LO SCUDO DELLA FEDE (112)

1Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA vol. I

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884

CAPO XXII.

Si risponde alle accuse date alla provvidenza, perché ella tribola i buoni.

1. I naviganti mentre sono in tempesta, ansanti, agitati, non sono abili ad osservare l’arte di quel pilota, che fra tanti turbini regge la nave a stupore. Qual meraviglia è però, se il medesimo accade nel caso nostro? Non conosciamo la provvidenza attentissima di quel Dio che ci regge fra tanti mali, perché i mali ci sopraffanno, Ma però dunque dovrà da noi negarsi la Provvidenza, perché noi non la conosciamo? se non la conosciamo noi, l’hanno saputo conoscere tanti e tanti, di noi pratici in quella carta di navigare, che sola ha da rimirarsi in un mar sì alto. Che se nessuno l’avesse mai finita di conoscere, che rileva? Bella cosa in vero sarebbe che i naviganti volessero saperne al par del pilota. Venga però quel temerario, il qual disse:Cura rapiant mala fata bonos, ignoscite fasso, Sollicitor nullos esse putare Deos.

Che è ciò che egli non capisce? Perché tribolati i buoni? perché poveri? perché perseguitati? Perché depressi? Le cagioni sono le medesime a proporzione, per cui prosperati i cattivi.

II. Se non che prima di ripeterlo, io chieggo. Dove sono questi buoni così perfetti, che non abbiano mescolata con l’oro delle virtù veruna mondiglia? Nelle miniere nostrali mai non incontrasi un metallo sì eletto. Per quanto benignamente qualunque nuvola sia rimirata dal sole, non giunge a compire mai tutto il cerchio nell’imitarlo: finisce in arco. E per quanto l’anima sia favorita da Dio, mai non arriva ad esprimere tutte in sé lo divine fattezze perfettamente. Ogni sanità ha qualche intemperie, ogni sereno ha qualche intorbidamento, ogni beltà ha qualche neo, che la fa men cara. E questo mancamento è quello che Dio prende di mira con l’avversità, volendo Egli con questo fuoco avvedutamente distruggere quella ruggine.

III. Ma quando pure sì fatti buoni vi fossero, questa medesima avversità, come io dissi, è richiesta in essi per paragone della loro virtù. Non si conosce il soldato bravo tra l’ombre de’ padiglioni, né la spada nel suo fodero, né lo scudo ne’ suoi forzieri, né la saetta nel molle de’ suoi turcassi. Convien venire alla prova. Questa è che fa discernere il buono dal reo. Talora vi diamo a credere di essere dabbene, perché i mali tutti ci lasciano stare in pace. Eppure mentre poi non reggiamo al primo cimento di pochi che sopravvengono, diamo a vedere di quale tempera si fosse in quel medesimo tempo la virtù nostra, da noi riputata sì fina. Ora, perché la cognizione dello proprie infermità è un ingrediente richiesto, di necessità indispensabile, a quel medicamento che deve sanarci, per questo ordina Dio che i mali facciano sperimento di noi, e così ci diano a conoscere chi noi siamo: ponendoci questi nelle tenebre della infamia, della povertà, delle persecuzioni, de’ morbi, come i gioiellieri pongono il carbonchio nel buio di qualche stanza, perché si vegga, allo splendore che ivi fa, se egli sia verace, o sia falso.

IV. Né solo vale la tribolazione di prova a manifestarci quelli che siamo; ma anche di mezzo a farcì divenire quei che non siamo: più umili, più forti, più fervorosi, più veramente conformi ai voler divino. Che virtù effeminata sarebbe quella de’ giusti, se ella si vedesse sposata sempre al piacere? Sarebbe una virtù epicurea, in cui mai non distinguerebbesi l’amor dell’onesto dall’amato dall’amore del dilettevole: e come lama temperata nell’olio non farebbe giammai colpi di valore. AMfcque apparteneva alla provvidenza l’esercitare duramente i suoi servi, per dar loro capitale da trafficarsi una stabile e sempiterna felicità, la quale non fosse mero dono, ma premio e perciò rendesse duplicati i suoi frutti di onorevolezza congiunta al gaudio. Frattanto     visibilmente ci assiste Dio co’ suoi potentissimi aiuti al principio, al progresso, al fine delle nostre calamità: né solamente a guisa di attento medico tiene la mano al polso dell’ammalato, finché gli si cava sangue, per saper quanto possa reggere; ma di più gl’infonde vigore. Che però se noi non vogliamo vilmente cedere il campo, nostra sempre fia la vittoria. E ciò ridonda ancora in gloria del medesimo Dio, a cui finalmente il tutto va indirizzato, mentre si trovano tanti, che solamente per aggradirgli combattano alla gagliarda, e tengono in tutti gli avvenimenti, o prosperi o avversi fissi in Lui solo i lor occhi, come una fiaccola, che, comunque si volga, o di su, o di giù, mira tuttavia sempre ad un modo la sfera altissima.

V. Ecco dunque come tra i mille giri delle umane vicende non ve n’ó pur uno, il quale non abbia per contro una infinita sapienza. Ma noi sprovveduti di lume a scorgere intimamente questi misteri, non vogliamo né anche dar tempo che la divina provvidenza in faccia a tutto il mondo spieghi il suo arazzo compito per ogni verso: ma vogliamo darne giudizio, mentre esso tuttosta avvolto in ordine a quella parte che resta da lavorarsi, o mentre in ordine a quella che si va lavorando su gli occhi nostri noi possiam mirare fuorché a rovescio. Noi possiamo mirare in ordine a questa che si lavora, fuorché a rovescio, perché noi ordiniamo l’eterno al temporale, e bramando che il cielo serva alla terra, facciamo del fine mezzi, e de’ mezzi fine: ciò che Dio non può mai volere: onde non è meraviglia, se i suoi giudizi sieno si diversi da’ nostri, E noi possiamo vedere in ordine a quella che resti, da lavorare, se non avvolto, perché nulla al presente ci è noto dall’avvenire, che pure è tanto: Totum vide, totum lauda, scrisse prudentemente sant’Agostino. Non ti dar fretta a giudicare su ciò chi! ora tu rimiri: aspetta che, terminato il resto dell’opera, tu possa con un guardo conoscere tutta la corrispondenza, tutta la disposizione, tutto il disegno, e tutto il ripartimento di tante fila, quante sono quelle che unitamente concorrono a questa mirabilissima tessitura: e allor ne giudicherai. Frattanto dove non arrivi a capire ti basti il credere. Di tanti fiumi quanti son quei che si sprofondan sotterra, noi non sappiamo le vie: e nondimeno sappiamo che vanno al mare. Cosi degli occulti giudizi della provvidenza non sappiamo, è ver, gli andamenti; ma sappiamo che tutti termineranno una volta in gloria della divina sapienza, onde sono usciti: Ad locum, unde exeunt flumina, revertuntur (Eccl. 1. 7).

VI. Al fine dunque de’ secoli, quando Iddio verrà in forma di giudice a sciogliere il nodo di questa sì gran tragedia, vedremo chiaro quell’ordito e quell’ordine che ora ci nasconde. Vedremo che le nostre colpe potean recare lode al Signore, non biasimo: dacché, quanto più disordinate eran le scelleraggini, tanto migliore era Dio che le divietava; e che, mentre gli uomini eran sì empi, che si valevano male de’ beni, Egli era sì buono, che si valeva all’incontro bene de’ mali. Vedremo quanto momentanea si fosse quella perturbazione di cose, per cui il vizio prevalse all’innocenza, dopo cui seguirà una calma perpetua; e i colpevoli, quasi spighe vuote, che sollevate dalla loro medesima vanità hanno il capo sopra delle altre, saranno gettati al fuoco in vista degli innocenti, che quasi grano eletto saranno riposti in cielo. Vedremo che le tribolazioni venivano tutte a legge: e che benché fossero più tempestose di un mare irato, non passavano però mai punto i confini prescritti ai loro flutti da Dio. Vedremo che sebbene talora per questi mali sì accusava la provvidenza, non doveva ella però desistere dal suo modo di governare; come non è dovere che desista il suonatore dal tirare la corda al suo giusto tuono, per toma che non reggendo ella vada in pezzi. Queste e mille altre verità più stupende, più segnalate vedremo allora con gran chiarezza, se per impazienza di aspettare a vederle non ce ne verremo a rendere immeritevoli. – Fu recata già nel senato di Atene una causa sì difficile a definirsi, che i giudici convennero in dare alle parti questa risposta: Tornate por la sentenza di qua a cent’anni. Ancora noi, quando i nostri pensieri ci muovano fiera lite sopra i mali da Dio permessi, ed i beni distribuiti, diamo loro questa risposta, che solamente è la saggia: Tornate, non in capo ad un secolo, ma in capo a tutti quelli che ha Dio prefissi allo scoprimento del vero, e vi sarà fatta ragione, e ragion si aperta, che non vi rimarrà neppure animo a cavillare.

VII. Per ora sappiasi, che tutto l’error degli uomini in questo punto è non voler distinguere il termine dalla via. Appartiene alla provvidenza il far che nel termine dove sì sta eternamente, tutti i buoni abbian bene, i mali abbian male. Ma nella via non così. Nella via le vicissitudini hanno da intervenire comuni a tutti, per ciò medesimo, perché siam tutti in via. Vuol che la via non si distingua dal termine, chi vuole che alcuno qui sia sempre beato, o alcun sempre misero (1)

(1) La provvidenza divina si estende a tutto, quanto è ampio, l’indefinito universo papperò mala si giudica della medesima riguardando alcune minime parti del creato in se stesso, staccate da tutte le altre, con cui formano un unico, immenso disegno. Chi se’ tu. Che chiami la provvidenza divina al tribunale di tua ragione e la misuri colla veduta corta d’una spanna? Abbraccia prima, se puoi, e di un solo sguardo tutta l’immensa tela degli umani eventi, e riferisci i tempi tutti all’eternità, e poi levati giudice del provvedere divino. 

FINE DEL PRIMO VOLUME

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.