IL SACRO CUORE DI GESÙ (17): Il Sacro Cuore di GESÙ e l’operaio

[A. Carmagnola: IL SACRO CUORE DI GESÙ – S. E. I. Torino, 1920]

DISCORSO XVII

Il Sacro Cuore di Gesù e l’operaio.

“Voi altri preti, siete i nostri capitali nemici. Lo abbiamo ormai conosciuto: è con voi soli, che dovremo fra non molto disputarci il terreno. Ma intanto, voi che combattete con tanta asprezza le nostre idee, è egli vero, che nelle vostre abbiate trovato e teniate in pronto il rimedio ai mali dell’ora presente? Se l’avete trovato e lo tenete pronto, perché non lo applicate tosto? Perché non ponete fine a questa disuguaglianza immensa, che regna nel mondo? E non vedete? Da una parte dei nobili, dei padroni, dei capitalisti, dei ricchi sfondati che vengono meno di noia nella sazievole abbondanza di tutte le cose. Essi palazzi, ville, campagne, denari; essi ogni giorno banchettare allegramente coi loro amici ad una mensa imbandita dei cibi e dei vini più squisiti; essi vestire sfarzosamente e passeggiare, anzi adagiati mollemente nei più superbi cocchi farsi condurre in giro, quasi in trionfo, per le vie delle nostre città. E dall’altra parte il misero popolo, i proletari, poveri operai, poveri contadini, poveri manovali, che sono costretti a guadagnare a sé ed alla famiglia un tozzo di pane nelle dure fatiche e versando continui sudori; e che talvolta, peggio ancora, cacciati dal lavoro e divenuti inabili al medesimo sono obbligati, vincendo la vergogna ingenerata dall’umana dignità a stendere la mano al passeggero per chiedergli la elemosina. Or bene! Che cosa fate voi, o preti, per far scomparire questa enorme disuguaglianza? Che cosa fate contro il ricco capitalista a vantaggio del povero proletario? Che cosa fate? Accarezzate il ricco, perché vi giova e mandate in pace il povero, perché non vi dà nulla. Ecco quello che fate! E vi vantate poi d’avere nelle vostre idee il rimedio di tutti i mali ? » – Miei cari! Questo, voi lo avete già compreso, è il linguaggio del Socialismo, che attizzando nel povero popolo l’odio contro dei padroni e dei ricchi pretenderebbe senz’altro con la trasformazione della proprietà personale in collettiva, e con l’uguale distribuzione degli utili e degli agi tra gli uomini, mutare le sorti del mondo. Ma questo linguaggio lanciato contro i Preti e che ho lealmente riferito in tutta la sua crudezza, non è i Preti propriamente che vada a ferire: giacché se i Preti, come Preti hanno idee, queste non sono loro, ma di Gesù Cristo e del suo Vangelo, di cui sono i rappresentanti ed i predicatori su questa terra. Io dico i Preti, come Preti; perché anche i Preti come individui privati possono avere delle idee contrarie a Gesù Cristo ed al Vangelo, e persino idee socialistiche; ma i Preti come Preti no, perché i Preti sono ministri di Gesù Cristo, di quel Gesù Cristo, che è Dio e mai non muta le sue idee. E dunque contro di Gesù Cristo, che si dice: “Che ha fatto Egli per far scomparire le disuguaglianze sociali? Che ha fatto Egli a prò dei poveri proletari, a vantaggio del misero popolo?” – Che ha fatto? Si getti lo sguardo sopra il suo Cuore Sacratissimo. Quelle fiamme così ardenti, che lo circondano e ne erompono fuori, sono il simbolo de’ suoi particolari amori. E tra questi amori particolari, primeggia senza dubbio quello che ebbe per gli uomini del popolo, per gli operai e per i poveri. E per virtù di questo amore, con l’esempio e con la dottrina fece quanto conveniva per nobilitare l’operaio e il povero, per renderli contenti nel loro stato, per far scomparire la distanza che passa fra essi ed i ricchi. Ed ecco l’argomento che prenderemo a svolgere oggi e domani, cominciando in questo discorso a parlare peculiarmente della prova d’amore, che Gesù Cristo ha dato all’operaio.

I . — Prima di vedere quali fiamme di carità il Cuore Sacratissimo di Gesù abbia avuto in sé per gli uomini del popolo, e che cosa abbia fatto per far scomparire nel modo convenevole le disuguaglianze sociali, è necessario premettere due cose. Ed anzitutto è da osservare, che il lavoro, che la maggior parte degli uomini riguarda come gravosissimo peso, da cui vorrebbero essere liberati, è una legge che ha il suo principio da Dio medesimo, e che cominciò ad avere forza fin dal primo esistere dell’uomo. Perciocché Dio stesso, dalla Chiesa chiamato ne’ suoi inni: Patrator orbis, fabricator mundi, fattore e fabbricatore del mondo, allorquando si accinse a crearlo prese appunto a lavorare. Non già che la creazione del mondo abbia costato a Dio alcuna fatica, no: Egli disse un semplice fiat, e tutte le cose, l’una dopo l’altra, con l’ordine da Lui voluto, furono fatte. Ma il fiat che egli pronunziò fu propriamente il lavoro della pura intelligenza, che Egli è; e perché l’uomo avesse poi sempre dinnanzi a sé l’esempio divino del lavoro e persino la regola del tempo, che nel lavoro doveva impiegare, potendo con un fiat solo creare subito tutte le cose, che esistono, volle invece pronunciarlo ripetutamente per sei epoche distinte, dalla Sacra Scrittura chiamate giorni. Per tal guisa, avendo Iddio posta la base della legge del lavoro, la mise subito in vigore, appena ebbe creato l’uomo, ponendolo nel paradiso terrestre, ut operaretur, (Gen. II, 15) affinché lavorasse. Perciocché quantunque tutte le cose create da Dio fossero « molto buone, » tuttavia egli le aveva create in modo da lasciare in esse vasto campo all’operosità dell’uomo. Tutto il creato racchiudeva in sé delle forze, delle potenze, delle ricchezze immense e latenti, di cui toccava all’uomo, fatto sovrano della terra, impadronirsi e cavarne fuori delle opere che fossero financo nipoti con quelle di Dio. E cioè, toccava all’uomo valersi del legno delle piante, dei metalli della terra, dei marmi delle montagne, della pelle degli animali, della lana delle pecore, delle piume degli uccelli, dei colori dei minerali, delle sostanze dei vegetali, della luce dei gas, delle forze elettriche, di quelle magnetiche, di tutto ciò insomma che era in potenza, per formare le case, i mobili, gli abiti, gli ornamenti, i quadri, le statue, le macchine, la luce, il movimento e quante altre cose col suo genio avrebbe potuto inventare e compiere colle sue mani. Senza dubbio nello stato di grazia, il lavoro non tornava all’uomo di fatica. Era il lavoro di un uomo ricco e felice, che per gusto, e direi per passatempo, compone e adorna le aiuole del suo giardino, oppure si compiace di costruire un artificioso meccanismo, o si diletta di ritrarre sulla tela i più bei paesaggi. Ma tuttavia il lavoro era una legge, a cui l’uomo nella sua natura doveva sottostare; ed è perciò appunto, che in generale, non nutriamo pel lavoro una ripugnanza insuperabile come pel dolore e per la morte, ma anzi lo amiamo e persino quando ci impone dei veri sacrifici. Ma questa legge di natura, che sebbene legge non imponeva tuttavia che un lavoro dolce e piacevole, divenne poi una dura necessità dopo il peccato. Poiché allora il Signore, giustamente adirato, dopo di aver maledetto il serpente, dopo aver inflitta ad Eva massimamente la pena del dolore, voltosi all’uomo, inflisse a lui in particolare la gravezza del lavoro: « Maledetta la terra per quello che tu hai fatto, disse: tu, o uomo, la lavorerai con grandi fatiche, ed essa non ti produrrà che triboli e spino, e tu non ti ciberai, che di un pane guadagnato col sudor della fronte. » (Gen. III , 17-19) Ecco la causa del lavoro duro e penoso qual è presentemente, il peccato. Ma, notiamolo almeno di passaggio, anche in questo lavoro, che è un castigo della divina giustizia, ecco risplendere la divina bontà. Perciocché questa terra che abbandonata a se stessa non produce davvero che triboli e spine, come diventa bella, come si fa fiorita e frugifera quando dall’uomo è coltivata. E lavorando seriamente in qualsiasi genere di lavoro, mentre l’uomo si procaccia il necessario sostentamento, come giova altresì al suo spirito e al cuore! Il Savio ha detto che l’oziosità è maestra di molta malizia: ma per converso il lavoro aiuta efficacemente ad essere virtuosi. Sì, l’onestà e la castità sono ordinariamente la grandezza degli uomini e dei popoli laboriosi. Così pertanto Iddio condannandoci al lavoro, ci ha dato in esso non solo un mezzo di espiazione, ma altresì un mezzo di santificazione. Ma, tornando al nostro proposito, se il lavoro è una legge ed una pena giustamente meritata, tutti dobbiamo sottostarvi, ed il volerne andare esenti sarebbe lo stesso che un volersi ribellare a Dio. Ma qui intendiamo bene la cosa. Lavorare non vuol dire soltanto battere il ferro e rompere le zolle; se vi ha il lavoro che affatica e logora il corpo, non manca quello che affatica e logora la mente. È lavoro pertanto quello dell’operaio, che nell’officina esercita il suo mestiere, lavoro quello del contadino, che innaffia la terra de’ suoi sudori, lavoro è quello dell’artista, che trae fuori dal marmo o getta sulla tela le produzioni della mente; ma è lavoro altresì quello dello scienziato, che ricerca con sempre maggior profondità le utili cognizioni, quello del letterato, che scrive libri per erudire le menti e render buoni i cuori, quello dei capi della città e delle nazioni, che amministrano con intelligenza ed onestà le cose pubbliche, e vigilano con saviezza all’ordine ed al bene dei cittadini, quello del soldato, che serve la patria, quello del sacerdote, che intende alla santificazione delle anime, quello dell’avvocato, del medico, dell’ingegnere, del maestro e simili, perché ciascuno di questi lavori entra nella serie di quelli, che Dio volle comprendere nella gran legge del lavoro. Epperò si ingannano certamente l’operaio e il contadino, quando si credono di essere essi soli a lavorare, e molte volte s’ingannano altresì nel credere che il loro lavoro, più faticoso pel corpo sia il più grave di tutti. Riconosciuta questa legge e necessità del lavoro bisogna riconoscere altresì la necessità delle differenti condizioni sociali. Ed in vero, poiché Iddio secondo i disegni della sua sapienza infinita crea gli uomini con una grande varietà di forze fisiche e intellettuali, con sanità e robustezza diverse, con diverso ingegno e diversa solerzia, perciò solo nasce inevitabilmente e di necessità la differenza delle condizioni sociali. « E ciò torna a vantaggio sì degli individui, che di tutta la società; perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi, e l’impulso principale, che muove gli uomini ad esercitare tali uffici, è la disparità della condizione. » (V. Enc. Rerum novarum SS. Leonis XIII). Supponete, per un istante, che tutti gli uomini avessero la stessa forza, lo stesso ingegno, la stessa solerzia, che sarebbe delle scienze, delle arti? dei mestieri? Gli uomini cesserebbero perciò avere dei bisogni e delle inclinazioni, alla cui completa soddisfazione è necessario il reciproco soccorso. Ma allora, dotati utti in ugual misura degli stessi beni e fisici e intellettuali, e per conseguenza eziandio dei beni materiali, chi vorrebbe ancora fare altrui gli abiti, fabbricare altrui le case, seminare e lavorare altrui i campi, impastare e cuocere altrui il pane? Nella varietà adunque delle forze, che Iddio ha distribuito e va distribuendo agli uomini, creandoli, rifulge mirabilmente la sua sapienza; e posta questa varietà bisogna ammettere altresì necessariamente le disuguaglianze sociali. Il Socialismo non ostante la varietà delle forze e fìsiche e intellettuali degli individui « vorrebbe tentare di far sparire dal mondo quelle disparità. Ma com’è ciò possibile? Si abolisca pure la proprietà, e di tutti i patrimoni particolari si formi un patrimonio comune da amministrarsi per mano del Municipio o dello Stato; » (V. Id.) la distribuzione degli utili e degli agi verrà fatta ugualmente? Ma allora dovrà essere ugualmente retribuito chi lavora più e chi lavora meno, chi lavora male e chi lavora bene, chi lavora in un’arte manuale e chi si applica al lavoro del pensiero? Chi fra gli uomini si adatterebbe a questa uguaglianza? « perciocché lo stesso operaio che si vorrebbe migliorare, non sarebbe perciò ridotto all’infelice condizione di aver perduto il diritto e la speranza di migliorarsi davvero? poi non ne nascerebbero al primo istante delle recriminazioni, delle discordie, degli asti? E tolto per tal guisa all’ingegno e all’industria individuale ogni stimolo, non inaridirebbero le fonti stesse della ricchezza. (V. Id.) » Che se la distribuzione degli utili e degli agi sarà fatta secondo il merito del lavoro, allora saranno perciò create di bel nuovo le disuguaglianze sociali, che si faranno in breve sempre maggiori, quanto maggiore sarà l’ingegno, l’attività e l’economia degli uomini, ed eccoci perciò di bel nuovo da capo con dei ricchi e dei poveri, dei capitalisti e dei proletari, dei padroni e degli operai, degli uomini elevati e del basso popolo. Si travagli pur dunque il Socialismo nella sua impresa, ne venga ben anche a capo; oltreché avrà consumate le più gravi ingiustizie manomettendo i diritti dei legittimi proprietari, alterando le competenze e gli uffici dello Stato, e scompigliando tutto l’ordine sociale, potrà riuscire a questo di invertire le parti, di fare padroni gli operai, capitalisti i proletari, ricchi i poveri, e poveri i ricchi, proletari i capitalisti, operai i padroni, ma questa sarà una sostituzione di persone e non già di principii. Non sono adunque i sistemi escogitati dalla mente umana quelli, che valgono a far camminare dirittamente il mondo, In tutto e per tutto a stabilire e far regnare l’ordine, l’armonia, la pace e la prosperità non vi ha che la parola di Dio, la dottrina del Vangelo, quella dottrina, che anche qui illumina di vera luce le menti, fa schivare le fallaci e sovversive teorie, fa accettare come un  fatto necessario la diversità delle classi e delle condizioni; quella dottrina, che a sciogliere i molteplici problemi sociali mette innanzi le regole di quella carità sovrumana, che Gesù Cristo ha dichiarato essere la nota caratteristica de’ suoi seguaci, e che sola è destinata a dare alla società un avvenire di pace, di prosperità e di fortuna.

II. — Riconosciuta la necessità del lavoro e delle disuguaglianze sociali, vediamo ora che cosa abbia fatto Gesù Cristo in pro dell’operaio, sia per animarlo al lavoro e renderglielo leggiero, sia per sollevare la sua misera condizione. Gesù Cristo anzi tutto ha dato all’operaio la proprietà del suo lavoro. Oggi un operaio, un servo, un contadino si presenta ad un padrone e gli dice: — Signore, io ho due braccia robuste; son capace di lavorare, perché ho appresa discretamente la mia arte, il mio mestiere; mi vuole al lavoro presso di lei? — Il padrone risponde: — Sì, vi prendo volentieri, perché capitate proprio in un punto che ho bisogno di operai. — E quale sarà la mia paga? soggiunge tosto l’operaio. — Venite, al lavoro: vi proverò, e quando avrò visto quel che siete capace di fare, ve lo dirò. — L’operaio fa la sua prova, terminata la quale, il padrone lo chiama e gli dice: — Operaio, ho visto quel che siete capace di fare, ho visto come lavorate. Ecco, per vostra mercede vi darei tanto. Vi piace? — Dite, o miei cari, l’operaio è libero di rispondere di sì o di no? Senza dubbio. E se risponde di no, perché non gli sembra equa la retribuzione offertagli dal padrone, egli liberamene se ne va in cerca di un altro padrone, che gli paia essere più generoso e convenirgli di più. Se risponde di sì, rimane al servizio di questo padrone, che ha trovato; darà ad esso il suo lavoro, ed il padrone darà a lui in ricambio la mercede pattuita. Cosa naturale, direte voi. Cosa naturale adesso, un tempo, prima che venisse Gesù Cristo sulla terra, benché così Dio avesse ordinato di fare nella sua legge, così tuttavia generalmente non era. Udite. Un giorno sotto al bel cielo di Napoli, alle radici del Vesuvio, si radunavano da duecento a trecento uomini. La miseria di tutta la loro persona diceva abbastanza chiaro, che erano schiavi. Se ne stavano tutti con le braccia conserte, con la testa china e muti, aspettando che un di loro sorgesse a parlare. E sorse. Salito egli sopra di un’altura, in vista di tutti, così prese a dire : « Miei cari compagni di sventura, e fino a quando porteremo noi le catene ai polsi? fino a quando non penseremo a spezzarle ed a metterci in libertà? È tempo, è tempo ornai che lo facciamo. Ed anzi tutto contiamoci. Noi siamo il numero, perché di gente come noi i nostri padroni ne hanno tanta, che la gettano eziandio nelle peschiere ad ingrassare le murene, di cui imbandiscono le loro mense. Ed i nostri padroni non sono altro che un pugno di patrizi, che ancora sopravvivono, perché sino ad ora a noi non è bastato l’animo di metter loro il ginocchio sullo stomaco e schiacciarli. Né siamo solamente il numero, ma siamo ancora l’ingegno e la forza; perché se i nostri padroni ed i figli loro sanno qualche cosa l’hanno appreso da noi: dà noi hanno appreso quelle lettere, quella filosofia, quell’eloquenza, di cui fanno sì boriosa pompa nel foro. E siamo noi che coltiviamo loro le terre, siamo noi, che loro fabbrichiamo i palazzi, noi, che facciamo la guardia alle loro case, noi che li portiamo sulle nostre spalle, noi insomma, che li serviamo vilmente in tutti i loro più stupidi capricci. Ma più che il numero, l’ingegno e la forza, noi siamo il diritto. Perciocché, che cosa è, che ha fatto sì, che essi siano i nostri padroni e noi siamo i loro schiavi? La guerra? Ebbene facciamo la guerra anche noi, e la guerra, ne son certo, deciderà adesso, che noi siamo i loro padroni ed essi siano i nostri schiavi. » Ciò detto, Spartaco distese una mano verso il cielo come per dire che gli dèi sarebbero stati propizi alla loro impresa. E quei duecento o trecento schiavi compresero, che avevano un capo. Di lì a pochi giorni essi eran più di quarantamila; e se il senato romano, accortosi ancora abbastanza a tempo del pericolo che correva la romana repubblica, non avesse spedito contro di essi Pompeo, Roma forse, come ai tempi di Annibale, sarebbe stata in procinto di far vedere da lungi le sue rovine fumanti. Ma perché, o miei cari, il grido di Spartaco : affranchiamoci? La cosa è facile a comprendersi. La libertà è cosa troppo cara all’uomo e troppo degna di lui. Ma ciò, a cui non tutti rifletteranno, si è, che il grido di Spartaco non era cagionato soltanto dal desiderio della libertà, ma eziandio da quello della ricchezza. Perché la schiavitù era la condizione pressoché generale del proletario, e la povertà era la condizione inevitabile dello schiavo, e tanto, che non solo era privo di ogni proprietà sulle ricchezze, ma privo eziandio della proprietà del suo lavoro. Il ricco diceva al povero: « Io sono ricco: ho denari in quantità, ho fondi sterminati. E perché sono ricco ed ho denari, voglio avere palagi, che mi prestino tutte le comodità e le agiatezze della vita. Perché ho fondi voglio che mi siano coltivati per modo, che mi fruttino il più abbondantemente, che sia possibile. Ma io non voglio lavorare, perché non voglio stancarmi. Tu sei povero e sei mio, perché ti ho comperato: mio in tutta la estensione e capacità del tuo essere: mio nelle tue braccia, mio nel tuo ingegno, mio nella tua abilità. Va dunque e lavora per me. Per me bagna de’ tuoi sudori la terra, e falla fruttificare. Per me costruisci i più superbi palagi. Va e fa tutto questo. Anzi vieni, portami sul tuo dosso, fa la guardia alla mia casa, solleva le cortine al mio passaggio, servimi come mi piace; ed io, finché mi piacerà, avrò cura che tu non abbia a morire di fame. » Queste parole, espresse più ancora col fatto, che con le labbra, dicono con tutta verità le cose come allora passavano. Il proletario, povero e schiavo, era riguardato come un animale domestico, che guarda la casa, e che lavora i campi, ed al quale due o tre volte al giorno si getta il pasto, perché non perisca di fame. Ora, chi ha spezzato questo infame diritto, secondo il quale si governava la società di un tempo? Chi ha rotte le catene del servo, dell’operaio, del contadino, e, affrancandolo, nella sua povertà gli ha dato tuttavia una proprietà, la proprietà del lavoro? Chi? Gesù Cristo, nessun altro che Gesù Cristo col suo Vangelo. Voi mi dispenserete certamente dall’addurvene le prove particolari, perché dovrei recarvi delle pagine intere; ma voi conoscete abbastanza, che il Vangelo, sgorgato dalla fonte del Cuore sacratissimo di Gesù, da capo a fondo, sia nei fatti, sia nelle parabole, sia negli insegnamenti è tutto nell’inculcare lo spirito di fraternità, di eguaglianza, di carità, di giustizia, di larghezza, da parte dei grandi verso i piccoli, dei ricchi verso i poveri, dei padroni verso dei servitori e degli operai, è tutto insomma nel dire ciò, che sembra aver compendiato in una frase semplice, ma ad un tempo grande e scultoria: Dignus est operarius mercede sua; (Luc., V, 7) all’operaio è dovuta la sua mercede. Frase così espressiva e così forte, che gli apostoli non dubitarono punto, nel ripeterla, di trarne la conseguenza, che il defraudare la mercede all’operaio, sia direttamente con la violenza, sia indirettamente con le frodi e con le usure, è colpa sì enorme che grida vendetta al cospetto di Dio. « Ecco, dice S. Giacomo, (V, 4) la mercede degli operai, che fu defraudata da voi, grida, e questo grido ha ferito le orecchie del Signore degli eserciti. » Egli è vero pur troppo, che anche oggidì vi hanno tra gli stessi popoli cristiani dei padroni, che pieni di cupidigia, pur caricando di pesante lavoro il povero operaio, gli negano la dovuta mercede, o con ingorda e crudele speculazione gliene vanno divorando la più gran parte, facendolo gemere per tal guisa sotto un giogo poco men che servile. Ma la ragione di questa scelleraggine non proviene d’altronde, che dalla dimenticanza, e dallo stesso disprezzo di ciò, che Gesù Cristo ha stabilito in proposito doversi fare. E se pure oggidì vi hanno in grande quantità degli operai veramente schiavi, come prima di Gesù Cristo, essi sono là, dove non è peranco entrato il Vangelo, o per la ostinazione degli uomini non ha potuto impossessarsi dei loro cuori. Che se il Vangelo potesse trionfare da per tutto, e da per tutto gli uomini si conformassero ai suoi santi dettami, egli è certo, che come in ogni altra cosa, così anche in questa il disordine scomparirebbe. Epperò apprendete, o miei cari, quanto sia nera la ingratitudine di certi uomini, che bestemmiando Gesù Cristo e accagionando persino il Cristianesimo dei mali presenti, combattono la sua morale dandosi a credere che le loro idee ed i loro sistemi debbano compiere un’opera più grande della sua! Sappiano i poveri illusi, che è gran ventura anche per essi, che la forza del Vangelo prevalga contro della loro. In quel giorno, in cui si abbassasse la croce in sull’orizzonte come un astro logoro, il proletario sarebbe schiavo di nuovo, e, quel che è più, tra i suoi figli sventurati vi sarebbero essi pure. – Ma al povero operaio la proprietà del lavoro non era ancor basta. Iddio nel creare l’uomo, lo ha fatto grande: perciocché non lo ha creato soltanto come gli altri esseri animati, ma a sua stessa immagine e somiglianza faciamus hominem ad imagineni et similitudinem nostram. (Gen. I, 26) L’uomo pertanto, chiunque egli sia, sente in fondo alla natura la sua grandezza: opperò egli non ha bisogno di pane soltanto, ma di stima e di rispetto. E così è dell’operaio. Ma pure prima che Gesù Cristo venisse al mondo, l’operaio, oltre ad essere schiavo, giaceva ancora per conseguenza della schiavitù nella più grande abbiezione. Gli stessi grandi filosofi lo riguardavano non già come uomo, ma come uno strumento qualsiasi, di cui a piacimento del padrone era lecito disfarsi. E i popoli, che si riputavano i più civili del mondo, dietro gl’insegnamenti di quei maestri, consideravano l’operaio come l’uomo più vile, anzi per poco diverso dal più vile giumento. Di fatti gettato per poche ore della notte a languire, non già a riposare, in umido od oscuro ergastolo, ne veniva tratto fuori al mattino o per essere condotto alla sferza del sole colla palla ai piedi e colle ciglia rase a battere le zolle del campo, o per essere seppellito di nuovo in fondo ad una pistrina a girarvi la mola, o per essere altrimenti rinchiuso ad esercitare gravissime fatiche, e non ricevere che scarso pane ed abbondanti scudisciate. E ciò finché fosse abile al lavoro, poiché in seguito, quando non era piaciuto al padrone di disfarsene prima, veniva miseramente abbandonato a perire di fame. Né crediate che in ciò vi sia esagerazione di sorta. Così pur troppo accade ancora presentemente dove non risplendette ancora la Croce, o presto si spense la sua benefica luce. Bisognava adunque, che l’operaio fosse sollevato dall’abbiezione, in cui giaceva, e che pigliando posto onorato nella società, potesse ancor egli, non meno degli altri uomini, drizzare con santa alterezza la fronte. È ciò, che accade da diciannove secoli, dove è conosciuto e amato Gesù Cristo, dove è apprezzata e fedelmente seguita la sua dottrina; perciocché Gesù Cristo venendo sulla terra col suo Cuore ardente di carità anche per l’operaio ha tolto da lui ogni ombra d’obbrobrio, e lo ha fatto singolarmente grande nella stima degli uomini. E che ha operato Egli a tal fine? Si è fatto operaio Egli stesso. Sì, benché venendo al mondo avesse potuto esimersi dalla legge del lavoro, volle tuttavia sottostarvi e nel modo più umiliante e perfetto. Nacque adunque da una madre povera, obbligata a guadagnare il pane col lavoro, pigliò per suo custode un povero falegname, e in questa famiglia di operai Egli stesso per trent’anni maneggiò la pialla, sudò, stentò, faticò lavorando. O Cuore Santissimo di Gesù! Che amore hai tu nutrito per l’operaio! Come lo hai esaltato. Sì, è vero, nei tre anni della tua vita pubblica, predicando e beneficando non lasciasti di innalzare anche il lavoro dello spirito e del cuore, ma prima e per trent’anni tu hai voluto innalzare il lavoro delle mani! E dopo tale condotta di Gesù Cristo, chi oserà ancora riguardare la condizione dell’operaio come condizione abbietta? Chi anzi non ambirà di stringergli con affetto la mano? E che stringendogliela, non si sentirà fremere in cuore un sentimento di gioia, pensando, che stringe una mano, per quanto incallita, così somigliante a quella di Gesù Cristo? E quale sarà ancora l’operaio, che sentirà fastidio del suo stato, che anzi non ne farà alta stima, e non l’amerà di sincero amore? E che bisogno avrà egli di conseguire altri titoli di nobiltà e di onoratezza per mettersi più vicini ai grandi ed ai ricchi? Ah sia pure, che mercé il nuovo spirito di uguaglianza, che domina nel mondo, egli abbia ottenuto il diritto di dare il suo voto nelle elezioni amministrative e politiche; sia pure che riesca a mandare per suoi rappresentanti ai Consigli ed alle Camere legislative gli stessi suoi compagni di officina; sia pure che abbia le sue Camere di lavoro, dove si fa forte de’ suoi diritti; tutto ciò è meno che nulla in confronto della sola vera grandezza, che gli ha dato Gesù Cristo. Questo Divino Benefattore gli ha tolto di mezzo l’immensa distanza, che lo separava dai grandi e dai ricchi, e col fatto gli h a detto: Tu sei più grande di tutti i grandi e di tutti i ricchi, perché Io, che sono giusto estimatore delle cose, essendo in cielo grande e ricco, ho preferito di farmi qui in terra povero e servo, misero operaio al par di te!

III. — Con tutto ciò, o miei cari, sebbene Gesù Cristo col suo Cuore infiammato di carità per gli uomini del popolo, ne abbia così mirabilmente sollevata la condizione, non bisogna darsi a credere, che Egli lo abbia fatto a scapito della giusta superiorità dei grandi, dei ricchi e dei padroni. Tutt’altro. Egli volle che l’operaio ricevesse la debita mercede del suo lavoro e fosse giustamente stimato, ma volle altresì, che nel posto assegnatogli dalla divina Provvidenza si diportasse in modo del tutto conveniente al suo stato imponendogliene i doveri. E qui, o miei cari, notate ben la diversità che passa tra i predicatori del Vangelo e i predicatori del mondo: questi predicando agli operai, non gli parlano mai d’altro che dei suoi diritti; noi gli parliamo altresì de’ suoi doveri. Io dico adunque che Gesù Cristo ha pur stabilito pel proletario dei doveri. All’opposto dei demagoghi odierni, che nel padrone mostrano all’operaio il suo maggior nemico, Gesù Cristo mostrò in esso l’immagine di Dio; pur troppo non tutti i padroni la fanno risaltare; cheanzi ve ne saranno di quelli che con la loro poco savia condotta la sfigureranno: pur non importa, Gesù Cristo mostra sempre in essi i rappresentanti divini. Epperò mostrando in essi dei divini rappresentanti anzitutto richiede per essi dall’operaio il rispetto, la sudditanza e l’obbedienza. S. Pietro e S. Paolo parlano in suo nome e parlano chiaro. Il primo dice: « Siate soggetti ai padroni, e non solo ai buoni e moderati, ma altresì ai tristi . » (I Petr. II, 18) E il secondo: « Tutte le potestà che esistono sono stabilite da Dio, epperò chi resiste alla potestà, è all’ordine stesso di Dio che resiste. Di necessità pertanto bisogna star soggetti all’autorità, non solo per timore della pena, ma ancora per coscienza. » (Rom. XII, 1-5) Dalle quali parole è al tutto manifesto, che l’operaio deve stimare, riverire, ubbidire ai suoi padroni, ne mai può insorgere contro i medesimi. Che se pure dovrà talora difendere i suoi diritti, e lo potrà legittimamente, non è mai tuttavia agli atti violenti, agli ammutinamenti ch’egli si possa appigliare, ma alle calme e rispettose ragioni. – In secondo luogo Gesù Cristo impone all’operaio il lavoro coscienzioso, vale a dire compiuto con giustizia, in quel tempo e in quel modo che egli è richiesto, e in corrispondenza alla mercede che riceve. Ciò Gesù Cristo fece chiaramente conoscere con la parabola del servo infingardo, che nell’assenza del padrone anzi ché trafficare il talento, che ne aveva ricevuto, lo andò a nascondere sotto terra, e che perciò in seguito fu giustamente punito della sua pigrizia e della sua ingiustizia. L’operaio pertanto che lavora solamente quando lo scorge l’occhio del padrone e poi riceve la mercede, come avesse lavorato sempre; l’operaio che non ha cura della roba del padrone, ma la guasta e la sperde, talora a bella posta per recargli danno e offesa; l’operaio che si appropria la roba del padrone, sotto il pretesto di darsi delle compensazioni per la poca mercede che riceve, benché sia quella pattuita, commette delle vere ingiustizie, dei veri furti, di cui pur rimanendo impunito dagli uomini, assai difficilmente andrà impunito da Dio, anche in questa stessa vita. Ecco adunque come Gesù Cristo, sollevando la condizione dell’operaio, non ha lasciato tuttavia di stabilire esattamente i suoi doveri. E in ciò gli ha resa sempre più manifesta la prova del suo amore per lui. Perciocché, se l’operaio porge benigno ascolto ai dettami di Gesù Cristo, anche nella bassezza di sua condizione si sentirà felice e gusterà delle gioie, che non gustano neppure i re sui loro troni. Sia pure che debba versare molti sudori in gravose fatiche, che sia meschina la sua abitazione, povera e sufficiente appena per sé e per i figli la sua mensa, modestissimo il suo vestito… Sia pure che tal volta gli tocchino dei rimproveri, delle parole umilianti e persino delle oppressioni e delle frodi nella mercede a lui dovuta!… sia pure che gli giungano quei momenti critici … quando viene a mancare il lavoro… quando sopraggiunge una malattia… quando lo assale la miseria… e si vede lì dinnanzi i figlioletti laceri, tremanti per la fame e per il freddo …; momenti terribili, in cui la natura inferma e risentita vorrebbe sospingerlo a metterele mani nei capelli, a digrignare i denti, a levare la voce, ad imprecare, a maledire… Sia pur tutto ciò; ma l’operaio, che ha stampato nel cuor suo la dottrina di Gesù Cristo sa tacere, sa soffrire, sa pregare, sa affidarsi alla divina Provvidenza, sa essere contento del suo stato, anche in mezzo alle sue grandi sofferenze, perché sa che se qui in terra gli tocca di faticare assai, avrà in cielo un eterno riposo; che se magro e inadeguato è il salario che riceve quaggiù, grandissimo sopra ogni dire sarà quello che riceverà lassù: dove sarà saziato di ogni bene; e che poi… anche nel corso di questa vita Iddio, Padre amoroso, non abbandona giammai il giusto, che in Lui confida, né lascia che vadano raminghi e pieni di fame i suoi figli. E non sarà mai, che questo operaio Cristiano si associ a quei miserabili, che stanno impazienti alle vedette per azzannare il patrimonio del padrone e sfruttare come cosa comune il suo campo e la sua vigna; non sarà mai che egli scenda in piazza con la più trista canaglia per avventarsi contro le abitazioni dei ricchi, invaderle e saccheggiarle; non sarà che con la sua mano brandisca un pugnale od apparecchi le bombe per lanciarsi contro dei padroni e dei governanti a toglier loro la vita. L’assassino dei sovrani e dei padroni, l’invasore rapace degli altrui averi, il ribelle alle autorità, il tumultuante, il rivoluzionario, l’incendiario, il nemico dell’ordine e della società si trova in quell’operaio, che insulta la Religione, maledice ai Preti, impreca a Dio, in quel dissennato, che vive non più da uomo, ma da bestia, ignaro o dimentico affatto di Gesù Cristo e della sua dottrina. Operai Cristiani, che mi ascoltate, deh! continuate a stimare e praticare quella Religione, che appalesandovi la vostra grandezza ed insegnandovi i vostri doveri vi dà modo di essere felici nel tempo e nell’eternità. Ma guardatevi bene dal porgere ascolto a quegli sciagurati, i quali col pretesto di voler rialzare la vostra condizione, ve la dipingono a neri colori e mettendovene in cuore il malcontento, cercano di eccitarvi alla rivolta contro dei padroni e dei ricchi. Tutti costoro sono folli utopisti, che anziché fare il vostro bene, fanno la vostra rovina. E se voi darete ascolto a questi sobillatori e traditori, passerete la vostra vita nell’agitazione, la farete passare agitata alle vostre donne ed ai vostri figli, non otterrete mai ciò che valga, secondo voi, a farvi felici, e dopo una sì grama esistenza, priva di ogni consolazione vi resterà poi al termine di essa da aggiustare i vostri conti con Dio. – Ma voi pure, o padroni non venite meno alla parte vostra. Rispettate nell’operaio la dignità della persona umana, perciocché sebbene dall’insufficienza delle sue risorse sia costretto a porsi sotto la vostra dipendenza e vendervi le sue fatiche, dell’umana dignità divide tuttavia con voi le sacre prerogative. Non abbiatelo adunque in conto di schiavo; non imponetegli lavori sproporzionati alle sue forze o mal confacenti con l’età e col sesso. Retribuitelo con la giusta mercede, ne abusatevi della sua necessità, o della sua debolezza, o della sua ignoranza per fargli accettare delle condizioni leonine, per dare un salario inferiore al giusto, per frodarlo, ledendo così i diritti della stessa naturale giustizia. Se è necessario, siate severi, o per lo meno franchi o decisi; la debolezza è pure un’abdicazione della giusta autorità; ma più ancora siate buoni. La bontà del padrone è l’olio che nell’operaio fa girare senza fatica la ruota del dovere, che lenisce l’asprezza del suo lavoro, che suscita e riscalda nel suo cuore l’amore per il padrone istesso. Mettetevi dunque al suo contatto, partecipate alle sue gioie, compatite le sue pene: interessatevi della sua famiglia, confortatelo all’onestà e al bene, correggetelo ma senza collera e senza disprezzo, soccorretelo ne’ suoi bisogni, ma senza avvilirlo, fatevi insomma i suoi veri padri. Ma sopra tutto, avendo riguardo alla Religione ed ai beni dell’anima, » asciategli la comodità e il tempo richiesto per compiere i doveri religiosi; e precedetelo ed animatelo agli stessi con l’esempio e con la parola. (V. Enc. Rerum novarum di S. S. Leone XIII, da cui sono stati raccolti lesti doveri pei padroni, e por gli operai.). La Religione, checché si pensi da insani politici, che osano metterla in fascio coi sistemi sovversivi, sarà mai sempre il più forte riparo contro il socialismo e qualsiasi altro sistema di disordine e sovversione, perché è la Religione;, che a tutti impone quei doveri, dall’adempimento dei quali non può nascere che ordine e pace. Guai adunque, se voi negando agli operai di poter essere religiosi, se non essendolo voi stessi, ridendovi della Chiesa, dei suoi insegnamenti, delle sue leggi, violandole apertamente, toglierete la base dell’edificio sociale! Non la filosofia dell’interesse, non le improvvisate elargizioni, non le affrettate leggi dei dazi sospesi, non il pane venduto a dieci centesimi il chilogramma, non gli stati d’assedio e i governi militari, non gli eserciti sguinzagliati contro le moltitudini, non i cannoni puntati e sparati contro le città lo ratterranno ancora in piedi! Esso cadrà, e voi sarete schiacciati sotto le sue rovine. – Il secolo decimottavo aveva cominciato in Francia col grido: schiacciamo l’infame. Ma si chiuse con uno spettacolo sì orrendo, che l’umanità non riuscirà a dimenticarlo sì presto. Sì, si chiusero i templi, si spezzarono le croci, si atterrarono gli altari; ma vi furono allora dei mostri, che, come Nerone, avrebbero desiderato, che l’umanità non avesse che una sola testa per troncarla d’un tratto. Il sangue scorse a rivi e le teste si ammonticchiarono sul suolo. Iddio tenga lontane dalla società nostra sì orrende catastrofi; ma noi, o carissimi, non stiamo con le mani in mano. Operai e padroni ritornino tutti all’amore di Gesù. Cristo, in cui solo vi è salute. E voi, o Cuore Sacratissimo di Gesù, che di tanta carità avvampate per gli uomini del popolo, deh! continuate a far sentire sopra di essi il benefizio del vostro peculiare amore. Chiudete le loro orecchie ai lusinghieri discorsi ed ai fallaci insegnamenti, con cui gli odierni demagoghi e bugiardi maestri tentano di trascinarli sulla via della rivolta e della rapina; raffermateli nella fede alla vostra parola, che è parola di ordine, di pace e di prosperità; difendeteli dalle sventure e dalla miseria; forniteli mai sempre del pane, che abbisognano per sé e per le loro famiglie, ma soprattutto confortateli della vostra grazia e delle vostre benedizioni, perché abbiano mai sempre a magnificare la bontà vostra, adesso e per tutti i secoli.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.