietro il seguente giudizio tanto esatto e bello insieme: « Egli fu un uomo misericordioso e incline a sciogliere subito ». L’indole personale di Pietro, svelta, vivace e arrendevole può felicemente bilanciare e completare la rigidezza e inflessibilità del suo ufficio.

Rinnegamento.

Questo piacevole carattere tuttavia fu per Pietro fatale e sarebbe stato anzi la sua stessa rovina, se il Signore, mentr’egli affondava, non gli avesse di nuovo stesa la mano, come quella notte sul lago in tempesta. Lungo tutto il Vangelo infatti, da autentico sanguigno, instabile e malsicuro già per naturale propensione, si manifesta debole e incapace di fronte alle imminenti difficoltà; lo sprofondarsi nelle onde furiose del lago è un vero simbolo della sua indole malferma e non cesellata a martello. Fin da quando il Signore parlò la prima volta apertamente della sua passione, ch’era certamente il mistero più arduo della sua vita, Pietro Gli resistette, protestando con tutta la sua anima: « Pietro prese Gesù in disparte e cominciò a sopraffarLo con le gravi parole: “Lungi da Te, o Signore, questo non Ti deve avvenire” » . L’effetto di questa resistenza fu per lui rovinoso: « Gesù si volse e disse a Pietro: “Via da Me, satana! Tu mi sei di scandalo; tu non hai in animo disegni divini, ma umani! ” ». Lo stesso Gesù aveva proclamato beato il medesimo Pietro solo sei versetti prima; ma è così: chi non accetta anche la croce, facesse pure come Pietro splendida professione di fede nella divinità di Cristo, dinanzi al Signore equivale a « satana », perchè tenta, come quel seduttore nel deserto, di condurre il Signore alla potenza e alla gloria col distoglierLo dalla volontà del Padre. Il mistero della croce era per ogni Giudeo uno scandalo. Il Signore, per rappacificare gli animi dei Discepoli che n’erano rimasti sconcertati, « otto giorni dopo quel discorso », fece dono a Pietro, Giacomo e Giovanni, i primi del Collegio apostolico, del segno luminoso della Trasfigurazione, nella quale fece zampillare le recondite sorgenti della sua divinità. La lettera, che Pietro indirizzò ai credenti dell’Asia Minore circa 35 anni dopo quell’avvenimento, è prova che la Trasfigurazione gli aveva lasciata un’impressione incancellabile; per lui è anzi una delle dimostrazioni più importanti per la fede in Cristo: « Noi fummo testimoni oculari di quelle sublimità di Gesù Cristo. Egli ricevette da Dio Padre onore e gloria, allorchè dall’eccelsa gloria venne su di Lui la voce: “Questi è il mio Figlio diletto, nel quale Io Mi compiaccio “. Questa voce udimmo venire dal Cielo, quando fummo con Lui sul monte santo. Con questo è tanto più ferma per noi la parola profetica; voi fate bene ad attenervi ad essa >. La Trasfigurazione però non tolse di mezzo la passione, chè piuttosto aveva lo scopo preciso di rafforzare gli animi di fronte ad essa; e il Signore tornò a parlare dell’argomento sgradito subito, scendendo dal monte, ma incontrò nei Discepoli la medesima incomprensione della prima volta. Se terremo dinanzi agli occhi questa incomprensione o piuttosto indignazione, provocata dalla passione fin dall’inizio, noi intenderemo più facilmente l’ora più cupa della vita di Pietro, il suo rinnegamento; in esso infatti ebbe solo l’occasione di manifestarsi quella debolezza, ch’era in lui visibile già all’annunzio della passione. Durante l’ultima Cena il Signore l’aveva ammonito insistentemente perchè stesse in guardia: « In verità ti dico che ancor questa notte, prima che il gallo canti due volte, tu Mi negherai tre volte ». Ma Pietro, sicuro di se stesso, replicò: « Dovessi anche morire con Te, assolutamente non Ti negherò >. Gesù tacque, come chi sa che gli avvenimenti gli daranno purtroppo ragione. E in quale dolorosa misura Gli diedero ragione! Solo un’ora dopo le proteste: « Anche se tutti si allontanassero da Te, io, io non mi lascierò mai traviare »; « son pronto ad andare in carcere e alla morte con Te >; perfino: « Io voglio dare la mia vita per Te »: solo un’ora dopo questa audace assicurazione dunque sul Monte degli Olivi.., l’eroe dormiva! Anche Giacomo dormiva e persino Giovanni — ah, come potè dormire anche Giovanni?! —; ma Gesù non fece particolare rimprovero nè a Giacomo e neppure a Giovanni, sebbene fosse il discepolo dell’amore, quando, tremante e asperso di sangue, stette dinanzi a loro; accusò invece in particolare Pietro: « Simone, tu… tu!… dormi! Non hai potuto vegliare un’ora sola? ». Quello che seguì poi s’abbattè su Pietro con la subitaneità della catastrofe. – Dopo lo scompiglio sul Monte degli Olivi, si trovò nel cortile del Sommo Sacerdote; l’amico suo Giovanni glien’aveva procurato l’accesso. Dentro all’aula il suo Maestro è interrogato e condannato; fuori sta lui, disorientato e solo, fra i soldati schiamazzanti. Una fantesca, la loquace e impertinente portinaia, lo osserva per un po’ e poi gli scaglia contro: « Anche tu eri con Gesù, il Galileo ». Gli manca il fiato; vuol dire, tartaglia, balbetta: « … No ». Orrendo! Che cos’hai detto mai? > Vuole ritirare la parola esecranda, ma vede ivi la moltitudine, quella braccheria; fa meglio tacere. E così quel no resta misteriosamente sospeso, come fuori, nelle tenebre, a mezzanotte, il rintocco delle dodici ore. L’ottusa fantesca ha attirato l’attenzione di tutti su Pietro; osservano quel camerata sconosciuto e impacciato; egli cerca di togliersi di lì, allontanandosi per la porta, ma un’altra fantesca gli sbarra la via e lo risospinge angosciato verso il fuoco. Ivi, con una tranquillità artefatta, tenta di confondersi con i servi per allontanare da sè ogni sospetto; ma già per la seconda volta lo raggiunge l’infausta domanda: « Non appartieni anche tu ai suoi discepoli? ». Avrebbe potuto cancellare in quel momento l’orrendo no precedente; ma quando il vento e le onde s’abbatterono su di lui, stava già sprofondando nel lago, e la tempesta, che ora l’investe, è più selvaggia di quella; sprofonda e affoga: « Egli negò con un giuramento: “Io non conosco l’uomo! “»; i suoi occhi però smarriti e supplici deponevano contro le parole della sua bocca. La folla malvagia, aizzata e divertita da questo smarrimento, assediò più da vicino la sua vittima. Anche la rozzezza della lingua testifica che Pietro è un galileo; senz’alcuna pietà, mettono il povero uomo alle strette: « Sei davvero uno di loro, ti tradisce persino la tua lingua ». Ormai due no orribili erano detti; il soffio d’un sì non può più annullarli: quando un malaugurato parente di Malco, cui Pietro aveva mozzato l’orecchio, s’alzò a deporre contro di lui, egli fu completamente perduto: « Cominciò a imprecare e a giurare: “Io non conosco l’uomo!” Ma quei giuramenti risuonarono innaturali e trillarono come i vetri, che dall’alto d’un Duomo santo precipitano giù sulla polvere della strada. Stupì persino quella masnada; s’accorse ch’era avvenuto qualcosa d’insolito. Frattanto, durante quel singolare silenzio, un gallo cantò, un qualunque gallo fuori del palazzo; lo sentirono tutti, perché intorno a Pietro s’era fatto profondo silenzio… Rileggessimo anche cento volte questa storia del rinnegamento di Pietro, dovremmo piangere ogni volta su questo povero e buon Apostolo, come su di un santuario ridotto in cenere e frantumi. E pianse anche Pietro: “Uscì fuori e pianse amaramente”; il testo greco dice: « Eklausen pikrós », che non significa semplicemente piangere, ma piangere dirottamente. I Sinedristi, che dentro nella sala sedevano a tribunale, alzarono gli occhi sorpresi e anche Gesù, mentre veniva ricondotto fuori, alzò il capo verso quella parte, donde giungeva il singhiozzo: «Il Signore si volse e guardò Pietro »; e i suoi occhi illuminarono già quelle lacrime amare d’un primo barlume di perdono. Potremmo noi criticare Pietro?… Chi è senza peccato, scagli su di lui la prima pietra! Era stata così dura la lotta fra fedeltà e debolezza! Del resto sul Monte degli Olivi lui e lui solo fra tutti aveva preso le difese del Maestro; Gesù gli comandò di rinfoderare la spada, e Pietro non obbedì volentieri, però obbedì: il Maestro s’aiuterà da solo; e invece non s’aiutò. Fuori di sè per l’angoscia, tenne dietro al suo amato Signore sino dentro al covo pericoloso dei suoi nemici; e ivi avvenne purtroppo tutto quello, che abbiam visto or ora. Ma è tutto? Sotto le macerie, continuarono a fiorire la fede e l’amore, come in un campo di croco, seppellito da una valanga di neve. Perchè Pietro l’aveva rotta col suo Maestro soltanto a parole, non col cuore; fede e amore risorgeranno di nuovo; invece non potrà più certamente essere colonna della Chiesa lui, ch’è stato infranto tre volte, tre volte caduto. Ovvero il Signore, con ironia veramente divina, colloca qual roccia proprio… il caduto?

IL PRIMATO DI PIETRO

Allusioni.

La famiglia aveva imposto a Pietro il nome di « Simone », « Simeone » (= esaudizione), nome tanto frequente e comune fra i Giudei, come fra noi oggi il nome di Giovanni; nel primo incontro però presso il Giordano il Signore gli fece intravvedere il nome di « Kefas » (= roccia), ma non gli svelò allora il motivo e il contenuto di questo secondo nome. Negli scritti del Nuovo Testamento egli è chiamato ora col nome di Simone solo, ora con quello solo di Pietro e ora con tutti e due: « Simone Pietro>; ma queste piccole differenze non sono senza significato. Con i nomi “Simone Pietro” è introdotto da Matteo e da Luca solamente nelle grandi ore della sua vita; il quarto Evangelista invece preferisce questo doppio nome, che esprime insieme l’aspetto personale e quello dell’ufficio di Pietro; quando, dopo la risurrezione e l’ascensione al Cielo, l’ufficio andò prendendo il primo posto sempre più decisamente, ricorre quasi esclusivamente, e sopratutto negli Atti degli Apostoli, il nome di “Pietro”. Anche Paolo lo ricorda con questo nome dell’ufficio: « Kefas » (=Pietro). Il Signore poi ritorna al primo nome “Simone” solo quando gli deve dare avvisi o rimproveri, come prima delle negazioni e sul Monte degli Olivi, nell’ora del sonno. Quanto è significativo questo secondo nome, altrettanto lo è il posto assegnato a Pietro nei quattro cataloghi degli Apostoli: è sempre il primo di tutti, e Matteo lo sottolinea espressamente: «I nomi dei dodici Apostoli sono i seguenti: in primo luogo Simone, che si chiama anche Pietro» . Ora questo posto ci sorprende veramente, perché ci saremmo aspettati che stesse al primo posto Andrea, il quale aveva condotto Pietro a Gesù, oppure Giovanni, che di Gesù era il discepolo prediletto; e invece, senza eccezione, Pietro è sempre in testa sia del Collegio dei dodici, come anche di quel gruppo preferito da Gesù e che solo fu ammesso a vivere le ore più solenni della sua vita. Ricorrono inoltre molti passi, nei quali Pietro è il solo ricordato per nome fra i Dodici; leggiamo, ad esempio: « Pietro e i suoi compagni »; « Pietro e gli altri discepoli »; « Pietro con gli Undici”; donde l’impressione necessariamente che Pietro sia stato il rappresentante e il portavoce degli altri, impressione che resta rafforzata da parecchi altri passi del Vangelo: in occasione della predica sul lago, quando il Signore « vide due barche, che stavano alla riva, salì nella barca, che apparteneva a Simone » 63; il Signore paga l’imposta dovuta al tempio anche per Pietro; a lui lava i piedi per primo. Chi potrebbe arrischiare di sbrigarsi di questa preferenza così marcata e continua, dicendola semplicemente casuale? Frattanto lo stesso Vangelo ci rivela il senso profondo e il motivo di queste distinzioni.

Promessa.

Siamo a Cesarea di Filippo, nel limpido e sublime meriggio della vita di Pietro! Egli aveva reso omaggio al Signore anche poche settimane prima, dopo la defezione delle folle nella sinagoga di Cafarnao: « Noi crediamo e sappiamo che Tu sei il Santo di Dio”; ma quella professione doveva essere come il chiaro preludio al canto giulivo del suo Credo pieno. Quando furono lassù, a settentrione della Terra Santa e già oltre i suoi confini, a Cesarea di Filippo, il Signore decise finalmente di porre i suoi Discepoli dinanzi a una domanda ed a una deliberazione: « Per chi ritiene la gente il Figlio dell’uomo?… Per chi Mi ritenete voi? ». Come aquila, Pietro allarga le ali dell’anima sua, sale, sale, più in alto, sempre più in alto, ben al di là di ogni umana opinione, che in Gesù di Nazareth scorge un nobile dello spirito o anche un profeta della grandezza del Battista, di Elia o Geremia, nulla però di più elevato; egli invece volteggia intorno alle nevi eterne della messianità e persino della divinità di Gesù e s’innalza per primo fino a queste due vette sublimissime, irradiate d’eterna luce, con l’atto della sua fede ardita: « Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente”. Questa sua professione di fede in Gesù di Nazareth fu tanto sublime e al di là d’ogni terreno intendimento, che Gesù stesso guardò meravigliato ed esultò: « Beato sei tu, Simone, figlio di Giona! Poiché non carne e sangue ti han rivelato questo, ma il Padre mio, Ch’è nei Cieli ». Poi, qual’onda marina libera d’ogni intoppo, le parole di Gesù s’ampliarono e sul meschino pescatore Simone, in piedi sulla riva del tempo, rumoreggiò tutta la pienezza di Dio: « E Io dico a te: “Tu sei Pietro (= roccia)! E su questo Pietro roccia) edificherò la mia Chiesa, e le porte dell’inferno non la supereranno. Io ti darò le chiavi del regno dei Cieli. Qualunque cosa legherai sulla terra, sarà legata anche in Cielo; e qualunque cosa scioglierai sulla terra, sarà sciolta anche in Cielo ». Quale potenza fu messa fra le mani incallite del pescatore di Bethsaida con queste parole! una pienezza di poteri quale nessun imperatore del mondo possiede! Pietro è il fondamento, e proprio lui, non la sua fede, sebbene, certo, lui a motivo della sua fede; Cristo si rivolge ripetutamente a Pietro: «Io dico a te: “Tu sei Pietro e su questa roccia edificherò la mia Chiesa” ». La mia Chiesa! La Chiesa di Cristo è una sola, ed è quella costruita su Pietro, ed è tanto invincibile, che le stesse porte dell’inferno — le porte della morte, secondo una traduzione più esatta — non possono superarla. E Pietro ha le chiavi; esse anzi gli son così proprie, che son divenute la sua caratteristica e il suo contrassegno; chiavi non certo per i regni e le ricchezze terrene, ma per il regno dei Cieli; chiavi che dischiudono verità, grazia e beatitudine. Pietro è del regno dei Cieli alla « porta e ha la porta ed è il portinaio e ha le chiavi. Egli è il portinaio eterno e l’eterno clavigero. E tuttavia posso giurarti che non è un carceriere. Perché egli è il custode dell’eterna libertà». E Pietro può « legare e sciogliere” senza nessun limite: « Qualunque cosa », obbligando in modo davvero sconcertante: « Sarà legata anche in Cielo e anche in Cielo sarà sciolta ». È una pienezza di poteri in bianco, che mette quasi paura; ma vedremo presto la sua motivazione e i suoi limiti. Potere simile fu dato veramente anche agli altri Apostoli — « In verità Io vi dico: ” Qualunque cosa legherete sulla terra, sarà legata anche nel Cielo, e qualunque cosa scioglierete sulla terra, sarà sciolta anche nel Cielo ” » —, ma agli altri solo in comune con Pietro, mentre a Pietro anche senza degli altri. Il potere di Pietro è veramente grande, non si può concepire. Egli è la roccia della Chiesa; per mezzo della sua fede in Cristo, il Figlio di Dio vivente, egli stesso è inserito nell’eterno Fondamento. Egli porta le chiavi del regno dei Cieli e a lui il Signore ha affidato l’aureo forziere della sua verità. È il legislatore e il giudice nel mondo delle anime, e lega e scioglie «qualunque cosa ». Cristo, è vero, non ha parlato col linguaggio della scuola di « Primato di Pietro »; ma i Teologi moderni non insegnano se non quello che deriva dalla genuina fonte del Vangelo; e tutte le singolari prerogative, che costituiscono il « primato d’onore », hanno il loro fondamento e senso solo nei diritti del « primato di giurisdizione” di Pietro. Solo Matteo ha trasmesso questo documento del Vangelo intorno al Papato. Si capisce bene che Marco, l’amanuense di Pietro, l’abbia tralasciato: l’umiltà di Pietro gliel’ha imposto. Ma questo testo non ricorre neppure in Luca; in Matteo dunque non potrebbe essere un’interpolazione posteriore? Contro questa ipotesi sta il fatto ch’esso si trova in tutti i manoscritti del vangelo di Matteo, anche nei più antichi; il gioco di parole inoltre con Kefas = roccia non è possibile e chiaro che nella lingua originale aramaica; il testo dunque non può essere in Matteo una falsificazione posteriore. Altri potrà obiettare che Matteo stesso potè mettere insieme parole di tanta grandezza nei riguardi di Pietro per esaltarlo di fronte alla nuova stella, che stava sorgendo, l’Apostolo Paolo. Ma chi scruti con attenzione il Vangelo, s’accorgerà che il tratto di maggior peso nel testo di Matteo son le parole: « Tu sei la roccia; su questa roccia Io edificherò la mia Chiesa »; ora proprio questa parola « Pietro = = roccia» non ricorre solo in Matteo, ma torna in tutta la Scrittura del Nuovo Testamento ogni volta che si fa parola dell’apostolo Simone; il suo nome personale scompare completamente; da tutti e quattro gli Evangelisti e dallo stesso Paolo è chiamato « Roccia »; e questo sta a dimostrare che Simone fu posto a fondamento della Sua Chiesa da Cristo stesso e non da Matteo. Ma abbiamo anche di più! Nel vangelo di Luca leggiamo un testo, che fa l’impressione d’essere l’eco di Matteo XVI, 18: « Simone, Simone, bada che satana ha desiderato di vagliarvi come il grano; Io però ho pregato per te, affinchè la tua fede non venga meno (non sia scossa); e tu, quando ti sia orientato (epistrépsas), conferma i tuoi fratelli » . Queste parole furono rivolte a Pietro immediatamente prima del suo vile rinnegamento; riguardano dunque un avvenire più lontano: dopo che si sarà «orientato », « convertito », sarà ufficio e compito di Pietro irrobustire i suoi fratelli; non abbiamo, in questo sostegno e rafforzamento degli altri nella fede, l’equivalente di quanto esprime il Signore nel Vangelo di Matteo con la metafora della roccia?

Conferimento.

Le parole, che leggiamo nel Vangelo di Giovanni intorno alla prelazione o primato di Pietro, sono anche più chiare e più care: quello, che il Signore solo promette in Matteo e Luca, in Giovanni lo conferisce. L’Evangelista ci trasporta in quei giorni, tutti dolcezza e mestizia insieme, che seguirono alla risurrezione, quando Gesù, con le sue apparizioni, riannodava e scioglieva ripetutamente i vincoli con i suoi discepoli; sette Apostoli sedevano in timida venerazione intorno al Risorto presso il lago di Tiberiade, dopo una pesca miracolosa, che per più motivi dovette richiamar loro la prima; prendevano cibo col grande Sconosciuto in silenzio, perché « nessuno dei Discepoli osava interrogarLo: “Chi sei Tu? “; chè sapevan bene ch’era il Signore ». A un certo momento Gesù prende dinanzi a Sè Pietro; ecco, stanno l’uno di fronte all’altro, come un giorno lontano presso il Giordano, e anche poche settimane prima.., nel cortile del Sommo Sacerdote; a Pietro s’arresta il respiro; l’ora sua più grave è giunta; non dubita certamente del perdono del Signore, che forma tutta la sua consolazione, perché fin dal mattino di Pasqua Egli affidò alle donne, che stavano presso il sepolcro, un messaggio particolare per Pietro; si era anzi degnato di apparire a lui solo e per primo, come sappiamo dall’esplicita informazione della Scrittura: tanto è buono il Signore ed eterna la sua misericordia! Un caduto però non è più fatto per essere la « roccia »; adesso il Signore gli toglierà il potere promesso e lo donerà a un altro, forse a Giovanni, che in mezzo alla bufera aveva perseverato e aveva seguito il Maestro sino sul Calvario, ai piedi della croce. In quel momento « Gesù disse a Pietro: “Simone, figlio di Giovanni…, Mi ami tu più di costoro?”». Il Signore l’interroga sull’amore…? Gli occhi di Pietro rilucono sbalorditi, come raggi di sole attraverso fosche nubi: « Signore, Tu sai ch’io Ti amo! »; poi abbassa lo sguardo e la voce; perchè, come potrebbe lui e proprio lui arrischiare l’affermazione di voler bene al Signore « più » che non Gliene vogliano « gli altri »? E Gesù gli risponde tranquillo: « Pasci i miei agnelli! ». Pietro allora solleva lo sguardo, stordito e lieto insieme: il caduto pascerà il gregge di Cristo nonostante tutto…? Ma il Signore « lo interroga per la seconda volta: “Simone, figlio di Giovanni, Mi ami tu?”». Pietro si oscura, perché pensa che il Signore ne dubiti, e aveva ben motivo di dubitare di lui tanto miserabile. La seconda professione d’amore risuona nutrita, quasi forte, come volesse coprire l’infelice giuramento e la stolida imprecazione nel cortile del Sommo Sacerdote: «Sì, o Signore, Tu sai ch’io Ti amo». « Gesù disse a lui: “Pasci le mie pecore!”». – Il Signore, tutto benignità e grazia, sa biasimare e sollevare insieme; Pietro respira liberamente e riconoscente. Ma « Egli lo interrogò per la terza volta: “Simone, figlio di Giovanni, Mi ami tu? ” ». Pietro non riesce più a trattenersi e, come nella notte dopo il peccato, lascia libero corso al pianto, si getta a terra e mendica, prega, confessa, assicura: « Signore, Tu sai tutto, Tu sai anche ch’io Ti amo! ». Sì, giacchè il Signore sa tutto, sa pure che colui, che Lo aveva rinnegato, nonostante tutto… Lo ama. E così disse: «Pasci le mie pecore ».

Significato.

La traduzione di questo testo del Vangelo adopera sempre lo stesso termine per esprimere « amare »; il testo greco invece ha due espressioni diverse, che non dicono esattamente lo stesso: « agapein » e « philein » (in lingua latina: « diligere » e «amare »). Il Signore interroga Pietro intorno all’« agapan », e « agapan » dice l’amore della venerazione, dell’alta stima, dell’azione moralmente libera. Alla domanda circa questo amore Pietro risponde costantemente con « philein »; «philein» (amare) dice l’amore del sentimento, dell’inclinazione, della soddisfazione; dopo il rinnegamento, egli non osa più promettere al Signore l’« agapein », l’amore magnanimo e forte sino al sacrificio. Alla fine, dopo la terza domanda, anche il Signore s’accontenta di « philein »: se Pietro pasce il gregge di Cristo, con la sua sollecitudinenprova che il suo « philein » è pure « agapein», non solo amore del sentimento, ma anche dell’azione. – Ora soltanto è evidente il senso più profondo del dialogo mirabile fra Gesù e Pietro al lago di Tiberiade. Quelle tre richieste e assicurazioni di amore furono qualche cosa di più che un semplice compenso, offerto in riparazione del precedente rinnegamento; esse ebbero lo scopo dì precisare per tutti i tempi quale dovesse essere l’indole dell’ufficio di Pietro: è la premura amorosa e l’amore premuroso per il gregge di Cristo. Pietro è posto a custodire e a soccorrere, non per dominare; egli dev’essere servo — « servus servorum Dei! » —, non dominatore! Il Signore non esclude dalla sua Chiesa il diritto, l’ordine, l’autorità, chè anzi Egli stesso ha parlato di « roccia », di « chiavi », di « legare e sciogliere »; ma nella Chiesa ogni diritto ha il suo fondamento e la sua limitazione nell’amore. Pietro è costituito qual roccia precisamente perché il gregge di Cristo abbia pascoli sicuri; gli sono concesse le chiavi proprio perché dischiuda il Cielo e chiuda l’inferno. Simone, figlio di Giovanni, Mi ami tu?… Se Mi ami, pasci il mio gregge…! Se l’ultimo significato della Chiesa di Cristo è una cura del gregge tutta soffusa di dilezione, allora si comprende pure perché il Signore affidò questo ufficio a un… caduto: nella sua dignità spaventosamente eccelsa, Pietro porta con sè delle salutari riserve, che gli derivano appunto dall’esperienza della sua debolezza; non entrerà fra il gregge di Cristo con una virtù altezzosa e incurante degli altri, ma come chi, sentendosi per primo affetto di infermità, è in grado di essere compassionevole con chi ignora ed erra. La sua debolezza lo difende pure dagli abusi della propria dignità; come all’Apostolo Paolo fu lasciato il pungolo della carne, perché la sublimità delle sue rivelazioni non l’avesse a sovraesaltare, così la triplice negazione fu per Pietro il suo pungolo perpetuo. Dobbiamo aggiungere l’ultima osservazione e la più profonda: solo Iddio può osare di fare d’un caduto la… roccia. – Qui rifulge la divina ironia, che in Pietro si compiace di eleggere sempre di nuovo la debolezza, affinché la potenza di Dio si manifesti nell’infermità dell’uomo e nessun eletto possa gloriarsi se non nel Signore.

PIETRO NEGLI ATTI DEGLI APOSTOLI.

Qualche libro delinea l’Apostolo, attenendosi soltanto al Vangelo, qualche altro attingendo solo agli Atti degli Apostoli; ma per avere una rappresentazione di Pietro adeguata e completa bisogna interrogare tutte e due le fonti, il Vangelo e anche gli Atti, non l’uno senza gli altri; il Vangelo infatti in molti punti, che interessano Pietro, è solo come un bocciolo e una profezia; sono gli Atti, che apportano e lo sviluppo e il compimento, come l’estate alla primavera. In essi si parla di Pietro diffusamente; la prima parte anzi, che consta dei primi undici capitoli, fu detta semplicemente: « Gli Atti di Pietro ». Dopo il rimpatrio del Signore, chi prende in mano il timone della giovane Chiesa è il buon Pietro, proprio lui, e non Giovanni, non Giacomo o un altro dei Dodici, no; chi la guida, colui che decide e che rappresenta la Chiesa anche nei rapporti con gli estranei è sempre Pietro; questo fatto risulta dagli Atti degli Apostoli con chiarezza meridiana. È Pietro che comanda l’elezione d’un Apostolo in sostituzione del Traditore e premette la condizione essenziale per l’elezione del candidato. Sotto l’influsso dello spirito Pietro nel giorno di Pentecoste tiene la prima predica apostolica dinanzi a tutta una folla. Pietro opera il primo miracolo della Chiesa apostolica con la guarigione dello storpio fin dalla nascita “. Pietro ne fa una relazione al Sinedrio e fa risplendere su quegli uomini della sera il segno del mattino: « Gesù Cristo di Nazareth! Egli è la pietra, che da voi costruttori fu rigettata, ma ora è divenuta la pietra d’angolo. In nessun altro v’è salvezza! » “. Pietro invoca sui due coniugi Anania e Safira, che hanno simulato, il castigo divino d’una morte improvvisa”. Inviato dalla chiesa madre di Gerusalemme, Pietro va con Giovanni in Samaria per visitarla e conferire la Cresima. Pietro lancia il primo anatema apostolico, che colpisce il mago Simone. Dopo la persecuzione di Saulo, Pietro fa il primo giro attraverso la Giudea, la Galilea e la Samaria. Pietro introduce nella Chiesa il primo pagano, il centurione Cornelio, con una decisione d’incalcolabile portata “. Ed è pure Pietro, che nel Concilio apostolico dichiara che la legge mosaica non ha valore per gli etnicocristiani: « Perchè volete tentare Iddio e imporre ai discepoli (venuti dal paganesimo) un giogo, che né i padri nostri né noi abbiamo potuto portare? No, noi crediamo di conseguire la salvezza, come anche loro, per mezzo della grazia del Signore Gesù Cristo ». – Pietro è presente in tutte le svolte importanti della Chiesa apostolica e… lega e scioglie, chiude e apre, e sta qual roccia, come il Signore gli ha predetto nel Vangelo. E Iddio stesso conferma quello, che Pietro lega e scioglie sulla terra; il miracolo seguiva Pietro così spesso, che «si portavano gli ammalati persino sulle strade e si adagiavano su letti e barelle, affinché mentre Pietro passava dinanzi, almeno la sua ombra toccasse l’uno o l’altro ed essi fossero guariti dalla loro infermità » “. Gli Atti degli Apostoli apocrifi colorano ulteriormente queste notizie storiche, che ci tramandò Luca, intorno al posto di direzione tenuto da Pietro: riferiscono in modo infantile ch’egli si adoperò per installare gli altri Apostoli nei loro uffici nelle varie provincie ecclesiastiche, assegnate a ciascuno. Così “Atti di Pietro” etiopici possono informarci che insediò Simone, figlio di Cleofa, a Gerusalemme; che con Bartolomeo partì per le « oasi» e con Andrea per la Grecia; che condusse Filippo in Africa, Giacomo e Tommaso nelle Indie; ammise nel campo della propria attività in Siria Giuda Taddeo e destinò Giovanni ad Efeso. Queste son leggende, che però suppongono il fatto storico dell’autorità dì Pietro sugli altri Apostoli. Ma negli Atti degli Apostoli, più che la stessa autorità, sorprende il modo dinesercitarla da parte di Pietro; qui si vede chiaramente che non solo viene adempiuto il mandato, ma anche la persona di Pietro è maturata; in nessun altro Apostolo è manifesto come in Pietro il miracolo della trasformazione di Pentecoste. Noi ci attendiamo che quest’uomo svelto, irriflessivo e debole, come lo conosciamo dal Vangelo, ci prepari qualche cosa d’angoscioso nell’esercizio del suo alto ufficio. E invece negli Atti degli Apostoli la sveltezza d’un tempo s’è mirabilmente cambiata in prudenza e la debolezza in fermezza; quel Pietro, che poche settimane prima, intimorito da una fantesca, aveva negato e giurato: « Non conosco quest’uomo », nella festa di Pentecoste proclama dinanzi a migliaia di ascoltatori « con voce elevata:.”Questo Gesù, che voi avete crocifisso, Iddio Lo ha fatto Signore e Messia” ». – Dinanzi al Sinedrio e sebbene gli si profilassero all’orizzonte il carcere, la tortura e la morte, egli fa la prudente e decisa dichiarazione: «Giudicate voi stessi se sia giusto dinanzi a Dio dare ascolto a voi piuttosto che a Dio! A noi è assolutamente impossibile tacere quello che abbiamo visto e udito ». E quando si vuole violentarlincon una nuova proibizione d’autorità, Pietro stende la lettera d’immunità per la coscienza cristiana di tutti i millenni con una parola divinamente semplice: «Bisogna obbedire piuttosto a Dio che agli uomini>. Ma è costui il Pietro del Vangelo?… Non ritirò mai nulla del suo ardito atteggiamento, neppure quando lo si «pose in custodia », quando si volle toglierlo di mezzo con la morte insieme a tutto il Collegio apostolico, nemmeno quando egli non attendeva che il mattino pernessere giustiziato da Erode. Anche nella direzione interna della Chiesa dimostrò la medesima fermezza, come provano le situazioni difficili e pericolose, create da Anania e Safira e Simone Mago. Pietro è divenuto veramente la roccia, sulla quale s’infrangono e le tempeste dal di fuori e quelle dall’interno; nel Vangelo dinanzi al vento e ai flutti egli sprofonda, negli Atti invece dimostra ch’è sincera la sua affermazione solenne: « O Signore, io son pronto ad andare con Te in carcere e alla morte! ».

PIETRO E PAOLO.

Si direbbe che Pietro, nella sua pieghevole debolezza, sia giunto una volta ancora al rinnegamento, e precisamente in quella penosa avventura, ch’è nota sotto il nome di « conflitto di Antiochia ». Esso ha una lunga e dolorosa preistoria ed è profondamente significativo che Pietro abbia dovuto, per questo increscioso incidente, soffrire la passione del Papa a pro della giovane Chiesa, che doveva divenire e crescere in Chiesa del mondo. Era in questione il posto degli etnicocristiani nella Chiesa. Pietro aveva presa la decisione di principio, quando aveva fatto battezzare il primo pagano, il centurione Cornelio: anche i gentili, e non solo il « popolo eletto », dovevano aver parte nel regno di Cristo; « “Iddio mi ha fatto vedere (nella visione degli animali mondi e immondi) che nessun uomo si può dire profano e immondo… Si può rifiutare l’acqua del Battesimo a coloro, che al pari di noi hanno ricevuto lo Spirito Santo? “. Così li fece battezzare nel Nome di Gesù Cristo >. Ma già questa decisione gli aveva fruttato la critica e i rimproveri dei fratelli di fede giudei; Pietro però rimase fermo nella risoluzione presa, e fa impressione tanto gradita l’arte, con la quale in questa circostanza seppe congiungere autorità, prudenza e riguardo. Nella riunione dei fratelli non s’impose con parole irate — «sic volo, sic iubeo; stet pro ratione voluntas! » —, ma « espose loro con esattezza » quant’era avvenuto e concluse, quasi scusandosi: «”Se Iddio ha concesso loro (ai gentili) lo stesso dono che a noi, i quali abbiam accolto la fede nel Signore Gesù Cristo, come avrei potuto io impedire l’opera di Dio?”. Quand’essi ebbero udito, si tranquillizzarono; lodarono Iddio e dissero: “Iddio dunque ha accordato anche ai gentili la penitenza perché abbiano vita” ». La controversia per gli etnicocristiani entrò in un secondo stadio, quando i medesimi circoli giudeocristiani, che avevan il cuore tanto angusto, vollero obbligare i primi alla Legge e alla circoncisione: « Se non vi fate circoncidere secondo il costume mosaico, non potete salvarvi ». A questo s’opponevano con tutta la loro forza apostolica Paolo e Barnaba. La contesa venne a una conclusione nel così detto Concilio apostolico, tenuto a Gerusalemme nell’anno: gli animi erano eccitati; l’esposizione fu lunga e stizzosa; la questione veramente era molto grave per le sue conseguenze. Anche in quel consesso fu di nuovo Pietro, che con una chiarificazione tanto giudiziosa e discreta da fare stupire — non più con la spada! — portò sentenza favorevole agli etnicocristiani: «Iddio non ha fatto nessuna distinzione fra noi e loro (gli etnicocristiani), perché per mezzo della fede ha purificato i loro cuori. Perché volete voi adesso tentare Iddio e porre sulle spalle dei discepoli un giogo, che né i nostri padri né noi abbiam potuto portare? ». – Quel Concilio tuttavia ebbe una deficienza e uno strascico; ce ne informa la lettera ai Galati. In esso non s’era dichiarato nulla circa la posizione dei giudeocristiani rispetto alla legge dell’Antica Alleanza, forse perché in realtà non s’era presentato neppure il motivo; e i giudeocristiani perseveravano fedeli alla Legge, tanto più anzi vi aderivano quanto più facilmente, secondo la loro opinione, gli etnicocristiani la trascuravano. È evidente che questa situazione doveva condurre i giudeocristiani e gli etnicocristiani, che vivevano in comune, a difficoltà e urti nei quali venne ad essere coinvolto anche Pietro. Egli infatti, dopo la riunione degli Apostoli a Gerusalemme, si portò ad Antiochia ed ivi frequentava apertamente la mensa comune con gli etnicocristiani; ma quando « furono giunti alcuni da partendi Giacomo (giudeocristiani), dopo il loro arrivo si ritirò e si separò per timore dei circoncisi ». Debolezza di Pietro? solo debolezza? Possiamo osare una parola in favore di Pietro! Il buon Apostolo si trovava in una situazione spinosa, fra giudeocristiani ed etnicocristiani; se continuava a mangiare con gli etnicocristiani, si alienava i giudeocristiani; se invece si fosse seduto a mensa con questi, avrebbe urtati quelli; quando s’era trattato dell’essenziale, aveva deciso, e già due volte, a favore degli etnicocristiani; ma questa terza volta, in una questione di vita pratica, che sembrava secondaria, non gli si potrà perdonare, umanamente parlando, se fa una concessione ai giudeocristiani? In questa circostanza Paolo vide certo più a fondo e più lontano. Pietro, che dapprima s’era seduto accanto agli etnicocristiani così decisamente e pubblicamente, non poteva più tardi separarsi da loro; chè altrimenti essi sarebbero passati come Cristiani di second’ordine, oppure, per poter continuare la loro comunione con Pietro, avrebbero dovuto cambiare e passare al modo di vivere giudaico, nonostante la libertà dalla legge giudaica loro assicurata; ora questo sarebbe stato un compromettere moralmente la missione fra i gentili, sarebbe anzi stato un tradimento, se si consideri la natura stessa del Cristianesimo, che non consiste nelle opere dellabLegge, ma nella redenzione per mezzo di Gesù Cristo. L’esempio di Pietro aveva già provocata una scissione fatale nella comunità cristiana di Antiochia, perché con lui s’erano separati dagli etnicocristiani anche gli altri giudeocristiani, persino anzi l’alApostolo dei gentili Barnaba. Paolo nella lettera ai Galati scrive eccitato: « Quando m’avvidi che non camminavano rettamente secondo la verità del Vangelo, dissi a Cefa dinanzi a tutti: “Se tu, giudeo come sei, vivi al modo dei gentili e non dei giudei, come puoi dunque costringere i gentili a vivere giudaicamente? “. Gli resistetti apertamente perchè era nell’errore >. Qualcuno ha provato a far scomparire il lato duro e aspro di questo screzio; ma che male può far mai sapere che anche Pietro e Paolo erano uomini?! In realtà Paolo aveva ragione; nella condotta di Pietro v’era il pericolo che il Cristianesimo fosse ricondotto al giudaismo e restasse precluso ai pagani; su questo punto Paolo non potè transigere, dovette scongiurare il grave pericolo. Qualcuno potrebbe osservare ch’era possibile forse comporre la lite in forma più conciliante, e fortiter in re et suaviter in modo », ma Paolo era « fortiter », tipo collerico, ardente, energico e nell’idea e nel modo di procedere. Nel fuoco però di questa prova Pietro documentò l’oro del suo carattere: accolse con umiltà la dura riprensione che Paolo gli rivolse in pubblico; non si trincerò dietro la sua autorità per sostenere con ostinatezza e prepotenza il suo errore. Dal testo della lettera ai Galati appare manifesto che Paolo riportò una incontrastata vittoria; Pietro tuttavia non gli serbò rancore alcuno, nella sua seconda lettera anzi lo chiama con cuore affettuoso: « Il nostro diletto fratellonPaolo >: è quasi l’ultima parola, che conosciamo di Pietro. Quanto si è affinato dal Vangelo a questo momento! Di quello ch’era allora gli è rimasta solo la semplicità, ch’è anche il più bell’ornamento della sua autorità, esercitata così umilmente che seppe accettare non solo le critiche, ma anche i rimproveri, non temette anzi neppure di recedere da una via sbagliata: l’umiltà di Pietro non è certamente meno degna di ammirazione della franchezza di Paolo. Ma nemmeno Paolo andò per la sua strada, inorgoglito per la sua vittoria, restò invece in comunione con Pietro. Non è inutile rilevarlo; perchè l’incidente di Antiochia ha porto il destro a troppe congetture e affermazioni: si volle farne un argomento contro il primato di Pietro; si vide in esso la manifestazione di due tendenze opposte nella Chiesa primitiva, del così detto « Petrinismo » cioè e del « Paolinismo »; si giunse anzi a dire che la lotta sostenuta da Pietro in Samaria col mago Simone e più tardi a Roma non è che un palliativo per nascondere quella fra lui e Paolo. Queste e simili concezioni sono confutate dalla stessa Scrittura: quella medesima lettera ai Galati, nella quale leggiamo del conflitto fra Pietro e Paolo ad Antiochia, attesta pure il riconoscimento da parte di Paolo dell’autorità di Pietro; Paolo infatti riferisce in essa di essere asceso a Gerusalemme per vedere Cefas, presso il quale si trattenne quindici giorni; annovera Pietro fra gli « uomini guida », dai quali ottenne la fraterna conferma della sua missione fra i gentili. Del resto lo stesso episodio antiocheno, più che del contrario, è una prova del posto eminente di Pietro nella Chiesa primitiva: appunto perché Paolo conosceva e riconosceva l’importanza di Pietro, pretese da lui una condotta rettilinea in modo così inflessibile e forte; egli non si oppose all’autorità di Pietro, ma esclusivamente al modo di condursi, che poteva essere pericoloso; non voleva la scissione, ma l’unità e la comunione anche degli etnicocristiani con quell’uomo roccia, sul quale il Signore aveva edificato la sua Chiesa. Nessuno dunque nella Chiesa si è opposto più decisamente a « Petrinismo » e « Paolinismo » di… Paolo stesso. Quando seppe che nella comunità cristiana di Corinto s’erano formati dei partiti — « Io tengo per Paolo; io per Apollo; io per Cefas; io per Cristo > egli scrisse loro scongiurandoli: «Nel Nome di nostro Signore Gesù Cristo io vi esorto, o fratelli: siate tutti un’unica cosa! Non permettete che fra voi alligni scissione alcuna! Siate d’un solo sentire, d’una sola idea! Cristo è forse diviso? forse che Paolo è stato crocifisso per voi? o siete stati voi battezzati nel nome di Paolo? » – Questa comunione fra Pietro e Paolo ha sempre avuto, dai primi secoli sino ai nostri giorni, una marcata espressione nell’arte e anche nella Liturgia; in una sua predica il Grisostomo chiama senz’altro i due: « La coppia apostolica ». E come una coppia di fratelli unanimi compaiono già in raffigurazioni antichissime; sino dalla fine del terzo secolo essi occupano un posto di preminenza su tutti gli altri Apostoli, alla destra del Signore. La loro festa viene celebrata dalla Liturgia in comune, nel giorno della loro morte, il 29 giugno; che se oggi è, per così dire, divisa e la commemorazione solenne di San Paolo ha luogo solo il giorno 30, questo si deve al fatto che a Roma la grande distanza fra le due chiese, dedicate ai Principi degli Apostoli, avrebbe resa troppo laboriosa la celebrazione delle sacre. funzioni in tutte e due nel medesimo giorno. Inoltre ogni volta che nel calendario liturgico è ricordato Pietro, viene ricordato anche Paolo, e viceversa. Può essere che, a questo riguardo, l’arte e la Liturgia abbiano subito l’influsso della leggenda, specialmente di quella contenuta negli Atti di Pietro e Paolo, comparsi fra il 170 e il 250; secondo questa fonte, i due Apostoli avrebbero svolto un’attività in comune e sincrona a Roma, insieme avrebbero sofferto nel medesimo carcere e avrebbero incontrato lo stesso genere di morte per martirio nel medesimo giorno. – Non è difficile scorgere in tutto questo un parto di fantasia poetica; la quale però non avrebbe potuto fingere e divulgare una così stretta comunanza fra Pietro e Paolo, se i due Apostoli secondo la verità storica fossero stati l’un l’altro contrari. Dedicando la prima parte degli Atti degli Apostoli a Pietro e la seconda a Paolo, Luca stesso li unisce fraternamente fra di loro; gli Atti sono il primo e il più bel quadro di Pietro e di Paolo. Pietro-Paolo! Nonostante il giorno di Antiochia, essi non furono avversari, non rivali, non competitori; furono invece due raggi, che s’incontrano nel medesimo Sole divino; due voci, che riecheggiarono della stessa divina parola; nell’unico Signore Gesù Cristo furono un’unica cosa. A Lui, al Tutto e Unico sia gloria e onore!

L’ATTIVITÀ APOSTOLICA DI PIETRO

Dall’ascensione del Signore fino agli anni 42, 43, Pietro lavorò, come gli altri Apostoli, in Palestina. Di questo tempo gli Atti riferiscono viaggi suoi attraverso la Giudea, la Galilea e la Samaria a scopo di visita”. Un passo della lettera ai Galati potrebbe far pensare che Pietro e Paolo si fossero spartiti il mondo frandi loro, in modo che il primo dovesse annunziare il Vangelo ai Giudei e il secondo ai Gentili: « Gli uomini guida riconobbero ch’io sono incaricato del Vangelo per gli incirconcisi, come Pietro lo è per i circoncisi»; ma in realtà non si tratta qui d’un campo d’apostolato riservato all’uno con l’esclusione dell’altro, bensì del campo coltivato di preferenza dall’uno e dall’altro; Pietro di fatto fu missionario non solo fra i Giudei, ma anche fra i pagani, una delle sue prediche anzi la tenne nella casa del pagano Cornelio; e d’altra parte Paolo non si rivolse solo ai gentili, ma anche ai Giudei e proprio nelle loro sinagoghe cercò la piattaforma, donde poter predicare ai gentili. La persecuzione di Erode Agrippa fu come il segnale dato da Dio per indicare agli Apostoli ch’era giunto il momento di lasciare l’angolo della Palestina e di disperdersi nel mondo. Luca riferisce negli Atti che, dopo l’uccisione di Giacomo, anche Pietro stava in carcere e fu preservato dalla stessa sorte da un Angelo, che lo trasse fuori, conducendolo per mano ancor sonnacchioso e incespicante, e insieme passarono dinanzi ai soldati di guardia e uscirono quindi dalla porta, che si aprì da sola, mentre l’Apostolo andava pensando che si trattasse non di cosa reale ma solo di un sogno, finché non si trovò all’aperto completamente libero; aggiunge Luca che allora Pietro si diresse alla casa di Marco in Gerusalemme, ove l’esigua comunità dei credenti stava in angosciosa preghiera per Lui, e le comunicò solo la notizia della sua liberazione: « Riferite questo a Giacomo (Minore) e agli altri fratelli>. Luca continua a informare, ma in modo così indeterminato, che sembra volesse conservare anche quando scriveva l’incognito di Pietro: « Pietro allora si mise in cammino e si recò in un altro luogo ». Circa quest’« altro luogo» sono state fatte molte congetture; secondo una antica tradizione, che non è però del tutto sicura, Pietro si sarebbe portato fin da allora, e cioè nei primi anni dell’imperatore Claudio (41-54), a Roma “; e questa supposizione sembra avere una conferma dalla stessa Sacra Scrittura, in quanto la lettera dell’Apostolo Paolo ai Romani, scritta verso l’anno 58, fa pensare a una comunità cristiana di Roma fiorente, tanto che Paolo anzi deve scusarsi di cullare l’intenzione di portarsi anche a Roma ; tutto questo si comprende bene se Pietro era già pastore della comunità romana. Verso l’anno, con decreto imperiale, i Giudei furono espulsi da Roma; il nuovo soggiorno di Pietro a Gerusalemme negli anni 49-50, attestato dagli Atti degli Apostoli, in occasione del Concilio apostolico, potrebbe spiegarsi con quell’espulsione. Dopo il Concilio apostolico, Pietro si portò ad Antiochia di Siria, dove Paolo si scontrò con lui nell’incidente visto più sopra. Lo scrittore di storia ecclesiasticanEusebio ritiene che Pietro sia il fondatore della comunità cristiana di Antiochia, Girolamo lo dice il primo Vescovo “; Gregorio aggiunge che Pietro lavorò per sette anni ad Antiochia; la Liturgia infine il 22 febbraio celebra la festa della Cattedra di San Pietro ad Antiochia. Probabilmente l’opinione d’un ministero episcopale di Pietro in questa città ebbe per unico motivo il conflitto con Paolo; S. Ignazio Martire, morto verso l’anno 100 non ricorda mai qual primo Vescovo di Antiochia Pietro, ma Evodio, mentre lo stesso Ignazio ne era il secondo; può essere tuttavia che l’Apostolo abbia ivi faticato per un tempo abbastanza lungo. Partendo da Antiochia, egli percorse probabilmente le provincie del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell’Asia e della Bitinia, tutte regioni dell’odierna Turchia; ai fedeli di queste comunità egli più tardi indirizzò due lettere, sebbene in esse sia appena possibile accertare degli indizi di rapporti personali dell’Apostolo con quei fedeli; le leggende però, che riferiscono d’un’attività apostolica di Pietro e di suo fratello Andrea in queste regioni, sulle coste in parte del Mar Nero, sono antichissime e vengono confermate già da Origene (185-254); una tradizione locale di Sinope nel Ponto riferisce che i due fratelli apostoli esercitarono a lungo la loro attività in quella città e ivi stesso poi si separarono per avviarsi Pietro verso l’Occidente e Andrea verso l’Oriente. È certo che Pietro, circa questo tempo, visitò anche Corinto; poiché l’esistenza d’un partito di Pietro nella comunità cristiana si spiega facilmente, se l’Apostolo soggiornò nella città”; ma a una sua attività apostolica in essa rimandano già Clemente Romano e anche più esplicitamente il Vescovo Dionigi di Corinto, nella lettera che diresse alla comunità cristiana di Roma fra gli anni 170-175 : « Tutti e due (Pietro e Paolo), quali fondatori della nostra comunità, hanno istruito anche la nostra Corinto. Similmente essi hanno istruito insieme l’Italia e sono morti nello stesso tempo come martiri >.

PIETRO A ROMA.

Il soggiorno e l’attività di Pietro a Roma, per l’importanza tutta particolare che rivestono, meritano d’essere provati. La tradizione sia della Chiesa orientale che della occidentale è unanime. Una prima testimonianza di quella orientale l’abbiamo nella lettera del Vescovo Dionigi, riportata più sopra; ma già alcuni decenni prima di lui, il Pontefice Clemente, nella lettera inviata alla comunità cristiana di Corinto per richiamarla alla fraterna concordia, scriveva dell’animo generoso sino al sacrificio « dei buoni Apostoli Pietro e Paolo, che furono fra di noi (a Roma) splendido esempio nelle torture e nei supplizi > “. Il santo Vescovo e martire Ignazio (98-110), nella sua lettera ai Romani, parla dei due Principi degli Apostoli come di due maestri autorevoli della chiesa romana: « Io non vi dò comandi come Pietro e Paolo>”. Più diffuso è Sant’Ireneo, vescovo di Lione (177), nella sua testimonianza, secondo la quale Pietro e Paolo predicarono a Roma e vi fondarono la comunità cristiana “. A queste chiare deposizioni degli antichi Padri possiamo aggiungere la muta testimonianza degli antichi monumenti cristiani. Sui sarcofaghi, che Roma con serva del terzo, quarto e quinto secolo, è un ripetersi continuo di scene, che riguardano Pietro; donde pure si può concludere che nessun’altra città dell’Oriente o dell’Occidente abbia conservato con altrettanta varietà e vivacità il ricordo di lui. La prova però più eloquente della sua attività e della sua morte in Roma è la sua tomba. Già verso l’anno 200 il prete romano Gaio redarguiva un maestro d’errore affermando che poteva fargli vedere “il trofeo” dei sepolcri apostolici di Pietro sul Vaticano e di Paolo sulla Via Ostiense. Nelle catacombe di SanSebastiano, sulla Via Appia, nel 1915 fu ritrovato un sepolcro di Pietro; condussero alla scoperta di questo venerando monumento dei «graffiti », specie di scarabocchi tanto sgraziati, con i quali i Cristiani si raccomandano all’intercessione anche di Pietro e di Paolo; secondo la testimonianza del Calendario romano e del Martirologio Geronimiano, i santi corpi dalla loro originaria sepoltura sul Vaticano e sulla Via Ostiense furono ivi trasportati verso l’anno 258, al tempo della persecuzione di Valeriano, e all’epoca dell’imperatore Costantino furono di nuovo restituiti ai loro primi sepolcri, e sopra i venerabili resti mortali dei due Apostoli, Costantino fece costruire rispettivamente la basilica di San Pietro e quella di San Paolo. Gli scavi praticati negli anni 1941-42 sotto l’attuale basilica Vaticana misero in luce una vasta necropoli pagana e confermarono un’antica tradizione di Roma, secondo la quale Pietro era stato sepolto sul Colle Vaticano, in un cimitero pagano. La continuazione di questi recentissimi scavi portò alla scoperta anche delle linee fondamentali dell’antica basilica di Costantino; apparvero pure sempre più evidenti le difficoltà, che l’imperatore dovette superare per quella costruzione, difficoltà d’ordine tecnico, perchè il suolo del Vaticano era ineguale, e difficoltà d’ordine psicologico, in quanto per lo spianamento del colle fu necessario sacrificare la zona cimiteriale, che godeva di tutta la venerazione del popolo romano; tutto questo è una prova evidente che la tomba di Pietro si trovava esattamente sotto la basilica costantiniana, chè altrimenti l’imperatore, nella scelta dell’area fabbricabile, avrebbe avuto riguardo e all’ineguaglianza del suolo e al carattere sacro di esso. Nel giro dell’antica « Confessione », il sepolcro vero e proprio, fu rinvenuta una quantità di monete provenienti da ogni parte del mondo allora conosciuto; nella sua parte centrale invece fu scoperto un sepolcro semplice, sormontato da tre altari di epoche diverse, sovrapposti l’uno all’altro, verso del quale, come lo provano numerosi graffiti, i fedeli pellegrini avevano dimostrata la loro venerazione già molto prima di Costantino. Questo muto, eppur eloquente linguaggio delle pietre parla apertamente del soggiorno e della morte di Pietro a Roma lungo tutti i millenni. – Pietro stesso però è un degno testimonio del suo soggiorno romano, perchè termina la sua prima lettera con le parole: « Vi saluta la comunità, eletta con voi, in Babilonia e Marco, figlio mio » . Già gli antichi Padri, quali Papia, Clemente d’Alessandria, Girolamo, videro in questa « Babilonia » Roma, espressa dall’Apostolo con nome simbolico; e giustamente, poiché non può trattarsi dell’antica Babilonia dell’Asia Anteriore, sita sulle rive dell’Eufrate, che al tempo di S. Pietro era distrutta, come neppure della città dello stesso nome in Egitto, del tutto insignificante: non consta di un’attività dell’Apostolo in nessuna delle due città; al contrario in quel torno di tempo Roma fu chiamata spesso « Babilonia », come anche da Giovanni in parecchi passi della sua Apocalisse; inoltre il soggiorno di Marco a Roma è assicurato da altre testimonianze “. La comunità eletta di Babilonia! Queste parole suonano sorpresa, raccapriccio, terrore; per intenderle si legga quella concisa e drastica descrizione, che fa San Paolo nel primo capitolo della sua lettera ai Romani, della corruzione religiosa e morale della Roma del tempo e ch’egli termina coll’oscuro giudizio: « Essi son ripieni d’ogni ingiustizia, malignità, avidità, malizia, son pieni di invidia, omicidio,ncontesa, frode e inganno. Sono susurroni maledici, prepotenti odiati da Dio, millantatori tracotanti, inventori nel male, disobbedienti ai genitori, insensati, sleali, senza affetto, senza compassione». – Pietro venne a Roma una prima volta, probabilmente, al tempo dell’imperatore Claudio (41-54) e la seconda volta al tempo di Nerone (54-68). Claudio, un bizzarro dalle idee anguste e stravaganti, tollerò il governo d’una Messalina, la cui spudoratezza era proverbiale, e d’una Agrippina, che finì per assassinare per criminale ambizione lo stesso imperatore al fine di porre sul trono Nerone, suo figlio del primo matrimonio. Nerone…! È un nome, ch’è divenuto il simbolo d’un empio potente. Un po’ alla volta le sue buone disposizioni affogarono nella ipocrisia, nella sensualità e sete di sangue. Avvelenò suo fratello adottivo, il nobile Britannico; con vile e ipocrita assassinio si sbarazzò della sua stessa madre, che l’aveva portato al trono, solo perchè gli era divenuta molesta; assassinò la sua sposa Ottavia e con un calcio brutale uccise pure la sua seconda sposa, Poppea Sabina, che gli era stata istigatrice di tanti delitti. Quanto poco calcolo faceva ormai dell’assassinio di comuni mortali! Non è del tutto certo se ricada su di lui la colpa dello spaventoso e catastrofico incendio di Roma nel 64; fu lui tuttavia che allontanò da se stesso il sospetto, facendola ricadere sulla comunità cristiana di Roma; durante una festa notturna negli orti, le vittime innocenti dovettero risplendere come fiaccole viventi dinanzi all’imperiale delinquente! Babilonia…! Povero pescatore di Bethsaida, che cosa speri di ottenere con la Croce e col Vangelo in simile Babilonia? Il messaggio di Gesù Cristo, che tu porti, il Crocifisso qui, in mezzo alla concupiscenza degli occhi, alla concupiscenza della carne e alla superbia d’un regno degenerato e potente, non si dileguerà inascoltato e non sprofonderà con minori speranze di quando tu un giorno stavi sprofondando nelle onde del lago della tua terra? E invece Pietro stesso scrive già d’una « comunità eletta in Babilonia »: un fiore nella palude, un mattino irrompente nel tramenio della notte. L’antica Roma giace oggi in frantumi e non pochi dei suoi domatori son passati alla storia esecrati; sulla tomba invece del Pescatore s’inarca giuliva e illesa la cupola, e nella vasta piazza di San Pietro si eleva ardito l’obelisco, che neppure le stragi dell’ultima guerra hanno abbattuto: « Christus vincit, Christus regnat, Christus imperat! ». Che se anche questo monumento con la sua trionfale iscrizione e la stessa cupola di San Pietro un giorno precipitassero, mai s’infrangerà la Roccia, sulla quale Cristo ha edificato la sua Chiesa, poiché lungo tutti i millenni Cristo vincerà, Cristo regnerà, Cristo dominerà! O Roma santa, o Roma eterna! Roma di Pietro, Roma di Paolo, Roma dei Martiri! Patria della nostra fede, presagio dell’eternità! Noi baciamo il tuo santo suolo, che s’è imbevuto delle lacrime e del sangue dei tuoi Apostoli e dei tuoi Martiri. Recitiamo commossi e riconoscenti il Credo, che, come dalla sorgente, Pietro e Paolo hanno attinto dalle labbra del Signore e dall’Oriente hanno portato a noi nelle regioni dell’Occidente, nelle regioni della sera. Pietro e Paolo, conservate il Credo alle regioni della sera!

LA PREDICAZIONE DI PIETRO

Il messaggio dottrinale di Pietro ancor palpitante di vita è contenuto direttamente nei suoi otto discorsi, che ci hanno trasmesso gli Atti degli Apostoli, e nelle sue due lettere. I « discorsi » sono certamente soltanto dei sunti, dei brevi schizzi preparati da Luca; e però essi rendono con fedeltà i pensieri di Pietro e persino anzi il suo stile e temperamento. Sono veramente dei documenti venerandi, le parole più antiche degli Apostoli giunte sino a noi, più antiche d’un decennio o due delle stesse lettere di Paolo, ch’è il primo allegro ruscello di primavera. Se li confrontiamo con le lettere di Paolo o con gli scritti di Giovanni, ci appaiono certo più semplici, non però poveri; possiamo affermare che in essi è già contenuto tutto il patrimonio dottrinale del Nuovo Testamento. Essi sono: il discorso tenuto prima dell’elezione di Mattia; la predica di Pentecoste; il discorso dinanzi al popolo dopo la guarigione dello storpio dalla nascita; i due discorsi dinanzi al Sinedrio; la predica in casa di Cornelio; l’allocuzione ai fratelli e il discorso nel Concilio apostolico. Più importanti sono quelli tenuti nella Pentecoste, nell’atrio del Tempio dopo la guarigione dello storpio e in casa di Cornelio; ma è da lamentare che tutti in generale siano troppo poco presi in considerazione e troppo poco utilizzati. – Una nota, che balza subito agli occhi percorrendoli, è lo stretto rapporto che stabiliscono col Vecchio Testamento; per provare la Nuova Alleanza Pietro rimanda senza stancarsi a quella Antica; i suoi discorsi quindi abbondano di citazioni dal Vecchio Testamento. Egli vede l’adempimento d’una profezia della Scrittura nell’elezione di Mattia in sostituzione del traditore; la predica di Pentecoste si fonda sopra una predizione del profeta Gioele e su quella d’un Salmo di David; anche il discorso al popolo sfocia nella dichiarazione: «Iddio con questo ha adempiuto la profezia ch’Egli fece preannunziare per bocca di tutti i Profeti ». Le condizioni spirituali, nelle quali venne a trovarsi Pietro per i suoi discorsi, sono le stesse nelle quali si trovò Matteo a riguardo del suo Vangelo: tutti e due devono giustificare dinanzi ai Giudei le pretese di Gesù Cristo, arguendo efficacemente dalle Scritture dell’Antico Testamento. Potrà dirsi insignificante questo Testamento? A simile concezione si oppone decisamente lo stesso primo Papa: nel Vecchio Testamento si nasconde il Nuovo, nel Nuovo Testamento si compie il Vecchio. In tutte le prediche di Pietro il centro che tutto illumina è Gesù Cristo; a Lui corrono tutti i suoi pensieri, da Lui egli deriva tutte le conclusioni; il Signore è talmente il tema della sua predicazione, che, quand’anche si perdessero le lettere di Paolo e gli stessi Vangeli, potremmo ricostruire la vita storica di Gesù e formarci un’idea giusta della sua importanza dai semplici discorsi di Pietro. Abbiamo l’impressione di sentire un compendio del Vangelo, ascoltando l’esposizione fatta dinanzi a Cornelio « Iddio inviò ai figli d’Israele la parola e annunziò il lieto messaggio della pace per mezzo di Gesù Cristo, che è il Signore di tutti. Voi sapete quello che, dopo il battesimo che predicò Giovanni, ebbe inizio in Galilea e avvenne in tutta la Giudea, come Iddio unse Gesù di Nazareth con lo Spirito Santo e la potenza, come Egli andò elargendo benefici e guarì tutti gli oppressi dal demonio, perché Iddio era con Lui. Noi siamo testimoni di tutto quello, ch’Egli ha fatto in Giudea e a Gerusalemme. Lo hanno sì conficcato in croce e ucciso; Iddio però Lo ha risuscitato il terzo giorno e fatto apparire, non però a tutto il popolo, ma solo ai testi da Dio prestabiliti, a noi, che dopo la risurrezione da morte abbiamo mangiato e bevuto con Lui. Egli ha ordinato a noi di predicare al popolo e di testimoniare che Iddio Lo ha stabilito quale giudice dei vivi e dei morti. A Lui rendono testimonianza tutti i Profeti che nel suo Nome ottiene la remissione dei peccati chiunque credacin Lui ». Anche nella predicazione di Pietro, come in quella di Paolo, il nocciolo dell’insegnamento intorno a Gesù Cristo è la sua risurrezione; in tutti i discorsi, sia dinanzi al popolo che dinanzi al Sinedrio, Pietro torna a questa verità fondamentale del Cristianesimo; anche la predica di Pentecoste nella sua sostanza è una predica di Pasqua; e veramente, parlando specialmente a uditori giudei, il ricorso alla risurrezione del Signore non rispondeva solo a una necessità teologica, ma anche psicologica, chè bisognava sollevarli dall’urto e dallo scandalo della Croce. Noi troviamo Pietro sempre intento a provare che, nonostante la croce, Gesù è il Messia promesso dai Profeti; la divinità di Cristo, nella predicazione di Pietro, passa in seconda linea in confronto con l’ufficio di Messia, sebbene sia anch’essa attestata splendidamente da non poche e singolari espressioni: Gesù è « il Santo di Dio », « il Santo e il Giusto », « l’Autore della vita », « il Signore di tutti », « il Signore > semplicemente; « in nessun altro v’è salvezza », « Iddio Lo ha elevato alla sua destra a dominatore e salvatore» . Quello, che più tardi Paolo e Giovanni annunzieranno più esplicitamente e diffusamente di Cristo a una cristianità più matura, Pietro lo tocca già con vibrati accordi. – V’è pure un terzo pensiero dominante, che percorre tutta la predicazione di Pietro, ed è la redenzione. Con Gesù Cristo è spuntata la liberazione predetta dai Profeti. « Convertitevi, e ciascuno di voi si faccia battezzare nel Nome di Gesù Cristo, affinché riceviate la remissione delle vostre colpe e il dono dello Spirito Santo », ammonisce e incoraggia l’Apostolo nella predica di Pentecoste. Oh, il Credo cristiano! Come lieta e intensa luce del mattino, esso dardeggia già splendido fin dall’inizio!

LE DUE LETTERE DI PIETRO

Le lettere ne continuano la predicazione. La prima porta il seguente indirizzo: « Agli eletti pellegrini nella diaspora del Ponto, della Galazia, Cappadocia, Asia e Bitinia ». Le comunità etnicocristiane di queste regioni a nord e a nord-ovest dell’Asia Minore, che in parte erano state fondate da Paolo, versavano in penose condizioni; i pagani le dipingevano come operatrici del male, sebbene il loro « delitto » consistesse solamente nella loro vita, informata alla verità cristiana e diversa da quella pagana: « Per un tempo abbastanza lungo avete in passato sodisfatte le voglie dei pagani e siete vissuti in dissolutezze, piaceri, ubbriachezze, orgie, crapule e in nefanda idolatria; ora sembra loro strano certamente che voi non vi gettiate più con loro nella stessa mota di depravazione». Il mentito disprezzo, che i cattivi hanno sempre per i buoni, costituiva già per quei primi Cristiani il pericolo dell’interna stanchezza e del rilassamento, che potevano concludersi con l’apostasia. Le notizie allarmanti furono portate a Pietro da Silvano, che probabilmente a Roma voleva incontrarsi con Paolo, ch’era il padre di parecchie fra quelle comunità minacciate; ma poichè in quel momento Paolo non doveva essere a Roma — la nostra lettera é datata dall’anno 63-64 —, suggerì Pietro i pensieri per una enciclica alle comunità oppresse, valendosi dell’opera di Silvano: « Per mezzo di Silvano, ch’io ritengo come un fratello, vi ho scritto brevemente per esortarvi e persuadervi che questa è la vera grazia di Dio, nella quale voi state ». Leggendo la lettera, si ha l’impressione d’un’eco di quello che fu detto al lago di Tiberiade : « Pasci le mie pecore, pasci i miei agnelli ». Pietro, conscio d’essere il pastore di tutto il gregge del Signore, esorta i fedeli, più con l’amore che con la logica, ad aver pazienza e a perseverare. Come piace già il primo pensiero: la nobiltà dell’essere Cristiano! Forse mai sono state scritte parole più splendide circa la sua dignità: « Sapete che siete redenti dal vostro genere di vita frivolo, ereditato dai padri, non con beni caduchi, come l’oro e l’argento, ma per mezzo del Sangue prezioso di Cristo, dell’Agnello senza difetto e macchia… Voi siete un popolo eletto, un sacerdozio regale, una gente santa, una gente posseduta, affinché annunziate le azioni gloriose di Colui, che vi ha chiamati dalle tenebre alla ammirabile luce sua ». – Come secondo motivo della cristiana perseveranza, Pietro ricorda la forza del buon esempio: « Tenete una buona condotta fra i pagani, affinché nelle cose, per le quali sparlano di voi come di malfattori, riconoscano le vostre opere buone e lodino Iddio nel giorno della visita… Poiché questa è la volontà di Dio, che,.per mezzo della buona condotta, riduciate al silenzio l’ignoranza di uomini insensati ». Questa forza dell’esempio, allora come oggi sempre invincibile, deve disarmare l’odio contro le cose cristiane e reclutare a Cristo anche nell’ambiente familiare: « Voi, donne, dovete essere sottomesse ai vostri mariti! Quelli, che ancora non obbediscono alla parola, saranno guadagnati poi per mezzo della muta condotta delle mogli, se osserveranno la vostra condotta pura nel timore di Dio ». La forza però suprema per poter perseverare in mezzo alle vicende tristi della terra deriva d’al di là di questo mondo. Con quell’ardente desiderio, ch’era tutto proprio degli Apostoli e dei primi Cristiani, Pietro scrive della venuta del Signore, che metterà fine a tutti gli stenti e a tutte le tribolazioni e li trasfigurerà: « La fine di tutte le cose s’è avvicinata. Siate dunque prudenti e sobrii per poter pregare… Non vi sorprenda, o diletti, la fiamma ignita della sofferenza, ch’è su di voi per provarvi. Con questo non vi accade nulla di strano; rallegratevi piuttosto nella misura, con la quale partecipate ai dolori di Cristo; potrete poi rallegrarvi ed esultare anche nella manifestazione della sua gloria >. – Pietro è l’uomo dell’azione; consacra quindi tutta la sua lettera alla vita pratica; non si distingue in essa, come in parecchie delle lettere di Paolo, prima una parte teoretica e poi una parte pratica; nondimeno i suoi inviti alla vita cristiana son tutti voluti da un grande pensiero, ch’è Gesù Cristo; come un Vangelo in compendio risuona, ad esempio, il tratto seguente: « Cristo è morto per i peccati al fine di condurvi a Dio. Dopo che ebbe trangugiata la morte, affinchè noi divenissimo eredi dell’eterna vita, è asceso al Cielo e siede alla destra di Dio, dove Angeli, Potestà e Virtù Gli sono sottomessi >. – La prima lettera fu riconosciuta genuina da tutti fin da principio; la seconda invece raggiunse il riconoscimento universale solo dopo il quarto secolo. Essa si stacca assai dalla prima per contenuto e per forma, e tuttavia lo stesso esame interno depone per la sua autenticità: è redatta con tale schiettezza e lealtà, che la presentazione che fa di se stesso il mittente nell’iscrizione non può essere considerata come un puro inganno: « Simone Pietro, servo e Apostolo di Gesù Cristo, a coloro, che come noi hanno ricevuto la stessa fede preziosa per la giustizia del nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo”. Poichè Pietro scrive apertamente del suo presentimento d’una prossima fine, possiamo ritenere che la lettera risalga all’anno: <Ritengo per mio dovere, finché sono in questa tenda, di tenervi desti con ammonimenti. So che è imminente il levarsi della mia tenda, me lo ha rivelato nostro Signore Gesù Cristo”. Dopo la prima lettera — « Diletti, questa è già la seconda lettera, ch’io vi scrivo» —, le condizioni delle comunità cristiane delle regioni a nord e a nordovest dell’Asia Minore non erano migliorate, ma piuttosto cambiate, e questo cambiamento può anche spiegare facilmente la diversità fra le due lettere; ora i grandi pericoli minacciano i fedeli non dal di fuori, ma dall’interno: «Entrarono nel popolo falsi profeti, come anche fra voi entreranno falsi dottori, che introdurranno dottrine corruttrici. Rinnegano il Signore, che li ha riscattati… Cercheranno per cupidigia di sfruttarvi con parole ipocrite» 146. « La libertà evangelica », che annunziavano questi maestri d’errore, equivaleva alla negazione e allo scioglimento d’ogni vincolo legale. Contro questa pericolosa corrente, che guadagnava terreno nelle sue comunità giudeocristiane, aveva già presa posizione l’apostolo Giuda Taddeo con una sua lettera sferzante; evidentemente da questi pseudodottori erano minacciati e in parte ormai intaccati anche gli etnicocristiani dell’Asia Minore. La seconda lettera di Pietro ha delle evidenti analogie di pensiero con la lettera di Giuda Taddeo; si direbbe anzi che il nostro Apostolo, così clemente di per sé, abbia preso di quella lettera persino lo stile pungente: «Essi (quei maestri d’errore) sono uomini audaci e arroganti… Insultano nella loro ignoranza come animali senza ragione… Andranno in rovina per la loro propria corruzione… Sono sorgenti senz’acqua e nubi oscure agitate dal vento… Calza bene a costoro il proverbio: „ Il cane ritorna al suo proprio vomito”, e „La scrofa che s’è lavata si avvoltola di nuovo nel brago ” ». A questo contorcimento del Cristianesimo Pietro oppone il fatto storico della venuta finale di Gesù Cristo, che forma il tema proprio di questa lettera e deve irradiare della sua luce consolatrice nei pericoli delle comunità. L’Apostolo illumina e prova il futuro giudizio finale con esempi di giudizi di Dio, desunti dalla storia del Vecchio Testamento, e così affronta lo scherno degli increduli, che van dicendo: «Dov’è mai il suo promesso ritorno? Da quando i padri si sono addormentati, tutto persevera come al principio della creazione »… «Diletti, ma voi non dovete lasciarvi sfuggire che dinanzi al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno. Il Signore non tarda con la sua promessa, come dicono alcuni, ritenendo la cosa per un ritardo; piuttosto Egli è longanime verso di voi e non vuole che alcuno vada perduto, ma che tutti giungano a penitenza ». Pietro ha poi ancora un accenno misterioso alla fine del mondo, che si direbbe quasi una piccola Apocalisse: «Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora il cielo passerà con fragore; gli elementi si dissolveranno nel calore della vampa e la terra brucerà con tutto quello che v’è sopra… Ma noi, secondo la sua promessa, attendiamo un nuovo cielo e una nuova terra >. Queste vetuste parole del Pescatore di Galilea acquistano una risonanza stranamente vicina nell’età della bomba atomica… Quale sarà la conclusione di questa seconda lettera di Pietro? Non può essere altra che Gesù Cristo; il vecchio Apostolo, stanco e fedele, prende comiato dalla Scrittura e dalla vita con l’elogio a Lui: «Crescete nella grazia e nella conoscenza di nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo! A lui sia gloria adesso e nel giorno dell’eternità! Amen »

(*) Tutto quello, che si spaccia come « predicazione di Pietro », all’infuori dei discorsi contenuti negli Atti degli Apostoli e delle due lettere, è « apocrifo », non genuino dunque e non sicuro, sebbene una certa importanza e uno sfondo storico degli Atti apocrifi non si possano disconoscere. Il « Pétrou Kérygma a risale probabilmente ai primi decenni del secondo secolo; ebbe origine, sembra, in Egitto, in un ambiente cattolico; riferisce la predicazione apostolica di Pietro, che fornì delle direttive generali ai missionari, che lavoravano fra i gentili. L’opera oggi è quasi del tutto perita. — Fra gli anni 180-190 furono scritti in Siria-Palestina gli « Atti di Pietro », che si conservano ancora a frammenti in diverse versioni; quella latina (Actus Vercellenses) racconta le lotte sostenute da Pietro contro le arti magiche del mago Simone, che a Roma, in un tentativo di volare (ascensione al cielo) al di sopra della piazza principale del tempio, ebbe un infortunio mortale. La versione greca riferisce la leggenda « Domine, quo vadis » e la crocifissione di Pietro. Il « Martirio di Pietro scritto da Lino » è una leggenda tardiva, apparsa solo nel secolo sesto. Un’altra opera apocrifa da ricordare è la « Storia di Pietro e Paolo », composta forse nel secolo terzo per soppiantare le storie eretiche e far vedere la stretta unione fra i due Principi degli Apostoli; si leggono quindi in essa le descrizioni del viaggio di Paolo a Roma e del suo martirio insieme con Pietro. – Sotto il nome di Pietro si diffuse pure un « Vangelo di Pietro », non genuino, sorto forse in Siria già prima del 150, di cui ancora non conosciamo che un breve frammento, e inoltre un’« Apoailisse di Pietro », che in alcune chiese di Palestina godette di tanta celebrità, da essere letta pubblicamente il Venerdì Santo ancora per lungo tempo, sebbene da Eusebio e Girolamo fosse stata annoverata fra gli scritti spuri; vi si descrive la bellezza del Cielo e l’orrido dell’inferno, e richiama la Divina Commedia di Dante; la si fa risalire sino alla prima metà del secondo secolo.)

MORTE E SOPRAVVIVENZA DI PIETRO

Un dì, quando il Signore aveva interrogato Pietro tre volte sull’amore, s’erano adagiati sul lago di Tiberiade la primavera e l’avvenire. Sì, anche l’avvenire! Poichè il Signore aveva elevato il suo sguardo e una visione grave del futuro Gli si era offerta, mentre Pietro giovane e vigoroso Gli stava dinanzi ginocchioni: « In verità, in verità ti dico: “Quand’eri giovane, ti cingevi tu stesso e andavi dove volevi; ma quando sarai divenuto vecchio, stenderai le tue mani e un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vuoi “». Pietro, in preda all’improvviso sbigottimento per il minaccioso avvenire, che queste parole gli preannunciavano, «Si voltò e vide che lo seguiva il discepolo, che Gesù amava, che nella Cena aveva anche riposato sul petto suo e aveva chiesto: “O Signore, chi è che Ti tradisce?”. Quando Pietro lo vide, chiese a Gesù: “Signore, che sarà di costui? “». Nella domanda del giovane Pietro si sente la supplica; chè gli è difficile camminar da solo la sua via, una via poi che lui non vorrebbe, una via per la quale « altri » lo cingono, mentre una via difficile lo è meno se percorsa in due; la Scrittura stessa lo riconosce: « Due son meglio che uno; poiché, se uno cade, ilsuo compagno lo rialza nuovamente. Ma guai al solo! ». Se nella sua vita Pietro può accompagnarsi al suo amico Giovanni, è disposto ad andare volentieri anche là, dove non vorrebbe andare; Giovanni l’aiuterà a portare il peso e la dignità delle chiavi; qualora cadesse, Giovanni lo rialzerebbe di nuovo. E non sarebbe una grande benedizione anche per la stessa opera di Cristo, se Pietro e Giovanni potessero camminare insieme? Pietro rappresenta la potenza e la legge, Giovanni l’amore e lo spiiito. Che felice unione sarebbe quella dei due Apostoli!… Negli Atti in realtà vanno insieme per lungo tempo; donde è legittimo concludere che una forte amicizia li stringeva l’uno all’altro: « Pietro e Giovanni salirono al Tempio »; Pietro e Giovanni sopportano insieme la prima prigionia; Pietro e Giovanni sono insieme quando elargiscono lo Spirito Santo in Samaria:

unione nella preghiera, unione nella sofferenza, unione nel lavoro! Sarebbe stato

davvero bello se questa vita apostolica in comune sì fosse protratta! Venne invece

il momento, nel quale le vie dei due dovettero divergere e staccarsi; i disegni di

Dio devono avere la precedenza su ogni vincolo umano, per quanto esso sia caro.

In quel giorno ormai lontano, in cui Pietro aveva interpellato Gesù nei riguardi di

Giovanni, Egli gli oppose serio e quasi sdegnato: « S’Io voglio ch’egli resti sino al

mio ritorno, che importa a te? Tu seguimi!». Pietro deve seguire il Signore anche

senza Giovanni, anche su d’una via, ch’egli stesso non vorrebbe proprio. Su quella

scena così soffusa di mistero e di presagio l’Evangelista fa l’osservazione: « Con queste

parole Gesù voleva indicare con quale morte Simone Pietro doveva glorificare

Iddio ».

Quello, che il Signore aveva predetto a Pietro sul lago della patria, si compì

dopo 35 anni (Pietro subì il martirio probabilmente l’anno 67; non escluso però l’anno 64, quando cominciò la persecuzione contro la comunità cristiana di Roma, provocata dall’incendio della città. Il 29 giugno è ricordato come giorno della morte già dalla tradizione storica più antica e meglio garantita. Agostino con altri Padri della Chiesa difende l’opinione, secondo la quale Pietro e Paolo avrebbero tollerata la morte per Cristo lo stesso giorno del mese, ma non lo stesso anno.) nel lontano Occidente, a Roma: il vecchio Apostolo « distese le sue braccia » sul legno trasversale della croce, per la quale il carnefice l’aveva « cinto ». La leggenda premette al suo martirio il racconto « Quo vadis »: pressato dalle preghiere della comunità cristiana di Roma, Pietro sarebbe fuggito dalla città, che andava macchinando contro di lui; ma presso le sue porte si sarebbe incontrato col Signore, carico della croce, che alla dornanda del fuggente: « Dove vai, o Signore? » — « Quo vadis, Domine? » —, avrebbe risposto: « A Roma per farmi crocifiggere di nuovo »: Pietro avrebbe capita la lezione e sarebbe tornato sui suoi passi per incontrare la croce. Può essere che questa leggenda sia sorta come una lontana eco di quella protesta, che Pietro aveva sollevato contro la croce, quando il Signore annunziò per la prima volta la sua passione. A Roma non si sottrasse più alla croce. Quando fu giunto nel circo di Nerone, in vista del luogo, dove, come volgare giudeo, doveva essere giustiziato dinanzi a una folla stupidamente curiosa — « ti si condurrà dove tu non vuoi » la sua natura dovette certamente rabbrividire, ma il suo cuore dovette desiderare quell’abbraccio straziante e soave insieme della croce; una contenuta nostalgia per il Signore vibra già nella sua ultima lettera; secondo una leggenda, egli, come suo fratello Andrea, salutò con entusiasmo e commozione il legno dell’ultimo amore. Informa Eusebio che Pietro chiese d’essere crocifisso col capo all’ingiù, perchè non si riteneva degno di morire col capo verso l’alto, come il suo Maestro; così dal basso i suoi occhi, rigonfi di sangue, guardavano diritto al Cielo in alto. Nella sua seconda lettera aveva confortato i Cristiani scrivendo: «Il Signore non tarda con la sua promessa »; no, Egli non tarda! Allora si posò sul volto del morente un sorriso… In quel giorno però il paganesimo celebrò un infausto trionfo, non altrimenti che il giudaismo il Venerdì Santo; s’era liberato anch’esso di Cristo! Le porte dell’inferno non vincono Cristo; esse non vincono neppure Pietro.

È morto solo Simone; Pietro non muore; il suo ufficio rimane finché rimarrà la Chiesa di Cristo; perchè Cristo ha edificato la sua Chiesa su « Kefas = roccia »; dovrà esserci quindi sempre nella Chiesa un « Pietro »; se la roccia fosse finita con la morte di Simone, come potrebbero essere vere le parole di Cristo, che le porte cioè dell’inferno — le porte della morte — non vinceranno la Chiesa?! Cristo ha stabilito che nella sua Chiesa ci sia uno che porta le chiavi del regno; sempre dunque ci dovrà essere uno, che apre e chiude, lega e scioglie, pasce e ama. Ove Simone Pietro, morendo, depone le chiavi del regno dei Cieli, là le prende un altro e poi un altro e un altro ancora lungo tutti i millenni. Come è vero che le parole e le opere di Cristo durano — « Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno » —, così sono pure eterne, invincibili, proclamate attraverso tutti gli spazi e lungo tutti i tempi, sino alla fine del mondo, le parole dette a Pietro: « Tu sei la roccia! Corrobora i tuoi fratelli! Pasci le mie pecore! E ama, ama, ama…! ».

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In questo giorno di festa per la Chiesa di Cristo, ci uniamo strettamente in preghiera intorno al nostro attuale Pietro, S.S. Gregorio XVIII, sicuri che, come sempre, anche se muore Gesù sulla croce, anche se muore Pietro a testa in giù, anche se il suo suiccessore non può operare ed è nel sepolcro con la sua Sposa eclissata, la Chiesa, Cristo col suo Corpo mistico, Pietro nel suo successore Vicario, non moriranno mai, vivranno in eterno nel Regno della beatitudine celeste, insieme a coloro che avranno perseverato fino alla fine nella “vera” fede apostolica rivelata da Cristo e trasmessa dagli Apostoli nella sua unica Chiesa Cattolica Romana.

CHRISTUS VINCIT, CHRISTUS REGNAT, CHRISTUS IMPERAT NUNC ET SEMPER!

VIVA DIO UNO E TRINO, VIVA L’UOMO-DIO GESU’ CRISTO, VIVA IL SUO VICARIO IN TERRA, IL PAPA.