LO SCUDO DELLA FEDE (125)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

PARTE SECONDA

CAPO IV.

Testimonianza che rendono alla nostra fede i miracoli.

I. Quell’obbligazione che già i filosofi più rinomati imponevano a qualsisia loro uditore novello, di non esaminar le dottrine di quella scuola, ma di approvarle a chius’occhi; con infinito più di ragione potrebbe certamente esigere Dio da qualunque mente creata. Tuttavia, perché egli ama, che i suoi precetti siano dolcissimi, al tempo medesimo che dall’uomo ricerca fede, porge all’uomo argomenti di sommo peso, da fare che agevolmente egli inclini a dargliela, e a riputare la soggezione che si presta in tal atto, non soggezione, ma nobile libertà. Ora fra tutte le apparenze a ciò conducenti, sembra che tengano il primo luogo i miracoli: i quali potrebbero acconciamente chiamarsi una sottoscrizione ed un suggello dell’Altissimo a confermazion de’ suoi detti; senonchè, con dir questo, non si direbbe né anche il tutto; mentre la sottoscrizione ed il suggello d’ogni principe può falsarsi di modo che non si riconosca la falsità: ma non possono di modo già falsarsi i miracoli che non si distinguano gli adulterati da’ veri, come sarà poi mio pensiero di far palese.

I.

II. Convien però qui premettere due verità, molto rilevanti. L’una è della necessità la qual v’era di questa prova miracolosa; l’altra è della sufficienza.

III. La necessità è manifesta. Conciossiachè se il non credere doveva imputarsi a colpa, ed a colpa degnissima di scontarsi nella vita futura con pianti eterni e con pene eterne; chiaramente apparisce, come la fede doveva venir corteggiata da numero così grande di meraviglie, che chi neppure in abito sì solenne la riceveva, non si potesse scusare secondo l’uso, con dir, che quella e ra veramente una principessa celeste, ma andava incognita.

IV. E quindi ancor si comprova la sufficienza: dalla quale a vien che i miracoli sieno il più delle volte nelle divine scritture chiamati segni, perciocché ci significano, che Dio parla. E se essi ci significano, che Dio parla, dunque ci obbligano nel tempo istesso ad udire ciò che egli dice, ed insieme a crederlo, se non vogliamo dimostrarci peggio che aspidi sprezzatori di quella voce tanto autorevole che ci cavò fin dal nulla.

V. Ma perché meglio si penetri questo vero, convien sapere, che cosa propriamente intendasi per miracolo. Miracolo è un effetto, non pure strano, ma superiore a tutta la possanza della natura: il qual però non può avere altra cagione immediata, che Dio medesimo, da cui, siccome furono già stabilite le leggi della stessa natura, così ancora possono talor dispensarsi, con quella autorità sublimissima che compete ad un sommo Legislatore. Pertanto, se questa opera, trascendente i confini di ogni poter creato, si effettui da chicchessia in confermazione di qualche detto, è manifesto, che l’operatore di essa è un mero istrumento della Divinità: la quale se non può essere né ingannata né ingannatrice, mai non sarebbe concorsa, come cagion principale, ad autenticare quel detto, ove fosse falso. Un vero miracolo dunque ha una essenzialissima connessione con la divina veracità, e però contiene una certezza di prova tanto infallibile, che non può convenire a veruna creata testimonianza (Il miracolo, a bene intenderne la genuina natura, va riguardato e nella cagione efficiente, che lo origina, e nello scopo finale, a cui è ordinato. Quanto alla sua origine, esso è tal fatto, che trascende la virtù di qualunque siasi forza creata: è come scrive l’Aquinate, præter ordinem naturæ, cioè sopra, ma non contro natura, in quella guisa che il mistero è sopra, ma non contro ragione. Che se il miracolo è sovrannaturale quanto alla sua cagion efficiente, ciò vuol dire, che Dio solo ne è l’autore diretto od immediato. Ma per qual fine mai Dio opera il miracolo? Non per altro scopo, se non questo, di accertare la verità de’ suoi pronunciati. Divino adunque e nella sua origine e nel suo fine, il miracolo è tessera infallibile della Religione divina). Onde quella religione la quale produrrà legittimamente l’attestazion di un miracolo, ancora che solo, operato a favor di lei, è sicurissima di ottenere la palma sopra dell’altre: sicché il non credere a lei sia l’istesso che il non credere a Dio; e con ciò mostrarsi, non solo inetto, ma stolido; non solo irriverente, ma scellerato.

II.

VI. Si facciano però innanzi tutte le sette, e scendano in questo grande steccato di religione, accompagnate dai loro più famosi prodigi, se dà loro cuore di stare a fronte con la fede cattolica.

VII. Vengano, benché timidi, gl’idolatri, e contino la sanità restituita a due infermi da Vespasiano (V. Spart. Bellarm. de not.), aggiugnendo a ciò, che Claudia, nobile donna, tirò a’ dì loro col suo cingolo al lido una vasta nave, e che certa vergine vestale attinse l’acqua in un vaglio senza versarla. Ma quanto a’ prodigi di Vespasiano, non trovano credenza né anche presso gli storici che li narrano: mentre asserisce Tacito (1. 4. hist.) che l’infermità di quei due, sanati da Cesare, fu per consenso de’ medici giudicata curabile dalle forze della lor arte: e però qual maraviglia, se molto meglio potesse restar curato da Vespasiano per opera de’ diavoli? E quanto a que’ di Claudia e della vestale, oltre a che non eccedeano nemmen essi l’operazione diabolica, convien mirare a che erano indirizzati dalle donne. Non erano indirizzati a provare la verità della religione pagana, ma solamente a difendere se medesime, mentre erano ambo state incolpate a torto di pudicizia violata. Che gran cosa dunque saria, se la provvidenza, a cui è sì gradita la pudicizia, si fosse indotta a volerla anticamente onorare con quel doppio miracolo, il quale da un lato non si ordinava ad autenticare il sacrilego culto de’ vani Dei, e dall’altro valeva a sostenere 1’innocenza tradita, ed a coronarla? Però, come i gentili per testimoni della verità ebbero veri vaticini nelle Sibille; cosi per testimoni della integrità poterono ancor avere veri miracoli nelle loro donne più caste. Che se il cielo ha miracolosamente talora soccorsi i bruti, quando ve ne fu cagion giusta; perché non poté soccorrere ancora gli uomini, benché per altro ingannati nella lor fede? Basta che quei miracoli (se pur sono) non sien diretti a provare una fede tale, perché allora sariano bugiardi.

VIII. Abbattuti i gentili, succedono gli ebrei con animo grande, presupponendo, che a favor loro gridino tutti i miracoli registrati nei libri sacri, e spezialmente gli operati già da Mosè, loro condottiere. Ma questo è quasi un far da corvo spennato, che si vuole adornar di piume non sue. Quella religion loro che consisteva in credere la caduta della natura umana, ed il suo ristabilimento per mezzo di un divino Riparatore, non è diversa, ma è la medesima colla nostra, che crede anch’essa in questo loro Riparatore divino, e l’adora con ogni ossequio. Senonché la loro lo adorava già come Riparatore avvenire, e la nostra lo adora come venuto: onde son ambo a guisa di una stella, medesima nella sostanza, e differente solo di nome.Sono il fosforo che precede il sole di giustizia, e l’espero che lo segue. I patriarchi, i profeti, e tutti quei giusti i quali precorsero la comparsa del Messia, vero sole del mondo, appartengono a Cristo come nunzi e cioè fedeli suoi, che credevano dover Lui venire a salvarli. Gli apostoli, cogli altri veri Cristiani, appartengono a Cristo come seguaci e come fedeli suoi, che’ lo credono già venuto. Ma tutti sono una medesima chiesa nata col mondo. Non convien dunque, che i presenti Giudei faccian da ladri, e da ladri ancora sacrileghi. Convien che mostrino un miracolo vero a loro commendazione, dappoiché i miseri, posto in croce Gesù, negarono a Lui quel culto che noi gli diamo: giacché i prodigi descritti nei libri sacri pruovano bene che doveva venire il Messia, ma non provano già, che non sia venuto, come essi follemente si danno a credere. Anzi il vedere che tra loro, primaché Cristo venisse, abbondavan tanto i miracoli, promettitori di Lui, che a prezzo quasi vilissimo si offrivano a chi li desiderasse, dal più basso del mondo fino al più alto: Pete tìbi signum a Domino Deo tuo in profundum inferni, sive in excelsum supra (Is. VII. 18); e il vedere, che poscia che Cristo venne, altro miracolo non rimase tra loro, che quello della probatica (mancato anch’esso, dappoiché Cristo se ne valse al suo fine di manifestarsi per loro liberatore), dà chiaramente a conoscere ch’è venuto.

IX. Ammutoliscono dunque anch’essi i Giudei, e non avendo replica danno il campo ai maomettani, tuttoché poco vaghi di tal cimento. Viene alla testa di questa sì immonda greggia un falso profeta, il quale protesta con fasto sommo di cedere volentieri a Cristo i miracoli nella decisione del vero, purché a sé riserbi la spada: quasiché le menti si convincessero, se stanno dure, col ferro; e che potesse temere mai di ferite quell’intelletto che non può temere di morte. Vero è, che nel capo sessagesimo quarto dell’alcorano, par che Maometto narri non so che di stupendo, fatto da lui nella luna, che caduta e rotta in due parti, secondo la spiegazion dei suoi espositori (Ap. Bell. I. cit. c. 14) fu dalle mani di lui ricongiunta e riposta in cielo, con tanta gloria, che però i turchi presero poi la luna per loro insegna (Corn. a Lap. in Apoc. c. 13. v. 11). Ma di tal prodigio confessa egli medesimo, che non ebbe altro testimonio da sé, che ne fu l’autore: onde, lasciando che gli dian fede i lunatici pari suoi, proseguiamo innanzi.

X . E perché dalla vera chiesa dì Cristo si sono diramate, o piuttosto disgiunte diverse sette, a guisa di comete, che alcuni stimarono esser fumi usciti dal sole, vengano anch’esse, le moderne, quanto lo antiche, e ci arrechino, per marchio infallibile di essere care al cielo, un miracolo solamente. Tutte unite insieme, pure non apporteranno nulla di vero, ma nemmeno di apparente, operato in confermazione de’ loro errori: mentre quei miracoli stessi i quali le meschine hanno voluto fingere, tornarono finalmente sopra di loro in più grave smacco. È noto ciò che nelle storie si legge in questo proposito, delle tre eresie sì famose de’ nostri tempi, degli anabattisti, de’ luterani, e de’ calvinisti, direi tre capi formatori di un cerbero non favoloso, se fossero veramente uniti in un corpo: ma no, che non sono uniti, mentre fra loro medesimi stanno in guerra.

XI. Nella Polonia un principale anabattista promise alla moltitudine convenuta ad udirlo, che lo Spirito Santo sarebbe sceso visibilmente  dal cielo ad autenticare il novello battesimo a lei proposto. Lo spirito venne, ma non venne dal cielo, né venne santo. Venne bensì bastevole ad attestare la verità. E tale fu un gran demonio, di aspetto terribilissimo, il quale, a vista di ognuno, preso per li capelli quel seduttore, lo levò in alto, e l’affondò di poi nell’acque sacrileghe, finché vi rimase annegato (Boz. de sig. 1. 5. c. 1. in fin).

XII. Di Lutero racconta lo Stafilo, qual testimonio di veduta, che volendosi porre a scongiurare una sua discepola, fidato nella famigliarità che passava tra lui e lo spirito invasator di quella infelice, rimase a un tratto dalle furie di questa così mal concio, che se non rompeva violentemente l’uscio di quella camera, e non fuggiva, era per lasciarvi la vita.

XIII. Né differente fu il pericolo corso, in caso più notabile, da Calvino (H. Bols. in vit. Cal. L. Sur. in Chr. ad an. 1544). Si era maliziosamente accordato l’ingannatore con una vil femminuccia in questo concerto: che il marito di lei si fìngesse morto, e che ella tutta lagrime corresse a trovar Calvino, con supplicarlo, che in confermazion della sua dottrina celeste venisse a risuscitarglielo. Ma non terminossi la favola senza un atto pur troppo vero. Perciocché al primo comando che fè Calvino alla morte finta di restituir quell’uomo alla luce, se lo venne a prendere tosto la morte vera; sicché il miserabile, scosso, straziato, agitato per ogni verso, non si alzò più: tanto che la donna fanatica di cordoglio, pubblicò ad alta voce l’inganno occulto, rimproverandolo al bugiardo profeta con quella libertà che concede a qualsisia più meschino il dolore giusto.

XIV. Di questa fatta sono i miracoli tutti dell’eresie, se si vorrà farne un processo innocente: tanto che ad essi sta bene ciò che ne scrisse infino dai primi secoli Tertulliano, ed è, che dove gli Apostoli, de’ morti ne facevano vivi, i novatori de’ vivi ne fanno morti (Illi de mortuis suscitabant, isti de vivis mortuos faciunt – L. de præscript.). Onde, affinché questi mostrino di dire ornai qualche cosa, ove non possono dirne alcuna che vaglia, convien che si riducano ad affermar con Lutero, che la moltitudine de’ seguaci acquistati in sì poco tempo, è per loro un miracolo sufficiente. Ma certamente il maggior si è, che non muoia subito loro la lingua in bocca a menzogne così sfacciate. Se la moltitudine de’ seguaci rende miracolosa la setta dei luterani, più miracolosa si dovrà dunque stimar quella degli ariani, tanto più ampia, che per poco ammorbò tutto l’universo: e più miracolosa si dovrà stimare anche quella de’ maomettani: a cui come può ardire di stare a fronte il partito dei protestanti in Germania, se neppure ha tanto di grande, rispetto a quelli, quanto ne avrebbe un pigmeo vicino a un gigante? Se Lutero e gli altri a lui simili, predicassero il digiuno, la pazienza, la penitenza, la verginità, l’abbandonamento degli averi, l’annegazione degli appetiti, la soggezione del giudizio orgoglioso, confesso che il numero dei seguaci sarebbe un prodigio sommo, come egli è nella nostra legge: ma che prodigio è mai questo numero, qualora colle parole, e più ancor coll’opere, si consigli di sottomettere la ragione al talento? Quivi la difficoltà non è punto all’ottenere che i seguaci sian molti: è all’ottener piuttosto che sieno pochi. Quando l’arca passò il Giordano, le acque superiori stettero immote, e ciò nel vero fu miracolo grande; le inferiori corsero a seppellirsi dentro il mar morto. Ma ciò che fu? Fu miracolo? No di certo. Fu impeto di natura tendente al basso.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.