DOMENICA V DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA V DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti verdi.

La liturgia di questa Domenica è consacrata al perdono delle offese. La lettura evangelica mette in risalto questa lezione non meno che quella d’un passo delle Epistole di S. Pietro, la cui festa è celebra in questo tempo: infatti la settimana della V Domenica di Pentecoste era in altri tempi detta settimana dopo la festa degli Apostoli. – Quando David riportò la sua vittoria su Golia, il popolo d’Israele ritornò trionfante nelle sue città e al suono dei tamburi cantò: « Saul ha ucciso mille e David diecimila! ». Il re Saul allora si adirò e la gelosia lo colpì. Egli pensava: « Io mille e David diecimila: David è dunque superiore a me? Che cosa gli manca ormai se non d’essere re al mio posto? » Da quel giorno lo guardò con occhio malevolo come se avesse indovinato che David era stato scelto da Dio. Così la gelosia rese Saul cattivo. Per due volte mentre David suonava la cetra per calmare i suoi furori, Saul gli lanciò contro il giavellotto e per due volte David evitò il colpo con agilità, mentre il giavellotto andava a conficcarsi nel muro. Allora Saul lo mandò a combattere, sperando che sarebbe rimasto ucciso. Ma David vittorioso tornò sano e salvo alla testa dell’esercito. Saul allora ancor più perseguitò David. Una sera entrò in una caverna profonda e scura, ove già si trovava David. Uno dei compagni disse a quest’ultimo: « È il re. Il Signore te lo consegna, ecco il momento di ucciderlo con la tua lancia ». Ma David rispose: « Io non colpirò giammai colui che ha ricevuto la santa unzione e tagliò solamente con la sua spada un lembo del mantello di Saul e uscì. All’alba mostrò da lontano a Saul il lembo del suo mantello. Saul pianse e disse: « Figlio mio, David, tu sei migliore di me ». Un’altra volta ancora David lo sorprese di notte addormentato profondamente, con la lancia fissata in terra, al suo capezzale e non gli prese altro che la lancia e la sua ciotola. E Saul lo benedisse di nuovo; ma non smise per questo di perseguitarlo. Più tardi i Filistei ricominciarono la guerra e gli Israeliti furono sconfitti; Saul allora si uccise gettandosi sulla spada. Quando apprese la morte di Saul non si rallegrò ma, anzi, si stracciò le vesti, fece uccidere l’Amalecita che, attribuendosi falsamente il merito di avere ucciso il nemico di David, gli annunciò la morte apportandogli la corona di Saul, e cantò questo canto funebre: « O montagne di Gelboe, non scenda più su di voi né rugiada, né pioggia, o montagne perfide! Poiché su voi sono caduti gli eroi di Israele, Saul e Gionata, amabili e graziosi, né in vita, né in morte non furono separati l’uno dall’altro » (Bisogna riaccostare questo testo a quello nel quale la Chiesa dice, in questo tempo, che S Pietro e S. Paolo sono morti nello stesso giorno). – Da tutta questa considerazione nasce una grande lezione di carità, poiché come David ha risparmiato il suo nemico Saul e gli ha reso bene per male, così Dio perdona anche ai Giudei; non ostante la loro infedeltà, è sempre pronto ad accoglierli nel regno ove Cristo, loro vittima, è il Re. Si comprende allora la ragione della scelta dell’Epistola e del Vangelo di questo giorno: predicano il grande dovere del perdono delle ingiurie… « Siate dunque uniti di cuore nella preghiera, non rendendo male per bene, né offesa per offesa » dice l’Epistola. « Se tu presenti la tua offerta all’altare, dice il Vangelo, e ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia la tua offerta davanti all’altare, e va prima a riconciliarti con tuo fratello ». — David, unto re di Israele. dagli anziani a Ebron, prende la cittadella di Sion che divenne la sua città, e vi pose l’arca di Dio nel santuario (Com.). Fu questa la ricompensa della sua grande carità, virtù indispensabile perché il culto degli uomini nel santuario sia gradito a Dio (id.). Ed è per questo che l’Epistola e il Vangelo ribadiscono che è soprattutto quando noi ci riuniamo per la preghiera che dobbiamo essere uniti di cuore. Senza dubbio la giustizia di Dio ha i suoi diritti, come lo mostrano la storia di Saul e la Messa di oggi, ma se esprime una sentenza, che è un giudizio finale, è soltanto dopo che Dio ha adoperato tutti i mezzi ispirati dal suo amore. Il miglior mezzo per arrivare a possedere questa carità è d’amare Dio e di desiderare i beni eterni (Or.) e il possesso della felicità (Epist.) nella dimora celeste (Com.), ove non si entra se non mediante la pratica continua di questa bella virtù.

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVI: 7; 9 Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus.

[Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Ps XXVI: 1 Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timébo?

[Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò?]

Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus.

[Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Oratio

Orémus.

Deus, qui diligéntibus te bona invisibília præparásti: infúnde córdibus nostris tui amóris afféctum; ut te in ómnibus et super ómnia diligéntes, promissiónes tuas, quæ omne desidérium súperant, consequámur.

[O Dio, che a quanti Ti amano preparasti beni invisibili, infondi nel nostro cuore la tenerezza del tuo amore, affinché, amandoti in tutto e sopra tutto, conseguiamo quei beni da Te promessi, che sorpassano ogni desiderio.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet III: 8-15

“Caríssimi: Omnes unánimes in oratióne estóte, compatiéntes, fraternitátis amatóres, misericórdes, modésti, húmiles: non reddéntes malum pro malo, nec maledíctum pro maledícto, sed e contrário benedicéntes: quia in hoc vocáti estis, ut benedictiónem hereditáte possideátis. Qui enim vult vitam dilígere et dies vidére bonos, coérceat linguam suam a malo, et lábia ejus ne loquántur dolum. Declínet a malo, et fáciat bonum: inquírat pacem, et sequátur eam. Quia óculi Dómini super justos, et aures ejus in preces eórum: vultus autem Dómini super faciéntes mala. Et quis est, qui vobis nóceat, si boni æmulatóres fuéritis? Sed et si quid patímini propter justítiam, beáti. Timórem autem eórum ne timuéritis: et non conturbémini. Dóminum autem Christum sanctificáte in córdibus vestris.”

[Carissimi: Siate tutti uniti nella preghiera, compassionevoli, amanti dei fratelli, misericordiosi, modesti, umili: non rendete male per male, né ingiuria per ingiuria, ma al contrario benedite, poiché siete stati chiamati a questo: a ereditare la benedizione. In vero, chi vuole amare la vita e vedere giorni felici raffreni la sua lingua dal male e le sue labbra dal tesser frodi. Schivi il male e faccia il bene, cerchi la pace e si sforzi di raggiungerla. Perché gli occhi del Signore sono rivolti al giusto e le orecchie di lui alle loro preghiere. Ma la faccia del Signore è contro coloro che fanno il male, E chi potrebbe farvi del male se sarete zelanti del bene! E anche se aveste a patire per la giustizia, beati voi! Non temete la loro minaccia, e non vi turbate: santificate nei vostri cuori Gesù Cristo”].

[A. Castellazzi: La scuola degli Apostoli – Sc. Tip. Vescov. Artigianelli, Pavia, 1929]

LA PACE

Anche l’Epistola di quest’oggi è tolta dalla I. lettera di S. Pietro. È naturale che, scrivendo ai Cristiani dispersi dell’Asia minore, tenga sempre presente la condizione in cui si trovano: sono pochi fedeli tra numerosi pagani, e sono sotto la persecuzione di Nerone. Come devono diportarsi? devono vivere in stretta unione fra di loro, mediante la misericordia, la compassione, la condiscendenza; essendo stati chiamati al Cristianesimo a render bene per male, affinché abbiano per eredità la benedizione celeste. Non trattino con la stessa misura quelli che fanno loro del male. La vita felice è per chi raffrena la lingua, evita il male e procura di aver pace con il prossimo. Del resto i giusti non sono abbandonati dal Signore, e nessuno può loro nuocere, se sono zelanti del bene. Quanto alla persecuzione, beati loro se hanno a soffrire qualche cosa per la Religione cristiana. Siano, quindi, calmi, senza ombra di timore: onorino, invece, e temano Gesù Cristo. Anche noi, dobbiamo procurare di vivere una vita felice, per quanto è possibile tra le miserie e le persecuzioni di questo mondo. Sforziamoci di vivere in pace, ciò che ci è possibile con l’aiuto di Dio, anche tra le tempeste di quaggiù.

Graduale

Ps LXXXIII: 10; 9

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice super servos tuos.

[O Dio, nostro protettore, volgi il tuo sguardo a noi, tuoi servi]

V. Dómine, Deus virtútum, exáudi preces servórum tuórum. Allelúja, allelúja

[O Signore, Dio degli eserciti, esaudisci le preghiere dei tuoi servi. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XX: 1

Alleluja, alleluja Dómine, in virtúte tua lætábitur rex: et super salutáre tuum exsultábit veheménter. Allelúja.

[O Signore, nella tua potenza si allieta il re; e quanto esulta per il tuo soccorso! Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt. V: 20-24

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Nisi abundáverit justítia vestra plus quam scribárum et pharisæórum, non intrábitis in regnum coelórum. Audístis, quia dic tum est antíquis: Non occídes: qui autem occídent, reus erit judício. Ego autem dico vobis: quia omnis, qui iráscitur fratri suo, reus erit judício. Qui autem díxerit fratri suo, raca: reus erit concílio. Qui autem díxerit, fatue: reus erit gehénnæ ignis. Si ergo offers munus tuum ad altáre, et ibi recordátus fúeris, quia frater tuus habet áliquid advérsum te: relínque ibi munus tuum ante altáre et vade prius reconciliári fratri tuo: et tunc véniens ófferes munus tuum.”

(In quel tempo: Gesù disse ai suoi discepoli: Se la vostra giustizia non sarà stata più grande di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei Cieli. Avete sentito che è stato detto agli antichi: Non uccidere; chi infatti avrà ucciso sarà condannato in giudizio. Ma io vi dico che chiunque si adira col fratello sarà condannato in giudizio. Chi avrà detto a suo fratello: raca, imbecille, sarà condannato nel Sinedrio. E chi gli avrà detto: pazzo; sarà condannato al fuoco della geenna. Se dunque porti la tua offerta all’altare e allora ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta all’altare e va prima a riconciliarti con tuo fratello, e poi, ritornato, fa la tua offerta).

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956).

A PROPOSITO DELLA CARITÀ CRISTIANA

« A proposito della carità cristiana, come stai di coscienza? ». « Quanto alla carità sono a posto: io non faccio del male a nessuno, sono gli altri invece che ne vogliono a me e me ne fanno; non tocco mai roba d’altri, sono gli altri che non rispettano la mia ». Se anche noi siamo tra questi che alla svelta e alla buona accomodano la coscienza su un punto estremamente delicato, rischiamo, secondo il Vangelo di questa Domenica, di finire in compagnia degli Scribi e dei Farisei. Dice infatti Gesù: « Se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli Scribi e dei Farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Sapete che fu detto in antico: non uccidere, se non vuoi essere condannato. — Ma io vi dico che non basta più non uccidere per non essere condannati: bisogna non adirarsi, non insultare, non tenere rancore. Con questi sentimenti in cuore nessuno può degnamente avvicinarsi all’altare: ritorni indietro prima a riconciliarsi col suo fratello, e poi s’accosti al Signore ». La legge antica di Mosè, scritta per un popolo fanciullo e rozzo, colpiva gli atti e le abitudini esteriori; la legge nuova di Gesù, data ad uomini spiritualmente più sviluppati, colpisce più interiormente. Non basta tagliare la pianta, bisogna svellere dal suolo le recondite radici che la possono rigenerare. Le radici dell’omicidio o d’ogni rissa brutale e cruenta sono la collera e il rancore covati nell’animo. Gesù colpisce il peccato alla sua radice. Osserviamo con umile attenzione il nostro cuore, esaminando se non vi siano rimaste propaggini maligne o parassite pronte a esplodere in parole e in atti che offendono la carità. – Distinguerò tre qualità di cuori umani: cuore malevolo, un poco simile a quello dei farisei, che non fa il male, ma forse lo desidera e ha invidia del bene; cuore benevolo, simile a quello umile e mite di Gesù, pronto a compatire, aperto al soccorso generoso; tra questi due v’è il cuore indelicato che non ha sentimenti maligni, ma neanche le finezze della bontà cristiana. – 1. CUORE MALEVOLO. È quello che si fa un male del bene altrui: come Caino che si rodeva il cuore per la fortuna che toccava ai sacrifici di suo fratello, che riuscivano graditi a Dio. È quello che si fa una malattia della salute altrui: par quasi che il benessere degli altri sia sottratto a lui. È quello che si fa un’umiliazione delle lodi altrui: le sente come un’ombra che oscura le sue ostentate qualità, vorrebbe dissiparle rivelando difetti nascosti, colpe passate, ma senza farsi accorgere del suo malanimo. È quello che si sente lieto quando sopraggiunge qualche danno al prossimo e magari lo compiange ma con parole che nel loro tono tradiscono il maligno piacere che dentro gusta. Agli occhi di chi ha il cuore malevolo le virtù del prossimo prendono l’aspetto odioso del vizio. Ecco una persona pia che frequenta la Chiesa, e vive raccolta e laboriosa nella sua casa: ma agli occhi del malevolo essa è una bigotta ammuffita. Ecco una persona generosa che volentieri offre per le opere buone della parrocchia, per i poveri, per le missioni; ma agli occhi del malevolo essa è una vanitosa che desidera comparire e aspira a qualche ufficio onorifico. Se una persona è prudente e riservata per non mordere la fama di nessuno, subito vien giudicata doppia e infingarda. – 2. CUORE INDELICATO. Senza essere avviluppati da queste malevole radici, ci sono però molti cuori che non hanno delicatezza alcuna verso il prossimo e i suoi diritti. Pagano sempre i loro debiti, è vero: ma non si fanno scrupolo di pagare il più presto possibile, di regolare senza dilazioni infinite la fattura del commerciante. Non pensano gli incomodi che recano, i crucci che impongono, le bestemmie che fanno dire. Altri hanno l’istinto dell’onestà e non ruberebbero un quattrino. Ma se nel saldare un conto s’accorgono d’uno sbaglio in loro vantaggio, si guardano bene dall’avvisare, o dal portare indietro quelle lire che sono tenute indebitamente. Così senza rimorsi rimettono in circolazione le monete false, ingannando gli altri con la scusa di essere stati a loro volta ingannati. Altri ancora non defraudano la mercede agli operai o ai servi; ma credono d’essere furbi economi quando riescono a far lavorare il più possibile e a pagare il meno possibile, approfittando di circostanze speciali per sfruttare il dipendente. Non è economia questa, ma nel Cristianesimo si chiama ingiustizia. Ci sono di quelli che non maltrattano i loro dipendenti: ma non una parola di correzione spirituale, d’amore, di elevazione. Eppure, quanto bene potrebbero fare per la loro posizione sociale se provvedessero un poco anche all’educazione morale delle persone a loro sottomesse! E riguardo all’elemosina non c’è forse molto da rimproverarci? Se si scorge un povero per strada si passa a tempo sul marciapiede opposto e si volge altrove lo sguardo. Se gira di casa in casa la questua per qualche opera urgente della parrocchia, o raccomandata dall’Arcivescovo o dal Papa, ci sono porte sorde che non sentono battere. Ed è Cristo sofferente che chiede per via, è Cristo bisognoso che batte alla porta. – 3. CUORE BENEVOLO. Il gesto della donna pietosa che uscì incontro a Gesù grondante sudore e sangue, e gli asciugò col suo bianco lino il volto adorabile, non sarà più dimenticato. Ma anche la delicata giustizia, la fine carità con cui i cuori benevoli trattano e consolano il prossimo, non sarà mai dimenticata da Gesù. Il Cristiano sa bene che nel prossimo è ancora Gesù, quel Gesù che ha detto di fare agli altri come vorremmo che gli altri facessero a noi; e che ogni delicatezza usata verso il più misero degli nomini la riterrà rivolta verso di Lui. Due cose sa fare il cuore benevolo per conservare la pace, per diffondere la gioia in mezzo al prossimo. Sa sopportare, scusare, accettare volentieri e quasi con gioia tutti quei contrasti che dipendono da diversità di carattere. Soltanto facendo così è possibile la concordia nelle famiglie e tra gli amici. Sa inoltre sopportare, accogliere, accettare volentieri con indulgente affetto i contrasti voluti dal prossimo, non senza qualche malizia. Il cuore benevolo vince il male col bene. – S. Francesco di Paola fabbricava il suo monastero. Egli stesso lavorava come un semplice operaio. Un giorno, che trasportava sulle spalle una trave enorme, incontrò un amico pure gravato d’un peso. « Aiutami, amico! » supplicò il santo. Ma l’altro gli rispose: « Come volete che v’aiuti se io stesso sono insufficiente a portare il mio peso? ». Il santo insisté: « Aiutami, non essere di così poca fede! ». L’altro impietosito lasciò appoggiare la cima della trave enorme sulla sua spalla e la sentì leggera e sopportabile. Anzi sentì che anche il suo peso si era fatto lieve e con sua meraviglia s’accorgeva di camminare più speditamente di prima. Cristiani, se vogliamo che la vita ci diventi facile e gioiosa, curviamoci con carità cristiana verso il peso dei nostri fratelli. – – IL PERDONO. Qual è il comandamento più difficile della nostra santa religione? Non la verginità. Gesù l’ha insegnata ma non l’ha imposta a tutti. Le anime generose sono libere di consacrarsi a Dio attraverso questo occulto martirio. Non la povertà. Se Gesù dalla montagna disse che i poveri son beati, non comandò però che tutti vendessero la loro roba per distribuire il danaro ai poveri, ritirarsi poi negli eremi o nei conventi. Il comandamento più difficile del Cristianesimo è l’amore dei nemici. Questo è per tutti: non solo i frati, non solo le monache, ma tutti devono amare e perdonare ai loro nemici. – Gesù diceva alle turbe: « Avete sentito che bisognava amare il prossimo e si poteva odiare il nemico; ma Io vi dico: amate i vostri nemici, beneficate quelli che vi odiano, pregate per i vostri persecutori e calunniatori. Se la vostra giustizia sarà solo come quella dei farisei che amano gli amici e odiano i nemici, non entrerete mai nel paradiso. E quand’anche venite all’altare, con nelle mani un dono e con nel cuore un astio, tornate pure indietro che la vostra supplica non sarà ascoltata fin tanto che non avrete pace col vostro fratello ». Vade reconciliari fratri tuo. E non dice Cristo: … reconciliari inimico tuo perché tra i Cristiani, figli del medesimo Dio di carità, non dovrebbe esistere nemmeno la parola nemico, ma solo quella di fratello. Se alcuno nel suo cuore nutre un rancore, consideri come l’esempio di Dio, l’esempio dei santi, il nostro guadagno stesso ci spingono a perdonare. – 1. L’ESEMPIO DI DIO. Un re volle un giorno tirare i conti con i ministri. E cominciò da uno che gli doveva mille talenti; ma il poveretto non aveva nemmeno il becco di un quattrino. Il re, come era legge, comandò che fosse venduto lui, la sua donna, i suoi figli, la sua roba. Lo sventurato si buttò a terra, s’aggrappò ai ginocchi del sovrano, e tra i singhiozzi giurava che gli avrebbe reso fino l’ultimo soldo, purché avesse avuto pazienza d’aspettare. Il re, che aveva un Cuor d’oro, non solo pazientò un poco, ma sempre: e gli condonò tutto il debito. Quel ministro fece un salto di gioia e uscì. Combinazione volle che incontrasse un suo collega che gli doveva una somma di denari. Vederlo, saltargli addosso, fu la medesima cosa. E tenendolo per la strozza gli urlava negli orecchi: « Pagami, che è ora ». Quel servo, soffocato e nero in quella morsa, gemeva : « Porta pazienza e vedrai che ti pagherò proprio tutto ». Ma il ministro lo fece imprigionare (Mt., XVIII).  Questa limpida parabola del Signore ci presenta come in uno specchio l’esempio della generosità di Dio e della grettezza umana. Estote misericordes sicut et Pater vester misericors est (S. Lc., VI, 36). Siate misericordiosi come Dio. Come Dio che pendente dalla croce, schernito e scarnificato, stende le sue braccia per stringere in un palpito d’amore i suoi crocifissori e grida: « Padre, perdona! ». Solo Dio poteva dare quest’esempio. E ce lo diede affinché gli uomini imparassero. Ma se gli uomini non l’impareranno, neppure a loro verrà perdonato. – 2. L’ESEMPIO DEI SANTI. Perché l’esempio di un Dio non sembrasse a taluni troppo lontano dalla natura nostra piccina, il Signore suscitò i Santi a praticare il comandamento dell’amore più sublime. E Santo Stefano, lapidato fuori le mura della città, congiunse le mani e pregò per quelli che l’uccidevano. E Sant’Ambrogio, per molti anni, diede il vitto ad uno che l’aveva aggredito. E san Carlo perdonò all’uomo brutale che aveva sparato contro di lui mentre pregava la Vergine nella cappella. E sublime è pure il perdono di S. Giovanna d’Arco, la fanciulla venuta di Lorena a salvare la Francia dagli Inglesi. La povera Giovanna, dopo aver levato l’assedio d’Orléans, dopo aver condotto Carlo VII di trionfo in trionfo fino all’incoronazione di Reims, fu disprezzata, abbandonata e tradita. Dio ormai le significava che la sua missione era compiuta: solo, mancava il supremo sacrificio della vita. A Compiégne fu fatta prigioniera, venduta agli Inglesi, che la condannarono al rogo. Ed apparve sulla piazza a Rouen a solo diciott’anni condannata a morire e non tremava: e non venne nessun francese a salvarla, e non venne il re a salvarla; il re banchettava lontano senza un palpito di compassione per la fanciulla venuta di Lorena a salvare la Francia e la corona. Quando le fiamme avvolsero in una tormentosa aureola quelle membra innocenti, ella alzò gli occhi pieni di speranza, e gridò a voce alta che perdonava al re, ai Francesi, ed anche agli Inglesi che la bruciavano. Si isti et istæ cur non ego? Ma io non posso vincere la ripugnanza che sento a perdonare a quella persona …  » — Esagerazione, risponde S. Gerolamo, Dio non comanda cose impossibili. Ma quella persona mi ha fatto del male! ». — Non c’è bisogno di perdonare a quelli che ci fan del bene. « Ma cosa dirà il mondo? ». — Dirà che siete un Cristiano. « Ma il mio onore? ». — Il vostro onore è nell’obbedienza a Dio. « Ma quella persona non merita il mio perdono! ». — L’ha meritato Gesù Cristo. Non dobbiamo perdonare perché meritano il nostro, perdono, ma perché Gesù Cristo l’ha detto: Ego autem dico vobis: diligite inimicos vestros.« Ma approfitterà del mio perdono per diventar peggiore ».— Sia pure: ma voi diventate migliore. – 3. IL NOSTRO GUADAGNO. Plinio racconta che Druso, tribuno della plebe, odiava Quinto Cepione; andava lungo il Tevere meditando la vendetta; voleva ucciderlo, voleva coprirlo di calunnie. E l’odio l’accecò: volle bere il veleno, pensando che tutto il popolo avrebbe imputato la sua morte a Quinto, e ne avrebbero fatto giustizia sommaria. Chi non perdona è stolto come Druso, e ingoia la sua condanna: una triplice condanna. La condanna da parte di Dio, perché viola il suo comando principale. Mihi vindicta (Ebr., X, 30). La condanna da parte di Cristo, perché rifiuta il distintivo dei suoi discepoli. hoc conognoscent omnes quia discipuli mei estis. (Giov., XIII, 35). La condanna da parte di noi stessi, ed ogni volta che preghiamo ripetiamo la condanna. Dimitte nobis sicut et nos dimittimus (Mt., VI, 12). E Dio dirà: De ore tuo, te iudico. Dopo che Giuseppe ebbe sepolto le ossa del vecchio padre sulla terra di Chanaan, ritornò in Egitto con i fratelli. Ma questi cominciarono a temere: « Chi sa dicevano, che morto il padre, non si abbia a ricordare dell’antica ingiuria e non voglia renderci tutto il male che abbiamo fatto? » (Genesi, L, 14-17). E, tremando, gli mandarono a dire: « Tuo padre, morendo, ti chiamava per nome per scongiurarti di perdonare ai tuoi fratelli… È tuo padre morente che ti prega… » Giuseppe, al ricordo del padre morto, scoppiò in lacrime, e disse: « Non temete: Io nutrirò voi e i vostri figli ». Cristiani, che nel cuore, forse da anni, nutrite un astio, o un odio, o una vendetta contro il vostro prossimo, perdonate! È Gesù Cristo morente che ve lo manda a dire. — I PECCATI CONTRO IL PROSSIMO. Oltre all’omicidio e al furto ci sono altri peccati che offendono il prossimo, e ci tolgono la grazia. Udite la parola di Gesù: « Se la vostra giustizia sarà appena come quella degli Scribi e dei Farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete sentito che c’è un comandamento: non uccidere: chi uccide è reo di giudizio. Ma io vi dico che basta essere in ira col proprio fratello per diventare colpevoli. Basta dirgli un insulto per essere condannati. Basta un’ingiustizia per meritarsi il fuoco della geenna. Se taluno nell’avvicinarsi all’altare sentirà d’aver qualche cosa contro il suo prossimo, prima vada a far pace, e poi ritorni a far l’offerta, che allora soltanto sarà gradita ». Dunque, in noi nulla deve essere ostile al prossimo: non il cuore, non la mente, non la bocca. Non il cuore con l’odio, non la mente col giudizio temerario, non la bocca con la mormorazione e la calunnia. Questo è l’insegnamento nuovo di Gesù. Chi lo rifiuta, non è Cristiano, perché i Cristiani — secondo la definizione di Cristo — son quelli che si amano tra di loro. – 1. NON IL CUORE CON L’ODIO. La mattina della Pentecoste del 1066, per ragione della sua fede, il diacono Arialdo fu orribilmente percosso e ferito nella chiesa della Metropolitana, così che per la città s’era sparsa la voce che fosse morto. Gli amici del santo ed i suoi seguaci, riavutisi dal primo sgomento, accorrono a salvarlo. Insanguinato e fuori dei sensi lo trasportano nella vicina chiesa di Rosone, ora detta di S. Sepolcro. Intanto, sotto l’atrio e sulla piazza, s’affollano migliaia di ardenti e valorosi Milanesi, in arme, pronti a combattere per la salute d’Arialdo e per l’integrità della fede cattolica e romana. Già da tutti si anelava alla rivincita, già Erlembaldo Cotta « che aveva gli occhi d’aquila e il petto di leone » sventolava il temuto vessillo di Pietro, simbolo certo di vittoria, già si pregustava il piacere di una giusta vendetta, quando apparve in mezzo Arialdo. Aveva fasciata la testa e ancora grondava sangue. « Figliuoli! » gridò, reggendosi a stento sulla persona dolorante. « Figliuoli, amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano. Per il grande mistero che oggi celebriamo, per il precetto che Cristo ci diede, vi prego e vi comando: deponete le armi. Fate la pace ». (PELLEGRINI, I santi Arialdo ed Erlembaldo, pag. 320). Ecco come agivano i santi! Ecco come dobbiamo agire noi, se, come i santi, vogliamo essere gli imitatori di Gesù. Le cause principali dei rancori che dividono gli uomini sono tre: l’antipatia, l’interesse, la superbia. a) Io non gli perdono, — dicono alcuni — perché ha un carattere che m’è insopportabile, la mia anima si ribella al solo vederlo ». Un Cristiano non si deve lasciar guidare dalla simpatia o dal bello o dal brutto umore, ma bensì da principii di fede. E la fede c’insegna che per quanto ci spiaccia, per quanto non sia di nostro gusto, tuttavia è nostro fratello, come noi è figlio di Dio, come noi è cittadino del cielo, come noi salvato da Gesù, come noi erede delle eterne promesse. b) « Io non gli perdono, — dicono altri ancora — perché mi ha rovinato negli interessi, ha rubato il pane a’ miei figlioli, ha tentato di rovesciare la mia fortuna ». Sia pure: ma alimentando l’odio in cuor vostro, credete forse di guadagnare? Per consolarvi dei mali patiti, ve ne aggiungete un altro e gravissimo: la perdita della vostra anima. Sì, perché sta scritto che colui che non perdona, non sarà perdonato. Per vendicarsi di un’eredità terrena che vi è stata contesa, voi rifiutate la eredità eterna. c) « Io non gli perdono, — dicono infine altri — perché mi ha disonorato in pubblico e in privato: ha divulgato ciò che era segreto, mi ha addossato colpe immaginarie ». Prima di tutto domandatevi se il vostro prossimo non abbia diritto di muovere questi medesimi rimproveri contro di voi, domandatevi se non avete mai malignato sulla buona fama degli altri. E poi, con l’odio, potete cancellare le impressioni sinistre che quei discorsi hanno diffuso? Non è forse meglio rispondere alle cattive lingue col mostrare una condotta irreprensibile piuttosto che col rancore? Certo che perdonare ai nostri offensori, chiunque siano, è un atto che costa. Se non costasse nulla non c’era nemmeno bisogno che Gesù Cristo ce ne facesse un comandamento. – 2. NON LA MENTE CON IL GIUDIZIO TEMERARIO. Un arguto filoso cinese (Lich Tze) ci racconta questo casetto: « Un tale che aveva perduto un’accetta cominciò a nutrire dei sospetti sul figlio del vicino. Senza farsi accorgere, lo teneva d’occhio: il modo di camminare, l’aspetto, le parole, le movenze, gli sembravano proprio quelle di un ladro. Non c’era nemmeno da dubitare. Per caso un giorno, vuotando la fossa del concime, ritrovò l’accetta perduta. Allora tornò a guardare il figlio del vicino: il modo di camminare, l’aspetto, le parole, le movenze, gli sembrano in tutto e per tutto quelle di un gentiluomo ». Credo che non solo in Cina, ma anche altrove avvenga così. È troppo facile lasciarsi andare a giudizi precipitati! Si incontra, in un giorno d’allegria, un uomo un po’ alticcio, e subito si dice: quello è un ubriacone. Una mancanza che pensavamo fatta in segreto viene a sapersi in pubblico; si sospetta di qualche persona e subito si giudica: è una spia. Si è vista, una volta o due, una donna che nelle strette della miseria ha preso qualche frutto dal campo d’un vicino, e tosto si pensa: è una ladra. C’è un povero che sul cammino ci domanda un soldo d’elemosina, lo si guarda e si conclude: — deve essere un impostore che al suo paese ha casa e terra al sole — e non gli si dà niente. Ebbene, quelli che si comportano così hanno la mente contraria al prossimo. « Perché giudichi il tuo fratello? — scrive S. Paolo. — Perché lo disprezzi? Chi te ne ha dato il diritto? Un giorno tutti staremo alla pari davanti al tribunale di Cristo » (Rom., XIV, 10). Non giudicare che allora non sarai giudicato. – 3. NON LA BOCCA CON LA MORMORAZIONE. Inventare un difetto o una colpa, per togliere l’onore al prossimo, è un atto così vile e ripugnante, di cui tutti sentono la gravità. Invece non tutti sentono la gravità della mormorazione. « Ma io ho detto soltanto la verità ». Non basta per iscolparti. Quante cose, pur vere, sul conto tuo che non vuoi che gli altri mettano in circolazione! « Ma erano cose che si sapevano già da tutti ». Se si sapevano da tutti, era proprio inutile che le avessi a contare un’altra volta. E invece tu hai goduto delle cadute altrui, tu con piacere diabolico le vai dipingendo a vivi colori dinanzi agli occhi degli altri. È un peccato di superbia la mormorazione; perché ci svela la pagliuzza che è nell’occhio del prossimo e ci nasconde la trave ch’è nel nostro. È un peccato di bassa invidia, perché ci spinge a macchiare e sminuzzare l’onore di quelle persone che ci fanno ombra. È una malignità a sangue freddo, perché va a colpire una persona assente che non può difendersi. È un peccato di scandalo, perché trascina al male quelli che ascoltano. È un peccato d’ingiustizia perché ruba al prossimo quello che gli è più caro: l’onore. Quando la lingua diventa nera e virulenta — ha detto un medico dell’antichità — la morte è vicina. Ebbene, si vedono persone che vanno in chiesa, ascoltano la Messa, recitano il Rosario: eppure la loro lingua è nera per la mormorazione e velenosa come un serpente. Cattivo segno, perché sulla loro anima sta la condanna di Gesù: Reus erit gehennæ ignis. – Condussero davanti a Gesù un’anima caduta in grave peccato. Gesù poteva odiarla perché aveva offeso la sua divina maestà; poteva giudicarla perché aveva infranto la legge più sacra; poteva parlare male di lei che male aveva agito. Eppure si curva sulla terra in un silenzio grande. « Pronuncia la tua sentenza, Maestro! » urlavano gli Scribi e i Farisei. Costretto da quelle insistenze, il Signore si drizza ed esclama: « Chi tra voi è senza peccato, per primo scagli la pietra contro di lei ». O Cristiani! se ancora non vi siete persuasi che nulla in voi vi deve essere contrario all’amore del prossimo, né il cuore né la mente né la bocca, io vi ripeterò la parola di Gesù: « Se la vostra coscienza non vi rimprovera nulla davanti a Dio, scagliate pure la vostra pietra contro il vostro fratello ». – Ma perché questa condanna d’insufficienza alla giustizia degli Scribi e dei Farisei? Per due motivi che raccomando alla vostra attenzione: 1) perché curavano soltanto le apparenze; 2) perché dicevano e non facevano. – 1. CURAVANO SOLTANTO LE APPARENZE In una delle sue prediche, S. Antonio di Padova raccontava questo episodio. Una giovane figliuola commise un giorno un peccato molto grave che la gettò in uno stato indicibile d’amarezza, di confusione, di inquietudine. « Come avrò io il coraggio di raccontare questa nefandezza al mio confessore? Che penserà di me? Che dirà egli? ». Intanto si confessa senza dire tale colpa: si accosta sacrilegamente alla santa Comunione, lacerata da terribili rimorsi. Si trova come in un inferno. Agitata giorno e notte dai rimproveri della coscienza e dal timore di dannarsi, per esserne liberata si dà alle lagrime, ai digiuni, alla preghiera… ma invano! La memoria dei suoi sacrilegi le sta sempre nel cuore come una lama che tremi nella piaga. Le viene il pensiero di entrare in convento, farsi monaca ed ivi fare una confessione generale; e infatti vi entra e comincia la confessione. Ma tosto assalita dalla vergogna, accenna alla sua colpa in una maniera così indeterminata che il confessore non poté capir nulla. La sua agitazione divenne insopportabile, e implacabile, per quanto facesse di penitenze e di preghiere. E tutte le sue consorelle la stimavano per una santa; a lei ricorrevano per consigli e direzione e finalmente la elessero loro superiora. Continuando in questa vita ipocrita, fu sorpresa da grave malattia e ridotta in fin di vita. Poteva confessarsi, almeno allora, ma non lo fece per la maledetta vergogna di farsi conoscere così come era. Qualche giorno dopo la sua morte, stando le religiose in orazione per lei, apparve loro in sembianze orribili e disse: « Mie sorelle, non pregate per me; io sono dannata all’inferno per aver sempre taciuto un peccato commesso nell’età di diciotto anni e per essermi tante volte accostata sacrilegamente alla santa Comunione ». Che cosa le era giovata tutta l’ammirazione e la stima delle sue consorelle? Cosa le era fruttato l’essere stata eletta superiora con quei sacrilegi sull’anima? E che importa a noi apparire esternamente buoni, zelanti della legge di Dio, quando nel cuore avessimo il peccato, l’inclinazione sempre assecondata al vizio? Anche le tombe all’esterno sono sontuose, forse artistiche e di grande valore: ma a che serve questa arte per colui che vi è sepolto? Vi accontentereste voi di un piatto all’esterno molto bello, pulito, elegante, ma poi nell’interno sporco e ributtante? E allora stiamo attenti a quello che passa nell’intimo del nostro cuore, altrimenti siamo Scribi e Farisei. – 2. DICEVANO E NON FACEVANO. « Fate pure tutto quello che vi diranno gli Scribi e i Farisei: essi sono i successori di Mosè nell’insegnare la Legge. Ma non fate come essi sogliono fare, perché dicono e poi non fanno » (Mt., XXIII, 1.3). Altro difetto che Gesù rimprovera a questa gente e che non vuole sia commesso dai suoi è la incoerenza, la disuguaglianza tra quello che dicevano e quello che poi di fatto mettevano nella pratica. Ci raccontano S. Epifanio e S. Girolamo, che vissero fra i Giudei, che ancora ai loro tempi c’erano di questi Farisei che continuando le consuetudini dei loro antenati, scrivevano sopra piccole strisce di pergamena le parole della Legge e poi le applicavano alle vesti perché spesso il loro sguardo leggesse i voleri di Dio e perché li avessero a disposizione per dirli agli altri. Ma a che servivano questi accorgimenti esteriori, quando non sapevano praticare i precetti appresi e fatti apprendere agli altri? Anche i demoni dell’inferno conoscono molto bene tutti i comandamenti di Dio! Si presentò, una volta, ad un vecchio anacoreta un giovane tutto pieno di desiderio di perfezione, per chiedergli che dovesse fare per divenire perfetto: « Devi imitare — rispose seriamente il vecchio — i cani da caccia! Quando scorgono una lepre non si accontentano di abbaiare, di far capire che hanno visto la selvaggina, ma la rincorrono con tutta forza, non badano a difficoltà della strada, né si danno pace finché l’abbiano raggiunta. Allo stesso modo devi fare tu riguardo alla santità: tendere ad essa… finché non l’abbia conseguita; così e solo così potrai essere perfetto ». E S. Marciano solitario, sorpreso un giorno nella sua spelonca da un cacciatore, ed interrogato da lui, cosa mai facesse là dentro solo ed ozioso: « E tu — rispose — cosa fai? ». « Io, come vedi, prendo le lepri e i cervi: mia occupazione è la caccia ». « Ed io, in questo luogo, vado a caccia del mio Dio né mai cesserò dall’inseguirlo finché non l’abbia raggiunto in possesso eterno ». Conoscere, dire e poi non fare è il mestiere dei Farisei condannati da Gesù; è il mestiere, per usare, in senso inverso, il paragone forse troppo rude, ma tanto chiaro di quel padre del deserto, di quei cani da caccia che abbaiano quando vedono la lepre o il cervo, ma non fanno un passo per raggiungerli. Paragonateli pure così a quei genitori che dicono ai figliuoli di andare alla chiesa per la S. Messa e per la Dottrina cristiana e loro per i primi non vanno. Fin quando i figli sono piccoli ubbidiranno, perché temono la forza e il castigo; ma lasciate crescere ancora qualche anno e capiranno subito che se i genitori per i primi non fanno quello che dicono, è segno che forse si può anche non ubbidire e accontentare i propri comodi. Anche le nostre campane chiamano il popolo alla Chiesa, mentre esse non vanno: ma le campane non hanno l’anima da salvare. Sulle strade quante volte voi trovate le pietre che dicono al passeggero dove si può andare, da una parte o dall’altra, ma sono forse dei secoli che dicono la stessa cosa e non hanno mai fatto un passo. ma dalle pietre non si pretende di più. Dagli uomini invece il Signore ha il diritto di richiedere le azioni. « Non colui che dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre ». – Per lo stanco pellegrino che attraversa il deserto il vedere da lungi le palme che si innalzano magnifiche verso il cielo è una festa di gioia. In mezzo alle sabbie infuocate, sotto un cielo bronzeo, esse parlano di frescura e di ristoro. E sono e dànno davvero ombra confortatrice le foglie ampie e folte, e sono davvero ristoro i frutti gustosi e nutrienti. Proprio come la palma ha da essere il Cristiano. Deve avere belle le foglie delle apparenze e delle parole, ma soprattutto deve essere « ricco dei frutti delle opere buone. » Iustus ut palma florebit (Ps., XCI,.13).

IL CREDO

Offertorium

Orémus

Ps XV: 7 et 8. Benedícam Dóminum, qui tríbuit mihi intelléctum: providébam Deum in conspéctu meo semper: quóniam a dextris est mihi, ne commóvear.

[Benedirò il Signore che mi dato senno: tengo Dio sempre a me presente, con lui alla mia destra non sarò smosso.]

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris: et has oblatiónes famulórum famularúmque tuárum benígnus assúme; ut, quod sínguli obtulérunt ad honórem nóminis tui, cunctis profíciat ad salútem.

[Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche, e accogli benigno queste oblazioni dei tuoi servi e delle tue serve, affinché ciò che i singoli offersero a gloria del tuo nome, giovi a tutti per la loro salvezza.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XXVI: 4 Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ. 

[Una cosa sola chiedo e chiederò al Signore: di abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita].

Postcommunio

Orémus.

Quos cœlésti, Dómine, dono satiásti: præsta, quæsumus; ut a nostris mundémur occúltis et ab hóstium liberémur insídiis.

(O Signore, che ci hai saziato col dono celeste; fa che siamo mondati dalle nostre occulte mancanze, e liberati dalle insidie dei nemici.)

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)

ORDINARIO DELLA MESSA

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.