DOMENICA SECONDA DOPO PENTECOSTE (2022)

DOMENICA NELL’OTTAVA DEL CORPUS DOMINI II DOPO PENTECOSTE (2022)

(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)

Semidoppio. – Paramenti bianchi.

La Chiesa ha scelto, per celebrare la festa del Corpus Domini, il giovedì che è fra la domenica nella quale il Vangelo parla della misericordia di Dio verso gli uomini e del dovere che ne deriva per i Cristiani di un amore reciproco (l^ dopo Pentecoste) e quella (II dopo Pentecoste) nella quale si ripetono le stesse idee (Epist.) e si presenta il regno dei cieli sotto il simbolo della parabola del convito di nozze (Vang.). [Questa Messa esisteva coi suoi elementi attuali molto prima che fosse istituita la festa del Corpus Domini. Niente infatti poteva essere più adatta all’Eucaristia, che è il banchetto ove tutte le anime sono unite nell’amore a Gesù, loro sposo, e a tutte le membra mistiche. Niente poi di più dolce che il tratto nel quale si legge nell’Ufficio la storia di Samuele che fu consacrato a Dio fin dalla sua più tenera infanzia per abitare presso l’Arca del Signore e diventare il sacerdote dell’Altissimo nel suo santuario. La liturgia ci mostra come questo fanciullo offerto da sua madre a Dio, serviva con cuore purissimo il Signore nutrendosi della verità divina. In quel tempo, dice il Breviario, « la parola del Signore risuonava raramente e non avvenivano visioni manifeste », poiché Eli era orgoglioso e debole, e i suoi due figli Ofni e Finees infedeli a Dio e incuranti del loro dovere. Allora il Signore si manifestò al piccolo Samuele poiché « Egli si rivela ai piccoli, dice Gesù, e si nasconde ai superbi », e S. Gregorio osserva che « agli umili sono rivelati i misteri del pensiero divino ed è per questo che Samuele è chiamato un fanciullo ». E Dio rivelò a Samuele il castigo che avrebbe colpito Eli e la sua casa. Ben presto, infatti l’Arca fu presa dai Filistei, i due figli di Eli furono uccisi ed Eli stesso morì. Dio aveva così rifiutato le sue rivelazioni al Gran Sacerdote perché tanto questi come i suoi figli, non apprezzavano abbastanza le gioie divine figurate nel « gran convito » di cui parla in questo giorno il Vangelo, e si attaccavano più alle delizie del corpo che a quelle dell’anima. Così, applicando loro il testo di S. Gregorio nell’Omelia di questo giorno, possiamo dire che « essi erano arrivati a perdere ogni appetito per queste delizie interiori, perché se n’erano tenuti lontani e da parecchio tempo avevano perduta l’abitudine di gustarne. E perché non volevano gustare la dolcezza interiore che loro era offerta, amavano la fame che fuori li consumava». I figli d’Eli, infatti prendevano le vivande che erano offerte a Dio e le mangiavano; ed Eli, loro padre, li lasciava fare. Samuele invece, che era vissuto sempre insieme con Eli, aveva fatto sue delizie le consolazioni divine. Il cibo che mangiava era quello che Dio stesso gli elargiva, quando, nella contemplazione e nella preghiera gli manifestava i suoi segreti. « Il fanciullo dormiva » il che vuol dire, spiega S. Gregorio, «che la sua anima riposava senza preoccupazione delle cose terrestri ». « Le gioie corporali, che accendono in noi un ardente desiderio del loro possesso, spiega questo santo nel suo commento al Vangelo di questo giorno, conducono ben presto al disgusto colui che le assapora per la sazietà medesima; mentre le gioie spirituali provocano il disprezzo prima del loro possesso, ma eccitano il desiderio quando si posseggono; e colui che le possiede è tanto più affamato quanto più si nutre ». Ed è quello che spiega come le anime che mettono tutta la loro compiacenza nei piaceri di questo mondo, rifiutano di prender parte al banchetto della fede cristiana ove la Chiesa le nutre della dottrina evangelica per mezzo dei suoi predicatori. « Gustate e vedete, continua S. Gregorio, come il Signore è dolce ». Con queste parole il Salmista ci dice formalmente: «Voi non conoscerete la sua dolcezza se voi non lo gusterete, ma toccate col palato del vostro cuore l’alimento di vita e sarete capaci di amarlo avendo fatto esperienza della sua dolcezza. L’uomo ha perduto queste delizie quando peccò nel paradiso: ma le ha riavute quando posò la sua bocca sull’alimento d’eterna dolcezza. Da ciò viene pure che essendo nati nelle pene di questo esilio noi arriviamo quaggiù ad un tale disgusto che non sappiamo più che cosa dobbiamo desiderare. » (Mattutino). « Ma per la grazia dello Spirito Santo siamo passati dalla morte alla vita » (Ep.) e allora è necessario come il piccolo e umile Samuele che noi, che siamo i deboli, i poveri, gli storpi del Vangelo, non ricerchiamo le nostre delizie se non presso il Tabernacolo del Signore e nelle sue intime unioni. Evitiamo l’orgoglio e l’amore delle cose terrestri affinché « stabiliti saldamente nell’amore del santo Nome di Dio » (Or.), continuamente « diretti da Lui ci eleviamo di giorno in giorno alla pratica di una vita tutta celeste » (Secr.) e « che grazie alla partecipazione al banchetto divino, i frutti di salute crescano continuamente in noi » (Postcom.).

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XVII: 19-20.

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.

[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene] Ps XVII: 2-3

Díligam te. Dómine, virtus mea: Dóminus firmaméntum meum et refúgium meum et liberátor meus.

[Amerò Te, o Signore, mia forza: o Signore, mio sostegno, mio rifugio e mio liberatore.]

Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.

[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.]

Oratio

Orémus. Sancti nóminis tui, Dómine, timórem páriter et amórem fac nos habére perpétuum: quia numquam tua gubernatióne destítuis, quos in soliditáte tuæ dilectiónis instítuis.

[Del tuo santo Nome, o Signore, fa che nutriamo un perpetuo timore e un pari amore: poiché non privi giammai del tuo aiuto quelli che stabilisci nella saldezza della tua dilezione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Joánnis Apóstoli 1 Giov. III: 13-18

“Caríssimi: Nolíte mirári, si odit vos mundus. Nos scimus, quóniam transláti sumus de morte ad vitam, quóniam dilígimus fratres. Qui non díligit, manet in morte: omnis, qui odit fratrem suum, homícida est. Et scitis, quóniam omnis homícida non habet vitam ætérnam in semetípso manéntem. In hoc cognóvimus caritátem Dei, quóniam ille ánimam suam pro nobis pósuit: et nos debémus pro frátribus ánimas pónere. Qui habúerit substántiam hujus mundi, et víderit fratrem suum necessitátem habére, et cláuserit víscera sua ab eo: quómodo cáritas Dei manet in eo? Filíoli mei, non diligámus verbo neque lingua, sed ópere et veritáte.”

[“Carissimi: Non vi meravigliate se il mondo vi odia. Noi sappiamo d’essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida; e sapete che nessun omicida ha la vita eterna abitante in sé. Abbiam conosciuto l’amor di Dio da questo: che egli ha dato la sua vita per noi; e anche noi dobbiam dare la vita per i fratelli. Se uno possiede dei beni di questo mondo e, vedendo il proprio fratello nel bisogno, gli chiude le sue viscere, come mai l’amor di Dio dimora in lui? Figliuoli miei, non amiamo a parole e con la lingua, ma con fatti e con sincerità”].

VERA E FALSA CARITÀ.

Noi andiamo o fratelli, coll’Apostolo della carità e con il suo veramente divino apostolato, di meraviglia in meraviglia. Domenica scorsa l’Apostolo San Giovanni ha messo la carità in cielo. Dio è Carità — ha pronunziato una parola di sublimità incomparabile. Questa domenica, dal cielo più alto discende sul terreno più umile; scrive parole di una incomparabile praticità: « Miei figliuoli, non amiamo a chiacchiere… o più letteralmente ancora, non amiamo colla bocca, colle parole, amiamo coll’opera, se vogliamo amare per davvero ». Dove è chiaro che si tratta di quell’amore che merita nome di carità e della carità che corre le vie della terra, tra uomo e uomo. L’Apostolo ha l’orrore della carità falsa, apparente — che sembra carità e non è carità, come un banchiere (i banchieri sono i devoti, gli apostoli, i mistici della moneta, della vera, s’intende) detesta, abborre, abbomina la moneta falsa — che pare e non è, che par oro ed è orpello. E qual è questa carità falsa? È proprio la carità che non fa e parla. Il non fare ne costituisce il non essere, e il parlare le dà l’apparenza. La parola buona, caritatevole, vuota di opere; non è più abito, è maschera, è commedia. Come frequente allora e adesso la commedia della carità! Come facile e frequente (appunto perché tanto facile) l’impietosirsi gemebondo sulla miseria del prossimo. Poverino qua! Poverino là! E come frequente la esaltazione verbale della carità: facile e frequente il panegirico della filantropia! E quanti, sfogato così il loro istinto retorico e sentimentale, si credono, si sentono in pace con la loro coscienza! Credono di aver fatto tutto, perché hanno parlato molto! L’Apostolo della carità è terribilmente e semplicemente realista. Che cosa serve tutta questa logorrea? A che cosa serve per chi soffre la fame, il freddo, lo sconforto della vita? Nulla. Le parole lasciano il tempo che trovano. E che sincerità in queste parole infeconde, sistematicamente, regolarmente infeconde di opere! Che razza di cuore, di carità ha colui che vede il suo prossimo in bisogno, e non fa nulla per sollevarlo? Vede aver fame e non gli dà da mangiare? aver sete e non gli amministra da bere? – Fare bisogna, se si vuole che la carità sfugga all’accusa, al sospetto di simulazione, di ipocrisia. L’opera è la figlia dell’amore, ne è la prova sicura e perentoria. Fare, notate, dice l’Apostolo, anziché semplicemente dare, perché il dare è una forma particolare del fare. Fare quello che si può con le persone che si amano fraternamente davvero. – Fare per gli altri quello che, a parità di condizione, faremmo e vorremmo che gli altri facessero per noi. Fare e molto, e bene, e sempre. Fare non per farsi vedere, ma per renderci benefici. Fare del bene, non fare del rumore. C’è più carità in una goccia di operosità, che in un mare di chiacchiere. E allora il grande quesito che noi dobbiamo proporci se vogliamo esaminarci bene sul capitolo della carità, la virtù che ci assomiglia a Dio, il grande quesito è questo: che cosa, che cosa abbiamo fatto, che cosa facciamo? cosa, cosa, non parole!

[P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939. Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch. Mediolani, 1-3-1938]

Graduale

Ps CXIX: 1-2 Ad Dóminum, cum tribulárer, clamávi, et exaudívit me.

[Al Signore mi rivolsi: poiché ero in tribolazione, ed Egli mi ha esaudito.]

Alleluja

Dómine, libera ánimam meam a lábiis iníquis, et a lingua dolósa. Allelúja, allelúja

[O Signore, libera l’ànima mia dalle labbra dell’iniquo, e dalla lingua menzognera. Allelúia, allelúia]

Ps VII:2

Dómine, Deus meus, in te sperávi: salvum me fac ex ómnibus persequéntibus me et líbera me. Allelúja.

[Signore, Dio mio, in Te ho sperato: salvami da tutti quelli che mi perseguitano, e liberami. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.

Luc. XIV: 16-24

“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis parábolam hanc: Homo quidam fecit coenam magnam, et vocávit multos. Et misit servum suum hora coenæ dícere invitátis, ut venírent, quia jam paráta sunt ómnia. Et coepérunt simul omnes excusáre. Primus dixit ei: Villam emi, et necésse hábeo exíre et vidére illam: rogo te, habe me excusátum. Et alter dixit: Juga boum emi quinque et eo probáre illa: rogo te, habe me excusátum. Et álius dixit: Uxórem duxi, et ídeo non possum veníre. Et revérsus servus nuntiávit hæc dómino suo. Tunc irátus paterfamílias, dixit servo suo: Exi cito in pláteas et vicos civitátis: et páuperes ac débiles et coecos et claudos íntroduc huc. Et ait servus: Dómine, factum est, ut imperásti, et adhuc locus est. Et ait dóminus servo: Exi in vias et sepes: et compélle intrare, ut impleátur domus mea. Dico autem vobis, quod nemo virórum illórum, qui vocáti sunt, gustábit cœnam meam”.

(“In quel tempo disse Gesù ad uno di quelli che sederono con lui a mensa in casa di uno dei principali Farisei: Un uomo fece una gran cena, e invitò molta gente. E all’ora della cena mandò un suo servo a dire ai convitati, che andassero, perché tutto era pronto. E principiarono tutti d’accordo a scusarsi. Il primo dissegli: Ho comprato un podere, e bisogna che vada a vederlo; di grazia compatiscimi. E un altro disse: Ho comprato cinque gioghi di buoi, o vo a provarli; di grazia compatiscimi. E l’altro disse: Ho preso moglie, e perciò non posso venire. E tornato il servo, riferì queste cose al suo padrone. Allora sdegnato il padre di famiglia, disse al servo: Va tosto per le piazze, e per le contrade della città, e mena qua dentro i mendici, gli stroppiati, i ciechi, e gli zoppi. E disse il servo: Signore, si è fatto come hai comandato, ed evvi ancora luogo. E disse il padrone al servo: Va per le strade e lungo le siepi, e sforzali a venire, affinché si riempia la mia casa. Imperocché vi dico, che nessuno di coloro che erano stati invitati assaggerà la mia cena”

Omelia

(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. – Soc. Ed. Vita e pensiero.- Milano 1956.

LA CENA EUCARISTICA

Un uomo fece una grande cena e invitò molti. All’ora della cena mandò un suo servo a dire ai convitati: « Venite che è pronta ». Ma presero tutti a scusarsi. Il primo disse: « Ho comprato un podere, e bisogna che vada a vederlo: ti prego di scusarmi ». Un altro disse: « Ho comprato cinque paia di buoi e vo’ a provarli: ti prego di scusarmi ». Un altro ancora sgarbatamente rispose: « Ho preso moglie, e non posso venire ». Quando il servo ritornato riferì questi rifiuti, il padrone esclamò: «Va’ per le strade e lungo le siepi, e chiunque trovi forzalo a venire qua, che si riempia la mia casa; perché io ti assicuro che nessuno di coloro invitati prima assaggerà la mia cena ». Sotto il velo di questa parabola, Gesù Cristo ha nascosto tutto il suo amore, e tutta la nostra ingratitudine. L’uomo che fece una grande cena, è Lui che istituì la Santa Comunione, in cui non un pane qualsiasi si mangia, ma il pane di vita disceso dal cielo, il pane che toglie la fame per sempre. Gli invitati che cercarono dei pretesti per non venire, siamo noi che preferiamo vivere tra le nostre basse faccende e tra i peccati piuttosto che accorrere al sacro banchetto dell’Eucaristia, ove la Carne di un Dio è fatta cibo, e il sangue di un Dio è fatto bevanda. In questo momento, mentre Gesù Cristo ci guarda dall’altare, meditiamo la grandezza della sua Cena Eucaristica, e l’ingratitudine dei nostri rifiuti. – 1. LA GRAN CENA. Una notte, nel convento di Chiovia, risuonò un urlo di orrore: «I tartari! I tartari! ». Questo popolo feroce, nemico degli uomini e di Dio, con carri, con armi e con fiaccole, era alle porte della città, pronto a metterla a ferro e a fuoco. Nelle vie s’udiva lo strepito degli uomini, i pianti delle donne e dei fanciulli che fuggivano portando con sé le cose più care. Anche i monaci erano già fuggiti dal convento; ed anche S. Giacinto, che ne era il priore, stava per fuggire. Quando udì, o gli parve d’udire, una chiara voce chiamarlo per nome: « Giacinto! ». Si accorse che quel richiamo veniva dalla chiesa, usciva dal santo Tabernacolo. Giacinto, tu fuggi e mi lasci qui solo? Che cosa mangerai domani e dopo domani, se dimentichi il Cibo della tua vita? Come potrai resistere alle orde dei barbari, e ai pericoli della fuga, se non avrai da mangiare?». Giacinto allora entrò in chiesa, prese il SS. Sacramento e fuggì. Anche la nostra vita è agitata e piena d’affanni come una fuga. Non fuggiamo noi, attraverso a pene e a fatiche, davanti alla morte che c’incalza inesorabilmente? E tutt’intorno ci assediano i nostri nemici, il mondo, la carne, i demoni. Chi potrà sostenere le nostre deboli forze in queste lotte continue? Quale cibo potrà nutrire la nostra anima debole e paurosa? La santa Eucaristia. Ecco la gran Cena che Gesù imbandisce ogni giorno per noi. a) S. Agostino, profondamente commosso davanti al sacramento dell’Eucaristia, diceva: « Dio è sapientissimo: eppure negli abissi immensi della sua sapienza, non poteva inventare un dono più grandioso di questo. Dio è onnipotente: eppure nella sua onnipotenza non poteva fare prodigio più meraviglioso di questo. Dio è ricchissimo: eppure nella sua inesauribile generosità non poteva farci un dono più prezioso di questo ». Che cosa v’è di più grande, di più meraviglioso, di più prezioso di Dio? Certamente nulla. Ebbene, nella santa Comunione, noi riceviamo Dio. Quante volte abbiamo invidiato la fortuna di quei pastori che nella notte di Natale poterono vedere e abbracciare il celeste Bambino! Quante volte abbiamo con invidia pensato ai Re Magi, che depositarono i loro doni nelle manine stesse di Gesù! Quante volte abbiamo agognato la bella sorte del vecchio Simeone, che nel tempio di Gerusalemme ha stretto sul suo cuore il Figlio di Dio, e l’ha coperto di baci e di pie lacrime!… Ebbene, nella santa Comunione non solo possiamo vedere, adorare, abbracciare Gesù, ma possiamo riceverlo nel più intimo dell’anima nostra, possiamo unirci a Lui e incorporarci a Lui in una maniera ineffabilmente divina. O sacrum convivium in quo Christus sumitur! O santo banchetto in cui ci nutriamo di Cristo! b) E chi saranno i pochi fortunati che vengono ammessi a questa Cena? Forse soltanto quelle anime che non caddero nemmeno una volta nel peccato, o che fuggirono dal mondo e vivono nei chiostri con penitenza e preghiera? Ah no: non vi sono privilegi. Tutti i Cristiani vi sono invitati: poveri e ricchi, deboli e forti, ignoranti e dotti, pur che non siano in peccato mortale. E ciascuno più riceve e più gusta, quanto più vi porta di fede, di umiltà, di purezza, di dolore dei peccati. O sacrum convivium in quo Christum sumitur! O santo banchetto in cui ci nutriamo di Cristo! c) Ma e quando si potrà andare a questo Convito? Forse una volta in vita o forse soltanto in specialissime circostanze? Forse converrà fare un lungo e faticosi viaggio, o almeno pellegrinare scalzi a Roma o a Gerusalemme? No: non vi è tempo, non vi è circostanza speciale, non occorrono penosi viaggi, ma Gesù Cristo sempre c’invita, nelle sue Chiese sempre ci attende a questo banchetto divino. O sacrum convivium in quo Christus sumitur! O gran cena in cui si mangia Cristo! – 2. L’INGRATO RIFIUTO. Santa Maria Maddalena de’ Pazzi girava sotto i portici e tra le celle silenziose del suo convento, stupita, esclamando: « L’Amore non è amato, l’Amore non è amato! ». E aveva ragione. Chi non stupisce che un Dio dopo tante prodigiose invenzioni per farsi amare sia lasciato tutto solo nei Tabernacoli, ed a stento gli uomini trovino il tempo e la voglia di riceverlo una volta all’anno? Perché non vediamo le anime ogni giorno affollarsi intorno alla Mensa del Signore come rametti d’ulivo? Sicut novellæ olivarum in circuitu mensæ tuæ (Salm., CXXVII, 3). a) « Ho comprato un podere e bisogna che vada a vederlo; ti prego di scusarmi ». Quest’uomo che rifiuta l’invito perché ormai anche lui è diventato un padrone di terre, e non ha bisogno d’andare a cena da nessuno, raffigura bene quelli che ricusano d’accostarsi frequentemente alla Comunione per superbia. « Lasciamo che facciano di spesso la Comunione le donnicciole, i bigotti, gli ignoranti; alla gente come noi basta accostarsi a Pasqua ». Poveri infelici! che si credono ricchi e doviziosi, che si vantano di non aver bisogno di nessuna cosa e di nessuna persona, e invece non sanno d’essere meschini, e miserabili, e poveri, e ciechi, e nudi (Apoc., III, 17). b) « Ho comperato cinque paia di buoi e vo’ a provarli: ti prego di scusarmi ». Quest’uomo che rifiuta l’invito per gettarsi anima e corpo a lavorare con i suoi cinque paia di buoi, raffigura quelli che stanno lontani dai Santi Sacramenti perché sono affogati con tutti e cinque i loro sensi nella farragine degli interessi materiali. « Non ho tempo d’accostarmi alla sacra Mensa — dicono costoro — non ho tempo; ho la bottega, ho un magazzino, devo andare al mercato, alla fiera, devo attendere alla famiglia ». — Avete la famiglia, ve lo concedo; avete la bottega, il mercato, gli affari, ve lo concedo; ma non avete anche l’anima? E perché allora date tutto al corpo e niente all’anima? Possibile che non troviate un’ora di tempo alla settimana, un’ora al mese per la vostra anima quando sciupate delle sere e delle giornate nei teatri, nel gioco, nelle compagnie? – Il peggio è poi che alcuni, non solo non frequentano la santa Comunione, ma distolgono anche gli altri di casa dal frequentarla. Onde se la moglie, se la madre, se la sorella per comunicarsi indugiano alquanto più del consueto in chiesa, ecco sossopra ogni cosa, e una tempesta di villanie le travolge al loro ritorno. c) « Ho preso moglie, perciò non posso venire ». Avete notato com’è villana la risposta di questo invitato? Non chiede scusa, ma dice soltanto: non posso venire. Non può, perché non vuole. Raffigura costui quelli che hanno nausea della santa Comunione, perché vivono nella disonestà. Non possum venire: il loro cuore è pieno di desideri cattivi, hanno affogato la loro anima nei piaceri più immondi: sono coniugati che per mesi ed anni conculcano le leggi sante del matrimonio. Costoro vanno alla mensa dei demoni, perciò non possono venire alla mensa del Signore (I Cor., X, 21). Costoro non possono venire ai casti amplessi di Gesù, perché si tengono strettamente abbracciati al fango. Amplerati sunt stercora (Th., IV, 5). — Un mattino seduto sotto le querce verdi del capo Montenero, Lamartine assisteva al levar del sole. Ogni creatura pareva protesa verso oriente. Ad un tratto, grande regale ardente, l’astro apparve ad incendiar co’ suoi raggi il Mediterraneo. Allora il poeta scoppiò in un grido d’immensa ammirazione: « È lui! È la vita! ». Ah, il grido del poeta come dovrebbe essere il nostro! Conosco un altro sole, il sole divino di cui Michelangelo diceva il nostro esser solo l’ombra: Gesù. Quando ogni mattina si leva tra le mani del sacerdote sull’altare, quando irraggia così bianco dal sacro ostensorio, dovremmo sentire una irrefrenabile fame di Lui, dovremmo accorrere alla sacra Mensa, cantando: « È lui! È la vita! ».

IL BANCHETTO DEI POVERI E DEI MALATI. Uno perché doveva contrattare una casa, un altro perché voleva provare al giogo alcuni buoi di recente acquisto, un terzo perché si sposava; e tutti mancarono all’invito. Nella gran sala del banchetto, intanto, già le vivande fumavano, e il buon vino spargeva inutilmente il suo vellicante aroma. Oh, i ricchi avevano preferito starsene lontani a far grossi guadagni sulle cose e sui campi; oh, i sani e i giovani avevano preferito trascorrere quelle ore nei piaceri e nell’allegria della vita! Il magnifico padrone aveva dunque sciupato la gran cena? Doveva dunque rimaner solo e triste nel suo palazzo come un recluso in una bella e ariosa prigione? Crucciato e adirato chiamò il servo e gli comandò: « Corri! Corri su tutte le piazze, per tutte le contrade della città: e quanti poveri incontrerai e quanti stroppiati e ciechi e zoppi e malati d’ogni male troverai, introducili tutti qui ». Ubbidisce il servo e poi torna: « Signore, come hai comandato, così si è fatto: ma vi è posto ancora ». « Ebbene, — ricomandò il padrone, — corri! Corri nelle campagne, lungo le siepi: ogni uomo che vedi, sforzalo a venire finché si riempia la mia casa ». Poi traendo un lungo respiro dal cuore, esclamò con voce terribile: «Io vi assicuro che nessuno di coloro che hanno rifiutato l’invito, assaggerà la mia cena in eterno ». – La parabola che Gesù raccontò un sabato, sedendo a mensa in casa d’un importante Fariseo, dalla Santa Chiesa vien proposta da meditare in questi giorni consacrati al culto dell’Eucaristia. È l’Eucaristia la gran cena che il Figlio di Dio ha preparato per gli uomini in questo mondo. Non è il pane della terra che ci dà da mangiare, non è il vino dai nostri vigneti che ci dà da bere: è il suo Corpo divino, è il suo Sangue versato per noi e per molti nella remissione dei peccati. Eppure quanti, ancora oggi, rinnovano l’ingratitudine di quegli invitati che addussero delle vane scuse per non mangiare la cena! Se voi domandaste a molti Cristiani perché si comunicano raramente, perché tralasciano persino la Pasqua, sentireste rinnovarsi quegli antichi pretesti: « Non ho tempo, sono costretto a lavorare anche alla domenica; ho comprato una casa, ho dei buoi da provare; ho le passioni da accontentare ». Gesù nel suo Tabernacolo, come il padrone della parabola, è offeso dall’abbandono in cui lo lasciano gli uomini, e ripete ai sacerdoti suoi umili servi il comando « Correte! Correte per le piazze e le vie della città, per le strade e lungo le siepi delle campagne e persuadete tutti i poveri e tutti gli ammalati a venire da me ». Et pauperes ac debiles et cæcos et claudos introduc huc. Non è della miseria materiale, non è delle malattie del corpo che Gesù intende direttamente parlare, ma della miseria dell’anima e delle malattie spirituali. In questo senso, chi di noi può dire di essere ricco, di essere sano? Allora veniamo a ristorarci più frequentemente al banchetto Eucaristico che fu appunto imbandito per noi che siamo poveri di virtù, per noi che siamo ammalati nell’anima. – 1. IL BANCHETTO DEI POVERI. Quando Giacobbe entrò nella casa di Labano, tutte le cose cominciarono a prosperare: aumentò l’estensione dei poderi, aumentò il numero dei servi e del bestiame, aumentarono le masserizie e le ricchezze. « Guarda, disse un giorno Giacobbe a Labano — ben poco tu possedevi prima che io arrivassi, ora sei molto ricco (Genesi, XXX, 30). Queste parole, con più verità, a noi le ripete Gesù quando lo riceviamo nella santa Comunione: « Guarda com’eri povero prima che io entrassi nell’anima tua, ora per tutti i doni che Io ti ho portato sei diventato ricchissimo ». E in verità, che cosa abbiamo noi senza Gesù? Ci illudiamo di essere ricchi e di non aver bisogno di niente, ed invece, privi di Lui siamo miseri e miserabili e poveri e ciechi e nudi. Orbene, chi si accosta al banchetto eucaristico avrà tutto ciò di cui abbisogna e più ancora. Anzitutto avrà Gesù nel suo cuore. Sì, il Figlio di Dio, il Verbo incarnato, Colui per il quale sono troppo piccoli i cieli, scende ad abitare nell’anima del Cristiano che si comunica. « Che cosa ci può ancora negare l’Eterno Padre — esclamava San Paolo — dopo averci dato perfino il suo Unigenito? » Nulla. Con Gesù, avrà la vita vera. « Io sono il pane di vita — diceva il Signore a Cafarnao. — Chi viene a me non avrà più fame, chi crede in me non avrà più sete, chi mangia me vive in eterno ». E questo è vero non solo per l’anima nostra, ma anche per il corpo: la Comunione deposita nella nostra carne un germe d’immortalità. « Come morrà colui che si ciba della Vita? » pensava S. Ambrogio; dopo che i nostri corpi saranno stati purificati dalla prova del sepolcro, quel lievito di vita che l’Eucaristia, ha deposto in noi si ridesterà, e gloriosi risorgeremo all’ultimo giorno. Con Gesù, avrà la forza. Bande di Saraceni, ebbri di sangue e di strage, una notte assaltarono il convento delle clarisse in Assisi. In mezzo ai pianti e alle preghiere delle sante vergini, sorella Chiara corre alla cappella, prende la pisside, e per divina ispirazione, la protende dall’alto verso i barbari che davano la scalata al monastero. Subito i primi sono accecati da una luce improvvisa, e da una forza prodigiosa rovesciati gli uni sugli altri: tutti, travolti da un misterioso timore, fuggono. Il demonio, il mondo, le passioni e le tentazioni sono come bande di feroci Saraceni che di quando in quando tentano la scalata dell’anima nostra. Noi siamo deboli e paurosi come timide suore, inermi contro un esercito di barbari armati: ma se noi corriamo, come Santa Chiara, a Gesù, se noi porteremo l’Eucaristia in cuore, diverremo terribili e invincibili. Dove gli Apostoli trovarono il coraggio di portare il seme di Gesù fino all’ultime terre? dove i Martiri trovarono la forza di lasciarsi straziare a brano a brano? dove le anime vergini, ancor oggi, trovano la costanza di non lasciarsi contaminare dal male? Nella Comunione. Con Gesù, avrà la ricchezza e la bellezza dell’anima. Santa Rosa da Lima nel vedere il Sacramento dell’amore, sentiva la sua anima rifulgere come se tutta fosse rivestita di gemme e il sole le raggiasse dal cuore. Questo, che noi poveri peccatori non sentiamo, deve pure avvenire, in una certa misura, anche nel nostro cuore quando riceviamo Gesù. Le imperfezioni sono bruciate dal fuoco dell’amore, e l’anima nostra rivestita d’una splendida veste fa invidia perfino agli Angeli. Oggi, queste cose non sappiamo comprenderle, ma un giorno le conosceremo chiaramente: chi sa quale rincrescimento proveremo allora di non esserci comunicati più spesso. – 2. IL BANCHETTO DEI MALATI. Una antica tradizione racconta che la Sacra Famiglia, fuggendo in Egitto, fu sorpresa dalla notte presso una spelonca. Era la spelonca dei ladroni del deserto. Tuttavia, vi fu accolta con ospitalità, rozza ma benevola, dalla moglie del capobanda: era forse l’afflizione che rendeva umana quella donna. Ella aveva un fanciullo, la sola gioia innocente ch’ella possedeva in mezzo alla colpa e alla selvatichezza che la circondava, ma quel fanciullo aveva orridamente chiazzato di bianco la testa, le sopracciglia, la pelle; ahimè, era la bianchezza della lebbra. Nel covo dei delitti entrò dunque l’innocenza: Maria e Gesù, la moglie del ladro e il fanciullo lebbroso passarono insieme la notte. Ma appena. l’alba apparve nel cielo d’oriente, la Sacra Famiglia s’accinse a riprendere la fuga: Maria intanto chiese dell’acqua per astergere il Bambino dalla polvere del deserto e dall’ombre del sonno. Poscia partirono: ma la moglie del ladro sentì che un alito misterioso circondava quei profughi e rimase sulla porta della spelonca, con stretto sul cuore il suo piccolo lebbroso, per vederli allontanare verso l’Egitto. E come sparvero dietro le dune, ella, sospinta da un presagio divino, prese l’acqua che aveva servito a lavare Gesù e con essa lavò pure il suo Dismas, lebbroso. Ed ecco quelle carni già consunte da male implacabile, farsi subitamente rosee profumate quanto l’occhio d’una madre poteva desiderarle. Passarono molti anni. Dismas crebbe e divenne capo dei ladroni, e sulle sabbie del deserto fece delitti di sangue e di furto, tanto che la gente rabbrividiva udendo il suo nome. Ma, infine, la giustizia lo ghermì e con altri fu messo in croce sopra un colle vicino a Gerusalemme. Attaccato al legno dell’infamia, travagliato dall’agonia cocente, udiva di tratto in tratto le parole dolorose e misteriose pronunciate dal Crocifisso che gli stava vicino. Lo guardò: era coronato di spine e il cartello della sua condanna lo diceva RE dei Giudei. In quel momento la sua anima vide, e con fede esclamò: « Signore ricordati di me all’entrar nel tuo regno ». « Oggi stesso — gli rispose il Nazareno — sarai meco in Cielo ». Alla sera di quel Venerdì, Gesù il Figlio di Maria e Dismas il figlio della moglie del ladro si trovarono insieme in Paradiso. Quanti Cristiani sono tormentati nell’anima da un’implacabile lebbra! Forse è la lebbra dell’impurità: da anni questa passione li domina, da anni hanno cercato di liberarsene invano, da anni fatalmente si abbandonano sulla china dei peccati e della perdizione ultima ed eterna. Forse è la lebbra dell’avarizia; una sete febbrile di far danaro e di accumulare roba li sospinge ad essere crudeli coi poveri, ingiusti col prossimo, tiranni con la famiglia, fraudolenti nella società. Forse è la lebbra dell’incredulità: si è tralasciata la preghiera, si sono dimenticati i Sacramenti, si è abbandonata la dottrina cristiana e l’anima è in preda a mille dubbi sull’esistenza di Dio, sulla vita futura, sull’inferno… si vorrebbe non credere a più niente per vivere in balìa delle passioni. Forse è la lebbra della superbia: non si accettano osservazioni, si vuol sempre comandare senza ubbidire mai, si nutrono i rancori e le invidie, non ci si umilia e chiedere perdono. Ebbene: per queste malattie Gesù a noi ha lasciato non già un’acqua che ha toccato il suo volto, come quella che lasciò a Dismas, ma un banchetto in cui ci nutriamo della sua Carne divina e del suo Sangue preziosissimo: la santa Comunione È solo la santa Comunione che ci può guarire da tutti i mali della vita spirituale, e dall’ultimo e più terribile che è la morte. Quando sul letto dell’agonia vedremo entrare il Viatico noi pure con la fede del buon ladrone diremo a Gesù: « Signore, ricordati di me ora che sei nel tuo regno ». Ed Egli, se nella vita l’avesse ricevuto spesso e bene, ci ripeterà in cuore la consolante parola: « Oggi stesso sarai con me in paradiso ». — Assuero, il re di cento ventisette province distese dall’India fino all’Etiopia, nel terzo anno del suo regno imbandì un gran convito. Esso fu apparecchiato nell’arboreto ch’era piantato e coltivato di mano del re. Difendevano i convitati dal sole tende di lino sottile di color turchino sostenute da corde a colonne di marmo. Il vino era, senza misura, distribuito in tazze d’oro e le vivande in vasellame prezioso. A metà del convito Assuero ordinò che partecipasse anche la regina Vasthi; ma questa ricusò e spregiò il comando del re. Allora Assuero emanò un decreto per cui la regina Vasthi veniva scacciata dalla reggia per sempre, e per sempre non avrebbe assaggiato la cena del re (Ester, I). Qui, Assuero è immagine di Gesù Cristo, che nell’arboreto della Chiesa, di sua mano piantato, e coltivato, imbandisce un banchetto prelibatissimo: l’Eucaristia. Guai all’anima nostra, se imitando la regina Vasthi ricuserà d’intervenire frequentemente e con devozione a questa cena divina! Essa pure verrà scacciata dal Cielo per sempre, e per sempre non assaggerà il cibo della beatitudine eterna. Nemo vivorum illorum, qui vocati sunt, gustabit cœnam meam.

– IL CONVITO DOMENICALE. « Di quelli che han rifiutato, nessuno gusterà la mia cena; mai più! ». La parabola, nel suo significato più vero, è contro i Giudei, è contro i ricchi Farisei che, inorgogliti perché Gesù aveva mangiato in casa d’uno di loro, s’illudevano che essi soltanto avrebbero un giorno potuto entrare in paradiso. Il paradiso è appunto la cena sontuosa a cui molti sono stati invitati, e tra i primi i Giudei. Essi però hanno rifiutato l’invito, uccidendo il Messia e disprezzando il suo Vangelo: ecco, quindi, che resteranno esclusi dal cielo, ed in loro vece tutti entreranno quelli che risponderanno alla divina chiamata. Ma io voglio spiegare la parabola del Signore ad un altro significato, assai utile per noi, e dico che la cena grande a cui il buon Dio c’invita è la santificazione della domenica. E non è la domenica un’immagine della eterna cena del paradiso? E non  è la domenica cristiana un nutriente e soave convito delle anime nostre? – 1. LA DOMENICA È LA CENA DELLE ANIME. Osservate come è buono il Signore. Egli è il padrone di ogni cosa, e avrebbe pieno diritto di tenersi tutto per sé: tutte le piante, tutti gli animali, tutti i luoghi, tutti i tempi. Invece come nel Paradiso terrestre, lasciato ogni albero all’uomo, una pianta sola si riservò ad esperimento di ubbidienza; come al tempo dei Patriarchi, lasciato ad essi ogni frutto ed ogni bestia, solo poca primizia del gregge e del campo ritenne; come di tutta la terra, si riserva appena qualche spazio ove edificare le sue chiese; così di sette giorni, uno soltanto ha voluto per sé: la domenica. Poteva esserci più largo di così? e di meno che cosa mai ci avrebbe potuto richiedere? « Figliuoli! — ci dice per bocca di Mosè — Sei giorni ho lavorato per darvi il sole e le stelle, la terra e i mari, le piante e gli animali e per plasmare i vostri corpi e ravvivarli di un’anima immortale: al settimo però cessai. Ebbene, come ho fatto Io, fate anche voi così. Lavorate sei giorni, il settimo lo darete a me ». Poteva esserci più padre? « Lo darete a me!… » Forse per farci lavorare il doppio, il triplo… per Lui? Forse per gravarci — da padrone qual è — di penitenze e di asprezze? No. « Lo darete a me, perché Io voglio farvi riposare, Io voglio che veniate in casa mia ad una cena gaudiosa ». Dite: sulla terra c’è un altro padrone, buono come questo? Per sei giorni gli uomini sono nei campi, nelle fabbriche, negli uffici; le donne pure sono costrette alla fatica di un laboratorio o di una casa, mentre i figli sono alla scuola o trascurati per le vie. È tutto uno stridere di macchine, un incomposto vociar di operai affannati, un fischiar di sirene: c’è appena tempo di trangugiare un po’ di cibo senza assaporarlo e alla sera si ritorna pallidi e stanchi alla casa povera di luce, povera di parole. Poche ore di sonno, e poi ecco bisogna balzare a nuova fatica e riprendere quegli abiti trascurati e improntati del duro lavoro. Ben venga la domenica, gaudiosa cena delle anime! Un lieto scampanio s’intende nella prim’alba, che arriva a tutti come una voce di fratelli e d’amico: « Nella chiesa! — ci dice — tutto è pronto ». E dai portoni dei ricchi, dagli usci dei poveri, i padri escono coi loro bambini e le mamme vengono con le loro bambine: tutti sono puliti e ben vestiti, tutti si sorridono e sono lieti, tutti davanti all’altare di Dio si siedono vicino: il ricco e il povero, il servo e il padrone, tutti eguali. Per sei giorni abbiamo stentato, oggi si riposa in letizia. Per sei giorni vestimmo male. oggi ci adorniamo con religiosa modestia. Per sei giorni siamo stati nelle case delle creature, servi delle creature, oggi si va nella casa del Creatore, si serve Lui, si parla con Lui, si mangia con Lui il pane della parola di Dio. Per sei giorni si è vissuto per le cose terrene, oggi si vive per quelle celesti. Com’è bella la domenica cristiana, giorno di Dio, giorno dell’uomo, mistica cena delle anime! – 2. SCORTESIA D’INVITATI. Purtroppo, questo giorno santo, benefico all’anima e al corpo, alla famiglia e alla società quanto è profanato! Oh se Gesù, una qualche festa, ripassasse attraverso alle nostre campagne e alle nostre città, forse ancora prenderebbe lo staffile per flagellare i profanatori del suo giorno! E forse dalla sua bocca divina gli sgorgherebbe il lamento che confidò ad un’anima privilegiata: « I Giudei mi hanno crocifisso in Venerdì, ma i Cristiani mi crocifiggono in Domenica ».

a) Villam emi! Ho comprato una villa e perciò non posso venire. Ancora questa è una delle scuse che molti Cristiani usano per rifiutare il banchetto festivo. Andare a Messa, andare a Dottrina… io che sono ricco, che ho un palazzo, che sono rivestito di autorità, che ho molte e difficili incombenze?! Alla Messa sono obbligati i poveri, gli ignoranti: ma che cosa deve dire la gente se s’accorge che sento anch’io il bisogno di santificare la festa?!… Ci sono di quelli poi che, senza giungere a questo eccesso, credono che per santificare le feste basti assistere alla santa Messa; e, ascoltatala in qualche modo, pensano a tutt’altro che ad opere di pietà. Costoro trattano Dio come un esoso tiranno a cui si deve concedere meno che si può, e considerano la pietà come una medicina velenosa da prendersi con estrema parsimonia. E tra costoro si trovano quelli che cercano la Messa più spiccia, quelli che giungono sempre in ritardo, o assistono svogliati e disattenti, chiacchierando con disturbo e scandalo degli altri; e spesso ancora con tale abbigliamento e positura da offrire pascolo alla leggerezza, all’ambizione, alla lussuria. Ma basterà una mezz’oretta di Messa per tutta la festa? Ricordate che chi non assiste mai alla Dottrina Cristiana, se anche non si può dire che viola il precetto festivo, certo è difficile che schivi il peccato grave per trascuranza d’istruzione religiosa.

b) Juga boum emi! Ho comprato dieci buoi e devo provarli sotto l’aratro, perciò non posso venire. Questa è un’altra delle scuse con cui i Cristiani violano il banchetto festivo: « Ho un affare da concludere, ho un raccolto maturo da fare, ho un urgente lavoro da finire… ». È l’avarizia, e la bramosia del guadagno maledetto li spinge a diventare come macchine e come bestie, e negarsi il santo riposo. Come fa pena, in domenica, vedere le ciminiere fumare; udire la romba dei martelli e dei motori;

c) Uxorem duri! Ho preso moglie e perciò non voglio venire. È questa la più terribile scusa per profanare il banchetto festivo: « Ho voglia di godermela e non di santificare la festa ». Il giorno della preghiera è diventato il giorno del piacere, giorno della purezza è diventato il giorno della carne trionfante; il giorno della gioia è diventato il giorno dell’orgia. Guardate: l’osteria sì, ma non la Messa; la passeggiata, ma non il catechismo, l’ozio, ma non la preghiera; la disonestà, ma non i sacramenti; il demonio, ma non il Signore. – Nei pomeriggi festivi, le nostre chiese e gli oratori vanno disertandosi: dov’è la gioventù? Le vie sono rigurgitanti, le sale da ballo sono un vortice infernale, gli spettacoli mondani e procaci sono le false sirene. — La persecuzione di Diocleziano infieriva contro i Cristiani, nel 304, con tale violenza, che s’era perfino illuso l’imperatore di poter sradicare dalla terra il nome di Cristo. Tra i più aspri rigori di leggi e di spionaggi Anisia, una giovane di Tessalonica, uscì di casa per recarsi dove i Cristiani celebravano i sacri riti, giacché era giorno di domenica. Uscendo da una porta della città, un soldato la fermò, dicendole: « Dove vai a quest’ora? ». La fanciulla si trovò scoperta, e confessò: « Sono cristiana, e vado a santificare il giorno del Signore ». Soggiunse il soldato: « Vieni con me ad adorare il Sole ». La giovane sì rifiutò e fece per proseguire il suo cammino. Quegli allora le strappò il velo con cui si copriva per modestia il suo volto. Anisia grido: « Il mio Dio ti punirà ». A queste parole il soldato s’accese di furore, e con la sua spada trafisse la giovane santa che cadde mentre la sua anima bianca entrava nell’eterna domenica in cielo (XXX Dicembre, Martirologio). L’intercessione e l’esempio di sant’Anisia faccia ravvedere molti profanatori della festa, prima che il Signore nella sua ira abbia a dir contro di loro quelle tremende parole della Santa Scrittura: « Io vi getterò in faccia lo sterco delle vostre solennità » (Malach., II; 3).

IL CREDO

Offertorium

Orémus Ps VI: 5 Dómine, convértere, et éripe ánimam meam: salvum me fac propter misericórdiam tuam.

[O Signore, volgiti verso di me e salva la mia vita: salvami per la tua misericordia.]9

Secreta

Oblátio nos, Dómine, tuo nómini dicánda puríficet: et de die in diem ad coeléstis vitæ tránsferat actiónem.

[Ci purifichi, O Signore, l’offerta da consacrarsi al Tuo nome: e di giorno in giorno ci conduca alla pratica di una vita perfetta.]

COMUNIONE SPIRITUALE

Communio

Ps XII: 6 Cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi.

[Inneggerò al Signore, per il bene fatto a me: e salmeggerò al nome di Dio Altissimo.]

Postcommunio

Orémus. Sumptis munéribus sacris, qæesumus, Dómine: ut cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus.

[Ricevuti, o Signore, i sacri doni, Ti preghiamo: affinché, frequentando questi divini misteri, cresca l’effetto della nostra salvezza].

PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)

RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (2)

ORDINARIO DELLA MESSA

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.