LO SCUDO DELLA FEDE (111)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 vol. I

CAPO XXI.

Si risponde alle accuse date alla provvidenzaper la ineguale distribuzione de’ beni, massimamentedonati agli empi.

I. Gli occhi, i quali sporgono in fuori, non però sono abili a veder più degli altri, ma solamente a restar più degli altri, offesi dal fumo (Aristot. problem. sect. 31. n. 6). Che vale dunque agli intelletti presuntuosi l’uscire tanto dai termini, per mirare ciò che non è concesso a guardi mortali? Il frutto del loro ardire sarà rimaner sopraffatti dalla caligine di quei divini consigli, che, se si contenessero in umiltà, sarebbero bensì loro di ammirazione, ma non di scandalo. Dovrebbe dunque uno di essi piuttosto dir con Salviano (De gubern. 1.3) in questo proposito: Homo sum non intelligo: secretum Dei investigare non audeo: e pure all’incontro, quanto più vuoti di senno, tanto più queruli, dove non giungono ad investigar con la mente debole, giungono ad insultar con la lingua bestemmiatrice. Chieggo io frattanto: può il governo di questo mondo andar meglio di ciò che vada, o non può andar meglio? Se non può andar meglio, di che dunque si dolgono gli ateisti? Se può andar meglio, dunque v’è chi può fare che vada meglio. E tale è la medesima provvidenza da lor negata. Che se ella v’è, basta questo. Non è follia da giumento stimar possibile ch’ella lasci di fare in tempo veruno ciò che va fatto? An usque adeo desipiendum est, ut homo videat melius aliquid fieri debuisse, et hoc Deum vidisse non putet? (S. Aug. I . 1. c. 14. contr. adv. leg.) Oh quanto più frutterebbe a tanti uomini temerari l’accusare sé d’ignoranti, che Dio d’iniquo! Ma perché non credano che ciò si dica a sfuggir la difficoltà, seguano pure a sfogarsi.

II. Ciò che agli ateisti cagiona maggior travaglio in tal governo, non può riputarsi certamente che siano i disordini delle colpe, mentre essi appunto sono quei che gli accrescono più d’ogni altro: è la distribuzione de’ beni. Vorrebbero eglino, che questa fòsse in man loro, sicché la provvidenza, quasi minore, dovesse aver per tutore il lor senno nell’ eseguirla. Ma ciò non può mai succedere. Però dacché non han forze da rendere a sé soggetta la provvidenza, si volgono ad accusarla spargendo con espressa sollevazione, tra ‘l volgo credulo, che troppo male ella amministri l’entrate del nostro mondo, mentre, quanto prodiga ella è nel donarle agli empi, altrettanto avara è nel concederle ai giusti. Ed è possibile, dicono essi, che vi sia provvidenza se alla fine, come la calamita, fra tanti metalli nobili, non si sceglie a sollevare altro da terra, che il ferro vile, così dia gode per lo più d’innalzare chi meno il merita? Che se pure da lei vengan talvolta i meritevoli ancora rimeritati, tosto si scorge, ch’ella operò di capriccio, non di consiglio: mentre appena fa loro un dono che lor ritoglie; e più incostante del medesimo mare nei suoi flussi e riflussi non sorba legge, lasciando nel meglio aride quelle spiagge che allora allora aveva pigliate a inebriare con larghi flutti. E noi vogliamo poi credere, che sia più che qualche cieca podestà, casuale quella che amministra sì male le sorti umane, senza distinguere nelle rimunerazioni benefiche le opere virtuose dalle viziose, sicché o nulla vi sia ch’ella doni al merito, o nulla che pentita non gli ritolga? S’intitoli provvidenza quanto a lei piace: non è provvidenza, è fortuna.

I.

lII. Se ivi sono i sogni più strani, dove sono gli umori più sconcertati, non è meraviglia, che gli ateisti vaneggino in simil guisa. Ma compatiamoli, e facciamo prova, se ci riesca con amorevole purga cambiar loro i sogni in dottrine.

IV. Fate però ragione, che il governo della provvidenza sia simile ad una tessitura di arazzo: Telam, quam orditus est super omnes nationes(Is. XXV. 7). Per lavorarlo, conviene in primo luogo, che alcune fila vadano rette e formino l’orditura, altre a traverso, e formino il pieno : alcune sian tinte col sangue della porpora, altre col sugo di guado: alcune si giacciano in fondo a formar gli orli dell’opera, altre sian collocate nel più vistoso a formarne il campo. Così conviene in prima, che alcuni tra gli uomini siano ricchi, altri poveri: altri superiori, altri sudditi: altri nobili, altri plebei: altrimenti l’opera non solo non avrebbe vaghezza alcuna, ma né anche potrebbe aver compimento.

V. Non avrebbe vaghezza, porche non avrebbe la debita varietà: e al più sarebbe una Tela rozza, non un arazzo ingegnoso. La limitazione delle creature è quel poverissimo fondo su cui Dio ricama il più bello che abbiano i suoi lavori, cioè la diversità delle cose e l’inegualità. Imperocché non potendo veruna creatura capire in sé, come limitata, tutte quelle perfezioni che Dio vuole dimostrare operando, convenne di necessità ch’Egli le ripartisse in più nature tra loro varie, e non di rado anche opposte, affinché contenessero tutte insieme quel che ciascuna da sé non poteva accogliere, posta l’angustia del vaso. Cosi, perché una semplice corda non è capace di dimostrar nel liuto tutta l’armonia che sa dargli la mano musica, se ne aggiungono molte, quale più sottile, quale più grossa, quale più tesa, quale più lenta, che poi, toccate diversamente dall’arte, fanno quel concerto bello che incanta le nostre orecchie.

VI. Dissi poi, che. senza questa ineguaglianza di alto e di basso, di abbondanza e di bisogno, non poteva nemmeno sussistere il governo dell’uman genere, ne compirsi. Perocché fingete che vadano esuli dalla città tutti i poveri, tutti i plebei, quale inimico le recò mai tanta desolazione in un attimo, quanta le recherebbe un tal bando? Che se in riguardo a quei che vanno, sarebbe esilio; in riguardo a quei che rimangono senza loro, sarebbe morte. Chi lavorerebbe in quel mezzo tempo la terra? Chi le darebbe quasi ad usura quel seme, che poscia moltiplicato a tanti doppi mantiene la vita agli uomini di ogni stato? Che sarebbe delle arti, sì delle liberali, sì delle meccaniche, le quali tutte o nacquero dalla necessità o vengono allevate dalla speranza? Non vedete voi che la copia e l’inopia sono quelle due braccia che stringono amichevolmente il genere umano in perpetua corrispondenza, e che mantengono in lui la vita civile? Il bisogno di educazione nella fanciullezza stringe i figliuoli ai padri, e il bisogno di sostentazione nella vecchiaia stringe i padri ai figliuoli. Il povero ha bisogno della mano del ricco per essere sollevato, il ricco ha bisogno delle braccia del povero per esser servito. Il bisogno di governo soggetta i popoli al sovrano, e il bisogno di assistenza soggetta il sovrano stesso ai suoi popoli; sicché, a dir breve, possiamo concludere con le dotte parole di un Agostino, che la necessità vicendevole è la genitrice di tutte le azioni umane: Omnium actionum humanarum mater est necessitas (S. Aug. in Ps. 81).

VII. Pertanto ciò che ci manca al mantenimento più agiato di noi medesimi, non è materia di accusa della Provvidenza, è materia di ammirazione, massimamente che Dio nella distribuzione de’ beni terreni ha fatto come un accorto padre, il quale dovendo al fìgliuol maggiore lasciare il maiorasco, per decoro e per durevolezza della famiglia, lo stringe nel testamento ad alimentare i suoi fratelli minori; e da che lo fa possessore di tutto il fondo, l’obbliga insieme a partirne i frutti tra quei che ebbero comune con esso lui, come il sangue illustre e la nascita, così l’amor fraterno e la cura. L’arte quasi unica dell’agricoltura consiste singolarmente a disseccare i terreni troppo umidi, e inumettare i più asciutti. E questo è ciò che richiede la Provvidenza: che chi abbonda di facoltà, ne faccia parte a chi è scarso. Ma l’avarizia, come è una sete, non della natura, ma della febbre, così non si spegne mai: onde si persuade, che crescano in lei le necessità a proporzione del crescere che in lei fanno le brame accese. E ciò fa che i poveri divengano troppo queruli, quasi non soccorsi abbastanza; e i ricchi troppo tenaci quasi non pieni; pervertendo l’ordine dei disegni divini per mero vizio. Ma frattanto ci parrà giusto rifondere nella Provvidenza i nostri difetti, e rivoltare in biasimo del legislatore quelle trasgressioni medesime ch’Egli vieta con le sue leggi?

II.

VIII. Vero, direte voi : sono necessari ipoveri e i ricchi, inobili ed iplebei, i sovrani ed i sudditi; né senza tal varietà avrebbe il mondo la sua vaghezza presente, né la sua vita. Ma questa risposta non solve il nodo, lo salda. Per qual ragione non ha collocata Iddio l’abbondanza in mano de’ buoni, e non ne ha privati al tutto i cattivi? Perché il vizio naviga sempre col vento in poppa, e la virtù non può mai spiegare le vele: tante son le procelle che l’assaliscono? Non è ciò un giuocare che a nostro costo fa Dio su gli avvenimenti mortali, piuttosto che un governarli?

IX. Ah temerità di coloro che rimirando il volto della Provvidenza negli ondeggiamenti delle umane vicende, lo credono mostruoso! Primieramente mi si dica ove leggasi, che i buoni siano stati sempre depressi, e icattivi sempre esaltati? Prenda pure in mano le istorie chi vuol chiarirsi di questa orrenda calunnia che dassi al vero. E perché gli aspetti dei luminari maggiori sono più agevoli ad osservarsi, miri quanto di raro sia succeduto, che i principi più segnalati nella pietà non fossero parimente i più segnalati nella prosperità del governo, e che i più malvagi non fossero similmente i più malavventurati. Quando Roma, dopo aver levata ai popoli stranieri la libertà, non dubitò di levarla ancora a se stessa, ebbe a tollerare una lunga fila di Cesari sì scorretti, che potevano più veramente chiamarsi bestie coronate, che Cesari. Or chi non sa, di numero così grande, quanto pochi furono quei che terminarono tranquillamente i lor giorni? Anzi tutti o quasi tutti caddero vittime per mano di sudditi risentiti o di soldati ribelli. Ciò che può fare ampia fede ai privati ancora, quanto sia falso, che l’empietà sia comunemente felice, la pietà misera.

X. Dissi comunemente; perché questo è un tratto fino altresì della Provvidenza: né sempre accompagnar la pena alla colpa su questa terra, né sempre disgiungerla. Se Dio punisse ogni colpevole in vita, noi di leggieri trascorreremmo a stimar, che la sua giustizia non avesse altro tribunale più formidabile da vendicare le ingiurie che a lei facciamo, né altri tormenti più feroci di questi: onde ella verrebbe a rendersi disprezzevole nell’atto stesso di voler farsi apprezzare. Dall’altro lato se Dio mai non pagasse in contanti le sfrenatezze degli uomini con l’esempio di qualche castigo visibile, gli uomini potrebbero sospettare, ch’Egli non distinguesse nell’amor suo la virtù dal vizio, ma che li trattasse del pari. Pertanto convenne mescolare un modo con l’altro, per adeguare le provvisioni al bisogno. Tanto più, che questo tenore medesimo di governo, il quale riserba il più del premio e della pena a quel tempo che non ha fine, serve meravigliosamente a farci calpestare i beni caduchi com’essi meritano. Apparteneva alla Provvidenza insegnare agli uomini la virtù, ch’è l’unica via per cui si giunge alla vera beatitudine. Ora il maggiore ostacolo a chi cammina per questa via sono gl’inviti che ad ogni passo gli fanno i beni terreni per arrestarlo. E però con qual mezzo potevasi dimostrare più apertamente la vanità di sì fatti beni che con accomunarli anche agli empi ? Poteva mai caderci in pensiero, che questo fosse il pane preparato ai figliuoli, mentre a tutto pasto il vediamo gettare ai cani? Troppo era naturale argomentare, che quello che da Dio si concede ancora ai bestemmiatori del suo gran nome, agli spergiuri, ai sacrileghi, non era la mercede da lui destinata a rimeritare gli ossequi de’ suoi diletti. Questi anni addietro, essendosi in Vittemberga introdotta una moda nuova e dispiacevole al principe, che fece egli? la diede ad usare al boia; e con tale atto le tolse tosto ogni seguito ed ogni stima. Un’arte somigliantissima di governo ha la provvidenza. Per toglierci l’affezione ai beni manchevoli della terra, gl’infanta con guarnirne ancora i ribaldi: Nullo modo magis potest Deus concupita traducere, dice Seneca (De prov. c. 5), quam si illa ad turpissimos defert, ab optimis abigit.

XI. Aggiungete che i ribaldi medesimi hanno bene spesso ne’ loro costumi tal cosa che sia lodevole, non trovandosi quassù così facilmente scelleraggine tutta pura, com’è giù tra i diavoli e tra i dannati. La vipera non è già velenosa in ogni sua parte, anzi col tossico ha tanto accompagnato di sanativo, che può tenere un posto onorevolissimo nella composizione de’ medicamenti. Quel ricco che voi vorreste subito in fondo, perché rapisce l’altrui sostanza, forse somministra cortese a più di un bisognoso il suo patrocinio. Quel lascivo sa perdonare alla fama del prossimo, se non sa perdonare alla pudicizia. Quel linguacciuto sa rattemperarsi dalle bestemmie nell’ira, se non sa raffrenarsi dalle mormorazioni. Taluno tradì la fede all’amico, ma insieme fu fedelissimo alla consorte: come appunto raccontasi che i romani fra tante loro rapine amarono la fortezza, i goti l’onestà, i vandali la religione, gli unni il rigore, i turchi l’ubbidienza ai loro sovrani. E così fate ragione che se è difficile ritrovare infermo sì disperato, che fra ì suoi molti cattivi indizi di morte, non ne tramischi alcun buono: non è meno d’incile ritrovare iniquo sì discolo. Ora appartiene a Dio non lasciar senza premio verun’azione che in qualunque modo sia retta. E però come superficiale è la virtù di costoro, così guiderdonasi con una felicità parimente, che non ha fondo, qual è quella di questa vita. E con ciò viene la provvidenza di vantaggio a manifestare quanto ella si compiaccia della virtù, mentre l’ama insino dipinta.

Xll. Finalmente fingete un empio tanto penetrato dalla malvagità, che non dia luogo a virtù, neppure apparente; non è necessario, ch’egli però vada esente dal provare gli effetti della divina clemenza con qualche temporale prosperità. Ad un ladrone condannato al patibolo, non consente ogni ragion che si porga qualche ristoro prima di mandarlo alla morte? Come però abbiamo a sdegnarci che un tal costume sia praticato dalla clemenza divina: sicché a quel reo. che è già destinato ad ardere senza fine i n un rogo eterno, concedasi per lo spazio di pochi dì antecedenti qualche sollievo? Andate ora e invidiate quei reprobi, perché godono. Non è ciò maggiore stoltezza che invidiare la cena del giustiziato? Quel pesce che guizza così lieto per l’onde, ha l’amo già nello viscere sì inoltrato che non vi vuole altro più, se non che il pescatore tiri a sé di colpo la canna per ìstrappargliele. E in tale stato può mai quel pesce meritarsi il bel titolo di felice?

XIII. Tanto più che gli empi con lo loro passioni, con le invidie, con le inimicizie, con le alterezze s’infettano quel poco stesso di bene che loro viene concesso da Dio: ad imitazione di quei mastini che non sanno godersi in pace tra loro ciò che loro vieri dato in cibo; ma digrignano i denti e si feriscono insieme alla disperata. Se non che i malvagi fanno ancora di peggio; mentre rivolgono la loro perversità contra se medesimi, e fanno in pezzi il lor cuore; onde vedete che loro tanto manca quel bene che hanno, quanto quel che non hanno. Il lince non ingrassa mai, perché mentre si pasce in un prato, tien gli occhi all’altro, e si strugge per ansietà di mettere quanto vi è nel suo ventre solo.

XIV. Ma checché siasi di ciò, chi negli avvenimenti umani teme di vertigine faccia come chi passa un torbido torrente, e non vuol cadere. Non fissi gli occhi nelle acque che vengono giù rovinose dalla montagna; li fissi alla riva stabile che lo attende di là dall’acque. Non miri ciò che scorre col tempo, miri ciò che dura per tutta l’eternità: e con questa misura retta, e non col palmo di una felicità transitoria, che è sì calante, rinvenga i beni che sono comuni agli empi, e rinvenga i mali che sono comuni ai giusti. Questa è l’altra opposizione che fanno gli uomini di corto senno alla Provvidenza, volendo misurarle audaci le mani, per dare a credere, ch’ella ne abbia una più lunga dell’altra, come già le aveva Artaserse. Se non che di tale opposizione mi serbo a discorrere da per sé nel seguente capo per minor tedio.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

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