LA GRAZIA E LA GLORIA (22)

LA GRAZIA E LA GLORIA (22)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO IV.

L’ABITAZIONE SINGOLARE DI DIO NELL’ANIMA DEI SUOI FIGLI ADOTTIVI. IL FATTO E LA NATURA DI QUESTA ABITAZIONE

CAPITOLO VI.

Due corollari da trarre dai capitoli precedenti; immanenza reciproca tra i figli adottivi e Dio loro Padre; realtà dell’adozione per i giusti vissuti prima di Gesù Cristo.

.I. – La fede ci insegna che il Padre e il suo Figlio unigenito, pur conservando la loro distinzione personale, siano tuttavia uno nell’altro. « Non credete che io sono nel Padre e il Padre in me? » (Joan. XIV, 10-11) Questa è l’immanenza misteriosa espressa tra i teologi con la parola Circuminsessione: il Figlio nel Padre, il Padre nel Figlio, l’uno e l’altro nello Spirito Santo, e lo Spirito Santo in entrambi. Lungi da noi l’interpretazione bassa e volgare che farebbe riposare il dogma di questa immanenza reciproca sull’immensità delle Persone divine. È nel doppio articolo della nostra fede, l’unità della natura divina e la distinzione delle ipostasi, che dobbiamo cercarne la ragione fondamentale. « Io e il Padre mio siamo uno », cioè una sola e medesima cosa (Gv. X, 30). Si veda la distinzione tra il Padre e il Figlio: “Io e il Padre mio“; ma vedi anche l’unità della natura: “noi siamo uno; unum sumus“. Da qui questa conclusione che il Salvatore ha tratto nella continuazione dello stesso discorso: « Il Padre è in me e Io sono nel Padre mio » (id. X, 38). Diciamo meglio: non è una conclusione, ma la stessa verità che Egli afferma in termini diversi: tanto è manifesto che l’unità di natura nel Padre e nel Figlio non si possa spiegare senza la loro reciproca immanenza, e che la stessa immanenza richieda questa stessa unità. – Ecco perché i Padri del IV secolo, nelle loro controversie con gli ariani, provarono la consustanzialità del Figlio con il Padre con queste parole del Maestro: Io sono nel Padre e il Padre è in me. « Dio – diceva il grande Vescovo di Poitiers, Sant’Ilario – Dio non è in una natura estranea alla sua; Egli abita nel suo Figlio, il Figlio generato dal suo seno: Dio in Dio, perché Dio è da Dio » (« Non enim Deus in diversæ atque alienæ a se naturæ habitaculo est, sed in suo atque a se genito manet: Deus in Deo, quia ex Deo Deus est ». – S. Hilar. de Trinit. L V n-40). Da tutta l’eternità, il Padre comunica la sua natura al Figlio, e la sua natura è nel Figlio; o piuttosto è il Figlio, come è inseparabilmente il Padre. La natura del Padre nel Figlio e la natura del Figlio nel Padre, cos’altro è se non il Figlio nel Padre e il Padre nel Figlio, poiché entrambi sono identici alla loro natura? – Dal mistero di immanenza che è in Dio, scendiamo al mistero di immanenza che dobbiamo considerare nella creatura divinizzata dalla grazia. « Chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui. » » (I Joan. IV, 16) (Anche qui, non ci appelleremo all’immensità dell’universo per avere l’intuizione di parole così divine e consolanti. Questo sarebbe, ancora una volta, sminuire il mistero; infatti, l’Apostolo S. Giovanni non affermerebbe del giusto ciò che è universalmente appropriato per ogni creatura. Ancor meno attribuiremo a non so quale ſusione di nature l’esistenza reciproca di Dio nell’uomo e dell’uomo in Dio: poiché immaginare solo una tale mescolanza, sarebbe follia, insegnarla sarebbe blasfemia. Cosa dovremmo fare allora? Ricordarci che Dio per grazia fa entrare i suoi figli adottivi nella partecipazione della sua stessa natura. Se l’Essere soprannaturale che Egli infonde nelle loro anime non è certo la sua stessa natura, è almeno però la più alta espressione creata di essa: tant’è che basta a costituire dei figli che portino l’immagine del Padre celeste, che vivano della Sua vita, dèi da Dio. Perciò, in quanto sono figli, la natura divina e Dio con la sua natura è in loro; e viceversa, essi stessi sono in Dio, poiché la natura di cui partecipano è la natura di Dio. « Filippo – disse Gesù – chi vede me vede il Padre. Come dici allora: mostraci il Padre? Non credete voi che Io sia nel Padre e il Padre in me?… Il Padre, che è in me, compie Egli stesso le opere ». (Joan. XIV, 9-19). Queste parole del Figlio unigenito, l’uomo giusto, figlio di adozione, soprattutto colui in cui le opere corrispondono alla nascita, può, in una certa proporzione, applicarle a se stesso, non certo per glorificare se stesso, ma per esaltare Colui che fa cose così grandi in lui. Chi mi vede conosce Dio, mio Padre, perché io sono uno specchio in cui brilla il volto divino, un ritratto di se stesso che Lui solo ha fatto in me, comunicandomi la sua grazia. Chi vede Dio vede me, se non nella mia individualità, almeno nell’ideale divino che ha contemplato e che si è degnato di riprodurre in me. E quando opero come figlio di Dio, quando non sono io che vivo, ma Gesù Cristo che vive in me, è Lui stesso dentro la mia anima che compie le opere per mezzo del Suo Spirito divino. – Mi si potrebbe forse obiettare che questo ragionamento cerchi di dimostrare che ogni padre è nel figlio e ogni figlio nel padre; la sostanza dell’uno non è più distinta dalla sostanza dell’altro di quanto la grazia, la natura partecipata, sia distinta dalla natura increata da cui deriva. Non voglio tanto meno contraddire questo fatto, poiché l’uso universale qui testimonia la voce del sangue. Quale padre c’è che non si senta ravvivato in suo figlio; e quale figlio c’è che non si senta onorato o ferito in suo padre? Confesso anche che, dal punto di vista della comunità di natura, l’unione di un padre mortale con suo figlio prevalga sull’unione dell’uomo giusto con il suo Dio. Ma, d’altra parte, quest’ultima unione si presenta con un privilegio incomparabile. Nell’ordine della natura, niente è più transitorio nel suo atto, che la comunicazione da parte di un padre a suo figlio della sua stessa sostanza. Ma quando si tratta del Padre che è Dio, l’azione generativa con la quale Egli procrea i figli adottivi, essendo sovranamente intima, è anche sovranamente permanente da parte di Dio, poiché solo il peccato può fermarne gli effetti. – I Padri, per darcene un’idea, la paragonano all’impressione di un sigillo su di una cera essenzialmente morbida. Se si vuole che la figura che si forma su questa cera a sua somiglianza rimanga lì, non si deve togliere il sigillo. È così – essi dicono – che Dio fa i figli che adotta a sua immagine, ma con la differenza che la cera e il sigillo si toccano solo in superficie, mentre Dio penetra e fa penetrare con sé nella cera la sua impronta viva e attiva, come il sigillo divino di cui è la copia. – « Mettimi come un sigillo sul tuo cuore », dice lo sposo alla sposa nel Cantico (Cant. VIII, 6). Cosa voleva egli? Perfezionare la somiglianza e l’unione con un’applicazione sempre più intima di sé. E questo, mi sembra, sia il significato profondo rivelatoci da San Paolo nei testi in cui ci presenta come sigillati (signati = segnati con un sigillo) da Dio nello Spirito Santo (II Cor. 1-22; Ef. I, 13; 1V, 30). – Non vedete Dio doppiamente immanente in noi? Immanente attraverso la grazia creata, l’immagine vivente della sua natura. Immanente per la sua stessa natura, cioè per la grazia increata, poiché l’una è inseparabile dall’altra, come l’impronta del sigillo che la forma e la conserva. Egli segue la partecipazione della sua natura con la sua essenza; la segue con il suo amore: infatti, secondo la bella parola di S. Dionigi l’Areopagita: « Amor divinus est extasim ſaciens, l’amore di Dio è estatico » (S. Dionigi. Ar. de div. Nom, 6. IV, § 13), come se Dio, in forza di questo amore, uscisse in qualche modo da se stesso verso l’oggetto delle sue compiacenze divine e si donasse a lui. – Abbiamo detto a lungo su quali basi e in che modo abbiamo Dio in noi. Anche se abbiamo avuto occasione di mostrare più di una volta come siamo in Lui, è ancora necessario mettere questa verità in una luce maggiore. Non c’è bisogno di lunghe considerazioni o di nuovi principi. Ripercorriamo semplicemente nella nostra mente ciò che Dio fa per i suoi figli e come li ami. « Dio non è lontano da ciascuno di noi, perché in Lui abbiamo vita, movimento ed essere » (Act. XVII, 28-28). – L’Apostolo, quando parlava così, si poneva soprattutto dal punto di vista dell’ordine naturale. Quanto più vere appariranno queste stesse parole se applicate all’ordine della grazia! – Sì, siamo in Dio: perché in quest’ordine Dio, Dio solo, non solo è la prima causa efficiente dei suoi doni, ma non c’è, né può esserci, nessun’altra causa principale con Lui. Se Egli si degna di impiegare le creature nell’opera della nostra santificazione, è come degli strumenti che da soli non hanno alcuna proporzione con l’effetto da produrre. Noi siamo in Dio: perché in quest’ordine Egli ci avvolge da ogni parte e nella nostra interezza, sostanza, facoltà spirituali, corpo medesimo; ci avvolge, io dico, e mille e mille altri con noi, nell’unità della stessa famiglia adottiva. Noi siamo in Dio, immersi e riscaldati nel suo cuore, perché Egli ci ama come suoi figli adottivi, come amici, come altri se stesso, fatti a sua immagine, generati dal suo seno paterno e vivi della sua vita. Noi siamo in Dio; perché se l’Apostolo San Paolo, nel suo amore per i fedeli di Corinto, poteva scrivere loro: « Vi porto nel mio cuore, in vita e in morte: o Corinzi il mio cuore si è dilatato per ricevervi » (II Cor., VIII, 3; VI, 11-12.), come potremmo essere allo stretto nel cuore del nostro grande Dio? Noi siamo in Dio: poiché Egli ci circonda con la sua potenza per proteggerci; con la sua infinita saggezza per dirigerci; con la sua misericordiosa bontà per inondarci di ineffabili benefici, mentre aspettiamo che ci porti nella sua eterna beatitudine che è Lui stesso, “intra in gaudium Domini tui“. (Matt. XXV. 23). Noi siamo in Dio: infatti, se lo amiamo come figli, questo amore ci condurrà naturalmente a Lui, poiché l’amore è estatico, cioè lega intimamente al suo oggetto sia i pensieri che i cuori di coloro che possiede (S. Thom. 1. 2, q. 28, a. 2 e. 3). – Questa mutua immanenza dei figli adottivi in Dio loro Padre, e del Padre nei figli, è il benedetto frutto millenario della preghiera del Figlio unigenito: « Come tu, Padre mio, sei in me e io in te, siano essi consumati in uno » (Gv. XVII. 21-23). E ancora: « Padre mio, voglio che là dove sono Io, siano con me anche quelli che Tu mi hai dato, perché vedano la gloria che Tu mi hai dato » (Ibib. 24). Ora, la dimora del Figlio è il seno del Padre (Gv. I, 18). – San Bernardo è ammirevole quando parla dell’immanenza reciproca che nasce dall’amore di Dio per la sua creatura e della creatura per il suo Dio. Dopo aver ricordato il famoso testo in cui Nostro Signore dice ai Giudei: « Io e il Padre mio siamo una cosa sola (unum) » (Gv. X, 30), continua in questi termini: « Poiché il Padre è nel Figlio e il Figlio nel Padre » nulla manca alla loro unità; essi sono veramente e perfettamente uno. L’anima, dunque, per la quale è bene aderire al Signore (Ps. LXXII, 28), non si lusinghi di essere perfettamente unita a Lui, finché non abbia sentito che inabiti in essa e che essa stessa abita in Lui. Non che essa sia allora una cosa sola con Dio, come il Padre e il Figlio sono una cosa sola, sebbene aderire a Dio sia essere un solo spirito con Lui (1 Cor. VI. 17). Questo l’ho letto, ma quello non l’ho mai letto. Io non parlo di me stesso, che non sono niente; ma nessuno in cielo o in terra, a meno che non sia un pazzo, oserebbe applicare a se stesso questa parola del Figlio unigenito: Io e il Padre siamo una cosa sola. – Eppure io, uomo fatto di polvere e di cenere, basandomi sull’autorità della Scrittura, non temo di dichiararmi un solo spirito con Dio; sì, lo dirò, se per segni certi so di aderire a Dio, come uno di quelli che, per la carità, dimorano in Dio e in cui Dio dimora… perché è di questa unione che sta scritto: « Chi aderisce a Dio è un solo spirito con Dio. » Che dunque? Il Figlio unigenito dice: « Io sono nel Padre e il Padre è in me » (Gv. XIV, 11), e noi siamo uno; e l’uomo a sua volta dice: « Io sono in Dio e Dio è in me, e noi siamo un solo spirito » (I Cor. VI, 17). – San Bernardo spiega poi magistralmente ciò che distingue la doppia immanenza: l’una fondata sull’unità della natura, l’altra sulla comunione delle volontà e dei cuori. Continua, parlando della seconda: « unione felice, se l’hai sperimentata, nulla, se la confronti con la prima. Lo sapeva per esperienza, colui che gridava: « È bene per me aderire a Dio » (Salmo, LXXII. 28). Sì, è buono, che si aderisca a Lui con tutto il cuore. Chi allora aderisce perfettamente a Dio? Colui che, dimorando in Dio, perché è amato da Dio, attira Dio in sé con un amore reciproco. Perciò, poiché l’uomo e Dio sono in ogni modo attaccati l’uno all’altro; poiché un amore reciproco e il più intimo, li fa passare, per così dire, l’uno nel grembo dell’altro, come si può dubitare che Dio sia nell’uomo e l’uomo in Dio?» (« Quis est qui perfecte adhæret Deo, nisi qui in Deo manens, tanquam dilectus à Deo, Deum nihilominus in se traxit vicissim diligendo. Ergo eum undique inhærent sibi homo et Deus, inhærent autem undique intima mutuaque dilectione, inviscerali alterutrum sibi, per hoc Deum in homine, et hominem in Deo esse haud dubie dixerim. » – S. Bernard. serm,. 71 in Cant. n. 6, 10.).

2. – Dalle considerazioni precedenti emerge una conclusione molto importante: non si può ammettere come assolutamente vera l’opinione che farebbe della missione dello Spirito Santo, o, il che equivale alla stessa cosa, della dimora della Trinità nelle anime, e di conseguenza dell’adozione, il privilegio esclusivo del Nuovo Testamento. Perché o dobbiamo negare la grazia santificante ai giusti che hanno preceduto la consacrazione della nuova legge con la morte del Salvatore, o questi giusti erano essi stessi i templi viventi dello Spirito Santo. È impossibile sfuggire a questo dilemma: perché questa dimora divina è essenzialmente legata al possesso della grazia. Come non c’è e non può esserci alcuna dimora soprannaturale della Trinità in un’anima, se non nella grazia e attraverso la grazia, così la stessa grazia presuppone assolutamente la presenza sostanziale di Dio, sia come suo principio efficiente, sia come termine a cui questa grazia unisce chi la possiede. Non c’è bisogno di ritornare su affermazioni pienamente dimostrate negli ultimi capitoli (L. IV, c. 3 in fine). Inoltre, non ci mancherebbero testimonianze esplicite, se avessimo bisogno di ricorrere ad esse, per rafforzare la nostra conclusione. Ecco, come esempio, un testo di Sant’Agostino che cito tanto più volentieri perché è esso stesso basato sull’autorità delle Scritture. Il grande Vescovo chiede quale significato si debba dare a queste parole dell’evangelista: « Lo Spirito Santo non era ancora stato dato, perché Gesù non era ancora entrato nella sua gloria ». – Cosa intendere con queste parole, se non che ci sarebbe stata, dopo la glorificazione di Cristo, una missione dello Spirito Santo, come quella che non aveva avuto luogo fino ad allora? Certo, lo Spirito Santo era già venuto, ma non in questo modo. Se non fosse stato dato fino a quel momento, che cos’è Colui che ha riempito i Profeti e li ha ispirati con oracoli divini? Non fu forse detto di Giovanni il Battista: « Egli sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre »? Non era forse Zaccaria, suo padre, anche lui pieno di Spirito Santo? Vogliamo negare questo Spirito divino a Maria, quando parla profeticamente del Figlio del suo grembo; a quei due santi vecchi, Anna e Simeone, quando riconoscono la grandezza del Cristo bambino? Non vedo cosa possa essere addotto per invalidare queste testimonianze della Scrittura. Il testo evangelico non ci permette di rispondere che si parli solo dell’operazione dello Spirito Santo per questi giusti, mentre poi a Pentecoste si fece presente con la sua propria sostanza. Come allora – egli continua – lo Spirito non è stato ancora dato, perché Gesù non era ancora glorificato? Perché questo dono o missione dello Spirito Santo doveva avere, nell’avvento promesso, una proprietà mai vista prima. Da nessuna parte, infatti, si legge che gli uomini, alla discesa dello Spirito Santo in loro, parlarono in lingue a loro sconosciute fino ad allora, come si vide nel giorno di Pentecoste » (S. Agostino de Trinit., L. 1, n°29; Cf. S. Leone M., Serm. de Pent. 3, a.1) Così, per S. Agostino la differenza non va cercata nella venuta dello Spirito Santo stesso, ma nella natura dei doni che lo accompagnano e lo manifestano. – Anche se l’opinione che ho riportato è inammissibile in sé, dobbiamo tuttavia riconoscere, dal punto di vista che ci occupa, una doppia prerogativa per la nuova Alleanza. È, prima di tutto, una verità del tutto indubbia che la inabitazione di Dio nelle anime e la missione dello Spirito Santo appartengano al Nuovo Testamento e non all’Antico, se consideriamo l’uno e l’altro in ciò che sono esclusivamente propri. L’antica Legge, da sola, era impotente a produrre la santità interiore che è la prerogativa e la norma dei figli di Dio. Essa generava per la servitù, in servitutem generans; e la sua missione pedagogica era di condurre gli uomini alla legge della grazia, a Cristo, (Galat., III, 24 – VI. 24 « Quamvis nec lex per Moysen data potuerit a quoquam homine regnum mortis auferre, erant amen et legis tempore homines Dei, non sub lege terrente, convincente, puniente, sed Sub gratia delectante, sanaute, tiberante. rant qui dicerent : côr mundum crea in me, Deus, et Spiritum rectum innova in visceribus meis, et Spiritu principali confirma me, et Spiritum sanctux tuum ne auferas à me… Neque enim qui nobis ista fideli dilectione prophetare potuerunt, eorum ipsi participes non fuerant.….. et illi per gratiam D. N. Jesu Christi Salvi facti Sunt, non per legem Moysi, per qua non sanatio sed cognitio facta est peccati. Nunc autem sine lege justitia Dei manifestata est. Si ergo nunc manifestata est, etiam tunc erat, sed occulta ». S. August., de Pecc. orig. cont. Pelag., n. 29). Se essi parteciparono, come noi, alla filiazione divina, è perché il Sangue della nuova alleanza che doveva scorrere un giorno, sul Calvario, si rifletteva in qualche modo sui credenti delle età precedenti per renderli, in anticipo, altrettanti Cristiani (August, Retract. I, c. 13). – Inoltre, per quanto abbondante possa essere stata l’effusione della grazia e dello Spirito Santo in alcuni dei giusti, poiché tuttavia, il prezzo della salvezza nostra non era ancora stato pagato; poiché Dio stava elargendo, come a credito, i benefici soprannaturali che dovevano essere acquistati dal sangue del Redentore; poiché  i nostri Sacramenti, queste fontane della grazia, non la versavano a fiotti; in una parola, poiché l’economia dei figli non aveva ancora sostituito quella degli schiavi della Legge, Dio versava comunemente la sua grazia con più parsimonia nei cuori. Ora, poiché l’inabitazione divina è commisurata alla grazia, ne consegue naturalmente anche che l’unione dello Spirito Santo con le anime dovesse essere, in generale, più rara e meno perfetta di quanto sia diventata sotto la nuova Legge. C’è ancora un’altra causa di inferiorità per i tempi che precedettero il Sacrificio cruento compiuto sul Calvario e la fondazione della Chiesa. È che la dimora di Dio nelle anime si presenta nel Cristianesimo con caratteristiche sconosciute ai tempi antichi. Da tempo immemorabile, l’uomo in stato di grazia è il tempio di Dio; ma chi può dire quanto più nobile e sacro sia diventato questo tempio da quando l’eterno Figlio di Dio ne abbia fatto la dedicazione con l’attuale aspersione del suo sangue divino? – Voi avete in voi la carità: siete per questo stesso fatto un tempio, e questo vi è comune con tutti i giusti; ma di quale maestà, di quali privilegi non si arricchisce questo tempio, incorporato com’è dal Battesimo nel tempio vivente che è l’umanità di Cristo; consacrato dall’olio santo nella Cresima; santificato nell’Eucaristia dalla carne stessa di Cristo, di cui diventa il tabernacolo; dedicato dall’Ordine a funzioni così sublimi che sarebbero l’invidia degli Angeli? – Ecco il tempio della nuova Alleanza, e la singolare dignità che ci autorizza a dire che la grazia dell’inabitazione divina è, in una maniera ed in una misura speciale, per i Santi e per il tempo della legge di Cristo, sebbene nella sostanza essa appartenga a tutti i Santi come a tutti i tempi (Cfr. Franzelin, de Deo trino, thes. 48; S, Thom. 1. p, q. 43, to. 6 ad 1; I D. 15, q. 5 a. 2.). Ora, quello che abbiamo detto sulla grazia e sul tempio deve essere inteso per adozione, poiché la qualità dei figli è proporzionata allo splendore dell’una e all’abbondanza dell’altra (Pur essendo in verità figli di Dio, aspettiamo l’adozione – Rom. VIII, 23 -, perché gemiamo in esilio, lontani dalla dimora e dall’eredità del Padre. Come noi non siamo ancora figli se paragonati ai beati abitanti del cielo, così i giusti vissuti prima di Cristo, per i quali il cielo era chiuso, possono essere chiamati servi e non figli, se paragonati a noi). – Tutta questa dottrina potrebbe essere confermata dall’autorità di mille testimonianze oltre a quelle già riportate (Cfr. ad esempio S. Leon. M., Serm. di Pent. 2, c. 3; 3, c. 1. S. Thom. 1 p. q. 95 a, 1, ad 2). Ma ne voglio aggiungere solo una, quella di Leone XIII, nella sua lettera Enciclica sullo Spirito Santo, dove è esposto con mirabile chiarezza. (« È verissimo che anche nei giusti vissuti prima di Cristo vi fu lo Spirito Santo con la grazia, come leggiamo dei profeti, di Zaccaria, del Battista, di Simeone e di Anna, giacché non fu nella pentecoste che lo Spirito Santo incominciò ad abitare nei Santi la prima volta, in quel dì accrebbe i suoi doni, mostrandosi più ricco, più effuso. (Leo M.. hom. 3 de Pentec.).Erano sì figli di Dio anch’essi, ma rimanevano ancora nella condizione di servi, perché anche il figlio « non differisce dal servo, finché è sotto tutela » (Gal. IV,1-2); e poi mentre quelli furono giustificati in previsione dei meriti di Cristo, dopo la sua venuta molto più abbondante è stata la diffusione dello Spirito Santo nelle anime, come avviene che la mercé vince in prezzo la caparra e la verità supera immensamente la figura. La qual cosa è espressa da san Giovanni là dove dice: « Non era ancora stato dato lo Spirito Santo, perché Gesù non era stato ancora glorificato » (Gv. VII, 39); ma non appena Cristo, “ascendendo al cielo”, ebbe preso possesso del suo regno, conquistato con tanti patimenti, subito ne « dischiuse con divina munificenza i tesori, spargendo sugli uomini i doni dello Spirito Santo » (Ef. IV, 8); non già che prima non fosse stato mandato lo Spirito Santo, ma certo non era stato donato come fu dopo la glorificazione di Cristo. La natura umana è essenzialmente serva di Dio: “La creatura è serva, noi per natura siamo servi di Dio“;anzi, infetta dall’antico peccato, la nostra natura cadde tanto in basso che noi divenimmo odiosi a Dio: « Eravamo per natura figli d’ira » (Ef. II, 3). E non vi era forza che bastasse a rialzarci da tanta caduta, a riscattarci dall’eterna rovina. Ma quel Dio, che ci aveva creati, si mosse a pietà, e per mezzo del suo Unigenito sollevava l’uomo ad un grado di nobiltà maggiore di quella donde era precipitato. (Aug. De. Trinit., L. IV, x. 20) » Encycl. Leonis XIII, Divinum illud munus 1897).

LA GRAZIA E LA GLORIA (23)

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

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