Oggetto adorabile della divozione al SACRO CUORE di GESU’.

Oggetto adorabile della divozione al Sacro Cuore di Gesù.

[Sac. A. Carmignola: IL SACRO CUORE DI GESÙ; S.E.I. Ed. Torino, 1920 – III disc. ]

Iddìo è il primo principio di tutte le cose create e di tutte il conservatore. E poiché ad ogni persona dotata di qualche dote eccellente devesi onore, perciò devesi onore a Dio, perché vi ha in Lui un’eccellenza infinita, che a noi si manifesta specialmente con quella somma onnipotenza ed immensa bontà, con cui dà l’essere a tutte le cose e a tutte le mantiene. Ora l’onore a Dio dovuto gli si offre per mezzo della religione. – Ma l’uomo rispetto alla Religione, come dimostra purtroppo la storia dei passati secoli, non è altro che un povero bambino. Quando il bambino ha fame e la madre non gli è là per dargli il seno, egli allora approssima alla bocca qualsiasi cosa che gli cada sotto la mano, e la divora e la inghiottisce come fosse un alimento di vita, ancorché al contrario fosse veleno e gli recasse la morte. Così rispetto alla religione avviene per l’uomo, allorché si trova fuori della vera Chiesa. Lungi da questa madre divina, la sola che gli offra il vero mezzo di porsi in intima comunicazione con Dio, sospinto dalla fame che di ciò naturalmente ha in cuore, egli converte stupidamente qualsiasi cosa in Dio, si fa de’ falsi dei, si abbandona ad onorarli come fossero il vero Dio, e per dirlo in breve, cade nell’idolatria, cioè nell’aberrazione più abusata dello spirito e del cuore umano. Or bene, o miei cari, lo credereste? Questo delitto così orribile venne pure attribuito da taluni ai devoti del Sacro Cuore di Gesù. Sì, nello stabilirsi del culto al Sacratissimo Cuore non mancarono certi spiriti beffardi, i quali facendosi a schernire i sapientissimi seguaci di questo culto istesso, chiamaronli col nome di cardiolatri, di cordicoli, di adoratori di un viscere. Certamente non vi sarebbe bisogno di far conoscere a voi la falsità di questa accusa. Tuttavia, per rassodarvi sempre più nel culto che rendete al Sacratissimo Cuore, io voglio mostrarvi oggi come l’oggetto di questo culto, sotto qualsivoglia aspetto può considerarsi, vuol essere adorato, e come perciò non è se non con infallibile sapienza che la Chiesa ci invita a rendere tale omaggio al Cuore di Gesù, dicendo: Cor Jesu, charitatis victimam, venite adoremus.

I. — Dio è amore, dice S. Giovanni: Deus charitas est. (I Joan. IV, 8) L’amore è la sua essenza, la sua vita, la sua legge. Contemplando se stesso Egli si vede infinitamente bello, infinitamente buono, opperò infinitamente degno di essere amato; e con uno slancio, che dura da tutta l’eternità, Egli si volge a se stesso ad amarsi d’amore infinito. Ma questo Dio, tutto amore, non solo ama se stesso, ma ama ancora tutte le sue creature. O Dio, esclama il Savio, tu ami tutte le cose che esistono, ed avendole tu fatte non ne odii alcuna: Diligis omnia quæ sunt, et nihil odisti, eorum, quæ fecisti (Sap. XI, 25). Come ciò avvenga non è facile spiegarcelo, perché se si segue la sentenza di S. Dionisio, che ciò che ama Dio nelle sue creature è quella parte di sua bellezza e di sua bontà che in esse ha posto, come non seguire altresì quella dell’Angelico S. Tommaso, il quale asserisce che questa parte di bellezza e di bontà sono già effetto dell’amore di Dio? Ma comunque sia la cosa, ciò che è indubitabile si è, che Dio ama le sue creature. E poiché tra le sue creature tengono un posto principalissimo gli uomini, che Egli ha fatti a sua immagine e somiglianza, è certissimo altresì, che agli uomini porta un amore specialissimo. E chi può dubitarne? – Ascolta bene, o uomo. Tu non esistevi ancora, non esistevano ancora i padri tuoi, anzi non eranvi ancora il cielo, la terra, gli Angeli, e Dio già ti amava, e ti amava da tutta l’eternità. Sì, da tutta l’eternità ti aveva concepito nella sua mente, ti teneva innanzi a sé, pensava a te, a crearti, a farti del bene, ad annoverarti tra i suoi fratelli, tra i figli di Dio, tra gli eredi del cielo, a illuminarti con l’insegnamento delle verità celesti, a confortarti con le sue grazie, ad aiutarti in ogni guisa, perché un giorno avessi poi ad essere con Lui unito per sempre. Così ti amava Iddio. Ma vi era forse in te alcun merito a tanto amore, oppure aveva Iddio alcun obbligo di così amarti? Mai no. Tuttavia Egli ti amò gratuitamente e di amore eterno: In charitate perpetua dilexi te. (IER. XXXI, 3). – Ma ecco che questo Dio che nel suo pensiero ti amava da atta l’eternità si pone per te ad attuare i suoi disegni d’amore. Per te crea il mondo con tutte le sue meraviglie e per te lo conserva. Per te incessantemente somministra alle creature la forza che le sostiene e la costanza che le fa resistere; per te fa spuntare il sole sull’orizzonte, fa brillare le stelle, fa discendere le piogge, fa vivere gli animali, fa germogliare le piante e produrre i frutti, per te insomma apre la sua mano divina a spargere su tutti gli esseri la sua benedizione e a diffondere nei medesimi la vita. E poi con le sue stesse mani prende la creta e forma il tuo corpo, e dalla sua bocca spira in te l’alito di vita. E con quest’alito ti dà l’intelletto, la volontà, la libertà, la memoria, l’immaginazione, i1 cuore, il pensiero, la parola e tanti altri doni che formano di te il re della creazione. Più ancora, Egli ti innalza ad uno stato meraviglioso e soprannaturale, sicché gli Angeli fuori di sé per lo stupore, vanno chiedendo a Dio: E chi è mai l’uomo che tu hai fatto sì grande, ed al quale hai rivolte tutto le tenerezze del tuo cuore? Quid est homo quia magnificas eum? aut quid apponis erga eum cor tuum? (IOB. VII, 17) Ma ciò non è tutto. Poiché sgraziatamente per la colpa sei caduto dalla tua grandezza, e sei precipitato in un abisso di miserie, per rialzartene impone al suo Figlio Divino di lasciare il cielo, venire in terra, di farsi uomo e di sacrificarsi per te. Ed eccolo, questo Divin Figlio, obbediente alla voce del suo divin Padre, nascere in una povera stalla e fra gli orrori di una cruda stagione, eccolo sottostare alle persecuzioni di un re geloso e pigliar la via dell’esilio, eccolo menare la vita prima tra gli stenti e tra le fatiche nell’umile bottega di un fabbro falegname, e poi tra l’ingratitudine, il disprezzo, e le minacce di uomini protervi ed invidiosi; eccolo oppresso dal timore, dal tedio, dalla tristezza mortale agonizzare e sudar sangue in un orto; eccolo dopo aver passato tra un popolo facendo del bene e dando a tutti gli infermi la sanità, lasciarsi catturare come vile malfattore, trascinare carico di catene dall’uno all’altro tribunale, flagellare orrendamente a sangue, incoronare di spine e condannare iniquamente a morte; eccolo al fine, portata Egli medesimo la croce sulla cima di un monte, lasciarsi affiggere ed inalberare su di essa, e su di essa dopo aver agonizzato per tre ore in un mar di tormenti, spirar l’ultimo fiato. Oh amore! oh amore! Ben ha ragione l’Apostolo S. Giovanni di esclamare: Sic Deus dilexit mundum ut Filium suum unigenitum daret. (III, 16) Ma pure ciò non basta ancora. Perciocché questo Figlio Divino, che dopo essersi sacrificato per noi sulla croce, deve risorgere e salire al cielo per preparare lassù un luogo anche a noi, prima di salirvi Egli trova il modo di rimanere in mezzo a noi con la sua reale presenza sino alla fine del mondo, di perpetuare tra di noi il sacrificio di se stesso al suo Divin Padre per la nostra salute, di diventare il cibo spirituale e celeste delle anime nostre. O Santissima Eucarestia, non ci parli tu in modo sopra ogni altro eccellente dell’amore immenso di Dio per noi? Sì, senza dubbio, per te tutti gli amori sono vinti; per te, Iddio ha esaurite le ricchezze della sua bontà; per te ci ha dato tutto ciò che poteva darci: Sic Deus dilexit! – Or bene, o miei cari, di questo immenso amore di Dio per noi è simbolo per l’appunto il Sacratissimo Cuore di Gesù. Epperò questo Cuore Sacratissimo, quando pure non fosse altro che il segno simbolico di quest’amore, giustissimamente sarà da noi adorato, perché in sostanza l’adorazione nostra avrà per oggetto supremo alcunché di divino. Forse che gli uomini, e coloro medesimi che insultano le pratiche del culto cattolico, non tributano ancor essi un qualche culto a quei segni che ci ricordano qualche cara persona o simboleggiano qualche sua bella dote? Perché talvolta sì grande venerazione ed amore ad una spada, ad un abito, ad uno strumento, ad un piccolo ritratto, ad una ciocca di capelli, ad un fiore appassito? Quegli eretici e quegli increduli che con tanta facilità si fanno a qualificare di superstizioso ed idolatrico il culto che noi, veri Cattolici, rendiamo ai simboli ed alle memorie delle perfezioni di Dio, di Gesù Cristo, della Vergine e dei Santi, si mettono in aperta contradizione con se stessi. Perciocché tra cotesti eretici ed increduli v’hanno sin di coloro, che conservano religiosamente il cuore di Zwinglio, uno dei laro maestri, di coloro che mostrano ed onorano i calzoni di Lutero, di quelli che tengono in devota venerazione il bastone e la tabacchiera di Voltaire! Tanto è vero anzi tutto che chi cessa di essere religioso e credente e si fa a beffare la religione e la fede, diventa egli credulo e superstizioso, e tanto è vero altresì che tale è l’istinto naturale del nostro cuore, che ne spinge a legare ad un oggetto qualsiasi il ricordo delle altrui virtù e i più cari sentimenti dell’altrui stima e dell’altrui amore. Ora se tributasi un culto ad un segno che ricordi una persona umana, ad un simbolo di una qualche sua rara qualità, non si dovrà tributare un culto, ed il culto supremo, il culto di adorazione, a quel Cuore che ci ricorda e ci simboleggia la carità di un Dio per noi? Sì, certamente, anche per sola ragione il Cuore Sacratissimo di Gesù è Cuore adorabile.

II. — Ma ciò non basta. Il Cuore di Gesù vuol essere adorato, perché fu in realtà il principale strumento dell’amor divino per noi, l’organo che risentì maggiormente tutti gli affetti e tutti gli strazi, a cui Gesù Cristo fu assoggettato nel compiere l’opera della nostra redenzione. Ponete ben mente. Come nei corpi vi ha un centro di gravitazione, così ve ne ha uno nella nostra vita fisica e morale, e questo centro di azione della nostra doppia vita è il cuore. Io non ignoro che vi sono degli scienziati che contrastano al cuore la sovranità che i popoli gli attribuiscono, volendo far cadere ciò che essi chiamano il prestigio e la poesia del cuore. Ma checché essi dicano e scrivano, non riusciranno tuttavia giammai ad impedire che il cuore sia in realtà l’organo che principalmente si risente delle affezioni dell’anima. Esso è per così dire il termometro di quella interna atmosfera, che a seconda dei casi, or lieti, or tristi, or piacevoli, ora dolorosi, invade l’anima. Di fatti a seconda di tali casi ora balza nel petto, ora accelera i suoi battiti., ora si dilata, ora si restringe, ora si infiamma, ora si raffredda, ora si consuma ed ora vien meno. Ma fra tutte le passioni dell’anima tiene il primo posto l’amore; anzi, come insegna l’Angelico dottore S. Tommaso, non vi ha alcuna passione, che non presupponga l’amore e della quale l’amore non sia fonte. Perocché in tutta la vita dell’uomo è propriamente l’amore, che con il suo movimento le dà impulso. L’intelligenza guarda, la volontà comanda, ma l’amore è quello che va ed eseguisce; l’amore spira, l’amore chiama, l’amore si slancia, l’amore si precipita, l’amore gravita traendo seco tutto ciò che gravita intorno a lui: essendo che dove tende il nostro amore, là tendono i nostri desiderii ed aspirazioni, le nostre parole, le nostre opere, le nostre virtù, e pur troppo anche i nostri vizi, secondo che il nostro amore è ordinato o disordinato. Quæcumque feror, amore feror, ha detto assai egregiamente S. Agostino, perché pondus meum, amor meus; il peso della mia vita è il mio amore. Se adunque fra tutte le passioni dell’anima tiene il primo posto l’amore, e se il cuore è nel corpo umano l’organo che più si risente delle passioni dell’anima, è chiaro perciò che il cuore è l’organo che per eccellenza sente e misura la passione dell’amore. Non basta. Il cuore situato, quasi sovrano degli altri organi, pressoché in mezzo del corpo, è desso che mette in moto senza alcuna posa il sangue e lo manda a nutrire tutte le altre parti del corpo, e ad infondere in esse la vita. Cosicché quando taluno arriva a questa prova suprema di amore per alcun altro, da versare per lui il suo sangue, in quest’uomo generoso è il cuore propriamente che si esaurisce e che col sangue spinge fuori di sé la vita. – Ciò riconosciuto, torna facilissimo il vedere come il Cuore Sacratissimo di Gesù Cristo non sia soltanto il simbolo dell’amore divino per noi, ma ancora lo strumento di tale amore, quell’organo, che nel corpo di Gesù Cristo per cagione di tale amore provò le più vive sensazioni, l’organo anzi, da cui l’amore divino mandò fuori il sangue preziosissimo col quale si operò la nostra redenzione. Difatti era nel Cuore di Gesù Cristo intenerito, che Iddio si inteneriva alla vista dei fanciulli e provava un’insolita gioia nell’accarezzarli e nel benedirli. Era in questo Cuore infiammato, che Dio si infiammava di santo sdegno al pensiero di chi avrebbe scandalizzate queste animucce da Lui predilette. Era in questo Cuore commosso dei sordi, dei muti, degli storpi, dei lebbrosi, degli ossessi, dei peccatori, e si sentiva spinto a manifestare in loro prò, la sua potenza e la sua bontà. Era in questo Cuore dilatato che Dio dilatava la sua bontà nell’intrattenersi con gli Apostoli, con i discepoli, con gli amici e confidenti, facendo loro intendere parole di vita eterna. Era in questo Cuore balzante nel petto di Gesù, che Iddio in quell’istante da Lui tanto sospirato giubilava di allegrezza instituendo il Sacramento dell’amore. Era in questo Cuore insomma, che Iddio sentiva tutte quante le espressioni molteplici della sua passione d’amore per gli uomini. Ma fu da questo Cuore soprattutto, che nell’agonia del Getsemani, oppresso dalla paura, dal tedio e dalla tristezza, alla vista degli acerbissimi patimenti cui andava incontro, dei peccati degli uomini che gli gravitavano sopra, e delle nere ingratitudini, fu da questo Cuore, dico, che Iddio risospinse il sangue che trasudava per tutte le membra del corpo di Gesù Cristo, e gocciolava a terra. Fu per questo Cuore che sulla croce, esausto ormai per il sangue versato nella flagellazione, nella coronazione di spine e nella crocifissine, manifestò la sete divina di tutte le anime del mondo. Fu infine da questo Cuore, che ferito dalla lancia di un soldato, fece uscire le ultime gocce di sangue e di acqua che ancor vi restavano, per figurare quei fiumi di grazia che avrebbe versato mai sempre sopra di noi, per mezzo de’ suoi Sacramenti. – Or dunque se il Cuore di Gesù Cristo è desso propriamente il centro di tutti i movimenti amorosi di Dio per noi, e lo strumento precipuo di cui Iddio si valse in tutte le prove che Egli ci ha dato della sua carità divina, e specialmente nelle supreme, se insomma il Cuore di Gesù è la sede dell’amore di Dio per gli uomini, non merita esso il nostro culto, ed il culto supremo di adorazione? Sì, senza dubbio, perché adorando questo Cuore, noi adoriamo, come siamo in dovere, la carità divina. Epperò ben a ragione la Chiesa, nostra sapientissima ed infallibile maestra, nell’atto stesso che chiama con tanta proprietà il Cuore di Gesù Vittima di carità, ci invita ripetutamente ad adorarlo: Cor Jesu, charitatis victimam, venite adoremm. Sì, il Cuore di Gesù Cristo fu la parte principale di quella Vittima umana-divina che si sacrificò per la salute del mondo, epperò « è ben degno di ricevere la virtù, e la divinità, e la sapienza, e la fortezza, e l’onore, e la gloria, e la benedizione, » (Ap. V, 12) è ben degno insomma di essere adorato.

III. — Ma ecco un’ultima e suprema ragione, per cui al Sacratissimo Cuore è dovuto il culto di adorazione. La verità che forma la base, il centro ed il fine di nostra santa Religione, è la Divinità di Gesù Cristo. Se Gesù Cristo non fosse Dio, come spiegare l’esistenza del Cristianesimo? Ogni effetto suppone una causa; e come il mondo con la sua esistenza, con i suoi movimenti, con le sue bellezze ed armonie ci fa credere al supremo Creatore e Governatore, così il mondo cristiano, che si trova sparso da per tutto e che, sebbene in apparenza più piccolo dell’universo, è in realtà di una grandezza immensamente superiore, ci deve far credere a Gesù Cristo Dio, che lo ha fondato ed ordinato. Senza la divinità di Gesù Cristo, il Cristianesimo sarebbe un cumulo di effetti i più mirabili senza causa, di opere le più sorprendenti senza fattore. Anzi, se Gesù Cristo non fosse Dio, non solo non si potrebbe spiegare l’esistenza del Cristianesimo, ma questo, come immenso edificio campato in aria senza fondamento ed esposto alla furia di tutti i venti, dovrebbe tosto sfasciarsi e andare in rovina. Ma quale verità vi ha mai, che sia meglio comprovata della divinità di Gesù Cristo? Venuto Egli al inondo per salvarlo, si è fatto perciò vero uomo, prendendo la nostra umana natura. Ma prendendo nella sua Persona la nostra umana natura, non lasciò di conservare la natura divina e di restare vero Dio, quale già esisteva ab aeterno, Figliuolo di Dio eguale al Padre ed allo Spirito Santo, con essi Creatore del Cielo e della terra, e Padrone assoluto di tutte le cose. E vero Dio lo dissero i profeti, che tanti secoli innanzi la sua venuta, illuminati da Lui, ne annunziarono la nascita, la vita, la passione, la morte, la risurrezione e l’ascensione al Cielo con tutte le loro circostanze più minute e particolari. Vero Dio lo credettero gli uomini dell’antico testamento, sospirando che Ei rompesse i cieli e ne scendesse a rallegrarli con il suo divino aspetto. Vero Dio si proclamò Egli stesso in faccia ai suoi discepoli e confidenti, in faccia al popolo ed ai magistrati, nel corso della sua vita e al punto stesso della morte. Vero Dio lo manifestarono il suo spirito il più sublime ed il più semplice ad un tempo, il suo Cuore il più amante e il più puro, la sua volontà la più ferma e la più retta. Vero Dio lo chiarirono i miracoli d’ogni sorta da Lui operati sugli infermi risanandoli da ogni languore, sui morti risuscitandoli in vita, sul mare e sui venti burrascosi acquietandoli all’istante, su pochi pani e pochi pesci moltiplicandoli per saziare migliaia di persone. Vero Dio lo dimostrarono le profezie fatte da Lui medesimo sulla sua morte, sulle circostanze che la accompagnarono, sulla gloriosa sua risurrezione, sull’eccidio di Gerusalemme, sulle tribolazioni e morte de’ suoi discepoli, sulla conversione del mondo, sulla diffusione del Vangelo, sullo stabilimento della sua Chiesa e sull’immortale sua vita. Vero Dio lo proclamarono i Giudei medesimi, amici e nemici, quelli con l’abbracciarne la religione, questi con il dannarlo a morte, sotto il mendicato pretesto che Ei facevasi Dio. Dio lo gridarono gli stessi soldati romani che, per ordine di Pilato, messolo in croce, avevano assistito al suo estremo supplizio. Dio lo dimostrarono l’oscurarsi del sole, il tremar della terra, il piangere di tutta la natura, come sulla tomba del suo divino Autore; Dio lo palesò la sua gloriosa risurrezione che atterrì le guardie, e pose in scompiglio e tolse persino il senno ai capi della Sinagoga; Dio lo predicarono da un capo all’altro della terra gli Apostoli, operando col nome suo non mai visti né uditi prodigi, dando tutti la vita in conferma di questa verità essenziale; Dio lo riconobbe il mondo pagano, che a Lui rapidamente si diede, abbandonando gli adorati idoli, rovesciandone gli altari, distruggendone i templi, e sulle loro rovine piantando e adorando la croce; Dio lo confessarono in ogni tempo sulle grate infuocate, tra le fauci delle fiere, sulla punta delle spade milioni di martiri di ogni età, sesso e condizione, morendo con giubilo e gridando: « Gesù Cristo è Dio, Lui adoriamo: con Lui regneremo in eterno. » Dio lo ossequiarono le menti più colte, i guerrieri più prodi, i Signori ed i Monarchi più potenti. Dio lo mostra ancora la sua Religione, la sua Chiesa, combattuta sempre, e vinta non mai. Dio lo manifesta l’amore invincibile che dopo tanti secoli di sua mortale carriera, a malgrado di tante persecuzioni, a costo di tanti sacrifici gli serbano i popoli, come figli ad un padre morto pur ora. Dio finalmente lo attesta quell’odio medesimo, così costante e così implacabile, che ebbero contro di Lui i suoi nemici, ed i bestemmiatori del suo santo Nome. Perciocché l’odio feroce contro Gesù Cristo si trova forse negli adoratori e amanti di Dio? Ah! l’odio che costoro professano contro Gesù Cristo è figlio della fede che hanno in Lui, e dall’accento con cui dicono: « Gesù Cristo non è Dio » è facile conchiudere « Gesù Cristo è Dio. » Sì, Gesù Cristo è Dio, ecco l’affermazione universale e perpetua dell’umanità. E contro di questa affermazione potrà levarsi per poco l’orgoglio degli anni giovanili, gettati in preda alle passioni, l’orgoglio più altero di una scienza vana e falsa, l’orgoglio anche più sfrenato di un esito apparentemente felice nella guerra ingaggiata contro l’opera di Gesù Cristo stesso: ma quando le passioni sono calmate, quando l’ebbrezza della scienza mondana è passata, quando la sventura ha colpito e fiaccato d’un tratto l’umana alterigia, allora, salvo rarissime eccezioni, si ritorna a quell’affermazione, che nostra madre tenendoci stretti alle sue ginocchia ci faceva ripetere negli anni dell’infanzia: « Figlio mio, chi è Gesù Cristo? » — « O mamma, Gesù Cristo è Dio. » In Gesù Cristo adunque, Verbo divino fatto carne per la nostra salute, vi sono due nature, la natura divina e la natura umana, ma non vi ha che una sola Persona, la Persona divina. Ora poiché tanto la natura divina, quanto la natura umana sussistono nella sola Persona divina di Gesù Cristo, sia che si riguardi Gesù Cristo secondo la natura divina, sia che si riguardi secondo la natura umana, sia che si consideri in Lui lo spirito purissimo che è come Dio, sia che si consideri la carne di cui Egli, seconda Persona della SS. Trinità, si rivestì nel venire sulla terra ad operare la nostra redenzione, sempre vuol essere onorato col supremo culto di adorazione, con cui si onora la Divinità. E la ragione di ciò, del tutto conforme alla dottrina della Chiesa, è assai chiaramente espressa da S. Giovanni Damasceno. Egli dice: « Uno è Gesù Cristo, perfetto Iddio e perfetto uomo, che noi col Padre e con lo Spirito Santo adoriamo di una sola adorazione insieme con la Carne Immacolata. Né ricusiamo di adorare la Carne, poiché l’adoriamo nella Persona del Verbo, che in sé l’ha assunta; né per questo adoriamo una creatura, poiché non adoriamo la Carne presa da sé sola, ma come congiunta alla divinità, e perché le due Nature di Lui sono unite nella Persona del divin Verbo. » Così adunque, come ci spiega questo Santo, anche la Carne assunta da una Persona divina, vuol essere da noi adorata. Epperò ben a ragione la Chiesa, fin dal V° Concilio Ecumenico, contro di coloro che avrebbero voluto sottrarre al culto di adorazione la Carne di Gesù Cristo, pronunziò questa condanna: « Se alcuno ricusa di adorare con una sola e medesima adorazione il Verbo divino e la Carne ond’è rivestito … sia scomunicato. » – Or bene, o miei cari, quello che la dottrina Cattolica stabilisce relativamente a tutta l’Umanità di Gesù Cristo, si ha da dire anche in particolare del suo Cuore. Esso è una parte nobilissirna della stessa Umanità di Gesù Cristo, e per conseguenza con tutto il restante di essa è veramente e realmente unito alla Persona del Divin Verbo, anzi come tutta la restante Umanità non altrimenti sussiste ed esiste se non per questa stessa vera e reale unione. Quindi è, che questo cuore non è solamente il cuore di un uomo per quanto nobile, eccellente e santo, ma è il cuore di un Uomo-Dio, è il cuore della seconda Persona divina, incarnatasi e fattasi uomo, in una parola è, a tutto rigore, il cuore di un Dio. Se adunque il Cuore di Gesù Cristo, il suo Cuore reale, appartiene all’integrità personale di Gesù Cristo e devesi sempre considerare unito alla Divina Persona di Lui, deve essere adorato, e adorandolo altro non si fa che adorare tutto intero Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo. E se vi ha chi stoltamente ci deride e ci compassiona, quasi idolatri, perché nella divozione al Sacro Cuore gli rendiamo il culto supremo di adorazione, riconosciamo che egli piuttosto meriterebbe di essere deriso e compassionato per la sua ignoranza. – Ma più ancora prendiamo di lì eccitamento ad onorare sempre più profondamente quel Cuore che tanto merita di essere onorato. Il santo Re David nel condurre l’Arca del Signore  in luogo più degno, deposta la reale maestà, camminando innanzi all’arca, faceva atti di santa gioia e di profonda umiliazione. Lo vide dalla finestra sua moglie Michol, ed oltre all’averlo disprezzato nel suo cuore, si fece ancora in seguito a schernirlo con amare parole. Ma il santo re tosto le rispose: « Al cospetto del Signore io mi abbasserò e mi renderò ancor più abbietto di quel che ho già fatto, perché si tratta del mio Dio. » Così, o carissimi, al disprezzo, con cui taluno ricoprisse la vostra pietà, il vostro culto al Sacro Cuore di Gesù, rispondete sinceramente in cuor vostro: Al cospetto del Cuore adorabile di Gesù Cristo mi abbasserò e mi umilierò anche di più, perché il Cuore di Gesù Cristo è Cuore di Dio. Sì, o Cuore Sacratissimo di Gesù, Cuore simbolo per eccellenza dell’amore di Dio per noi, Cuore sede e strumento di tale amore, Cuore realmente divino, noi vi presteremo mai sempre l’omaggio delle nostre adorazioni. Come vi hanno adorato gli Angeli al primo vostro comparire sulla terra e come oggi vi adorano i beati tutti del Cielo, così vi adoriamo anche noi. Vi adoriamo con la mente ed inchiniamo dinnanzi a Voi tutte le sue facoltà; vi adoriamo col cuore e vi offriamo i suoi affetti; vi adoriamo col corpo e vi pieghiamo riverenti le nostre ginocchia. E Voi nella bontà vostra infinita, degnatevi di gradire gli omaggi della nostra totale adorazione e di compensarli per modo che, un giorno, possiamo venire a perpetuarli lassù nel regno dei cieli, con gli Angeli e coi Santi. Così sia.

PASSIONE, RESURREZIONE E TRIONFO FINALE DI GESU’ CRISTO NELLA SUA CHIESA

PASSIONE, RESURREZIONE E TRIONFO FINALE DI GESU’ CRISTO NELLA SUA CHIESA.

[Mons. G. De Segur. “Œvres” tom. X, 3a Ed.: “Je crois” PARIS LIBRAIRIE SAINT – JOSEPH TOLRA, LIBRAIRE-ÉDITEUR; 112, RUE DE RENNES, Ed. 1887]–

Cap. III,
GESÙ-CRISTO REDENTORE E CAPO DELLA CHIESA

Gesù-Cristo e la Chiesa formano un tutt’uno indivisibile; la sorte dell’Uno, è la sorte dell’altra; e così come dove si trova la testa, là deve ugualmente trovarsi il corpo, allo stesso modo i misteri che si sono compiuti in Gesù-Cristo, durante la sua vita terrena e mortale, devono compiersi nella sua Chiesa durante la sua vita militante quaggiù. Gesù-Cristo ha avuto la sua Passione e la sua Crocifissione. La Chiesa deve anch’essa avere la sua Passione e la sua crocifissione finale. Gesù-Cristo è resuscitato ed ha trionfato miracolosamente sulla morte. La Chiesa resusciterà, e trionferà su satana ed il mondo, con il più grande e prodigioso dei miracoli: quella della resurrezione istantanea di tutti gli eletti, nel momento in cui Nostro-Signore Gesù-Cristo, attraversando i cieli, ne discenderà pieno di gloria con la sua Madre santa e tutti i suoi Angeli. Infine Gesù-Cristo, Capo della Chiesa, è salito corporalmente in cielo nel giorno dell’Ascensione: a sua volta la Chiesa, resuscitata e trionfante, salirà in cieli con Gesù per gioire con Lui, nel seno di Dio, della beatitudine eterna. Noi non conosciamo in maniera certa « né il giorno né l’ora » (Vigilate et orate, quia nescitis diem neque horam. – Ev. S. Matth., c. XV, 13.), in cui avverranno tali cose. Ciò che sappiamo, in modo generico ma infallibile, perché rivelato da Dio, è che « la fine verrà quando il Vangelo sarà predicato nel mondo intero, al cospetto di tutti i popoli. » (Et prædicabitur hoc Evangelium regni in universo orbe, in testimonium omnibus gentibus: et tunc veniet consummatio. – Ibid., XXIV. 14.). Ciò che noi sappiamo, è che prima che queste cose supreme e spaventose si avverino, e che costituiscono la Passione della Chiesa ed il regno dell’antiCristo, si avrà, dice San Paolo, l’apostasia (Nisi venerit discessio primum. – II ad Thess., II, 3.): l’apostasia ufficiale delle nazioni cristiane, l’apostasia generale o quasi generale dalla fede della santa Chiesa e dal Pontefice Romano (Defectio et rebellio illa insignis, plena et generalis qua scilicet pleræque et passim omnes gentes discedent et déficient tum a Romano Pontifice et Ecclesia, tum a fide et Christo. – Corn. a Lap., in loc. cit.). Infine, ciò che noi sappiamo, è che in questa epoca spaventosa, il carattere generale della malattia delle anime, sarà il rilassamento universale della fede ed il raffreddamento dell’amore divino, in seguito al sovrabbondare dell’iniquità. Agli Apostoli, che avevano domandato a nostro Signore, da quali segni i fedeli avessero potuto riconoscere l’avvicinarsi degli ultimi tempi, Egli rispose loro: dapprima ci saranno grandi seduzioni, e molti falsi dottori, molti seminatori di false dottrine riempiranno il mondo di errori seducendone un gran numero (Tunc scandalizabuntur multi. Et multi, pseudoprophetæ surgent, et seducent multos. – Ibid., 10, 11.); poi ci sarebbero state grandi guerre e si sarebbe sentito parlare solo di grandi combattimenti, e che regno si sarebbe levato contro regno (Auditum enim estis prœlia et opiniones prœliorum… Consurgent enim gens in gentem, et regnum in regnum. – Ibid., 6, 7.); – che da ogni luogo poi si avranno flagelli straordinari, malattie contagiose, eidemie, carestie e grandi tremori di terra (Et erunt pestilentiæ, et famés, et terræ motus per loca. – Ibid., 7.) . « E tutto questo, aggiunse il Salvatore, non sarà che l’inizio “dei dolori” (Hæc autem initia sunt dolorum. – Ibid., 8.). satana e tutti i demoni ne saranno la causa e, sapendo che non resta loro molto tempo, raddoppieranno il furore contro la santa Chiesa: faranno un ultimo sforzo per annientare, distruggere la fede e tutta l’opera di Dio. La rabbia della loro caduta distruggerà la natura, (Projectus est (satanas) in terram, et angeli ejus cum illo missi sunt…Væ terræ, et mari, quia descendit diabolus ad vos, habens iram magnam, sciens quod modicum tempus habet. – Apoc, XII, 9, 12.), i cui elementi, come detto, resteranno fino alla fine sotto le influenze malefiche degli spiriti cattivi. Allora comincerà la più terribile persecuzione che la Chiesa abbia mai conosciuto, degna delle atroci sofferenze che il suo divin Capo ebbe a soffrire nel suo corpo sacratissimo, a partire dal tradimento di Giuda. Nella Chiesa pure ci saranno scandalosi tradimenti, immense e lamentevoli defezioni; davanti all’astuzia dei persecutori e l’orrore dei supplizi, molti cadranno, anche tra i sacerdoti, anche tra i Vescovi: « le stelle dei cieli cadranno », dice il Vangelo. E i Cattolici fedeli saranno odiati da tutti, a causa di questa stessa fedeltà (Multi venient in nomine meo, … et multos seducent… Tunc tradent vos in tribulationem, et occident vos: et eritis odio omnibus gentibus propter nomen meum. – Ev. S. Matth., XXIV, 5, 9.) . Allora, colui che S. Paolo chiama « l’uomo del peccato ed il figlio della perdizione » (Homo peccati, filius perditionis. – II ad Thess., II, 3.) l’antiCristo, comincerà il suo regno satanico e dominerà tutto l’universo. Egli sarà investito dalla potenza a dalla malizia di satana (Et dedit illi draco virtutem suam et potestatem magnam. – Apoc. XIII 2.). egli si farà passare per il Cristo, per il Figlio di Dio; si farà adorare come Dio, e la sua religione, che non sarà altra cosa se non il culto di satana e dei sensi, si ergerà sulle rovine della Chiesa e sui detriti di tutte le false religioni che copriranno allora la terra (Adversatur et extollitur supra omne quod dicitur DEUS, aut quod colitur, ita ut in templo DEI sedeat ostendens se tamquam sit DEUS. – II ad Thess. II, 4.). L’antiCristo sarà una sorta di Cesare universale, che estenderà il suo impero su tutti i re, su tutti i popoli della terra; questo sarà un’infame parodia del Regno universale di Gesù-Cristo. satana gli susciterà un “sommo sacerdote”, parodia sacrilega del Papa; e questo sommo sacerdote farà predicare ed adorare l’antiCristo su tutta la terra. Per virtù di satana farà grandi prodigi, fino a far scendere fuoco dal cielo in presenza degli uomini; e per mezzo di questi prestigi, sedurrà l’universo. Egli farà adorare, sotto pena di morte, l’immagine dell’antiCristo; e questa immagine sembrerà vivere e parlare; ugualmente, sotto pena di morte, comanderà che tutti, senza eccezione, portino in fronte e sulla mano destra il segno della bestia, cioè il segno dell’antiCristo. Chiunque non porterà questo segno, non potrà né vendere né comprare, chiunque esso sia (Et vidi aliam Bestiam… Et potestatem prioris Bestiæ omnem faciebat in conspectu ejus: et fecit terram, et habitantes in ca, adorare Bestiam primam… Et fecit signa magna ut etiam ignem faceret de cœlo descendere in terram in conspectu hominum. Et seduxit habitantes in terra propter signa, quæ data sunt illi facere in conspectu Bestiæ, dicens habitantibus in terra, ut faciant imaginem Bestiæ… Et datum est illi ut daret spiritum imagini Bestiæ, et ut loquatur imago Bestiæ: et faciet ut quicunque non adoraverint imaginem Bestiæ, occidantur. Et faciet omnes… habere characterem in dextera manu sua, aut in frontibus suis. Et ne quis possit emere aut vendere, nisi qui habet characterem aut nomen Bestiæ. – Apoc. XIII, 11-17). Intorno all’immagine dell’antiCristo, i prestigi di satana saranno tali, che quasi tutto il mondo li scambierà per veri miracoli; e gli eletti stessi alla lunga potranno essere sedotti ; ma a causa degli stessi eletti, il Signore abbrevierà questi giorni (Dabunt signa magna et prodigia, ita ut in errorem inducantur (si fieri potest) etiam electi… Sed propter electos breviabuntur dies illi. – Ev. Matth., XXIV, 22, 24). « L’abominio della desolazione regnerà nel luogo santo (Cum videritis abominationem desolationis,… stantem in loco sancto. (Ibid., 15.) », per tre anni e mezzo, durante « quaranta due mesi (Et data est ei potestas facere menses quadraginta duos. – Apoc, XIII, 5.) », corrispondenti alle quarantadue ore che sono trascorse, come abbiamo già detto, dall’inizio delle tenebre della crocifissione di Gesù, il Venerdì Santo, fino all’ora della resurrezione, la Domenica di Pasqua, al sorgere del sole. Benché sempre visibile e composta dai suoi elementi essenziali, la Chiesa sarà, in tutto questo tempo, crocifissa, come morta e sepolta. Sarà dato all’antiCristo di vincere i servi di Dio e di far piegare, sotto il suo giogo, tutti i popoli e tutte le nazioni della terra; e, salvo un piccolo numero di eletti, tutti gli abitanti della terra lo adoreranno, nel tempo stesso in cui adoreranno satana, autore della sua potenza (Et datum est illi (Bestiæ) bellum facère cum sanctis, et vincere eos. Et data est illi potestas in omnem tribum, et populum, et linguam, et gentem: et adoraverunt eam omnés qui inhabitant terram, quorum non sunt scripta nomina in Libre vitæ Agni… Et adoraverunt draconem, qui dedit potestatem Bestiæ; et adoraverunt Bestiam. (Ibid., VII, 8,4.). Se in precedenza il feroce Diocleziano ha potuto credere per un istante che egli avesse definitivamente distrutto il nome di Cristiano, che sarà in quei tempi dei quali quelli di Diocleziano e di Nerone non saranno che un pallido simbolo? L’antiCristo proclamerà orgogliosamente la decadenza del Cristianesimo, e satana, padrone del mondo, si crederà per un istate essere il vincitore. Ma nello stesso tempo, come ci insegnano le Scritture e la Tradizione, si leveranno contro l’antiCristo « i due grandi testimoni (Et dabo duobus testibus meis. (Ibid., XI, 3) » di Gesù-Cristo, riservati per questi ultimi giorni, vale a dire il Patriarca Henoch ed il Profeta Elia, che non sono morti, come espressamente insegna la Scrittura. Essi verranno a predicare le vie del Signore,  predicheranno Gesù-Cristo ed il regno di Dio per mille e duecentosessanta giorni, cioè per la quasi intera durata del regno dell’antiCristo. La virtù di Dio li proteggerà e li conserverà. Essi avranno il potere di chiudere il cielo ed arrestare la pioggia per tutto il tempo della loro missione … avranno il potere di cambiare le acque in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di piaghe. (Et prophetabunt diebus mille ducentis sexaginta… Et si quis voluerit eis nocere, ignis exiet de ore eorum, et dévorabit inimicos eorum: et si quis voluerit eos lædere, sic oportet eum occidi. Hi habent potestatem claudendi cœlum, ne pluat diebus prophetiæ ipsorum; et potestatem habent super aquas convertendi eas in sanguinem, et percutere terram omni plaga quotiescumque voluerint. – Ibid., 3, 4, 5, 6.). Essi faranno miracoli senza numero, simili a quelli di Mosè ed Aronne (se ne può vedere la recita profetica in diversi passaggi dell’Apocalisse, la quale, come ognuno sa, è la grande profezia degli ultimi tempi della Chiesa), quando combatterono in Egitto l’empio faraone e prepararono la liberazione del popolo di Dio. Come Mosè ed Aronne, i due testimoni di Gesù-Cristo scuoteranno l’impero ed il prestigio del “maledetto”. Non di meno, questi perverrà ad impossessarsi di loro, ed essi subiranno il martirio … « là dove è stato crocifisso il Signore (In plateis civitatis magnæ, ubi et Dominus eorum crucifixus est. (Apoc, XI, 8), » vale a dire a Gerusalemme; o forse a Roma, ove l’ultimo Papa sarà stato crocifisso dall’antiCristo, secondo una tradizione immemorabile … Dopo tre giorni e mezzo, i due grandi precursori del Re di gloria, resusciteranno davanti a tutti i popoli, saliranno in cielo su di una nube, nel corso di un tremendo terremoto che seminerà il terrore dappertutto. (Et post dies très, et dimidium, spiritus vitæ a Deo intravit in eos. Et steterunt super pedes suos, et timor magnus cecidit super eos, qui viderunt eos … Et ascenderunt in cœlum in nube… Et in illa hora factus est terræ motus magnus. – Ibid,, 11, 12, 13.). Per mostrare la sua potenza, l’antiCristo, scimmiottando la trionfale Ascensione del Figlio di Dio e dei grandi Profeti, tenterà anch’egli di salire in cielo, in presenza dell’élite dei suoi adepti. Ed allora Nostro Signore Gesù-Cristo, simile al fulmine che squarcia il cielo dall’Oriente all’Occidente, apparirà improvvisamente sulle nubi, in tutta la maestà della sua potenza (Sicut enim fulgur exit ab oriente, et paret usque in occidentem; ita erit et adventus Filii hominis… Et videbunt Filium hominis venientem in nubibus cœli cum virtute multa et majestate. (Ev. S. Matth., XXlV, 27, 30.), colpendo con il suo soffio sia l’antiCristo, sia satana ed i peccatori. Tutto questo è predetto in termini formali (Ipse Dominus in jussu, et in voce Archangeli, et in tuba Dei, descendet de cœlo. – I ad Thess., IV, 15.). Come abbiamo detto, l’Arcangelo Michele, il principe della milizia celeste, farà udire in tutta la terra il grido di trionfo che resusciterà tutti gli eletti (Et mittet Angelos suos cum tuba et voce magna; et congregabunt electos ejus. – Ev. S. Malth., XXIV. 31). Questo sarà il “Consummatum est” della Chiesa militante, che entra per sempre nella gioia del Signore. Questa « voce dell’Arcangelo » sarà accompagnata da una combustione universale, che purificherà e rinnoverà tutte le creature profanate da satana, dal mondo e dai peccatori. La Fede ci insegna, in effetti, che nell’ultimo giorno, Gesù-Cristo deve venire a giudicare il mondo con il fuoco (Cum veneris judicare sæculum per ignem. – Rit. Rom.). Questo fuoco vendicatore rinnoverà la faccia della terra in « … una nuova terra e nuovi cieli (Emittes Spiritum tuum … et venovabis faciem terrae. – Psal, CIII, 30. – Et vidi cœlum novum et terram novam. – Apoc. XXI, 1). Come sul Sinai, come nel Cenacolo, lo Spirito-Santo si manifesterà così con il fuoco, in questo giorno fra tutti spaventoso. – Tale sarà la fine terribile e gloriosa della Chiesa militante; tale sarà, almeno per quanto la luce sempre un po’ velata delle profezie ci permette di intravedere, la Passione della Chiesa; tale sarà la sua resurrezione seguita dal suo trionfo: Corpo mistico del Figlio di Dio, essa avrà seguito il suo divin Maestro fino al Calvario, fino al sepolcro, e per questa fedeltà avrà meritato di condividere la sua gloria per sempre.

Gesù-Cristo,  Maestro e Signore del mondo,
porrà fine alla serie dei secoli
con il Giudizio universale.

Nel suo glorioso avvento che porrà fine ai combattimenti della Chiesa, Gesù-Cristo resusciterà dapprima tutti gli eletti (Et mortui qui in Christo sunt résurgent primi. – I ad Thess., IV. 15,) Hæc est resurrectio prima. Beatus et sanctus qui habet partem in resurectione prima! – Apoc., XX, 5, 6), così come noi lo apprendiamo dalle Sante Scritture; e questa terra che non ha visto, per così dire, la Santa Chiesa di Dio, se non umiliata, combattuta, bagnata da lacrime e spesso bagnata dal sangue, la vedrà infine gloriosa e risplendente. «Ora, come dice San Paolo, tutte le creature sono nell’attesa ed aspirano al giorno in cui la gloria dei figli di Dio sarà rivelata, perché subiscono, loro malgrado, il giogo della menzogna. Allora esse saranno liberate dalla schiavitù della corruzione, e parteciperanno alla gloriosa libertà dei figli di Dio (Nam exspectatio creaturæ, revelationem filiorum Dei exspectat. Vanitati enim creatura subjecta est non volens… Quia et ipsa creatura liberabitur a servitute corruptionis, in libertatem gloriæ filiorum DEI. – Ad Rom., VIII, 19-21). » – Il secondo avvenimento cominciato con l’espulsione di satana, la distruzione dell’antiCristo e di tutti i suoi, e con la resurrezione trionfale degli eletti, sembra dover essere, secondo le Scritture, non soltanto un momento, un atto, ma bensì un’epoca, un’epoca di gloria ed un regno tutto spirituale di Dio e della sua Chiesa sulla terra rinnovata; un’epoca corrispondente ai quaranta giorni che hanno separato la Resurrezione e l’Ascensione del Signore (benché ortodosso ed appoggiato sulle Sacre Scritture e da diversi santi Padri venerabili, questo sentimento è stato gravemente compromesso dai grossolani ed assurdi errori dei millenaristi. In seguito non se n’è più occupato e di conseguenza è meno tradizionale. Il dotto Cornelio A Lapide tuttavia ne parla e vi ritorna in più riprese nei celebri commentari sulle Scritture. Forse, nei disegni della Provvidenza, questa questione è specialmente riservata ai dottori cattolici degli ultimi tempi, come il dogma dell’Immacolata Concezione, oppure il mistero del Sacro Cuore. (Si concepisce in effetti, come nella sua misericordiosa provvidenza, Nostro-Signore dia alla sua Chiesa dei lumi più possenti sui grandi misteri dell’antiCristo, del secondo avvento, e del giudizio finale, a mano a mano che i suoi fedeli si avvicineranno a questi giorni solenni e terribili). Quel che è certo, è che essa terminerà con la resurrezione dei riprovati, e con questa grande e terribile assise che si chiama: il Giudizio Finale. Nostro Signore, che nel capitolo XXIV di S. Matteo si è degnato di farci conoscere con tanti dettagli i segni premonitori del suo avvento e della redenzione finale della Chiesa, ci racconta con dettagli non meno sconvolgenti, nel venticinquesimo capitolo delle stesso Vangelo, questa chiusura solenne dei secoli, a cui presiederà di Persona. « Quando il Figlio dell’uomo sarà venuto nella sua maestà, con tutti i suoi Angeli, Egli siederà, ci dice, sul trono della sua gloria; e tutti i popoli saranno radunati davanti a Lui. Egli separerà gli uomini gli uni dagli altri; come il pastore che separa le pecore dai capri … porrà le pecore alla sua destra, ed i capri alla sua sinistra. Allora il Re dirà a coloro che saranno alla sua destra: « Venite, benedetti del Padre mio e prendete possesso del suo regno preparato per voi fin dalle origini del mondo! » E a coloro che saranno alla sua sinistra, Egli dirà: « Allontanatevi da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per i demonio e per i suoi angeli, … ed essi andranno al supplizio eterno, mentre i giusti entreranno nella vita eterna (Cum autem venerit Filius hominis in majestate sua, et omnes Angeli cum eo, tunc sedebit super sedem majestatis suæ: et congregabuntur ante eum omnes gentes, et separabit eos ab invicem, sicut pastor segregat oves ab hædis: et constituet oves quidem a dextris suis, hædos autem a sinistris. Tunc dicet Rex his qui a dextris ejus erunt: Venite, henedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum a constitutione mundi… Tunc dicet et his qui a sinistris erunt: Discedite a me, maledicti, in ignem æternum, qui paratus est diabolo, et angelis ejus… Et ibunt hi in supplicium æternum: justi autem in vitam æternam. (Ev. S. Matth.. XXV. 31, et seq.). « Ed allora non ci sarà più tempo: la terra ed i cieli spariranno dal volto dell’Agnello e non occuperanno più alcun luogo (Tempus non erit amplius… Et vidi Thronum magnum candidum, et sedentem super eum, a cujus conspectu fugit terra, et cœlum, et locus non est inventus eis. (Apoc., X, (5; XX, 11.) ». Questo sarà l’inizio dell’eternità propriamente detta, che per gli eletti ed i santi Angeli, sarà « il possesso perfetto e tutto intero della vita che non ha fine  –Vitæ interminabilis tota simul perfectaque possessio », e per i demoni ed i riprovati, la perdita assoluta, perfetta, irrecuperabile, intera della vita e della eterna felicità. Sottolineiamo, … io non dico solo l’autorità, ma la divinità di questi oracoli di Gesù-Cristo. Chi altri, se non Dio solo, può tenere un simile linguaggio? Lo dice Egli stesso, è come Figlio di Maria, è come uomo e non solo come Dio, che Gesù-Cristo giudicherà il mondo. È il “Figlio dell’uomo” che presiederà il giudizio universale, in tutto lo splendore della divina maestà e circondato da « tutti i suoi Angeli » (Finius enim hominis venturus est in gloria Patris sui cum Angelis suis. – Ev. S. Matt., XVI. 27.) » Gli Angeli sono con Lui; questi sono i “suoi Angeli”. Meglio, non è solo come Figlio dell’uomo che giudicherà così il cielo e la terra, ma « perché Egli è il Figlio dell’uomo (Et potestatem dédit ei judicium facerc, quia Filius hominis es – Ev. Joan., V, 27.) ». Queste sono le parole proprie nel Vangelo. La regalità universale, il sovrano giudizio, l’onnipotenza sono svelate all’umanità di Gesù-Cristo, inseparabile dalla sua Persona divina; ed in Gesù-Cristo noi non sapremo ripeterlo abbastanza, non è solamente il Dio che bisogna adorare, amare e servire, ma è anche l’Uomo. È ai piedi dell’Uomo che la saggezza umana deve annientarsi, che l’orgoglio umano deve prostrarsi. Là, in effetti, è il mistero della fede, il mistero dell’amore. Chi non crede in Dio? Chi non riconosce Dio come Dio? Ma « il Figlio dell’Uomo, » il piccolo Bimbo di Bethleem, l’umile e povero Gesù del Vangelo, il mondo non lo vuole! Esso lo respinge, non vuole credere in Lui. Nel Giudizio finale, essi lo vedranno, questo Figlio dell’Uomo, più risplendente del sole, nella gloria della eterna maestà. Ma allora sarà troppo tardi: il tempo del merito e della grazia sarà passato; il giorno della retribuzione eterna comincerà immutabile, indivisibile, senza possibili cambiamenti, senza fine. In questo mondo, noi possiamo cambiare, perché abbiamo tempo; da buoni possiamo diventar cattivi, e da cattivi diventare buoni, perché la natura stessa del tempo, che è successivo, ce lo permette; ma nell’eternità, non ci sarà più tempo: la Rivelazione ce lo insegna; la durata dell’eternità è assolutamente una ed indivisibile, tutta intera insieme, “tota simul”; ma è soprattutto perché i dannati non potranno cambiare il loro destino col pentirsi. « La vita eterna » che Gesù-Cristo annuncia ai suoi fedeli, è dunque lo stato immutabile di beatitudine, ove, interamente nella luce, nella gioia, nella felicità assoluta, uniti a Gesù glorificato, così come nel corpo vivente le membra sono unite alla testa, gli eletti e gli Angeli vedranno Dio faccia a faccia e vivranno con Gesù in Dio, della stessa vita di Dio, nella beatitudine dell’eterno amore. Ed il « supplizio eterno » di cui Gesù-Cristo minaccia nel Vangelo i riprovati, è lo stato immutabile di maledizione, di disperazione e di sofferenza, in cui interamente nelle tenebre, nei rimorsi, nel fuoco, nel dolore assoluto, separati per sempre da Dio, dal suo Cristo e dalla sua Chiesa, i dannati ed i demoni, che avranno scelto liberamente e follemente la morte del peccato, invece della vita e della grazia, saranno sprofondati con satana negli abissi dell’inferno, per bruciarvi eternamente, nell’odio e nella rabbia di una disperazione senza fine. Tale è l’onnipotenza divina di Nostro-Signore Gesù-Cristo, e così incommensurabile che la mano destra della sua misericordia salva i buoni, la mano sinistra della sua giustizia tiene e castiga i malvagi. Egli è il Maestro, Egli è il Signore, il Signore di cui ci si beffa impunemente (Nolite errare: DEUS non irridetur. – Ad. Gal., VI, 7.); Egli è il Dio dei viventi e dei morti, il solo vero Dio vivente, con lo Spirito-Santo nella gloria di Dio Padre.

ATTI DI VIRTU’ TEOLOGALI

ATTI DI VIRTÙ TEOLOGALI

secondo la formula in uso nella Diocesi Milanese.

[G. Riva: Manuale di Filotea; XXX ed. Milano, 1888 –impr.-]

Atto di Fede.

Mio Dio, io credo tutto ciò che vi siete compiaciuto di rivelarmi, e lo credo di tutto cuore, e con somma fermezza, pronto a morire piuttosto che dubitare, perché l’avete rivelato voi, prima, infallibile Verità, che non potete ingannarvi né ingannare. Credo che Voi sempre siete stato, siete e sarete, e che siete un Dio solo in tre Persone distinte ed uguali, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Credo pure che Voi siete rimuneratore, e date il Paradiso ai buoni e l’inferno ai cattivi. Credo che il divin Figliuolo si è incarnato e fatto uomo nel ventre purissimo di Maria Vergine per opera dello Spirito Santo, ha patito ed è morto in croce per la nostra redenzione e salute, e che il terzo dì risuscitò da morte. Finalmente credo tutte le altre verità che si credono nella santa Chiesa cattolica romana, in cui protesto di voler vivere e morire.

Atto di Speranza.

Mio Dio, sospiro a voi mio sommo bene ed eterna felicità, ed animato dalla vostra infinita misericordia, ed appoggiato alle vostre infallibili promesse, spero fermamente che, per i meriti del nostro Signor Gesù-Cristo, mi darete il perdono dei miei peccati e la grazia di non offendervi mai più, e di perseverare nel bene sino alla morte, e di salvar l’anima mia, cooperando io fedelmente ai vostri santi aiuti, come propongo di fare.

Atto di Amor di Dio e del Prossimo.

Mio Dio, Verso di me sì amorevole e benefico, io vi amo sopra ogni cosa, e vi amo, non solamente per tanti beni che finora ho ricevuti dalla vostra mano e che spero di ricevere in avvenire; ma vi amo principalmente, e sopra ogni altro riguardo, perché siete un Dio infinitamente degno d’essere amato per Voi medesimo, essendo Voi la stessa bontà. Amo ancora per amor vostro tutti i miei prossimi come me stesso, e li abbraccio con tutte le forze del mio cuore come immagini vostre, come creature fatte e redente da Voi: in particolare amo tutti quelli che mi hanno offeso, e perdono loro tanto di cuore quanto desidero che voi perdoniate a me, pregandovi a render loro altrettanto di bene, e più quanto essi mi hanno fatto e desiderato di male.

Atto di Pentimento.

Mio Dio, detesto sopra ogni male i miei peccati e me ne pento di tutto cuore per la loro orribile deformità, perché con essi ho macchiata l’anima mia, disonorata in me la vostra immagine, mi sono reso indegno de’ vostri beni, e reo innanzi a Voi di acerbe pene; anzi, offendendovi gravemente, ho meritato di essere da Voi privato del Paradiso e cacciato all’inferno: ma molto più detesto i miei peccati, e me ne dolgo perché peccando ho offeso un Dio così buono, cosi grande, così amabile come siete Voi. Vorrei prima esser morto che avervi offeso: e propongo fermamente col vostro santo aiuto di non offendervi mai più, né mai più disgustarvi perché vi amo sopra ogni cosa.

Indulgenze per gli Atti di Fede, etc.

Benedetto XIV, il 28 Gennaio 1756, concesse per gli Atti di Virtù Teologali le seguenti indulgenze, tutte applicabili anche ai defunti: 1. 7 anni e 7 quarantene ogni volta che si recitano; 2. Ind. plen. una volta al mese; 3. Ind. plen. in articulo mortis. Per l’acquisto di dette Indul. ciascuno può usar quella formula che vuole, purché in essa esprima e spieghi i particolari motivi di ciascuna delle tre teologali virtù.

Esercitando gli atti di qualunque virtù crescono le virtù in noi e sempre maggiormente si perfezionano; perciò quanto più spesso faremo Atti di Fede la nostra Fede diverrà sempre più viva; quanto più frequentemente ne faremo di Speranza, la nostra speranza si farà sempre più ferma, e quanto più moltiplicheremo Atti di Carità, ella si farà in noi sempre più ardente. (…) Vi è obbligo espresso di fare gli atti di Virtù Teologali, e sì potrebbe provare con moltissimi argomenti delle divine Scritture e dei Santi Padri. L’errore contrario fu condannato da S. S. Alessandro VII: perciò questi Atti si facciano frequentemente e con distinta frequenza l’Atto di Carità… [G. Frassinetti, “Catechismo dogmatico”, Cap. VI- I, Parma, 1860].

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (25): CARTESIO CONTRO LA FEDE CATTOLICA (III)

CARTESIO CONTRO LA FEDE CATTOLICA – III –

La rivoluzione cartesiana

[É. Couvert, in: “La gnosi universale”, cap. III]

Nello studio precedente abbiamo mostrato come il filosofo Cartesio abbia giocato un ruolo di “lavaggio del cervello” sulle anime cristiane. Ci resta da precisare il fatto che questo filosofo sia stato considerato, in un gran numero di casi, portatore di una illuminazione improvvisa, una nuova religione, una saggezza luminosa e divina. – Qual fervore presso i nuovi convertiti! Pierre Varignon (1654-1722), legge Cartesio e viene colpito da questa « nuova luce diffusa nel mondo pensante ». egli insegnava la Scolastica, diventerà un matematico. Tournefort (1656-1702), all’uscita dal collegio dei Gesuiti di Aix, trova Cartesio nella libreria di suo padre, lo legge di nascosto « riconosce subito la sua dottrina come quella che egli cercava », rinuncia alla teologia e diventa botanico. Louis Carré abbandona anch’egli la teologia, e diventa segretario di Malebranche; « dalla filosofia Scolastica, fu man mano trasportato alla fonte di una filosofia luminosa e brillante; là egli vede cambiar tutto, di fronte ad un nuovo universo che gli si svela ». Pierre Cally era professore all’università di Caen ove si era impiegato come professore di aristotelismo. Ecco che egli si scuote, come punto da una tarantola, per la nuova saggezza e si impegna nella controversia con gli scolastici. Secondo il suo fedele amico, Daniel Huet, viene appena dal concludere il suo corso di filosofia presso i Gesuiti. Egli è giovane, ricco, intelligente, si mette  a “divorare” Cartesio: «quale ammirazione nella mia anima giovanile alla vista di questi principi così chiari e semplici, che spiegano tutti i misteri del mondo e l’origine stessa del mondo e della natura ». Ed ecco ora il più fedele, il più logico dei figli di Cartesio, egli ha 26 anni, appartiene all’Oratorio. Trova presso un libraio il “trattato dell’uomo” di Cartesio. « Colpito come da una luce che usciva tutta nuova ai suoi occhi », sospettando « una scienza della quale non aveva idea », compra il libro, lo legge con alacrità e trasporto tale da prendergli dei batticuori che lo obbligano talvolta ad interrompere la lettura. Eccolo, è Malebranche, il più pericoloso dei cartesiani. È proprio dalla sua lettura che Bossuet comprenderà più tardi la malvagità di Cartesio. John Locke, a 27 anni, dopo aver letto Cartesio e Gassendi, rinuncia allo stato ecclesiastico al quale si destinava, per diventare medico. – Tutti hanno trovato, nella lettura di Cartesio, come una … illuminazione divina, una iniziazione ad un mondo nuovo di pensieri espressi con facilità, in uno stile limpido e brillante, facile da comprendere quasi senza sforzo, e che sembra dare del mondo una spiegazione totale e seducente. Questa lettura provoca nella loro anima come una rivoluzione immediata, potente ed irresistibile. Tutto cambia volto, è lo svelarsi di un nuovo universo … non la Scolastica pesante, lenta, ardua!. – Daniel Huet, grande ammiratore di Cartesio, diviene Vescovo di Avranches, si rivela figlio dei grandi umanisti. Nella sua persona la religione « sprofonda nell’umanesimo pagano ». Egli aveva scritto una « Dimostrazione evangelica » nella quale si sforzava di dimostrare che Mosè è un personaggio equivalente agli dei del paganesimo: Apollo, Pan, etc. Egli dimostra con la storia santa non sia che un misto di leggende ed il giorno in cui gli si mostrerà che Mosè ed i suoi misteri giudaici sono posteriori alle religioni orientali, sarà portato al suo stesso gioco. Egli riceve molti complimenti da parte dei protestanti, felici di veder conciliati Cristianesimo e paganesimo.- Il 18 maggio 1689, egli riceve una lettera da Bossuet che lo mette in guardia contro la dottrina di Cartesio: « Essa ha delle cose che io disapprovo molto, perché in effetti sono contrarie alla Religione …. Cartesio ha detto certe cose che credo essere utili contro gli atei ed i libertini, e molto simili a quelle che ho trovate in Platone e, ciò che stimo molto più, in San Agostino, san Anselmo, e qualcosa pure in S, Tommaso ed altri autori ortodossi, anche spiegate bene e meglio che in Cartesio, e non credo siano divenute cattive dal momento che se ne sia servito questo filosofo … le altre opinioni di questo autore, che sono indifferenti, come quelle sulla fisica particolare ed altre di questa natura, mi divertono  e le uso per le conversazioni divaganti; ma per non dissimularvi nulla, io credo opportuno che, per il vostro ruolo di Vescovo, prendiate parte seriamente di tali cose ». – Infine Mgr. D’Avranches riflette, e diviene così il più risoluto avversario di Cartesio. Ecco una conversione filosofica che mostra come con la riflessione ed il coraggio si possa resistere alla seduzione delle nuova filosofia. – Cartesio vien condannato da Roma nel 1643. I protestanti olandesi egualmente condannano la Logica di Cartesio al sinodo di Dordrecht nel 1656, inquietati per le conseguenze che il “dubbio metodico” potesse provocare in essi, minacciando così il rimasuglio delle credenze che restavano ancora nella Riforma. – È  un giudeo di Amsterdam, Spinoza che, nei suoi “Principi della filosofia di Cartesio”, pone il piccone e la dinamite nella struttura religiosa e morale della società cristiana. Egli applica al concetto di Dio (lo stesso del “grande abisso”, di gnostica memoria), le regole del “Discorso del Metodo”. Cartesio aveva dichiarato che l’estensione ed movimento erano l’essenza dei corpi; Spinoza ragiona di conseguenza bene a partire da questo punto. «  Si chiama finito, nel suo genere, egli dice in “Etica”, ogni cosa che può essere terminata da un’altra di uguale natura. Ad esempio, un corpo è finito perché noi ne concepiamo sempre un altro più grande ». Ora, se con una serie di numerazioni intere, noi percorriamo tutta la gamma delle grandezze, arriviamo ad un essere assolutamente infinito, cioè alla sostanza dotata di infiniti attributi, dei quali ognuno esprime una essenza eterna ed infinita. È evidente che questa sostanza sia unica, perché essendo ogni determinazione una negazione, se vi fossero due sostanze, esse si “determinerebbero”, cioè si limiterebbero l’un l’altra, e di conseguenza si negherebbero e cadrebbero nel nulla. Ora questa sostanza unica, che non può esistere che a condizione di non essere limitata nello spazio e nel tempo, “è ciò che è in sé, ciò che è concepito da sé, il cui concetto non ha bisogno del concetto d’un altro per essere formato”. Essa dunque ha gli attributi del divino. L’importante è conoscere la sua essenza. Seguiamo sempre il metodo di Cartesio … egli ci insegna che si conosce chiaramente e distintamente l’essenza di una sostanza, dato che si è identificato il suo attributo principale. Qual è dunque l’attributo principale della sostanza divina? Il nostro spirito ed i nostri sensi percepiscono senza errore possibile ciò che è l’estensione. È dunque chiaro che tutti gli esseri di questo mondo, dal più piccolo al più grande, sono, in ragione della loro estensione, parte integrante di Dio, senza cui sarebbero finiti, limitati, determinati, vale a dire, dei “niente”. Questo panteismo abbatte, e Spinoza lo dichiara senza timori, tutte le religioni. L’uomo e il mondo, essendo fin dall’eternità in Dio, non sono potuti uscire da Lui con un atto creatore … cattolici, protestanti, giudei, turchi, cinesi, … questi poveracci, si figurano che Dio sia in cielo mentre Egli vive e respira in fondo a loro stessi. C’è una vera religione che consiste “nel perseverare nel proprio essere”, nel comprenderne con gesto sacro, eterno, assoluto, infinito ed a ridare, mediante gli effetti di una volontà sempre tesa, la pienezza della divinità. Ma questa è la cabbala, è la gnosi, la teologia di satana!. La si può legittimamente estrapolare, come naturale conseguenza, dai principi di Cartesio. – « Di   modo tale, conclude Bayle, nel suo “Dizionario”, le stesse persone che hanno dissipato nel nostro secolo le tenebre della Scolastica diffusa in tutta l’Europa, hanno moltiplicato gli spiriti forti ed aperto ai più la porta all’ateismo, o al pirronismo, o alla incredulità. Eccole come conseguenza, se non proprio forzata, ma certamente naturale: 1°) lo spinozismo, 2°) la visione di Dio di Malebranche, 3°) l’Idealismo di Berkeley, 4°) l’Armonia prestabilita di Leibnitz … Tale è la debolezza dello spirito umano. Si inizia con il metodo e si finisce con le ipotesi … » (in: “Storia della filosofia moderna”). Ma gli ammiratori di Cartesio (cabalisti, massoni illuminati, novatori teologici, modernisti ecclesiastici …) trionfano: « Spirito indipendente, novatore, genio ardito di singolare potenza! Cartesio amava troppo farsi da solo delle idee, affidarsi al suo intimo sentimento, per non riconoscere l’autorità della ragione individuale ed il diritto che ha di esaminare e giudicare ogni specie di dottrina. È la gloria di Cartesio l’aver proclamato e praticato questi principi, ed essere l’autore di questa riforma intellettuale che ha portato i suoi frutti nel diciassettesimo e diciottesimo secolo, ed oggi più che mai esercita la sua influenza sul mondo filosofico, morale, teologio. Oggi in effetti, grazie a Cartesio, noi siamo tutti protestanti in filosofia, come siamo tutti, grazie a Lutero, filosofi in religione. »Non si poteva dire di meglio. Queste parole, tratte dal n° 147 del giornale liberal-massonico « Le Globe », comparso sotto la restaurazione, serviranno come conclusione dello studio.  –

Il metodo cartesiano, non è altro quindi che un intruglio gnostico di bassa lega, confuso, illogico, sostenuto dalle proprie fantasie, ritenute “verità di per se stesse”, giustamente non discutibili per … la loro assurdità, imperniate sulla conoscenza dell’anima-divinità della favola platonica del “mondo delle anime” preesistenti alla creazione del corpo, [… da qui alla metempsicosi, il passo è breve], delle scintille divine, etc. . Questa gnosi, scambiata per Cristianesimo “aggiornato”, sostenuta dalle cricche rosa+croce e giudaico-massoniche, si infiltrò, secondo i piani di “coloro che odiano Dio e tutti gli uomini”, nella Chiesa Cattolica, coinvolgendo moltissime intelligenze, ingenue sì, ma sprovvedute sul piano teologico, come la vicenda di Bossuet ci informa. Il veleno è sempre più penetrato nella gerarchia, oltre che nella civile società, e a poco valsero i richiami dei Papi agli ecclesiastici, sull’obbligo dello studio della dottrina, della Scolastica e di San Tommaso in particolare. Quando il bubbone si ingrandì, Papa Pio X pensò di denunciarlo con fermezza, ma il cancro era già troppo avanzato, in metastasi generalizzata, ed il bubbone era pronto per scoppiare, come successe effettivamente nel neo-modernismo gnostico tionfante tutt’oggi nella falsa “chiesa dell’uomo”, gestita dai “burattini” circensi. Ognuno che abbia ancora un minimo di “sale nella zucca” si chiede, sbigottito, come sia stato possibile obliare totalmente i principi del Cattolicesimo, e piombare d’un tratto nella totale apostasia di popoli e ancor più della gerarchia ecclesiastica! [oramai quasi totalmente falsa e sacrilega]. Il 26 ottobre del 1958 non è stato un evento improvviso ed inatteso, non è stato un colpo di fulmine a ciel sereno, ma il lavoro “sapiente”, preparato da secoli ed ordito nelle logge, nelle retrologge, dalle conventicole al servizio del baphomet-lucifero, e nella “quinta colonna” infiltrata in tutta la Chiesa; l’apostasia è stata lungamente preparata, filosoficamente e teologicamente, dalle idee del rosa+croce Cartesio e dai suoi epigoni, i quali non hanno che semplicemente “impupazzato” la vecchia e stantia, ma mai indomita. gnosi, con abiti e chincaglieria pseudo-scientifica e teologica, per abbindolare gli incauti, gli orgogliosi, gli ignoranti, gli amanti delle novità-falsità. Ancora una volta i “figli delle tenebre” sono stati scaltri, i serpenti hanno morso ed ucciso molte colombe che, non mettendo in pratica i consigli del divino Maestro, sono state semplici ed ingenue, pensando di giocare sulla buca di lombrichi e non accorgendosi di essere su quella di aspidi mortifere, ignorando la scaltrezza e la prudenza che avrebbe potuto salvarle. L’inganno perpetrato e nel quale viviamo oggi, per lo più inconsapevoli, è stato amplissimo, pressoché totale, ed umanamente non ribaltabile. Ma il Signore Dio-Trino, incarnato in Cristo-Gesù il Salvatore, saprà certamente cosa e come fare per mantenere la sua promessa, come in altre note (dalla Sacra Scrittura) circostanze. Non è stato forse anch’Egli nel Getsemani, non è stato forse nel sepolcro picchettato da carcerieri, creduto morto anche dai suoi che erano stati istruiti lungo tre anni di paziente predicazione? Quando il nemico già gongolava trionfante, il Figlio di Dio è risorto, ha incatenato il “principe di questo mondo”, sprofondandolo negli inferi. E la Chiesa, sua Sposa e Corpo mistico non ha Egli promesso che non sarà mai sconfitta dalle porte degli inferi? E non ha preannunciato che il calcagno della Donna schiaccerà la testa del serpente infernale? “… et, Ipsa conteret caput tuum” … Quindi tranquilli, non temiamo, il Re-Profeta in più occasioni ha sentenziato che, quando i malvagi avranno pensato di avere in pugno la vittoria … qui habitat in cœlis irridebit eos, et Dominus subsannabit eos.[Ps. II, 4] … Dominus autem irridebit eum, quoniam prospicit quod veniet dies ejus.]Ps. XXXVI, 13] … Et tu, Domine, deridebis eos; ad nihilum deduces omnes gentes. [LVIII, 9] .. Tu, Signore, ti riderai di loro, ridurrai tutte le genti a niente. Deo gratias! Ed anche Cartesio, con i suoi seguaci, dal loro probabile inferno grideranno, come Giuliano …  “hai vinto Galileo!”

 

 

 

 

GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (24): CARTESIO CONTRO LA FEDE CATTOLICA -II-

CARTESIO CONTRO LA FEDE -II-

Le reazioni contro Cartesio.

Non bisogna credere, come si è già detto, che Cartesio abbia ricevuto la sua formazione filosofica dai Gesuiti di La Flèche; egli l’ha ricevuta dai Rosa+croce di Svevia. Il suo stesso professore di filosofia, il P. Veron, era un appassionato “ligueur” [aderente alla Lega cattolica] che aveva composto un’opera di violenta controversia contro i Protestanti, coloro che per Cartesio dovevano diventare i migliori amici [verosimilmente pure compagni di conventicola …]. – Durante tutto il Gran Secolo, i Gesuiti furono ardenti oppositori del cartesianesimo. Il padre de Valois scriveva allora: « I sentimenti di Cartesio sono opposti a quelli della Chiesa e conformi a quelli di Calvino », … cosa non malamente osservata. Per tutta la sua vita, Cartesio tenterà di sfuggire alla controversia con i Gesuiti, per paura di essere denunciato a Roma. Nel 1665, il P. Channerelle, Gesuita, scriveva: « In una sola parola, la dottrina cartesiana differisce dalla dottrina aristotelica, come la poesia dalla realtà, come l’immaginazione dall’intelligenza » … (Ricordate: cercare il principio della scienza non con la ragione dei filosofi, ma con l’ispirazione dei poeti, diceva lo stesso Cartesio). – Le opere di Cartesio furono messe all’indice nel 1663 « donec corrigatur », precisa il decreto, finché la sua filosofia non fosse stata corretta. Ahimè, non è possibile correggere ciò che è radicalmente erroneo, cioè falso sin dalla sua radice. – L’attitudine di Bossuet a questo riguardo, è molto suggestiva. Succede talvolta che le abilità del linguaggio, i travestimenti del pensiero, le mascherate verosimili, ingannino anche i più riflessivi. Bossuet, in un primo tempo, manifesterà soddisfazione, davanti alle affermazioni apparentemente spiritualiste di Cartesio e a certe pagine sulle prove dell’esistenza di Dio, pagine che sembravano riprodurre l’insegnamento tradizionale della Chiesa, così come si poteva trovare in Sant’Agostino o in San Tommaso. Noi sappiamo oggi che queste erano posizioni di prudenza destinate ad evitare le accuse di empietà o di ateismo che il nostro filosofo temeva fortemente. Quando Bossuet comprese, leggendo Malebranche, ove conducevano necessariamente le premesse del cartesianesimo [],  cioè all’inneismo gnostico, al mondo platonico delle idee, alle scintille divine, all’emanatismo, al panteismo, etc., il suo istinto di fede ed il suo robusto buon senso, presero il sopravvento. Egli scrisse questa lettera notevole ad un discepolo di padre Malebranche, che mostra a qual punto la sua chiaroveggenza fosse profetica: « Io vedo un grande combattimento preparato contro la Chiesa sotto il nome di “filosofia cartesiana”. Vedo nascere dal suo seno e dai suoi princîpi più di un’eresia, e prevedo che le conseguenze che si traggono contro i dogmi che i nostri padri hanno conservato, la rendono odiosa e faranno perdere alla Chiesa tutto il frutto che ne poteva sperare per stabilire nello spirito dei filosofi la divinità e l’immortalità dell’anima … Da questi stessi principi, un altro inconveniente terribile invade insensibilmente gli spiriti, perché, sotto pretesto che non bisogna ammettere se non ciò che si comprende chiaramente, cosa che ricondurrebbe a stretti limiti, è vero invece che ognuno si concede la libertà di dire ciò che vuole: io capisco questo, o non intendo quello, e su questo fondamento si approva o si rigetta tutto ciò che si vuole, senza addurre altro che le proprie idee “chiare e distinte”, ve ne sono di confuse e generali che non lasciano che si affermino verità sì essenziali che rivolgerebbero tutto  negandolo … Essi introducono, sotto questo pretesto, una libertà di giudizio che fa in modo che, senza riguardi per la tradizione, si proponga tutto ciò che si pensa. E giammai questo eccesso mi è sembrato più forte che nel nuovo sistema, ove io ritrovo tutti insieme gli inconvenienti di tutte le sette … Come voi, essi si sono dati un’aria di pietà  e, nominando spesso Gesù-Cristo, e parandosi con la sua Scrittura (nel doppio senso di “pararsi”: ornarsi e proteggersi), come voi, essi si sono vantati di proporre dei mezzi per ricondurre gli erranti alla fede della Chiesa (ad esempio le pretese di Cartesio di rispondere agli epicurei, agli atei ed ai libertini). Citare spesso le Scritture onde appoggiarsi su ciò che non serve nulla in tale materia, è ancora uno degli artifizi di cui l’errore si serve per attirare i pii.  … Non crediate che, comparandovi agli eretici, io voglia accusarvi di averne l’indocilità, né ciò che li ha infine portati alla rivolta contro la Chiesa, a Dio non piaccia! Ma io so che vi si giunge per gradi. Si comincia con la novità, si prosegue con l’intestardirsi. C’è da temere che la rivolta aperta non arrivi che in seguito, quando la materia sviluppata attirerà gli anatemi della Chiesa e dopo forse che essa si sarà uccisa per lungo tempo, per non darsi una reputazione di errore… » Lettera notevole in ogni suo punto, essa mostra bene il cammino dell’errore negli spiriti. Un nuovo principio (ad esempio il dubbio metodico, le idee chiare e distinte, il “cogito”, etc.) non può fare apparire tutto di seguito le conseguenze che vi sono implicate; soprattutto se l’autore, con abilità tattica, si sforza di sminuirne la portata per mezzo di restrizioni,  dichiarazioni di buona fede ed altri sotterfugi dei quali parla Bossuet. – Ma soprattutto Bossuet oppone alle idee “chiare e distinte”, quelle « confuse e generali che richiudono delle verità essenziali che non si possono negare senza ribaltare tutto ». Distinzione fondamentale. Ciò che Cartesio chiama “idee chiare e distinte” che sarebbero, secondo lui, le sole affettate del carattere dell’evidenza, non sono le forme degli oggetti conosciuti, sono gli esseri di ragione, principi o assiomi matematici, numeri, proposizioni dedotte da questi principi, composti dall’intelligenza secondo le convenzioni necessarie del nostro spirito. – Queste sono degli utensili logici, destinati a permettere la misura del reale, così com’è, “estensione e movimento”. Questi sono i concetti più universali, i più privi di contenuti, i più vuoti. Essi sono senza dubbio conosciuti immediatamente, senza il passaggio attraverso la percezione sensibile, e tuttavia il loro punto di partenza è certamente nel reale esteriore, ma nella sola misura in cui è quantificabile. Il numero due si legge nelle cose, … due niente, più due niente non fanno che quattro niente, cioè assolutamente niente. Ciò che è conosciuto dallo spirito con certezza, non è il numero, ma le cose numerate: due alberi più due alberi, fanno quattro alberi; sono gli alberi ad essere effettivamente conosciuti. – Quando il nostro spirito si applica al solo reale e non agli esseri di ragione, incontra un ostacolo  dimensionale: la materia, con ciò che in essa resta virtuale, potenziale, incompiuta, sfocata. Il nostro spirito non può tradurre fedelmente in “idee chiare e distinte” ciò che resta indeterminato, fluido, in movimento nell’essere. – Questo è il problema, ben individuato da S Tommaso e mal compreso da Cartesio, delle degradazioni continue dell’essere. Tra il “confuso” ed il “chiaro” dei passaggi insensibili, c’è il graduale. Il “chiaro” non è primo, ancor meno innato, ma è acquisito, si ottiene mediante una elaborazione, una espoliazione di un primitivo confuso pieno di ricchezze, in cui il nostro spirito deve cercare di veder  chiaro nel reale che gli viene dato globalmente. È ben evidente, come dice Bossuet, che le nostre idee “confuse e generali” siano un primo apprendimento di un reale ricco di forme che bisognerà estrapolare per astrazione: queste saranno verità certe, riproduzioni nel nostro spirito di idee già contenute nelle cose. – Così dunque, noi non potremmo mai giungere al substrato della natura intima di Dio, della nostra anima, o delle cose. Esse ci resteranno sempre nascoste sotto questa angolazione. Tuttavia, la nostra intelligenza è adatta a conoscere con certezza la forma, l’idea direttrice che è di essenza spirituale come la nostra anima. Questo è sufficiente ad affermare l’esistenza delle cose, quella di Dio con certezza. Il nostro spirito non deve fare un salto nell’ignoto, e lo scetticismo universale, che è contenuto implicitamente nella filosofia di Cartesio, e che professeranno i suoi discepoli fino al XIX secolo, non è fondato con ragione.

[] (Infatti dalla seconda metà del ‘600 il dibattito filosofico si accentra sugli aspetti problematici del pensiero di Cartesio: in particolare, la dimostrazione dell’esistenza delle idee innate, la possibilità di conoscere la realtà esterna al pensiero e gli altri uomini a partire dall’unica certezza del cogito (penso), il rapporto anima-corpo. L’occasionalismo di Malebranche (Parigi 1638-1715), nasce proprio dall’esigenza di spiegare il rapporto tra le anime e i corpi. Per Cartesio, infatti, le anime e i corpi appartengono a generi di sostanze assolutamente eterogenee e prive di comunicazione fra di loro: ma se per Cartesio l’interazione è un fatto del quale abbiamo certezza, anche se non possiamo darne una adeguata esplicazione, per gli occasionalisti il rapporto fra le due sostanze può spiegarsi unicamente con l’azione di Dio, il quale produce nell’anima una determinata sensazione o pensiero, allorché il corpo è modificato in una certa maniera: le creature forniscono dunque una causalità che è soltanto “occasionale”, ma non sono la causa né delle modificazioni corporee né degli avvenimenti materiali., che da questa impostazione trae la nozione della conoscenza come “visione delle idee in Dio”. Infatti Dio illumina le nostre menti e noi leggiamo in Lui le idee, che sono gli archetipi delle cose reali. – La dottrina occasionalista trae le sue origini dalla filosofia di Cartesio, il quale aveva teorizzato un dualismo pressoché irriducibile fra la res cogitans, ovvero la sostanza pensante, racchiusa nell’anima, e la res extensa, ovvero la materia corporea. Ben presto diversi pensatori criticarono questo dualismo cartesiano, soprattutto perché la spiegazione del collegamento fra le due sostanze, ideale e corporea, risultava piuttosto insufficiente: come può l’anima, incorporea, agire sul corpo, che invece è materiale? Sostennero dunque gli occasionalisti che non è l’anima, ad agire sul corpo, e che neppure all’interno dell’anima le idee, i pensieri, trovano la loro spiegazione e origine nell’anima stessa; l’unico Ente capace di creare e comandare, infatti, è solo Dio, mentre la volontà umana ha una sola funzione, quella, eventuale, di condurre l’uomo all’errore, quando essa si contrappone all’azione voluta da Dio. Pertanto, secondo queste teorie, sia gli atti conoscitivi – ovvero le idee, racchiuse in questo senso in un mondo superiore delle idee di stampo platonizzante – che le azioni pratiche – le quali si riducono a un mero assenso alla suprema volontà divina, che è l’unica ad essere libera – non sono che semplici occasioni per l’intervento di Dio.]

L’insegnamento di Cartesio nei collegi prima della Rivoluzione.

Fino al 1660, Cartesio è praticamente ignorato dappertutto, si insegna sempre Aristotele e San Tommaso. Nel 1661, il padre de la Chaise, insegna Cartesio al collegio della trinità, a Lione; il padre Lamy, ad Angers, nel 1674. Lo si discute, si enuncia il “cogito”, il “dubbio metodico”, l’intendimento, l’essenza dei corpi, etc.; ma è presente nell’insegnamento. A partire dal 1715, la maggioranza dei professori insegna Cartesio. A metà del XVIII secolo, l’idealismo cartesiano è utilizzato per lottare contro il materialismo, il sensualismo e l’empirismo filosofico ateo. – Nel 1690, il padre Gabriel, gesuita, scrive: « Non si stampa quasi più filosofia secondo il metodo della Scuola, e quasi tutte le opere di questa specie che compaiono oggi in Francia, sono dei trattati di fisica che presuppongono i principi della nuova filosofia … la filosofia delle classi ha cambiato volto … » Il corso di padre André, Gesuita, a la Flèche, nel 1706, è « cartesiano e malebranchista, sì chiaro e ben ordinato che si diffonde in tutti i collegi della Compagnia … » Si insegna la fisica, la meccanica alle dipendenza della metafisica. Dio è considerato come il “meccanico supremo”, il primo motore utile per dare mozione al mondo, non più fonte permanente di essere e di vita. Questo Dio “a schiocco”, come lo chiama Pascal, è l’orologiaio di Voltaire. Egli è soltanto causa efficiente, fabbricatore del mondo. Una volta lanciato nel suo movimento perpetuo, il mondo può facilmente fare a meno di Lui, come l’orologio può sopravvivere all’orologiaio e funzionare anche dopo la sua morte. Ecco Dio, diventato inutile. Ma le Congregazioni generali a Roma intervengono energicamente contro il castesianesimo, la 14° Congregazione generale dei Gesuiti a Roma nel 1696-1697, pubblica 30 proposizioni proscritte, contro la filosofia nuova, contro l’armonia prestabilita di Leibnitz, contro il dubbio universale di Cartesio. Condanne senza forza che bisognerà rinnovare, segno evidente della loro inefficacia sugli spiriti. La 16a congregazione generale, nel 1730-1731, rimette in vigore le condanne precedenti, decide che occorre restare fedeli alla filosofia di Aristotele. Nel 1732, il padre generale dei Gesuiti, proscrive 10 proposizioni da non insegnare, tutte estratte da Cartesio ed opposte alla Scolastica. Tempo perso! I professori dei collegi sono entusiasti della nuova filosofia e grandi adepti delle “idee chiare e distinte”. Nel XVIII secolo tutto l’insegnamento è cartesiano. – Due conseguenze importanti per gli spiriti: a) Il Deismo: è una forma religiosa bastarda che allontana gli piriti dal vero Dio, portandolo verso una idea vaga della divinità. Si sforza allora di allontanare Dio dal mondo, Egli è tropo grande e troppo lontano, gli uomini sono troppo piccoli ed insignificanti perché Dio possa pensare a loro: « Dio è un essere che non si occupa del bene e del male che si fanno gli uomini tra loro.  » È una blasfemia contro la Provvidenza. Si vedano “I viaggi di Gulliver” di Swift, “La pluralità dei mondi abitati” di Fontenelle, i “Micromega” di Voltaire, etc. « Il Cristianesimo, dice Fontanelle, è una favola. Non bisogna detestare le favole, bisogna sbarazzarsene dolcemente con l’efficacia della ragione. » Ecco la formula di tutti gli spiriti “illuminati” del XVIII secolo!

.b) Il Fideismo: è impossibile insegnare Dio con le idee “chiare e distinte”. È inconcepibile relegarlo nel “dubbio metodico” universale. Come dunque insegnare ciò che bisognerà continuare a chiamare delle verità, benché non rivestite dall’evidenza cartesiana? Il « Journal de Trévoux », redatto dai Gesuiti, sottolinea bene l’impotenza della nuova filosofia nell’insegnare la fede ed il passaggio insensibile al Fideismo. Esso scrive nel giugno del 1705 questo testo capitale: « Si teme di approfondire con essi (i bambini), la materie di religione. Ci si contenta di dar loro delle idee superficiali e di esigere da essi un attaccamento alla fede che li potrebbe persuadere … Siccome non si è posto alcun solido fondamento nel loro spirito, le esortazioni alla virtù le cui fatiche non fanno alcuna impressione se non quando il timore della vigilanza le rendono efficaci. Essi entrano nel mondo come in un campo di battaglia in cui la religione è attaccata da ogni parte e vi entrano senza armi, sempre battuti. Come potrebbero i giovani resistere? … » Riflessione sempre valida ancora oggi, attuale, ma vecchia di oltre tre secoli: il problema era già il medesimo. Si misura solo oggi la distesa del disastro. Nel 1706 si poteva già prevedere che il disastro sarebbe stato infinito. Ciò che effettivamente è stato esplodendo nel Modernismo e neomodernismo filosofico-teologico della falsa “chiesa dell’uomo”, la sinagoga di satana, casa comune ai rosa+croce, tugurio frequentato da Cartesio, adoratore dello stresso baphomet-lucifero, signore dell’universo del Novus ordo.

L’insegnamento di Cartesio nei seminari del XIX secolo

Dopo il tormentone rivoluzionario, dopo le macerie prodotte bisognava pur ricostruire: Napoleone aveva riorganizzato l’Università sotto il monopolio statale. La Chiesa non aveva il diritto di aprire se non i Seminari per la formazione del clero. – Ora, i primi professori furono i sopravvissuti delle ecatombi rivoluzionarie, essi stessi formati sulla nuova filosofia. M. Emery, di cui il canonico Leflon ci ha raccontato precedentemente la vita movimentata, fu il negoziatore discreto ed efficace del concordato del 1801. Egli fu incaricato di ricostruire la società dei sacerdoti di San Sulpizio destinata a formare i futuri professori dei Seminari. Egli ne fu dunque il fondatore e il primo superiore, … ma ahimè, era cartesiano! – L’Abate J. Bellamy, nella sua opera. « La Théologie catholique au XIX siècle » riassume così la situazione nei Seminari: « In Francia, il cartesianesimo era tanto potente e, quando si sa quanto questa filosofia sia refrattaria ad ogni adattamento teologico, ci si stupisce della decadenza profonda in cui fosse caduta la scienza sacra nel nostro paese. Uno dei preti più distinti e più sapienti dell’epoca, M. Emery, credette di rendere un servizio alla teologia pubblicando diversi trattati di filosofia religiosa totalmente impregnati di spirito cartesiano, in particolare: “I pensieri di Cartesio sulla Religione e sulla Morale”. In tutti i Seminari si insegnava il cartesianesimo ed il manuale più in voga, la “Filosofia di Lione”, era l’opera dell’oratoriano Valla, autore di una teologia posta all’indice dal Papa Pio VI nel 1792. Le “Lezioni elementari di Filosofia”, dell’abate Fluttes, che si leggeva  pure nei seminari, tenevano in grande stima e seguivano su tanti punti Locke, Condillac e G. G. Rousseau. Come poteva con una filosofia così difettosa, prendere il volo la Teologia? » – La Sorbona era divenuta maestra del pensiero universale nella società francese … non c’era più una università cattolica libera. I professori dei Seminari, che volevano prendere i loro gradi universitari, dovevano passare davanti ai giurì di Stato. Se ne videro le conseguenze. – Renan, che era buon testimone in materia, ci dice che « l’insegnamento filosofico nei seminari era la Scolastica in latino, non la scolastica del XIII secolo, barbara ed infantile (quale giudizio sprezzante e senza fondamento di una filosofia che egli non aveva mai neppure studiato, evidentemente incapace!), ma ciò che si può chiamare la scolastica cartesiana, cioè questo cartesianesimo mitigato che fu adottato in generale dall’insegnamento ecclesiastico del XVIII secolo e fissato nei tre volumi conosciuti sotto il nome di “Filosofia di Lione” ». – “Cartesianesimo mitigato”: questo equivale ad una presentazione di Cartesio sbarazzato da ciò che sembrava allora incompatibile con l’insegnamento della Fede ed orientato verso il rifiuto degli atei e dei libertini. Si riconosceva a Cartesio la volontà di aver difeso l’esistenza di Dio, lo spiritualismo, l’immortalità dell’anima ed altre verità della Fede cattolica. Non si comprendeva però allora che queste verità egli le aveva idealizzate, rigettate fuori dal reale, le aveva … svuotate della loro sostanza. – I professori delle università anticlericali non si fecero ingannare. Essi insegnarono Cartesio come maestro di Razionalismo, precursore del libero-pensiero (quello sbarazzato del Reale e della Tradizione), come l’avversario trionfante della Scolastica, come il demolitore dei pregiudizi (quelli della Fede cattolica, ben inteso!), come l’adoratore della ragione, divenuta infallibile. – Noi vediamo così apparire nell’insegnamento, un doppio Cartesio, l’uno in apparenza cristiano e preteso difensore della Fede, l’altro maestro e precursore della nuova filosofia, quella che demolisce, abbattendolo, tutto l’edificio della cultura cristiana. – Quanto alla Scolastica, detta barbara ed infantile da Ernest Renan, essa è ben morta e sotterrata. Un giorno Victor Cousin, gran maestro della filosofia ufficiale, percorrendo le banchine della Senna, si mise ad osservare le esposizioni dei librai. Gli occhi caddero per caso sul libro di un certo “Aquinate” e fu sorpreso, egli dice, di trovarvi molto buon senso. Discreta orazione funebre!

Il cartesianesimo contro la Fede.  

 Andiamo allora a cercare nella corrispondenza di Ernest Renan gli effetti più eclatanti della nuova filosofia. Renan era entrato in Seminario con l’entusiasmo di un’anima appassionata di verità. Ahimè! Egli dovette rapidamente disincantarsi: gli si insegnava il “dubbio metodico”. Vediamone gli effetti: « Tutto l’effetto prodotto su di me da ciò che abbiamo visto fin qui, non è stato che l’aver trovato difficoltà dappertutto, anche là dove in precedenza non vedevo ombre … Del Pirronismo, in passato, ridevo di tutto cuore, non concepivo che vi fossero uomini così assurdi da concepire simili idee; ora non rido più. Questo non vuol dire che sono scettico … bisogna confessare che saremmo ben infelici se dovessimo rigettare tutti i sistemi contro i quali si possono fare delle obiezioni. … » – In questa prima lettera, si vede apparire già un rimpianto, una inquietudine davanti ad un insegnamento così negativo. Il profondo bisogno di certezza che dirige tutta la nostra intelligenza verso il vero, si ribella. Nel 1848, Renan scrive: « È proprio della filosofia almeno il dare delle nozioni ben sicure piuttosto che sollevare una folla di pregiudizi. Si è tutti sbalorditi quando si comincia a vedere che, fin là, si era stati il giocattolo di mille errori, radicati nell’opinione, nel costume, nell’educazione: è la morte del Bello ideale. Si vedono le cose così come esse sono (???) e si resta sorpresi di vedere i giudizi più certi posti sullo stesso piano dei problemi … » . – Si sente, in questa lettera a sua madre, che segue di poco la precedente, una reazione di buon senso, ma tutta provvisoria e che non persisterà lungo tempo al cospetto di una filosofia così negativa: « Figuratevi, mia buona madre, che vi si domanda seriamente: è vero che io esisto? Non è un sogno, una illusione? Io vedo una cara madre indignarsi: certamente che il mio Ernest esiste! Vorrei ben vedere qualcuno che si azzardi a negarlo. È che, vedete, i filosofi sono le persone più divertenti del mondo: essi dubitano di tutto. Ma non abbiate paura, cara madre, io non sono ancora giunto là … » . – Ma … non era lontano … L’intelligenza umana è ordinata alla certezza del Vero, non può riposare sul dubbio. Il dubbio non è che un passaggio provvisorio dall’ignoranza alla certezza, abbiamo detto. Ogni uomo, dal principio della vita, riceve un insegnamento, dei riti, delle abitudini radicate nella propria natura sociale, dunque delle tradizioni. Egli è debitore della sua famiglia e della società in cui cresce. Egli deve sapere, prima di comprendere: egli deve agire prima di conoscere le ragioni esplicite della sua azione. Egli ha bisogno, per questo, di una autorità protettrice che prevenga i suoi possibili errori, che gli tracci il cammino da seguire, freni le sue fantasie, che gli permetta di crescere senza troppe rotture. Dalla Chiesa egli riceve, prima di comprenderla, una Tradizione che è nel contempo rivelazione dell’inconoscibile e saggezza divina. – Ecco l’ordine di natura! Dio ha preposto delle autorità alle quali l’uomo deve sottomettersi. I principi del cartesianesimo sono invece una rivolta contro questo ordine. Il ruolo del maestro di filosofia è applicare l’intelligenza del suo discepolo a questo insieme di conoscenze più o meno confuse, di mostrarne il buon fondamento, farne risaltare l’ordine, marcare i legami logici e necessari: di aiutare dunque una intelligenza ancora tutta nuova, a mettere in ordine le molteplici conoscenze già acquisite dopo numerosi anni, di raddrizzarne le deviazioni esistenti, di insegnare così, a questa ragione che si sveglia, che ha pensato e riflettuto già molto tempo prima, di mostrare che i problemi che si pongono ad essa oggi, hanno, già nel passato, ricevuto delle risposte certe e decisive e che ogni intelligenza non deve ricostruire il mondo con il pensiero, ma comprenderlo alla luce dei grandi maestri della filosofia succeduti nel corso dei tempi. – Ahimè, Cartesio ha lavorato con accanimento a dissolvere l’intelligenza, a « trovare difficoltà là ove non c’erano », a « rigettare tutti i sistemi », a « eliminare una folla di pregiudizi », a mostrare agli uomini che essi sono « il giocattolo di mille errori » a schernire i costumi e l’educazione ricevuta, ad « uccidere ogni ideale », a « mettere le certezze sullo stesso piano dei problemi », etc. – È una bella demolizione dell’anima umana. Non si vede come la grazia divina possa far germogliare la Fede su tale terreno.  [2 – continua …].

É. Couvert è un autore francese che ha trascorso la vita nello studio della “gnosi”, comprendendone i meccanismi intimi e le “maschere” di cui si è servita in passato e di cui si serve ancora, per ingannare gli uomini di ogni epoca. Le sue opere sono di una chiarezza notevole, ed hanno il pregio indiscutibile di rendere intellegibile a qualsiasi mente, anche quella non particolarmente erudita e smaliziata, argomenti che in altri, autori di opere anche più robuste, restano complessi e scarsamente comprensibili. L’unico appunto che gli si possa muovere, nasce dalla domanda legittima: “… come è possibile che non abbia capito [… speriamo che lo comprenda al più presto] che nella “vera” Chiesa Cattolica, la gnosi non sia mai entrata nonostante tutti i tentativi, e mai potrà aver parte con la Dottrina evangelica di Cristo, con la Teologia o con il Magistero pontificio? Come è possibile che non abbia ancora capito, dall’alto della sua immensa cultura e sagacia al riguardo, che quella che egli reputa Chiesa “contaminata”, “infiltrata” [eresia palese che egli ben dovrebbe comprendere!!!], è nulla più che la “sinagoga di satana” spacciatasi per Chiesa dal 26 ottobre del 1958? … mentre la VERA CHIESA CATTOLICA, la Sposa Immacolata di Cristo, unica Luce di tutti i popoli, la  Madre che dispensa il latte della pura Verità ai suoi figlioli, sia “eclissata”, come annunciato dal 1846 dalla Vergine Maria a La Salette, ma ancora robusta e rocciosa nei suoi principi, fondata com’è sulla Roccia di Pietro, garante dell’unica VERITA’ affidatagli dal Capo, il supremo Fondatore del suo Corpo mistico, GESÙ-CRISTO?”. Preghiamo perché il Signore, con l’intercessione di San Tommaso, Sant’Agostino e tutti i Santi dottori della Chiesa Cattolica, possa finalmente illuminarlo, ricompensandolo del lavoro indefesso fatto in difesa della Sua Chiesa Cattolica,  tanto amata da lui, mortificato nell’immaginarla offesa e vilipesa. Ma sii lieto e gioioso, Étienne, la Chiesa che tu rimpiangi è oggi nel sepolcro, è vero, ma c’è, ancora viva, ed è pronta al risorgere più bella e splendente che mai, … Gesù ce lo ha promesso e, se promette, lo sai … non mente: “et portæ inferi non prævalebunt“. La Gnosi non prevarrà giammai sulla Chiesa, lucifero non prevarrà giammai su Gesù Cristo!  De fide!

LA GNOSI, TEOLOGIA DI sATANA (23): CARTESIO CONTRO LA FEDE CATTOLICA -I-

CARTESIO E LA FEDE CATTOLICA – I –

[Elaborato da: É. Couvert in “De la gnosi a l’Æcumenisme”]

Un CARTESIO segreto

Nella vita di Cartesio, vi sono diversi periodi durante i quali si perde la traccia dei suoi itinerari e della sua attività. Una vita perpetuamente errante, la sua, con amicizie equivoche e cangianti, fughe improvvise, spostamenti rapidi in Francia, una preferenza accordata all’Olanda ed ai paesi protestanti: tutto ciò richiede dei chiarimenti, delle spiegazioni. – Cartesio ha frequentato i rosa+croce, prima forma di massoneria nel XVII secolo (ancora oggi il “cavaliere rosa+croce” costituisce uno dei più infami gradi della massoneria: il 18°!]. I suoi più grandi e fedeli amici ne facevano tutti parte. Il matematico Faulhaber, rosa+croce esaltato, il suo amico Isaac Berckmann e diversi pastori protestanti erano degli aderenti alla setta e frequentatori assidui della conventicola. Il suo primo biografo, l’abate Baillet, ha cercato di … cristianizzare ed idealizzare il personaggio; tuttavia egli non ha potuto nascondere alcune verità che traspirano qua e là nella sua malconcia recita.  « Cartesio, egli dice, frequenta una confraternita di sapienti in Svevia, che si era stabilita già da qualche tempo sotto il nome di “Fratelli della Rose+Croix” ». Erano questi, si dice, delle persone che sapevano di tutto e che promettevano agli uomini una nuova saggezza, vale a dire la vera scienza che non era stata ancora scoperta … il soggiorno di Cartesio in Svevia ebbe come scopo quindi la ricerca di questi “nuovi sapienti” alfine di conoscerli egli stesso, conferire con essi ed acquisire … nuova saggezza. Uno dei loro statuti, ci dice sempre Baillet « era quello di non apparire per ciò che erano, di non distinguersi dagli altri uomini né per l’abito, né per i modi di vivere e di non manifestarsi nei loro discorsi … ». Altrimenti detto, di trasmettere il loro insegnamento con sufficiente discrezione per non svelare la loro appartenenza alla società [segreta …].  – E noi vediamo allora Cartesio osservare fedelmente ogni regola dei Rosa+Croce: vive da “lupo” solitario, vaga da città in città, rifugge dalla compagnia degli uomini e dalle agitazioni del mondo per occuparsi dello studio, assicurandosi la libertà del suo spirito. Moltiplica le prudenze, pubblica le sue opere dopo molte esitazioni in Olanda, comunica i suoi lavori ai rari e discreti  amici. Indubbiamente non troviamo in alcun luogo notizie circa la sua affiliazione a questa società segreta, così sarà sempre possibile il negarlo; ma la sua attività ed il suo insegnamento sono più eloquenti che una tessera o un numero e codice di iscrizione. – Dopo aver errato tra le armate protestanti, poi cattoliche, di Germania, dopo un lungo soggiorno in Svevia, sul quale ritorneremo, nel 1628, Cartesio si rifugia definitivamente in Olanda, e si iscrive alle università protestanti; i suoi migliori amici sono pastori. Sono questi ultimi che traducono in latino le sue opere. Egli ha un legame sentimentale, dal quale nasce una figlia, Francine che fa battezzare, naturalmente, da un pastore, a Deventer. Cartesio, ha reso egli stesso il senso della sua vita: « come i commedianti prudenti, perché non vedano l’onta che sale verso la loro fronte, si rivestono del loro ruolo, ugualmente nel momento in cui vado a salire sulla scena del mondo, di cui non sono stato finora che spettatore, io cammino mascherato ». è questa la formula satanica del “larvatus prodeo” (procedo nascosto).

Un Cartesio illuminato e prometeico

Si crede comunemente che il “metodo” cartesiano gli sia stato dettato dalle sue lunghe riflessioni filosofiche, e che sia dovuto ad una meditazione intensa, apparendogli infine con l’evidenza che segue una attività razionale. Ma non è affatto così! Cartesio fu, come tutti i grandi sovversivi, un “illuminato”. È nel corso del suo soggiorno presso i Rosa+Croce in Svezia che ha un “sogno”. Nel 1618 scrive infatti al suo amico e confidente. Isaac Berckmann: « Io dormivo e voi mi avete ridestato ». È la formula classica dell’illuminazione gnostica,ì. La sua nuova dottrina, egli non l’ha inventata, ma … ohibò l’ha … ricevuta. – Il 10 novembre 1619, sempre nel suo “focolare”  di Svevia, sogna che un vento impetuoso lo fa vacillare e lo distoglie dal suo proposito di andare a pregare nella cappella del suo collegio di La Flèche: « A malo spiritu ad templum propellabatur »: io ero spinto da un cattivo spirito verso il tempio, fortunatamente sono stato distolto da questo vento. Poi viene colpito da un colpo di fulmine che lo fa sussultare: « Questo è il segnale dello “spiritello” di verità che scendeva su di lui per possederlo ». Poi legge un verso: « Quod vitæ sectabor iter? » (quale cammino seguirò nella vita? E le parole «est et non », che sono, egli dice, il Si e No di Pitagora, rappresentante la verità e la falsità nelle conoscenze umane. Con questo sogno, egli dice, « … era lo spirito di verità che doveva aprirmi i tesori di tutte le scienze. » Questo fu « una brusca e rapida folgorazione! ». Egli vuole ribaltare tutti gli antichi sistemi e « … mettere a nudo il suo spirito ». Non è questa la forma classica di ogni sovversivo? – Cartesio aggiunge ancora che « in questa famosa notte in cui gli fu “rivelata” [senza osare dire … da chi!], la dottrina che è la pietra d’angolo della filosofia e che può riassumersi in questa doppia proposizione: il principio della scienza deve essere cercato in noi stessi, poiché esso è in noi, come il fuoco nella silice, e non bisogna ricercarlo con metodi e ragioni filosofiche, bensì con l’ispirazione dei poeti, cioè con l’intuizione ». Ecco la gran parola disvelata: “Intueor”, che vuol dire « guardare all’interno ». L’uomo non ha che da rivolgere il proprio sguardo al fondo della propria anima … vi vedrà la verità che già è in essa, egli la possiede in se stesso, … non gli viene dal mondo esterno. Paul Valéry ironizza giustamente: « Cosa c’è di più suggestivo del volere che dei sogni eccessivamente oscuri gli siano testimonianze in favore di “idee chiare”! » Ed aggiunge: « Cartesio chiede al cielo di essere  confermato nella sua idea di metodo che implica una credenza ed una fiducia fondamentale in se stesso, [… nei suoi sogni cioè! –ndr.] condizioni che gli sono necessarie per distruggere la fiducia e la credenza nell’autorità delle dottrine tradizionali ». Per meglio dire: la sovversione degli spiriti e la grande rivoluzione è cominciata nientemeno che con questa brillante “illuminazione”. – Cartesio cerca la « scienza ammirevole »;  “mirabilis scientiæ fundamenta”, quella che ingloba tutte le scienze particolari e che darà una conoscenza totale del mondo, una scienza innata, dispiego del nostro pensiero. Questa rivelazione per mezzo di un sogno [… nemmeno di mezza estate !!] è una “santa” intossicazione, una Pentecoste della ragione, scienza universale perfettamente una, come quella di Dio che vede tutto, costituita in un solo colpo, per uno solo (per lui, ovviamente: Cartesio!) senza il lento lavorio delle generazioni, lo sforzo continuo dei molti, e l’autorità magistrale di qualcuno. – Cartesio ci rivela finalmente, che « la scienza deve essere il lavoro di uno solo, che deve essere un’opera composta dalla mano di un unico maestro, … Cartesio divenuto Dio! È la grande opera, l’arte reale dei nostri franco-massoni, eredi dei Rosa+Croce. « Mi si dia la misura e il movimento ed io rifarò il mondo », egli dice ancora, nel suo delirio di onnipotenza. Qual pretesa esorbitante! Il mondo gli è stato dato già creato da Dio, ma … Cartesio lo considera mal fatto. « Benché la volontà di Dio sia giunta ad una potenza materiale incomparabilmente più grande della mia, non di meno essa non è spiritualmente più grande della mia, in quanto che la mia volontà è il poter fare una cosa o non farla, affermare o di negare, perseguire o fuggire … » Questo vuol dire che l’uomo è uguale a Dio con il suo spirito, ma che gli manca solo la forza materiale. Non oltrepassando l’uomo se non per la creazione della materia (ecco qui un pensiero propriamente gnostico!). questo vuole dire ancora  che lo spirito è ridotto interamente alla volontà, e questa volontà è riconducibile all’indifferenza del giudizio nei riguardi dei beni particolari, finiti e limitati che si presentano all’uomo … questa definizione della volontà non può applicarsi assolutamente a Dio … Cartesio non ha compreso qui l’analogia dell’essere, che è una similitudine (e non uguaglianza) nei rapporti, allorché i termini riportati sono radicalmente eterogenei, di natura diversa; il potere creatore di Dio non è di natura materiale e non è commensurabile al potere “fabbricatore” dell’uomo. Non c’è solo differenza di gradazione tra l’azione di creare e quella di fabbricare, c’è differenza di natura! Tuttavia l’analogia porta sulla relazione che c’è tra il Creatore e la sua creazione da una parte, tra l’operaio e la sua opera dall’altra parte. Di vede già qui prendere forma l’idea di un Dio demiurgo, l’orologiaio di Voltaire. Una prima forma di deismo … Ma qual orgoglio! Io sono capace, dice Cartesio, di rifare la creazione!

Il rifiuto del reale e della tradizione

« Con il nome di pensiero, dice Cartesio, io comprendo tutto ciò che è tale in noi, e di cui siamo immediatamente a conoscenza. Così tutte le operazioni della volontà, della comprensione, dell’immaginazione e dei sensi sono dei pensieri. » – Con il nome di idee, dice ancora, io intendo tal forma di ciascuno dei nostri pensieri con la percezione immediata della quale, noi abbiamo conoscenza di questi stessi pensieri. » Formula tautologica che si contenta di affermare l’identità del nostro pensiero con se stesso! Così, la Verità che era, secondo il senso comune, l’accordo dei nostri pensieri con le cose conosciute, è qui l’accordo di questo pensiero con l’idea-forma di questo stesso pensiero. Non è ciò che è quel che imprime la sua forma, ma è l’idea innata che si manifesta all’interno del nostro spirito. « Di modo che, dice Cartesio, la luce naturale mi fa conoscere evidentemente che le idee sono in me come dei quadri e delle immagini che possono in verità facilmente decadere dalla perfezione delle cose da cui esse sono state tratte (ecco una concessione, di pura forma, al realismo!) ma che non possono mai contenere nulla di più grande e più perfetto ». – Così dunque le idee sono per se stesse perfette, indipendentemente dalle cose alle quali esse corrispondono. Così, dunque, egualmente la luce non illumina le cose per farle vedere, ma rischiara l’interno del nostro spirito per farle apparire, svelare come quadri e forme che già vi sono contenute. Poco importano le cose in se stesse, delle quali non possiamo conoscere il grado di perfezione. – Cartesio doveva rigettare innanzitutto la filosofia tradizionale, perché essa era un ostacolo alla sua rivoluzione negli spiriti. « Si è talmente assoggettata la teologia ad Aristotele, egli dice, che è quasi impossibile spiegare un’altra filosofia senza che essa sia innanzitutto contro la fede ». Questo sarà veramente il problema contro il quale si andrà a cozzare nel XIX secolo: come insegnare la fede cattolica accanto alla filosofia cartesiana? Noi vedremo che ciò è impossibile, e che la filosofia nuova è di per se stessa distruttrice della fede. – La filosofia moderna è impotente a rendersi conto della metafisica. Cartesio ha modificato il vocabolario, ha soppresso e volatilizzato i termini della scolastica; nello stesso tempo, sono le stesse nozioni che sono state coinvolte da questa rivoluzione. – Un moderno sapiente, fisico, chimico, biologo, non fa che invertire le nozioni di forma, di essenza, di sostanza, etc.: egli si condanna così a non comprendere nulla del reale che osserva e misura con i suoi ausili matematici. Quando egli vuole per un momento dominare il suo soggetto, estendere la sua conoscenza all’universale, bruscamente deraglia, sragiona, non sa più cosa dice. Si è ben visto a proposito del trasformismo. Il biologo che cerca l’origine delle specie parla di “Evoluzione”, deifica la materia, ne fa l’essenza dell’essere, gli attribuisce un potere divino di creazione delle forme … etc. – Tuttavia la “chiesa” [quella falsa dell’uomo], continua ad utilizzare, per l’insegnamento del suo dogma, le nozioni metafisiche della scolastica, ma che non vengono più insegnate nella dottrina da quel tempo. Così il cristiano elevato nelle discipline moderne è spaesato davanti a questo linguaggio antico che gli sembra fuori moda ed inintelligibile. Egli è dunque privo dell’ausilio metafisico necessario ad una intelligenza profonda del reale. L’insegnamento della fede non si può fare che con l’aiuto dei concetti metafisici del tomismo, perché essi sono l’espressione elaborata del “senso comune”, al di fuori  dei quali è impossibile penetrare la natura delle cose. La filosofia moderna ne è invece radicalmente impotente; è in questo che essa è distruttrice della fede. – Cartesio vuole ancora una ragione tutta pura, allo stato naturale, se così si può parlare, privata del soccorso di un Magistero che trasmetta una tradizione ricevuta, l’insegnamento di una verità cercata e studiata da altri, davanti alla quale l’intelligenza di ognuno deve fare atto di umiltà; una ragione ancora priva degli “Habitus”, cioè delle virtù sviluppate dall’esercizio e da una ascesi intellettuale che predispone il nostro spirito a sottomettersi al reale.

Il Dio di Cartesio.

Quando Cartesio vuole introdurre il “Cogito” come punto di partenza della sua filosofia, deve dapprima rigettare tutte le conoscenze anteriori in un “dubbio metodico”, come egli lo chiama, vale a dire … artificiale e sistematico. Già in questa pretesa esorbitante, c’è un’attitudine assurda. Se ne fa con volontà, con una decisione arbitraria, un “vuoto di spirito”. Quando cominciamo a riflettere, a filosofare, noi abbiamo una materia sulla quale il nostro spirito lavora, dei dati primari, degli oggetti di conoscenza, sui quali possiamo elaborare una riflessione. Non si pensa il niente, bensì qualcosa. Questa posizione di dubbio metodico può dirsi a parole, ma non può praticarsi, perché la nostra anima spirituale è fatta per la verità e dunque per delle certezze; il dubbio non è che un passaggio provvisorio tra l’ignoranza e la certezza, supponendo già delle conoscenze certe alle quali appoggiarsi. Come mai Cartesio ha dunque provato il bisogno di escludere, da questo dubbio metodico, le verità della fede? Se possiamo dubitare, come pretende Cartesio, di tutti gli oggetti reali che ci circondano e di cui percepiamo l’esistenza nel corso del giorno, come potremmo non dubitare a maggior ragione, di un mondo soprannaturale di cui non abbiamo alcuna percezione diretta? La pretesa di Cartesio è insostenibile, ed i cartesiani del XIX secolo non faranno un grande sforzo per negare l’esistenza di questo sovrannaturale: questa ad esempio sarà l’attitudine di Renan. – Resta il fatto che Cartesio, contro ogni verosimiglianza, mantiene le certezze religiose fuori da ogni dubbio metodico. Si è detto che egli volesse sfuggire ai fulmini del Santo Officio. Forse e di fatto, dopo la sua morte, le sue opere saranno messe all’indice, come vedremo. – Ma c’è un’altra spiegazione. L’esistenza di Dio e le verità soprannaturale connesse a questa esistenza, non sono ricevute dall’esterno dalla percezione sensibile, né con l’insegnamento di un Magistero, tutte cose incapaci, ci dice Cartesio, di permetterci di raggiungere la certezza; sono verità evidenti per se stesse, idee “chiare e distinte”, percepite immediatamente dall’intelligenza dal suo esercizio immanente. Il “Cogito”, diviene allora questa formula: “Io penso Dio, dunque Dio esiste”. L’esistenza di Dio è tutta nel mio pensiero, è sospesa al mio pensiero. « È quasi la stessa cosa concepire Dio e concepire che Egli esista », ci dice Cartesio. Il “quasi” è ammirabile… vi si vede una esitazione prima di affermare una formula così assurda. Vi si potrebbe vedere una precauzione verso le critiche che non si sarebbero tardate a levarsi davanti ad una tal pretesa. Infatti, se è quasi la stessa cosa, non è dunque puramente la stessa cosa, non è dunque in tutto la stessa cosa. – Ma Cartesio prosegue il suo pensiero: « Tornando ad esaminare l’idea che avevo di un essere perfetto, trovavo che l’esistenza vi era compresa, nello stesso modo che è compresa in quella di un triangolo in cui i tre angoli sono uguali a due retti » È l’argomento chiamato “ontologico” di San Anselmo, uscito da una comparazione evidentemente matematica. Se esiste un triangolo, i suoi angoli sono uguali a due angoli retti, dirà il senso comune, certo, ma … questo non prova l’esistenza del triangolo. L’esistenza non è un attributo che si può aggiungere ad un altro. La definizione del triangolo riguarda la sua natura, non la sua esistenza. L’idea di perfezione rientra nella natura di Dio, dunque nella sua essenza, non nella sua esistenza. Io non posso aggiungere alla perfezione di Dio l’idea di esistenza ed in modo tale che negandone l’esistenza, Dio non sarebbe più perfetto, perché gli mancherebbe qualcosa. In effetti se Dio non avesse l’esistenza non avrebbe alcuna delle perfezioni che gli si potrebbero attribuire: bontà, forza, amore, etc. Quando si dice « Dio è sovranamente giusto », ad esempio, l’esistenza è compresa nel verbo  “essere” e non si aggiunge come complemento alla sua giustizia per perfezionarlo, completarlo. Così, dunque, l’idea della perfezione con contiene l’idea di esistenza. – Bisognava, diceva Cartesio, riportare la nozione di Dio ad una definizione matematica: l’esistenza è compresa nell’idea, ma questa non pone l’esistenza nel reale fuori dal mio pensiero. È una prima formula dell’immanenza vitale che i modernisti non si faranno scrupolo di sviluppare. Essa era già contenuta nelle affermazioni del cartesianesimo “presunto” cristiano. Maxime Leroy, nella sua opera intitolata: « Decartes, filosophe au masque » ci dice che le sue dimostrazioni religiose sono diabolicamente polemiche e che era un’anima sfuggente, espressione applicata da san Pio X ai modernisti.

Una morale provvisoria.

Abbiamo detto che la posizione di “dubbio metodico” è insostenibile per una intelligenza normale; essa lo è ancor più per un uomo che ogni giorno è costretto ad agire, e dunque a riflettere sulle proprie azioni, in modo da conformarle al Vero e al Bene. « Affinché non restassi irresoluto nelle mie azioni mentre la ragione mi obbligherebbe ad esserlo nei miei giudizi … » Grave problema! Ma è certo Cartesio che se l’è inflitto. Egli si vede costretto a forgiare una morale, detta provvisoria: bisogna agire come se si sapesse, poiché la nostra intelligenza non può darci dei criteri certi e veri della nostra azione. – Cartesio aggiunge: « Non seguire costantemente le opinioni meno dubbie, quando io mi ci sarei una volta determinato, come se fossero state sicurissime; ed è una verità certa (una verità certa, mentre tutto è dubbioso!) che quando non è ancora in nostro potere discerne le varie opinioni, noi dobbiamo seguire le più probabili, ed anche quando non notiamo maggiori probabilità alle une o alle altre, dobbiamo non di meno determinarci verso qualcuna e considerarle poi non più come dubbie e, riportandosi alla pratica, ma come verissime e certissime per il motivo che la ragione che l’ha determinata, si trova come tale » … ma come può dunque la ragione determinarsi a ciò che non ha ragione determinante nel nostro “far agire”? Non è dunque con la ragione sprofondata nel dubbio, dal quale non può uscire, che ci si conduce all’azione! Ed allora che cos’è? « E questo fu capace allora di liberarmi da tutti i pentimenti ed i rimorsi che hanno modo di agitar le coscienze di questi spiriti deboli ed oscillanti che si lasciano costantemente a praticare come buone le cose che essi giudica essere cattive. » Ecco dove si voleva arrivare! … liberare l’uomo dai rimorsi e dal pentimento! Liberarci dall’obbligo di giudicare prima di agire, obbligo penoso e fonte di conflitti interiori tra la ragione spirituale e le passioni sensibili, sforzo dell’intelligenza per ordinare in noi i differenti appetiti. E qual conclusione! … Agiamo, agiamo! I nostri dubbi diventeranno le nostre certezze: ciò che ho fatto è buono, per questa sola ragione che io l’ho giudicato così. È la mia azione che determina la verità! Cartesio è uno spirito forte che non si trova in imbarazzo nelle contraddizioni incontrate nel corso dell’esistenza tra i nostri desideri più o meno disordinati e la nostra conoscenza del vero. Il gergo ecclesiastico modernista utilizza molto l’espressione “fare la verità”. Essa era già in Cartesio. [1 – continua …]

ORAZIONI PER LA SERA

ORAZIONI PER LA SERA.

Adorazione.

Vi adoro profondamente, o mio Dio, alla cui presenza adesso e sempre mi trovo; e vorrei potervi rendere quegli omaggi che son degni di Voi, mio Creatore, mio Conservatore, mio Redentore, mio Padre.

Ringraziamento.

Vi rendo infinite grazie di tutto il bene che mi avete fatto dal principio della mia vita fino al presente, e specialmente d’avermi in questo giorno preservato da tanti pericoli, e distinto con tanti favori. Mi unisco con lo spirito a tutti i giusti della terra e a tutti i Santi del paradiso, per lodare infinitamente le vostre infinite misericordie; anzi vi offro quei medesimi ringraziamenti che tante volte per me vi rese il vostro divin Figliuolo.

Invocazione.

Illuminate, o Signore, le tenebre della mia mente; fatemi conoscere il numero e la gravezza delle mie colpe; e datemi grazia di detestarle sinceramente, onde ottenga da Voi misericordia e perdono.

Esame.

Considerate attentamente i peccati da voi commessi quest’oggi.

Riguardo a Dio: Se avete cioè, o trascurate, o malamente praticate le solite divozioni; se siete stato irriverente in chiesa, distratto volontariamente nella preghiera, se avete mancato di confidenza, di rassegnazione, o di retta intenzione nel vostro operare.

Riguardo al Prossimo: Come vi siete portato coi vostri superiori, eguali, inferiori; giudizi temerari, odio, invidia, mormorazioni, ingiurie, dispregi, vendette, ecc.

Riguardo a voi stesso: Come avete adempito i doveri del vostro stato, come custoditi i vostri sentimenti, specialmente gli occhi, le orecchie, la lingua; con qual diligenza avete procurato di correggere il vostro difetto abituale. Finalmente unite ai peccati di questo giorno quelli della vita passata e detestateli così:

Pentimento.

Gesù dolcissimo, io mi confondo dinanzi a Voi, conoscendomi sempre colpevole delle stesse mancanze. Voi mi avete concesso questo giorno, perché me ne servissi a vostra gloria e a mia salute; ed io invece non ho fatto altro che accrescere il numero dei miei peccati, e provocare sempre di più la vostra collera contro di me. Deh! fossi morto, o Signore, piuttosto che vivere per oltraggiarvi! Deh! potessi ora morire per risarcirvi di tante offese! Ma giacché tanto non posso, lavate, vi prego, col vostro sangue preziosissimo, tutte le mie colpe, che io abbomino e detesto di vero cuore, perché di tanta offesa a Voi bontà infinita, e di tanto danno all’anima mia: io vorrei aver impiegato questo giorno, così bene, come han fatto le anime a Voi più care: i loro meriti pertanto e i meriti vostri infiniti, o amabilissimo Gesù, vi offro in compenso delle mie mancanze; e con la grazia vostra propongo di non offendervi mai più, e di voler meglio impiegare quel tempo che a voi piacerà di concedermi ancora di vita.

Protesta.

Mio Dio, come non so quello che mi possa occorrere in questa notte, ma son certo che resterò tutta l’eternità nello stato in cui sarò trovato all’ora della mia morte, così fin d’ora vi protesto di credere fermamente l’Unità della vostr’Essenza nella Trinità delle Persone, distinte ed uguali, Padre, Figliuolo e Spirito Santo; la incarnazione, la vita, la passione, la morte, la risurrezione del vostro divin Figliuolo, la eternità delle pene minacciate ai peccatori, la beatitudine eterna promessa ai giusti, come pure tutte le altre verità che Voi, infallibile nella vostra parola, avete rivelato alla santa Chiesa. Spero per i meriti di Gesù Cristo dall’infinita vostra potenza, fedeltà e misericordia, il perdono dei miei peccati, la perseveranza finale e la gloria del Paradiso. Vi amo sopra ogni cosa, non tanto pei benefici che mi avete compartiti, quanto per Voi medesimo, perché siete un bene infinito, degno di tutto l’amore; e per amor vostro amo ancora il mio prossimo come me stesso, e perdono di vero cuore a chiunque fatto mi avesse qualche torto, pregandovi in corrispondenza, o Signore di misericordia, a concedermi un pieno perdono di tutte le mie colpe, che di nuovo piango e detesto; e darmi la grazia di viver sempre fedele alla vostra legge per morire tranquillamente nel vostro amore. Pat., Ave, Gl., Credo.

A Maria.

Maria santissima, che siete il sostegno dei giusti e il rifugio de’ peccatori, ricevetemi adesso nelle braccia della vostra misericordia. Abbiate, ve ne prego, verso di me quella tenerezza, e quell’amore che aveste per Gesù Cristo, quando ancora bambino riposava sul vostro seno. Vegliate accanto al mio letto, perché non intorbidi i miei sonni il tentatore nemico. Lodate intanto e glorificate Voi in mia vece la divina Misericordia, dalla quale imploro e spero una notte tranquilla ed una morte beata. E per i meriti vostri, uniti a quelli del vostro divin Figliuolo, ottenetemi che l’ultimo mio pensiero sia sopra la sua Passione, l’ultimo mio cibo sia la santa Eucaristia, l’ultima mia parola sia Gesù, Giuseppe e Maria. Salve Regina.

Per impetrare la virtù della Purità. Vi saluto, o immacolata Maria, Figlia dell’eterno Padre, Vergine innanzi al parto, e vi prego a darmi la purità nei pensieri. Ave.

Vi saluto, o immacolata Maria, Madre dell’eterno Figlio, Vergine nel parto, e vi prego a darmi la purità nelle parole. Ave.

Vi saluto, o immacolata Maria, Sposa dello Spirito Santo, Vergine dopo il parto, e vi prego a darmi la purità nelle opere. Ave e Gloria.

All’Angelo Custode.

Io vi ringrazio infinitamente, o santo Angelo mio Custode, di tutti i benefici che mi avete fatto finora. Vi domando perdono di tutti i disgusti che vi ho recati: vi prometto in avvenire una maggiore corrispondenza del vostro amore. Vi raccomando in questa notte l’anima mia ed il corpo mio. Voi difendetemi da ogni male, ed impetratemi una vita sempre conforme ai vostri santi suggerimenti. Angele Dei.

A tutti i Santi.

O santi dell’empir, pregate Iddio. Acciò con Voi possa goderlo anch’io.

Raccomandazione.

Mi ritiro nei vostri amabilissimi cuori, Gesù mio crocifisso, Madre mia dilettissima Maria; e vi raccomando l’anima mia e il mio corpo per questa notte, per tutto il tempo che mi rimane di vita, e per il punto estremo della mia morte. Deh! Non lasciate un sol momento senza il vostro aiuto questo povero vostro servo; e per pegno sicuro di questa grazia, concedetemi adesso la vostra santa benedizione. Benedite ancora i miei parenti e benefattori, amici e nemici, i giusti, i peccatori, gli eretici, gl’infedeli, e tutti quelli dei quali la giustizia,  la gratitudine, la carità m’impongono di pregare, affinché siano dalla vostra grazia illuminati, convertiti, salvati. Benedite poi specialmente,  e liberate dalle loro pene le povere anime del Purgatorio, a suffragio delle quali, unitamente ai meriti infiniti della vostra passione e della vostra morte, vi offro, o Gesù amabilissimo, quel poco di bene che ho fatto in questo giorno, e quello che sono per fare, mediante la vostra grazia, nel corso di questa notte. Pater, Ave, Gloria, De profundis.

Offerta.

Gesù dolcissimo, vi offro il mio sonno che, obbedendo alle vostre disposizioni, io prendo per ristorare le mie forze, affine di meglio servirvi. Ve l’offro in unione del vostro mistico sonno che prendeste per me sul duro letto della croce, pregandovi per esso che mi liberiate sempre dal sonno del peccato; e mentre, sopita la mente non potrà occuparsi di Voi, intendo che il mio cuore unito agli angioli e a tutti i giusti, mai non cessi di glorificarvi. E per glorificare ancora la vostra santa risurrezione, vi offro lo svegliarmi che farò domani, risoluto di voler anch’io con la vostra grazia risorgere a vita migliore.

Baciate il Crocefisso dicendo:

In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum.

Nelle vostre mani, o Signore, io raccomando ed abbandono l’anima mia e tutti quelli della mia casa.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO … E NON SOLO: CANTATE DOMINO

CANTATE DOMINO

Cantate Domino è uno dei documenti più importanti prodotti dalla Chiesa Cattolica a sostegno della retta dottrina e delle cose da tenersi con fede certa dai fedeli cattolici. Il documento venne composto al Concilio di Firenze nel 1442 e approvato dal Santo Padre Eugenio IV. Era questo un momento burrascoso per la Chiesa Cattolica, appena uscita dallo Scisma d’Occidente, ma già coinvolta in subdole manovre di Cardinali, Re ed antipapi, come Felice V. Ma, esulando dai fatti storici ben risaputi, inerenti il Concilio “itinerante”, (da Basilea a Ferrara, di qui a Firenze, per poi concludersi a Roma), la questione dei Greco-Ortodossi ricomposta per breve tempo al Concilio, (finita malamente, a Costantinopoli, con il rigetto dei documenti firmati e la città rasa al suolo dall’invasione islamica), il problema del Conciliarismo (che considerava l’assemblea dei Cardinali prevalere sul parere del Santo Padre, questione risolta più tardi dal “conciliarista” Piccolomini, divenuto Pio II, con la bolla Exsecrabilis), si puntualizzarono dei principi sacrosanti che fin da allora hanno costituito la robusta ossatura della Fede Cattolica “matura”, ripresa anche dai successivi Concili (Trento e Vaticano) e da numerosi documenti magisteriali autentici, in pieno contrasto pratico con l’avvento del “modernismo” esploso con l’irrompere della setta del “novus ordo” nei palazzi vaticani ed in tutto l’orbe un tempo cristiano. Tra le diverse proposizioni vogliamo solo accennare alle seguenti: « … La Chiesa crede fermamente, confessa e annuncia che nessuno di quelli che sono fuori della Chiesa Cattolica, non solo i pagani, ma anche i giudei o gli eretici e gli scismatici, potranno raggiungere la vita eterna, ma andranno nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli (Mt XXV,41), », affermazione che condanna senza appello né cincischiamenti i deliri dell’ecumenismo massonico trapiantato nella falsa “chiesa dell’uomo”, aperta dai vari “ladri e briganti” Roncalli, Montini, etc. e resa “abominio della desolazione” dagli ebrei Woityla, Ratzinger e il “Ciccio” attuale. Per coloro che credono di andare ad una Messa Cattolica, quando si recano al culto del baphomet-lucifero, potrebbe interessare forse questo passaggio: « … ecco la formula usata nella consacrazione del corpo del Signore: Questo è il mio corpo. In quella del sangue, invece: Questo è il calice del mio sangue, per la nuova e eterna alleanza, mistero della fede, versato per voi e per molti in remissione dei peccati (Mt XXVI, 28; Mc XIV, 18; Lc XXII, 20; 1 Cor XI, 25). » formula ribadita dal Sacrosanto Concilio di Trento, modificata perché non consustanzializzasse un bel “niente” dal “massoncello” Bugnini e compagni di merenda della “retrologgia”, i 6 protestanti diretti dal Patriarca degli Illuminati di Baviera: il giudeo-marrano Montini! Vi è pure qui la professione di Fede Cattolica, con la descrizione dogmatica della Trinità, (a beneficio dei Greci scismatici, ma pure degli attuali apostati novusordisti), oggi desueta e sostituita dal credo deista-massonico del postmodernismo ratzingeriano. Seguono le scomuniche di tutte le eresie fino ad allora conosciute, ( … in particolare la “demenza dei Manichei” la stessa dei novusordisti massonizzati), tutte riprese dal modernismo, definito per l’appunto da SS. Pio X: “sintesi di tutte le eresie”. Pertanto i modernisti e postmodernisti del conciliabolo c. d. “vaticano 2°”, con i fallibilisti, tesisti e sedevacantisti vari (eretici e scismatici a vario titolo), sono tutti già anzitempo scomunicati [… anche] da questa bolla. Pure scomunicati e destinati all’eterna perdizione, coloro che praticano i riti dell’ebraismo mosaico, come ad es. la circoncisione! « … essa, quindi, denuncia come separati dalla fede del Cristo e esclusi dalla vita eterna, salvo che si pentano dei loro errori, tutti quelli che, dopo quel tempo, osservano la circoncisione, il sabato e le altre prescrizioni legali. [altro che “nostra ætate” …]. Ce n’è pure per i “vegani” moderni scizzinosi, “satanisti loro malgrado” … ci sarebbe da scrivere un’enciclopedia intera su questa bolla, ma ci fermiamo qui, anche per non sporcare la limpidezza del documento che costituisce una delle guide più sicure e luminose per camminare nel retto sentiero del Cattolicesimo, unica via di salvezza e speranza di vita eterna.

CANTATE DOMINO quoniam magnifice fecit …

PAPA EUGENIO IV

4 febbraio 1442 

CONCILIO DI FIRENZE (17° ECUMENICO)

26 febbraio 1439 – agosto (?) 1445

SESSIONE XI

[Bolla di unione dei Copti]

Eugenio vescovo, servo dei servi di Dio, a perpetua memoria.

Cantate inni al Signore, perché ha fatto cose grandiose, ciò sia noto in tutta la terra. Gridate giulivi ed esultate, abitanti di Sion, perché grande in mezzo a voi è il santo di Israele (Is XII,5-6). È davvero giusto che la chiesa di Dio canti e esulti nel Signore per questa splendida glorificazione del suo nome, che Dio clementissimo si è degnato di compiere oggi. Dobbiamo, infatti, lodare e benedire con tutto il cuore il Salvatore nostro, che ogni giorno dilata la sua santa Chiesa. – Benché i suoi benefici verso il popolo cristiano siano sempre molti e grandi, tali da mostrarci chiaramente la sua immensa carità verso di noi, tuttavia, se consideriamo più attentamente quali e quanti di tali favori in questi ultimissimi tempi si è degnato operare con divina clemenza, potremo certamente costatare che i doni del suo amore sono stati più numerosi e più grandi in questo nostro tempo che in molte età precedenti. – Ecco, infatti, che in meno di tre anni il signore nostro Gesù Cristo con la sua inesauribile pietà ha realizzato in questo santo sinodo ecumenico, la salvifica unione di tre grandi nazioni a comune e perenne gioia di tutta la Cristianità. Così è accaduto che quasi tutto l’Oriente, che adora il glorioso Nome di Cristo, e non piccola parte del settentrione, dopo lunghi dissidi, siano ormai riuniti nello stesso vincolo di fede e di carità con la santa chiesa romana. Prima infatti si sono uniti alla sede apostolica i Greci e le molte genti e nazioni di lingue diverse soggette alle quattro sedi patriarcali, poi gli Armeni, popolazione formata da molti popoli, e oggi i Giacobiti, grandi popoli d’Egitto. – E poiché niente potrebbe essere più gradito al nostro Salvatore e signore Gesù Cristo della mutua carità tra gli uomini, e niente più glorioso per il suo nome e più utile per la Chiesa dell’unione dei Cristiani, nella purezza della stessa fede, eliminata ogni loro divisione, giustamente noi tutti dobbiamo cantare per la gioia e esultare nel Signore, perché la divina misericordia ci ha fatto degni di vedere ai nostri, giorni una fede cristiana così splendente. – Annunziamo dunque con prontezza queste meraviglie in tutto il mondo cristiano, perché, come noi siamo stati colmati da ineffabile gioia per questa glorificazione di Dio e esaltazione della Chiesa, così anche gli altri partecipino di tanta letizia e tutti, con una sola voce, rendiamo gloria a Dio (Rm XV, 6) e ogni giorno ringraziamo la sua maestà per tanti e così mirabili benefici concessi in questo tempo alla sua santa Chiesa. – Inoltre chi compie con zelo l’opera di Dio non solo attende il compenso e la retribuzione nei cieli, ma anche davanti agli uomini merita gloria e lode in abbondanza. Per questo crediamo di dover meritatamente lodare insieme con tutta la chiesa il nostro venerabile fratello Giovanni, patriarca dei Giacobiti, ansioso di questa santa unione, e indicarlo, con tutta la sua gente, al plauso di tutti i cristiani. Egli infatui sollecitato per mezzo di un nostro inviato [Alberto di Sarteano] e di nostre lettere, perché mandasse a noi e a questo sacro concilio una legazione e si unisse con la sua gente alla Sede romana nella stessa fede, ha destinato a noi e al concilio il diletto figlio Andrea, egiziano, di grande pietà e onestà, abate del monastero di s. Antonio in Egitto, nel quale si dice sia vissuto e morto lo stesso Antonio. Egli, dal patriarca pieno di zelo, ricevette l’ordine e il compito, di accettare con venerazione, a nome del medesimo e dei suoi Giacobiti, la formulazione della fede professata e predicata dalla santa Romana Chiesa e di portarla, poi, allo stesso patriarca e ai Giacobiti, perché potessero conoscerla, approvarla e predicarla nelle loro terre. – Noi, quindi, incaricati dalla parola del Signore di pascere le pecore del Cristo (Gv 21,17), abbiamo fatto esaminare con ogni cura l’abate Andrea da alcuni insigni membri di questo sacro Concilio sugli articoli di fede, i sacramenti della Chiesa e tutto ciò che riguarda la salvezza; alla fine, dopo aver esposta allo stesso abate, nella misura che sembrò necessaria, la fede cattolica della Santa Chiesa Romana, e dopo che è stata da lui umilmente accettata, oggi, in questa solenne sessione, con l’approvazione del sacro Concilio ecumenico fiorentino, gli abbiamo consegnato, nel nome del Signore, la dottrina vera e necessaria, nella seguente formulazione.

– In primo luogo, dunque, la sacrosanta Chiesa Romana, fondata dalla parola del nostro Signore e Salvatore, crede fermamente, professa e predica un solo, vero Dio, Onnipotente, immutabile e eterno, Padre, Figlio e Spirito Santo; uno nell’essenza, trino nelle Persone, Padre non generato, Figlio generato dal Padre, Spirito Santo procedente dal Padre e dal Figlio; crede che il Padre non è il Figlio o lo Spirito Santo, che il Figlio non è il Padre o lo Spirito Santo, che lo Spirito Santo non è il Padre o il Figlio; ma che il Padre è soltanto Padre, il Figlio è soltanto Figlio, lo Spirito Santo è soltanto Spirito Santo. Solo il Padre ha generato il Figlio dalla sua sostanza. Solo il Figlio è stato generato dal solo Padre. Solo lo Spirito Santo procede nello stesso tempo dal Padre e dal Figlio. Queste tre Persone sono un solo Dio, non tre dei, poiché dei tre una sola è la sostanza, una l’essenza, una la natura, una la divinità, una l’immensità, una l’eternità, e tutte le cose sono una cosa sola, dove non si opponga la relazione. Per questa unità il Padre è tutto nel Figlio, tutto nello Spirito Santo; il Figlio tutto nel Padre, tutto nello Spirito Santo; lo Spirito Santo è tutto nel Padre, tutto nel Figlio. Nessuno precede l’altro per eternità, o lo sorpassa in grandezza, o lo supera per potenza. E eterno, infatti, e senza principio che il Figlio ha origine dal Padre, e eterno e senza principio che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio. Tutto quello che il Padre è o ha, non lo ha da un altro, ma da se stesso ed è principio senza principio. Tutto ciò che il Figlio è o ha, lo ha dal Padre; ed è Principio da Principio. Tutto ciò che lo Spirito Santo è o ha, lo ha dal Padre e dal Figlio insieme. Ma il Padre e il Figlio non sono due princìpi dello Spirito Santo, ma un solo Principio, come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo non sono tre princìpi della creazione, ma un solo Principio.

Essa condanna, perciò, riprova e colpisce con anatema tutti quelli che credono cose diverse e contrarie e li dichiara separati dal corpo di Cristo, che è la chiesa. Condanna quindi Sabellio che confonde le Persone e elimina completamente la distinzione reale delle stesse, condanna gli ariani, gli eunomiani, i macedoniani, secondo i quali solo il Padre è vero Dio, collocando il Figlio e lo Spirito Santo nell’ordine delle creature. Condanna anche chiunque altro introduca gradi o diseguaglianza nella Trinità.

Crede fermissimamente, professa e predica, che un solo, vero Dio, Padre, Figlio e Spirito santo, è il Creatore di tutte le cose visibili e invisibili, il quale, quando volle, creò per sua bontà tutte le creature spirituali e corporali, buone, naturalmente, perché hanno origine dal sommo bene, ma mutevoli, perché fatte dal nulla; afferma che non vi è natura cattiva in se stessa, perché ogni natura, in quanto tale, è buona.

La Chiesa confessa un solo, identico Dio come Autore dell’antico e del nuovo Testamento, cioè della legge e dei profeti, nonché del Vangelo, perché i santi dell’uno e dell’altro Testamento hanno parlato sotto l’ispirazione del medesimo Spirito Santo. Di questi accetta e venera i libri compresi sotto i seguenti titoli: I cinque libri di Mosè, cioè: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio; i libri di Giosuè, dei Giudici, di Rut, i quattro dei Re, i due dei Paralipomeni, Esdra, Neemia, Tobia, Giuditta, Ester, Giobbe, i Salmi di David, i Proverbi, l’Ecclesiaste, il Cantico dei Cantici, la Sapienza, l’Ecclesiastico, Isaia, Geremia, Baruc, Ezechiele, Daniele, dei dodici Profeti minori, cioè: Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia; i due dei Maccabei, quattro Evangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni; le quattordici lettere di s. Paolo: ai Romani, due ai Corinzi, ai Galati, agli Efesini, ai Filippesi, due ai Tessalonicesi, ai Colossesi, due a Timoteo, a Tito, a Filemone, agli Ebrei; le due lettere di Pietro, le tre di Giovanni, una di Giacomo; una di Giuda; gli Atti degli Apostoli; e l’Apocalisse di Giovanni.

– La Chiesa condanna con anatema la demenza dei manichei, che ammettevano due princìpi primi, uno delle cose visibili, l’altro di quelle invisibili e dicevano che altro è il Dio del nuovo Testamento, altro quello dell’antico. Essa crede fermamente, professa e predica che una delle Persone della Trinità, vero Dio Figlio di Dio, generato dal Padre, consostanziale e coeterno col Padre, nella pienezza dei tempi stabilita dalla inscrutabile profondità del divino consiglio, ha assunto la vera e integra natura umana dall’utero immacolato della Vergine Maria per la salvezza del genere umano e l’ha congiunta a sé nell’unità della Persona, con tale vincolo di unità che tutto quello che ivi è di Dio non è separato dall’uomo, e quello che ivi è dell’uomo non è diviso dalla divinità; ed è un solo Essere e indiviso, rimanendo l’una e l’altra natura con le sue proprietà, Dio e uomo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, uguale al Padre secondo la divinità, minore del Padre secondo l’umanità, immortale ed eterno per la natura divina, soggetto alla sofferenza e al tempo per la condizione umana che ha assunto. – La Chiesa crede fermamente, professa e predica che il Figlio di Dio nell’umanità che ha assunto è veramente nato dalla Vergine, ha veramente sofferto, è veramente morto ed è stato sepolto, è veramente risorto dai morti, è asceso al cielo, siede alla destra del Padre, e verrà alla fine dei secoli a giudicare i vivi e i morti. – Essa colpisce con l’anatema, maledice e condanna ogni eresia che professi dottrine contrarie. E, in primo luogo, condanna Ebione, Cerinto, Marcione, Paolo di Samosata, Forino e tutti quelli che proferiscono simili bestemmie, i quali, incapaci di comprendere l’unione personale dell’umanità col Verbo, hanno negato che Gesù Cristo, nostro Signore, sia vero Dio, riconoscendo lo stesso come semplice uomo; egli sarebbe detto uomo divino per una maggior partecipazione alla grazia divina ricevuta per merito di una vita più santa. – La Chiesa colpisce con l’anatema anche Manicheo e i suoi seguaci, i quali vaneggiando che il Figlio di Dio non ha assunto un corpo vero, ma solo apparente annullarono del tutto la verità dell’umanità nel Cristo. Inoltre condanna Valentino, il quale afferma che il Figlio di Dio non ha ricevuto nulla dalla Vergine Madre, ma che ha assunto un corpo celeste ed è passato attraverso l’utero della Vergine, proprio come l’acqua scorre attraverso un acquedotto. Anche Ario il quale, asserendo che il corpo assunto dalla Vergine mancava dell’anima, pretese che al suo posto vi fosse la divinità. Così pure condanna Apollinare, il quale, ben comprendendo che negando che l’anima informa il corpo non vi sarebbe più vera umanità nel Cristo, gli attribuì solo l’anima sensitiva, mentre la natura divina del Verbo sostituirebbe l’anima razionale. Essa colpisce con l’anatema anche Teodoro di Mopsuestia e Nestorio, i quali affermano che l’umanità è unita al Figlio di Dio per mezzo della grazia, e perciò in Cristo vi sono due persone, come ammettono esservi due nature; non riuscendo a comprendere che l’unione dell’umanità col Verbo è ipostatica, negarono che essa abbia ricevuto la sussistenza del Verbo. Secondo questa affermazione blasfema, il Verbo non si è fatto carne, ma per mezzo della grazia il Verbo ha abitato nella carne, cioè non il Figlio di Dio si è fatto uomo ma, piuttosto, il Figlio di Dio ha abitato nell’uomo. Colpisce con l’anatema, maledice e condanna l’archimandrita Eutiche. Questi comprese che secondo l’eresia di Nestorio veniva annullata la verità dell’incarnazione e che, quindi, era necessario che l’umanità fosse unita al Verbo di Dio in modo che vi fosse una sola e medesima Persona per la divinità e l’umanità; ma non potendo capire, data la pluralità delle nature, l’unità della Persona, come ammise in Gesù Cristo una sola Persona per la divinità e l’umanità, così affermò esservi una sola natura, volendo che prima dell’unione vi fosse una dualità di nature, trasformata in unità nel momento dell’assunzione, ammettendo con somma empietà che, o l’umanità si era trasformata nella divinità, o la divinità nell’umanità. Colpisce con l’anatema, maledice e condanna Macario di Antiochia e tutti quelli che seguono dottrine simili: Questi nonostante una giusta dottrina delle due nature e dell’unità della Persona, errò enormemente circa le operazioni del Cristo, dicendo che nel Cristo una sola era l’operazione e una sola la volontà di entrambe le nature. La sacrosanta Chiesa Romana condanna tutti questi con le loro eresie, affermando che nel Cristo due sono le volontà e due le operazioni. – Crede fermamente, professa e insegna che mai uno concepito da uomo e da donna è stato liberato dal dominio del demonio, se non per la fede nel mediatore tra Dio e gli uomini Gesù Cristo (1 Tm 2,5) nostro Signore. Questi, concepito, nato e morto senza peccato, ha vinto da solo con la sua morte il nemico del genere umano, cancellando i nostri peccati, ed ha riaperto le porte del Regno celeste, che il primo uomo a causa del suo peccato aveva perso con tutta la sua discendenza, questo di cui tutti i santi sacrifici, i sacramenti e le cerimonie dell’antico testamento prefigurarono il ritorno.

– La Chiesa crede fermamente, professa e insegna che le prescrizioni legali dell’antico Testamento, cioè della legge mosaica, che si dividono in cerimonie, sacrifici sacri e sacramenti, proprio perché istituite per significare qualche cosa di futuro, benché adeguate al culto divino in quell’epoca, dal momento che è venuto il nostro Signore Gesù Cristo, da esse prefigurato, sono cessate e sono cominciati i sacramenti della nuova alleanza. Essa insegna che pecca mortalmente chiunque ripone, anche dopo la passione, la propria speranza in quelle prescrizioni legali e le osserva quasi fossero necessarie alla salvezza, e la fede nel Cristo non potesse salvare senza di esse. La Chiesa non nega tuttavia che nel tempo che intercorre tra la passione del Cristo e, la promulgazione dell’Evangelo, esse potessero osservarsi, anche se non fossero ritenute necessarie alla salvezza. Ma dopo l’annuncio del Vangelo non possono più essere osservate, pena la perdita della salvezza eterna. Essa, quindi, denuncia come separati dalla fede del Cristo e esclusi dalla vita eterna, salvo che si pentano dei loro errori, tutti quelli che, dopo quel tempo, osservano la circoncisione, il sabato e le altre prescrizioni legali. Comanda dunque, senza eccezione, a tutti quelli che si gloriano del nome di Cristiani di non praticare la circoncisione sia prima che dopo il Battesimo perché, anche se uno non vi ripone alcuna speranza, non può in alcun modo essere praticata senza perdere la salvezza eterna.

– Quanto ai bambini, dato il pericolo di morte spesso incombente, poiché non possono essere aiutati se non col Sacramento del Battesimo, che li libera dal dominio del demonio e li rende figli adottivi di Dio, la Chiesa ammonisce che il Battesimo non sia differito per quaranta o ottanta giorni, secondo certe usanze, ma sia amministrato il più presto possibile, avendo cura che, in imminente pericolo di morte, siano battezzati subito senza alcun ritardo, anche da un laico o da una donna, in mancanza del sacerdote, nella forma prevista dalla Chiesa, come è indicato in modo completo nel decreto per gli Armeni.

– La Chiesa crede fermamente, confessa e annuncia che tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie (1 Tm IV, 4); poiché, secondo l’espressione del Signore non quello che entra nella bocca rende l’uomo impuro (Mt XV, 11) e afferma che quella differenza della legge mosaica tra cibi puri e impuri riguarda le prescrizioni per le cerimonie, superate e annullate con l’annuncio del Vangelo. Anche il comando degli Apostoli di astenersi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue e dagli animali soffocati (Atti XV, 29) era adatta a quel tempo in cui dai giudei e dai gentili, che prima vivevano secondo riti e costumi diversi, sorgeva una sola Chiesa. Conveniva perciò che i giudei e i gentili avessero osservanze in comune e l’occasione di trovarsi d’accordo in un solo culto e in una sola fede in Dio, eliminando la materia di dissenso, in quanto ai giudei per antica tradizione il sangue e gli animali soffocati sembravano cose abominevoli e potevano pensare che i gentili tornassero all’idolatria col mangiare cose immolate. Ma quando la Religione Cristiana si fu così diffusa da non esservi più in essa alcun Giudeo secondo la carne, ma anzi col passaggio alla Chiesa, tutti condividevano gli stessi riti proposti dal Vangelo, persuasi che tutto è puro per i puri (Tt 1, 15), essendo cessata la ragione di quella proibizione, ne cessò anche l’effetto. La Chiesa dichiara, quindi, che nessuno dei cibi in uso tra gli uomini deve essere condannato, e che nessuno, uomo o donna che sia, deve far differenza tra gli animali, in qualunque modo uccisi; tuttavia per la salute del corpo, l’esercizio della virtù, per la disciplina imposta dalla regola e dalle norme ecclesiastiche, molte cose, anche se non vietate, possono o debbono essere tralasciate. Secondo l’Apostolo, infatti, tutto è lecito! Ma non tutto è utile (1 Cor VI, 12; X,  22). – La Chiesa crede fermamente, confessa e annuncia che nessuno di quelli che sono fuori della Chiesa Cattolica, non solo i pagani, ma anche i giudei o gli eretici e gli scismatici, potranno raggiungere la vita eterna, ma andranno nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli (Mt 25,41), se prima della morte non saranno stati ad essa riuniti; crede tanto importante l’unità del corpo della Chiesa che, solo a quelli che in essa perseverano, i Sacramenti della Chiesa procureranno la salvezza, e i digiuni, le altre opere di pietà e gli esercizi della milizia cristiana ottengono il premio eterno: nessuno, per quante elemosine abbia fatto e persino se avesse versato il sangue per il nome di Cristo può essere salvo, se non rimane nel grembo e nell’unità della Chiesa Cattolica. – Essa abbraccia, approva e accetta il santo Concilio di Nicea dei trecentodiciotto padri, riunito ai tempi del beatissimo Silvestro, nostro predecessore, e di Costantino il grande, principe piissimo, nel quale fu condannata l’empia eresia ariana assieme al suo autore, e fu definito che il Figlio è consustanziale e coeterno al Padre. – Abbraccia anche approva e accetta il santo concilio di Costantinopoli, dei centocinquanta padri convocato al tempo del beatissimo Damaso, nostro predecessore, e di Teodosio il vecchio, che colpì con l’anatema l’errore di Macedonio, il quale asseriva che lo Spirito Santo non è Dio, ma una creatura. La Chiesa condanna coloro che i Concili condannano e approva quelli che essi approvano e vuole che tutte le loro definizioni rimangano intatte ed inviolate in ogni parte. – Abbraccia, approva e accetta il santo primo Concilio di Efeso, dei duecento padri, terzo nella serie dei Concili universali, convocato sotto il beatissimo nostro predecessore Celestino e sotto Teodosio il giovane. In esso fu condannata l’eresia dell’empio Nestorio e fu definito che è una sola la Persona del signore nostro Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo e che la beata Maria sempre Vergine deve essere proclamata da tutta la Chiesa non solo Madre del Cristo, ma anche di Dio.

– La Chiesa invece condanna, colpisce con anatema e rifiuta l’empio secondo concilio di Efeso, riunito sotto il beato Leone, nostro predecessore, e il suddetto principe, in cui Dioscoro, patriarca di Alessandria, difensore dell’eresiarca Eutiche e empio persecutore di s. Flaviano, vescovo di Costantinopoli, con astuzia e con minacce, portò quel sinodo esecrando ad approvare l’empietà eutichiana. – Essa abbraccia anche, approva e accetta il santo Concilio di Calcedonia, quarto nella serie dei sinodi universali, dei seicentotrenta padri, celebrato ai tempo del predetto predecessore nostro Leone e dell’imperatore Marciano, nel quale fu condannata l’eresia eutichiana col suo autore Eutiche e con Dioscoro, suo difensore, e fu definito che Gesù Cristo, nostro Signore, è vero Dio e vero uomo e che in una stessa identica Persona la natura divina e la natura umana sono rimaste integre, intatte, incorrotte, inconfuse e indistinte, poiché l’umanità opera quello che è proprio dell’uomo e la divinità, quello che è proprio di Dio. Quelli che esso condanna, la Chiesa li condanna, quelli che approva, li approva anch’essa. – Abbraccia pure, approva e accetta il santo quinto Concilio, il secondo celebrato a Costantinopoli al tempo del beato Virgilio, nostro predecessore, e dell’imperatore Giustiniano, nel quale fu confermata la definizione del Con­cilio di Calcedonia sulle due nature e l’unica Persona del Cristo e furono re­spinti e condannati molti errori di Origene e dei suoi seguaci, specie quelli ri­guardanti la penitenza e la liberazione dei demoni e degli altri dannati. Essa inoltre abbraccia, approva e accetta il santo, terzo Concilio di Costantinopoli, dei centocinquanta padri, sesto nella serie dei concili universali, celebrato al tempo del beato predecessore nostro Agatone e dell’imperatore Costantino IV, nel quale fu condannata l’eresia di Macario antiocheno, e fu definito che in Gesù Cristo, nostro Signore, vi sono due nature perfette ed integre, due operazioni, e anche due volontà, ma una sola e identica Persona, a cui competono le azioni dell’una e dell’altra natura poiché la divinità compie ciò che è proprio di Dio, l’umanità ciò che è proprio dell’uomo. – Abbraccia, approva e accetta anche tutti gli altri Concili universali, legitti­mamente convocati, celebrati e confermati dall’autorità del romano pontefice, e specialmente questo santo Concilio fiorentino, nel quale, tra le altre co­se, è stata realizzata la santissima unione con i Greci e con gli Armeni, e sono state promulgate molte definizioni portatrici di salvezza riguardanti l’una e l’altra unione, riportate estesamente nei decreti promulgati su questi argomenti, che seguono in questa forma: Lætentur cœli … Exultate Deo …

– Ma poiché nel decreto per gli Armeni, riportato sopra, non si parla della formula che la santa Chiesa Romana, confermata dalla dottrina e dall’autorità degli Apostoli Pietro e Paolo, ha sempre usato nella consacrazione del corpo e del sangue del Signore, abbiamo deciso di inserirla qui. Ecco la formula usata nella consacrazione del Corpo del Signore: Questo è il mio corpo. In quella del sangue, invece: Questo è il calice del mio sangue, per la nuova e eterna alleanza, mistero della fede, versato per voi e per molti in remissione dei peccati (Mt XXVI, 28; Mc XIV, 18; Lc XXII, 20; 1 Cor XI, 25). – Quanto al pane di frumento, che serve per il Sacramento, è del tutto indifferente che sia cotto quel giorno o prima; purché infatti, rimanga la sostanza del pane, non vi è alcun dubbio che esso si transustanzi subito nel vero Corpo di Cristo dopo le parole della consacrazione, pronunciate dal sacerdote con l’intenzione di fare ciò.

– Si dice che alcuni non ammettano le quarte nozze ritenendole condannate; ma poiché non si deve considerare peccato ciò che non lo è ricordando che, secondo l’Apostolo, per la morte del marito, la donna è libera e può sposare chi vuole, purché ciò avvenga nel Signore (Rm VII, 3; 1 Cor VII, 39) né fa distinzione tra la morte del primo, del secondo o del terzo marito, dichiariamo che in assenza di impedimenti canonici, si possono lecitamente contrarre non solo seconde e terze nozze, ma anche quarte e oltre. Riteniamo tuttavia più lodevole rimanere nella casata, astenendosi da altre nozze, perché come la castità è da preferirsi alla vedovanza, così una casta vedovanza è da preferirsi alle nozze, per lode e merito.

–  Dopo che furono esposte tutte queste cose, il predetto abate Andrea, a nome del ricordato patriarca e suo proprio e di tutti i Giacobiti, riceve e accetta con ogni devozione e venerazione questo decreto sinodale portatore di salvezza con tutte le sue prescrizioni, dichiarazioni, definizioni, insegnamenti, precetti, decisioni e ogni dottrina enunciata in esso, nonché tutto quello che crede e insegna la Santa Sede Apostolica e la Chiesa Romana. E accoglie con venerazione i dottori e santi padri approvati dalla Chiesa romana; considera invece come riprovate e condannate tutte le persone e dottrine che la stessa Chiesa Romana riprova e condanna, promettendo come vero figlio obbediente, a nome di quelli che rappresenta, di obbedire con fedeltà e costanza alle disposizioni e ai comandi della Sede apostolica.

Firenze, Sess. XI – Bolla di unione ai Copti. 4 febb. 1442

DOMENICA III dopo PENTECOSTE (2018)

DOMENICA III dopo PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXIV:16; XXIV:18 Réspice in me et miserére mei, Dómine: quóniam únicus et pauper sum ego: vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea, Deus meus. [Guarda a me, e abbi pietà di me, o Signore: perché solo e povero io sono: guarda alla mia umiliazione e al mio travaglio, e rimetti tutti i miei peccati, o Dio mio.]

Ps XXIV:1-2 Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam. [A te, o Signore, elevo l’ànima mia: Dio mio, confido in te, ch’io non resti confuso.]

Réspice in me et miserére mei, Dómine: quóniam únicus et pauper sum ego: vide humilitátem meam et labórem meum: et dimítte ómnia peccáta mea, Deus meus. [Guarda a me, e abbi pietà di me, o Signore: perché solo e povero io sono: guarda alla mia umiliazione e al mio travaglio, e rimetti tutti i miei peccati, o Dio mio.]

 Oratio

Orémus.

Protéctor in te sperántium, Deus, sine quo nihil est válidum, nihil sanctum: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, te rectóre, te duce, sic transeámus per bona temporália, ut non amittámus ætérna. [Protettore di quanti sperano in te, o Dio, senza cui nulla è stabile, nulla è santo: moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché, sotto il tuo governo e la tua guida, passiamo tra i beni temporali cosí da non perdere gli eterni.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet V:6-11 “Caríssimi: Humiliámini sub poténti manu Dei, ut vos exáltet in témpore visitatiónis: omnem sollicitúdinem vestram projiciéntes in eum, quóniam ipsi cura est de vobis. Sóbrii estote et vigiláte: quia adversárius vester diábolus tamquam leo rúgiens circuit, quærens, quem dévoret: cui resístite fortes in fide: sciéntes eándem passiónem ei, quæ in mundo est, vestræ fraternitáti fíeri. Deus autem omnis grátiæ, qui vocávit nos in ætérnam suam glóriam in Christo Jesu, módicum passos ipse perfíciet, confirmábit solidabítque. Ipsi glória et impérium in sæcula sæculórum. Amen”. [Carissimi: Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, affinché vi esalti nel tempo della sua visita: e affidate a Lui ogni vostra preoccupazione, poiché Egli stesso ha cura di voi. Siate sobrii e vigilate, poiché il vostro nemico, il diavolo, vi circonda come un leone ruggente, cercando di divorare qualcuno: ad esso resistete forti nella fede; sapendo che le medesime sofferenze hanno i vostri fratelli sparsi per il mondo. Tuttavia, il Dio di ogni grazia, che ci ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, ci perfezionerà dopo che avremo sofferto un poco, e ci confermerà nella fede, ci irrobustirà. A Lui gloria e impero nei secoli dei secoli. Amen.]

Omelia I

[Mons. Bonomelli: da “Omelie”, vol. III – Omelia VII, Torino 1899]

“Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, affinché vi innalzi allorché verrà a visitarvi, abbandonando in lui ogni vostra affannosa cura, perché egli ha pensiero di voi”. Siate sobri e vegliate, perché il demonio, vostro avversario, come leone ruggente, gira intorno a voi, cercando chi divorare. A lui tenete testa, saldi nella fede, sapendo che le stesse tribolazioni incalzano i vostri fratelli sparsi pel mondo. Il Dio poi d’ogni grazia, che in Gesù Cristo ci ha chiamati alla eterna sua gloria, poiché avrete alcun poco sofferto, egli stesso vi perfezionerà e solidamente vi stabilirà. A lui sia gloria ed impero nei secoli dei secoli. Amen „ (I . di S. Pietro, v, 6-11).

In queste sentenze voi avete voltato nella nostra lingua, parola per parola, il tratto dell’epistola che la Chiesa ci fa leggere nella Messa di questa Domenica; tratto che si legge verso la fine della la lettera di S. Pietro. Esso è breve, ma, come voi stessi vi sarete accorti udendone la recita, contiene alcune verità morali d’una importanza altissima, ch’io mi ingegnerò di sviluppare e voi vi studierete di comprendere. – S. Pietro, prima di chiudere la sua lettera, divisa in cinque piccoli capi, con affetto paterno si rivolge ai pastori di anime e vivamente li esorta allo zelo, al disinteresse ed alla modestia, ponendo innanzi ai loro occhi la corona immarcescibile che un dì riceveranno dal Principe dei pastori, Gesù Cristo. Poi si rivolge ai giovani e li esorta ad essere docili e rispettosi verso i provetti ed umili tra loro, perché l’umiltà è cara a Dio, che la ricolma di grazia. Quindi, rivolgendosi a tutti, continua: “Umiliatevi sotto la potente mano di Dio, „ “Humiliamìnì sub potenti manu Dei”. L’umiltà, come sapete, è figlia del conoscimento di se stesso (S. Bernardo) e, volentieri aggiungo, e del conoscimento di Dio, giacché il primo conoscimento si compie e perfeziona nel secondo, precisamente come le ombre d’un quadro hanno il loro risalto dalla luce. Raccogliamoci in noi stessi un istante e gettiamo uno sguardo sopra l’essere nostro. Che è questo corpo? Un po’ di terra, che presto ritornerà alla terra: un po’ di nebbia, che un raggio del sole abbellisce per pochi momenti e un soffio d’aria disperde: un fiore che al mattino sfoggia i suoi colori smaglianti e spande la sua fragranza, e la sera china il capo, inacidisce e muore. – Questo corpo, che sembra pieno di vita, di forza e di bellezza, è travagliato da mille infermità, invecchia, si curva sotto il peso agli anni, è calato nel sepolcro, si riduce ad un pugno di polvere. E l’anima che l’avviva? Legata a questo corpo, se lo trascina dietro penosamente, come la chiocciola si trascina dietro la sua casa; tormentata dalle passioni, si dibatte miseramente tra l’errore e la verità, tra il vizio e la virtù, troppo spesso schiava di quello, raramente amica e discepola di questa: la sua vita è un intreccio continuo di debolezze e di colpe, che fanno salire la vergogna sulla sua fronte: il rimorso la segue e l’incalza, l’orrore della morte e il terrore del divino giudizio l’arresta, la respinge. Se leviamo gli occhi a Dio, che vediamo? Quale confronto tra Lui e noi? Tutto ciò che abbiamo è dono suo: nulla che sia nostro, del peccato in fuori: Egli eterno, immenso, immutabile, sapientissimo, la stessa bontà; noi racchiusi in questo angusto circolo del tempo, in questo punto impercettibile del nostro essere, soggetti ad incessanti mutazioni, pieni di dubbi, di incertezze, di errori, di ree tendenze. – Chi siamo noi d’innanzi a Dio? Povere, miserabili creature, degne d’ogni disprezzo e d’ogni pena. Consci di noi stessi e delle nostre miserie estreme, sentiremo il dovere e la necessità di umiliarci sotto la mano potente di Dio, che tutto conosce e dispone a nostro bene. – Che se curveremo la nostra fronte e fiaccheremo il nostro orgoglio dinanzi alla potenza ed alla maestà di Dio e diventeremo piccoli e spregevoli ai nostri occhi, ecco la mercede, che infallibilmente ne avremo: “Egli, Iddio, ci solleverà nel giorno della visitazione, „ Ut vos exaltet in tempore visitationis. – E la gran legge, che brilla da un capo all’altro del Vangelo e che ha il suo pieno compimento nel nostro Capo divino, Gesù Cristo. Vuoi essere grande dinanzi a Dio? Abbassati agli occhi tuoi. Vuoi essere il primo nel regno dei cieli? Sii l’ultimo quaggiù sulla terra, perché sta sempre la sentenza di Cristo: “Chi si abbassa sarà esaltato: Agli umili Dio concede la sua grazia. „ E quando al tuo volontario abbassamento risponderà l’innalzamento tuo? In tempore visitationis, nel tempo che Dio verrà a te, il dì cioè della tua morte, il giorno nel quale si chiuderà la vita presente e comincerà l’eterna (La frase “In tempore visitationis„ si incontra più volte nei libri sacri, e vuol dire, ora la visita che Dio fa con la sua grazia ed anche con i suoi castighi, ed ora il giudizio, sia particolare, sia universale. È una forma di dire ebraica e poetica).Voi vedete, o cari, che i Libri santi per sostenere la nostra debolezza nelle dure lotte della vita, per confortarci in mezzo alle pene ed alle amarezze, inseparabili compagne di chi batte il cammino della virtù, ci fanno sempre brillare agli occhi della mente le gioie della Vita futura: Ut vos exaltet in tempore visitationis. Togliete all’uomo la speranza del premio nella vita futura, chiudetegli sul capo le porte del cielo, ditegli che tutto finisce quaggiù, nella fossa del sepolcro, e voi avrete gettato nel suo cuore la disperazione, voi lo costringerete a maledire la sua esistenza, la virtù come un sogno, come un tormento. Ah! Se non vi fosse altra vita che la presente, altro premio per la virtù tribolata, che quello che dà il mondo, la nostra esistenza quaggiù sarebbe un enigma insolubile, una contraddizione manifesta, e noi saremmo, come scrisse l’Apostolo, i più miserabili degli esseri.Vi sono anche al giorno d’oggi alcuni dotti, i quali pensano e insegnano che è cosa indegna dell’uomo operare il bene, praticare la virtù per la mercede promessa nella vita futura. Essi dicono che in tal guisa la virtù si trasforma in una merce, la si abbassa, la si avvilisce: affermano, la virtù doversi praticare per se stessa, né doversi aspettare un premio futuro quale che sia; i credenti con la loro speranza della ricompensa essere volgari mercanti. – Che si possa esercitare la virtù, prescindendo dalla mercede futura, per la sua bellezza intrinseca, per piacere solo a Dio, che la comanda, nessun dubbio: è virtù altissima, lo sappiamo: che sia cosa indegna e biasimevole esercitarla per la speranza della retribuzione, è grave errore, condannato dai Libri santi, che ci incoraggiano alla battaglia della vita, all’esercizio della virtù, proponendoci il premio; è anche cosa che ripugna alla natura stessa dell’uomo, che non può non desiderare il proprio bene e che, per vincere le passioni e superare gli ostacoli, ha bisogno di attingere forza nella speranza della ricompensa. Costoro mostrano di non conoscere la natura umana e sollevano la virtù a tanta altezza da renderla non solo difficile, ma impossibile almeno alla maggior parte degli uomini.Compresi del vostro nulla dinanzi a Dio, fisso lo sguardo della mente in Lui “abbandonate in Lui ogni vostra cura affannosa.Omnem sollicitudinem vestram projicientes in eum”. Come bella e cara è questa sentenza del Principe degli Apostoli! Voi, figliuoli miei, così sembra parlare, voi siete oppressi dai timori e dalle ansie che vi assediano e stringono da ogni parte: siete come poveri pellegrini che, camminando verso la patria, sentono gravate le spalle da enorme fardello. Quante cure moleste! Quante pene dello spirito, spesso più pungenti di quelle che affliggono il corpo! Ebbene: di tutte queste cure che vi affannano, di tutte queste pene del corpo e dello spirito alleggeritevi, fatene un fascio e gettatele in Dio: Projicientes in eum! La espressione qui usata da S. Pietro è piena di forza: non dice ponetele in Dio, offritele a Dio, rassegnatevi al volere di Dio, o alcun che di simile, ma, Projicientes: Gittatele in Dio, che significa il totale e perfetto abbandono d’ogni nostra cura ed ansia in Dio, a talché ne smettiamo al tutto ogni pensiero ed ogni timore.Dobbiamo noi dunque vivere spensierati? S. Pietro in questo luogo ci vieta forse di occuparci delle cose nostre e ci comanda di starcene neghittosi, con le mani in mano, il tutto rimettendo alla Provvidenza divina? No sicuramente; così facendo, offenderemmo la stessa Provvidenza di Dio, che vuole il concorso dell’uomo: sarebbe un tentar Dio e un trasformare la virtù in un vizio. S. Pietro in questa sentenza, vuole che cessiamo dalle sollecitudini eccessive, ma che dal canto nostro facciamo ciò che possiamo: condanna la cura smoderata, affannosa, che ripone ogni fiducia nei propri sforzi e dimentica che al di sopra dell’uomo vi è Dio, che governa ed ordina ai suoi fini altissimi. Facciamo tutto, come scrisse un santo, come se non vi fosse la Provvidenza, e poi governiamoci come se tutto avesse fatto la Provvidenza.E perché dobbiamo abbandonarci interamente fra le braccia della Provvidenza? “Perché risponde S. Pietro, Dio ha pensiero di voi” Quìa ipsi cura est de vobis. Dio non fa come l’architetto, il quale dopo avere fabbricato la casa, se ne va; come il pittore, il quale dopo avere ritratta sulla tela la figura, pensa ad altro lavoro: Egli è creatore e insieme conservatore e provveditore, e non perde di vista l’opera delle sue mani per un solo momento, e pensa e provvede a ciascuna come se fosse sola. Come dunque non dobbiamo riposare tranquillamente in questa paterna Provvidenza? Abbandonandoci in Dio, come figli nel seno del padre, noi lo onoriamo, riconoscendo la sua sapienza, la sua potenza e la sua bontà e, se è lecito il dirlo, lo obblighiamo a circondarci di cure più affettuose. Il figlio, che tutto si affida alle cure del padre amoroso, lo onora grandemente ed è sicuro, se è possibile, di accrescerne la tenerezza. Sì, o dilettissimi, gettiamo tutte le nostre sollecitudini in Dio, perché Egli ha pensiero di noi.E sì vero che S. Pietro, esortandoci a collocare ogni nostra cura in Dio, non intesa a scioglierci da ogni lavoro e sforzo dal lato nostro, che soggiunge: “Siate sobrii e vegliate, „ Sobrii estote et vigilate. Due cose accoppia tra loro e raccomanda l’Apostolo: la sobrietà e la vigilanza, perché non si possono separare. La sobrietà o temperanza in ogni cosa è madre della vigilanza, nutrice della scienza e tutrice della castità, come la gola e la crapula sono amiche del sonno, della pigrizia, dell’ignoranza, del basso sentire e della lussuria. “Sobrii estote” Siate sobri, che il cibo non sia mai soverchio, o soverchiamente delicato, che la bevanda estingua la sete, non solletichi il gusto: che l’uno e l’altra siano contenuti entro la giusta misura, né gravino il corpo ed oscurino la mente: soddisfino i bisogni della natura, non eccitino le passioni, né siano alimento del vizio. Come volete che vegli, che stia in guardia, che preghi, che pesi le parole, che regoli gli atti suoi, colui che è oppresso dal cibo, la cui mente è abbuiata dai vapori del vino? Come volete che si sollevi a Dio col pensiero e con l’affetto chi giace sotto il peso della crapula? Come volete che fissi l’occhio della mente nella luce sì pura della verità e della virtù chi l’ha pressoché chiuso per l’intemperanza del mangiare e del bere? Siate sobri e sarete vigilanti: e ciò è necessario, perché grandi pericoli e terribili nemici ne circondano. – Quali nemici? Udite: “Perché il demonio, vostro avversario, come leone ruggente, si aggira intorno, cercando chi divorare.„ Nemico nostro è il mondo, con le sue seduzioni, con i suoi inganni; nemico nostro è il corpo, che portiamo, con le passioni che in esso si annidano, quasi serpi velenose sotto un cespuglio di fiori; nemici nostri sono i tristi, che insidiano la nostra fede; ma il nemico principale, il nemico, che sotto la sua bandiera raccoglie tutti i nostri nemici, che li muove e scatena ai nostri danni, è il demonio, il nostro avversario per eccellenza; egli sedusse i nostri primi padri e continua in noi, loro figli, l’opera sua, opera di morte. Non ignoro, o dilettissimi, che parecchi anche credenti, all’udir nominare il demonio, si stringono nelle spalle, sorridono e quasi in aria di compatimento, dicono: Il demonio! chi ora ci crede? Chi l’ha mai veduto ? È una credenza, che si può lasciare alle pie donne del volgo. L’esistenza dello spirito malvagio, che troviamo in fondo a tutte le credenze religiose antiche e moderne, per noi Cattolici, è verità di fede: le pagine dei Libri santi ne sono ripiene e possiamo dire che tutta la divina rivelazione, dal Genesi all’Apocalisse, si svolge sotto l’azione della lotta tra gli spiriti maligni ed i figli di Dio. Essa comincia nell’Eden, prosegue fino al Calvario ed avrà fine al termine dei tempi, quando il principe delle tenebre sarà cacciato per sempre dalla terra. Non ascoltate dunque coloro che mettono nel numero delle favole o delle leggende, l’esistenza dei demoni; essa è un articolo di fede. – Il demonio odia Dio, a cui si ribellò e che lo punisce, ed odia fieramente noi, perché sue creature, portanti in noi stessi l’immagine di Dio, perché amati da Dio e da Lui chiamati a quel regno beato dal quale egli fu per sempre sbandeggiato. Vedetelo, dice S. Pietro, vedetelo il demonio, il vostro implacabile nemico, egli è simile al leone: il leone, il re della selva, è superbo, feroce, pieno d’ira e di rabbia: esso arruffa il pelo, con la coda si flagella i fianchi; dagli occhi balena una luce sinistra, con i suoi ruggiti fa tremare il deserto, si lancia sulla sua preda, la ghermisce, la dilania con le unghie poderose e coi denti la maciulla: esso non sa che uccidere e degli uccisi si pasce. Il demonio, come leone affamato, rugge, e si aggira intorno a voi, in cerca della preda, e guai al misero sul quale può stendere l’unghia terribile! Voi vedete che S. Pietro in poche battute ci descrive al vivo la forza, la crudeltà, la rabbia onde il demonio arde contro di noi, e quanto sia necessario vegliare per non cadere nelle sue fauci. – Prima condizione per non essere sua vittima è la vigilanza, perché quantunque questo nemico sia tremendo, per la forza e per la ferocia, esso è incatenato da Cristo, è come chiuso entro la sua gabbia, e soltanto coloro che incautamente gli si avvicinano, sono da lui afferrati e divorati. Lungi adunque, lungi dalla fiera belva: badate di non cercare il pericolo, di non esporvi alla tentazione senza necessità: chi cerca il pericolo, chi si espone senza motivo sufficiente alla tentazione è simile a quell’imprudente che si accosta alla gabbia del leone e scherza con esso; sentirà la forza dei suoi artigli e sarà suo pasto miserando. – Non basta star lungi, fuggire la tentazione, vigilare per non essere colto ed addentato; fa d’uopo al bisogno tenergli testa: Cui resistite fortes. Assai volte possiamo fuggire la tentazione, ma talora è impossibile fuggirla: talora è forza affrontarla, massime vivendo in questo mondo. Allora, o miei cari, noi siamo simili a coloro che sono costretti ad entrare nella gabbia, dove giace il leone e affrontarne il furore. Che fanno essi? Non è mai che gli volgano le spalle: fissano lo sguardo immobile e dominatore sul leone, e questo qua e là si aggira ruggendo, ma non osa assalirli, anzi diviene loro zimbello. Così noi, o carissimi, costretti a lottare corpo a corpo contro il demonio, il tentatore, teniamo fisso sopra di lui l’occhio illuminato dalla fede. Un raggio solo della luce divina, che per la fede si riflette nel nostro sguardo, farà sentire al nemico la presenza di Cristo, che lo vinse, lo soggiogherà, lo renderà impotente, ed allora, come cantava il Salmista, potremo camminare sul capo del leone e del dragone. È questo, che vuole insegnarci S. Pietro, allorché ci dice: “Tenete testa, forti nella fede, „ Cui resistite fortes in fide. – “Lo so, in questa lotta soffrirete assai, così S. Pietro; ma ricordatevi, che altri soffrirono come voi. Chi sono? I vostri fratelli, sparsi pel mondo”: Scientes eamdem passionem ei, quæ in mundo est, vestræ fraternitati fieri. Questa lettera fu scritta da S. Pietro in Roma, sette anni circa prima della sua morte. I fedeli ai quali scriveva, non potevano certamente ignorare le sue tribolazioni, le persecuzioni che soffriva egli, Principe degli Apostoli, e con lui soffrivano tutti i fratelli suoi nell’apostolato, e più o meno tutti i Cristiani sparsi nel mondo. È un conforto, doloroso, se volete, ma è sempre un conforto, il sapere che altri patiscono come noi, come noi e per gli stessi motivi per i quali soffriamo noi. È un conforto, perché se soffrono altri come noi e per gli stessi motivi, perché non soffriremo ancor noi? La loro costanza, il loro esempio ci incoraggia e ci avvalora. L’essere soli a lottare e soffrire sconforta: guai al solo, dice la Scrittura: avere compagni sembra raddoppiare le nostre forze. È un conforto, perché la nostra fede si ravviva, si ravviva la nostra speranza, perché sappiamo che altri per esse soffrono con noi. I soldati, che sanno i loro commilitoni pugnare altrove valorosamente, sentonsi eccitati ad imitarli e più animosi si gettano nella mischia. Bene a ragione adunque S. Pietro rammenta ai fedeli dell’Asia che, se essi soffrono, soffrono pur altri, i loro fratelli, dovunque sparsi sulla terra. Da queste parole dell’Apostolo noi comprendiamo che fin d’allora tutti i credenti, benché lontanissimi tra loro, si consideravano come fratelli, formanti una sola famiglia, tantoché i dolori come le gioie erano comuni. – Questo spirito di solidarietà, dirò meglio, di mutua carità e fratellanza, è caratteristico della Chiesa di Gesù Cristo; allorché alcuni suoi membri soffrono per la fede, per la causa della giustizia, siano pure sulle ultime spiagge dell’Oriente, o tra le aride sabbie del deserto, o tra le selve d’Africa o d’America, gli altri soffrono con essi, pregano e li soccorrono, se possono. – Questa comunione delle gioie e dei dolori tra i figli della Chiesa, è frutto della stessa fede e della stessa carità, e ne è ad un tempo l’alimento. – Soffriamo tutti, dice in sostanza S. Pietro, soffriamo tutti in questa lotta col principe delle tenebre e con i suoi alleati: che posso dirvi? Io non fo che un voto, ed è questo: “Il Dio d’ogni grazia, che in Cristo ci ha chiamati alla gloria eterna, dopo il breve patire, vi perfezioni e solidamente vi stabilisca. „ Dio, che è fonte inesausta d’ogni grazia, per i meriti di Cristo, che ci ha redenti, compia l’opera sua in voi, vi perfezioni nella pazienza e nella carità, vi tenga saldi nella lotta contro il nemico e dopo i brevi patimenti della vita presente, vi stabilisca in quella gloria beata, alla quale ci ha chiamati. – Sempre questo lo spirito che informa l’insegnamento della fede e che brilla mirabilmente in tutti gli scritti del nuovo Testamento; noi siamo posti su questa terra per conoscere, amare e servire Iddio; siamo posti su questa terra, non per godere di questi poveri beni, ma per acquistarci con le nostre fatiche la immortalità beata; tutto il Vangelo di Gesù Cristo si riduce a questa semplicissima verità, vivere santamente sulla terra per meritare il cielo, patire nella vita presente per amore di Dio e godere con Lui per sempre nella vita futura. “È questo, diceva Lattanzio, il compendio d’ogni cosa, è questo il segreto di Dio, è questo il mistero del mondo” (Lact. lib. 7, c. 6). Ricordate questa verità, compendio di tutta la fede, S. Pietro sembra quasi rapito fuori da se stesso: fissando gli occhi della fede nella sempiterna felicità, che ci aspetta; considerando il poco che ci si domanda per guadagnarla, con l’anima riboccante di gratitudine e di gioia verso Dio, quasi fosse giunto al termine del suo pellegrinaggio ed immerso in quell’oceano di ineffabili godimenti, esce in questo grido, in quest’inno d’amore: “A Lui, cioè a Dio, a Gesù Cristo, gloria ed impero nei secoli dei secoli. Amen. „ Noi, miserabili creature, non possiamo dar nulla a Dio, perché nulla abbiamo di nostro e di nulla Egli abbisogna: eppure, in qualche senso noi possiamo dare a Dio alcun ché di nostro; anzi possiamo offrirGli un dono prezioso e tutto nostro e ch’Egli aspetta e che altamente lo onora. E quale ? La nostra volontà, la nostra libertà. Essa pure è dono, e dono di Dio; ma Dio l’ha data a noi per modo che è nostra, tutta nostra e noi possiamo restituirla a Lui e non restituirla ed usarne a nostro talento. Non v’è offerta, che maggiormente onori Iddio e che torni a Lui accettevole della nostra libera volontà, appunto perché libera ed è in poter nostro fargliene omaggio o ricusarglielo. Non dimenticatelo mai, o cari; un atto della libera libera volontà rende a Dio più onore che tutte insieme le creature irragionevoli del cielo e della terra. Offriamo dunque a Dio la nostra volontà, e la offriremo, facendo la volontà sua nella osservanza esatta della sua legge. A Dio non possiamo dar nulla, perché Egli di nulla abbisogna ed è il centro di tutte le perfezioni, è vero, ma possiamo godere della infinita sua grandezza e delle sue perfezioni; possiamo desiderare che il Nome suo sia santificato su tutta la terra, che la sua volontà sia dovunque adempiuta, cioè possiamo desiderare che gli uomini tutti Lo conoscano, Lo lodino, Lo esaltino, Lo glorifichino e da questa s’innalzi perenne il grido di S. Pietro: “A Dio gloria ed impero nei secoli dei secoli. Amen”. — Così sia.

Graduale
Ps LIV:23; LIV:17; LIV:19 Jacta cogitátum tuum in Dómino: et ipse te enútriet. [Affida ogni tua preoccupazione al Signore: ed Egli ti nutrirà.]

V. Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam ab his, qui appropínquant mihi. Allelúja, allelúja. [Mentre invocavo il Signore, ha esaudito la mia preghiera, liberandomi da coloro che mi circondavano. Allelúia, allelúia]

Ps VII:12 Deus judex justus, fortis et pátiens, numquid iráscitur per síngulos dies? Allelúja. [Iddio, giudice giusto, forte e paziente, si adira forse tutti i giorni? Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.

S. Luc. XV:1-10 “In illo témpore: Erant appropinquántes ad Jesum publicáni et peccatóres, ut audírent illum. Et murmurábant pharisæi et scribæ, dicéntes: Quia hic peccatóres recipit et mandúcat cum illis. Et ait ad illos parábolam istam, dicens: Quis ex vobis homo, qui habet centum oves: et si perdíderit unam ex illis, nonne dimíttit nonagínta novem in desérto, et vadit ad illam, quæ períerat, donec invéniat eam? Et cum invénerit eam, impónit in húmeros suos gaudens: et véniens domum, cónvocat amícos et vicínos, dicens illis: Congratulámini mihi, quia invéni ovem meam, quæ períerat? Dico vobis, quod ita gáudium erit in cœlo super uno peccatóre pœniténtiam agénte, quam super nonagínta novem justis, qui non índigent pœniténtia. Aut quæ múlier habens drachmas decem, si perdíderit drachmam unam, nonne accéndit lucérnam, et evérrit domum, et quærit diligénter, donec invéniat? Et cum invénerit, cónvocat amícas et vicínas, dicens: Congratulámini mihi, quia invéni drachmam, quam perdíderam? Ita dico vobis: gáudium erit coram Angelis Dei super uno peccatóre pœniténtiam agénte”.

Omelia II

[Mons. Bonomelli, ut supra, om. VIII]

I pubblicani e i peccatori si andavano accostando a Gesù per ascoltarlo; ma i farisei e gli scribi ne mormoravano, dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con essi. E Gesù disse loro questa parabola: Chi è l’uomo tra voi, il quale avendo cento pecore, se ne perde una, non lasci le novantanove nel deserto e non corra dietro alla smarrita finché l’abbia trovata? E, avendola trovata, tutto lieto se la mette in sulle spalle; e, venuto a casa, raduna gli amici e i vicini e dice loro: “fate festa meco, perché io ho trovato la mia pecora, che era perduta”. Io vi dico, che così si farà più letizia in cielo per un peccatore penitente, che per novantanove giusti, che non hanno bisogno di penitenza. Ovvero, qual è la donna, che avendo dieci dramme, se ne perde una, non accenda la lucerna e non spazzi la casa e con ogni diligenza non cerchi finché l’abbia trovata? E, trovatala, raduna le vicine e le amiche, dicendo: “rallegratevi meco, perché io ho trovato la dramma, che avevo perduto”. Così vi dico, si farà festa tra gli Angeli di Dio per un peccatore penitente „ (S. Luca, xv, 1-10).

Nella lezione evangelica di questa Domenica si contengono due distinte parabole o similitudini, che dire vogliate: la parabola o similitudine del pastore, che va in cerca dell’agnella smarrita, e quella della donna che mette sossopra la casa per trovare la dramma perduta. Le due parabole sono distinte ma un solo ed identico è il loro fine, quello di mettere in piena luce l’amore cocentissimo di Gesù Cristo pei poveri peccatori e il desiderio e la gioia vivissima del suo amore per la loro conversione. – Se vi è argomento caro e giocondo a trattarsi è certamente questo, o dilettissimi, e ciò per due motivi principali; primieramente perché tra tutte le perfezioni divine la bontà tiene il primo posto, e questa bontà nel Vangelo d’oggi brilla in tutta la sua bellezza; in secondo luogo, perché peccatori come siamo  tutti, abbiamo sommo bisogno di meditare questa bontà di Dio, unica nostra speranza. – “I pubblicani e i peccatori si andavano accostando a Gesù per ascoltarlo. „ Non è a dubitare, che il discorso di Cristo a questo precedente, fosse inteso ad ispirare fiducia ai peccatori. In questo Vangelo di S. Luca non ne troviamo traccia, ma l’abbiamo bellissima nel luogo parallelo di S. Matteo che pur esso riferisce la parabola dell’agnella sbrancata. Gesù, come narra S. Matteo, aveva dichiarato di essere venuto a salvare tutto ciò che perito: Venit Filius hominis salvum facere quod perìerat; e questa verità l’avrà ampiamente sviluppata con quell’accento d’ inesprimibile tenerezza, che la sua carità gli poneva sulle labbra. Che avvenne? I pubblicani o riscuotitori dei pubblici balzelli, gente in mala voce ed odiatissima dagli Ebrei ed ogni sorta di pubblici peccatori, attratti e vinti dalla carità di Gesù, rapiti dalla sua parola piena di dolcezza e paterno compatimento, si avvicinavano a Lui con figliale confidenza per ascolarLo. – Due classi di persone, come apprendiamo dal Vangelo, si avvicinavano a Gesù, ma con fini affatto differenti: la classe dei farisei, degli scribi, dei sadducei, dei dottori della legge e dei sacerdoti, e la classe popolana, e in essa particolarmente quelli che qui si chiamavano pubblicani e peccatori. Quelli si avvicinavano a Gesù quasi sempre all’intent, non d’istruirsi, ma di muovergli questioni, di coglierlo in fallo, – “Ut caperent eum in sermone—, e svergognarlo davanti alla moltitudine ed accusarlo presso l’autorità; questi per contrario si accostavano a Gesù con umiltà di cuore, con semplicità di spirito, per udirlo ed imparare, — Ut audirent eum —. Quelli erano, se volete, dotti, ma superbi e maligni: questi erano ignoranti, ma schietti ed umili; quelli con tutta la loro scienza non conobbero la verità, anzi orgogliosamente la respinsero, dovecché questi, nella loro ignoranza, la conobbero e l’abbracciarono. Miei cari! Quello che avvenne intorno a Cristo si ripete costantemente anche ai nostri giorni, e potete accertarvene con i vostri occhi; anche al presente il povero popolo ascolta e riceve la verità della fede nella semplicità del suo cuore, e gli uomini della scienza e della ricchezza, pur troppo in gran numero, non se ne curano, la disprezzano e fors’anche la combattono. Quale la causa? Sempre la stessa, quella che balzò dal cielo gli angeli, che fece cadere i nostri protoparenti, quella che oscura la mente, indura il cuore e maggiormente offende Dio: l’orgoglio. – Ed è cosa che duole altamente e ci fa meravigliare, vedere non di rado persone che all’apparenza si direbbero religiose, uomini anche di Chiesa, che si lasciano trascinar da questo spirito di orgoglio e di critica e si fanno imitatori degli scribi e dei farisei. Mentre gli uomini del popolo, i poveri peccatori accorrono ad udire la parola di Dio e la ricevono con semplicità e docilità di cuore, certi uomini di Chiesa biasimano il modo con cui si annunzia e quelli che la annunziano, con arte finissima s’ingegnano di screditare  l’opera loro, perché non sono del loro partito, perché godono il favore popolare, perché si struggono d’invidia, simili ai farisei antichi ed a quei falsi fratelli che S. Paolo sfolgorò più volte nelle sue incomparabili lettere. Ad udirli è lo zelo della verità, della integrità della fede, l’amore delle anime, che li muove: ma in realtà sono dominati dalla superbia, dall’invidia, dallo spirito di parte, dalla smania di signoreggiare. No, no: costoro non amano le anime, ma se stessi, non cercano la gloria di Dio, ma la propria, non hanno lo spirito di Gesù Cristo, ma dei farisei, non edificano, ma distruggono: fuggiteli. – I farisei e gli scribi, vedendo questi pubblicani e peccatori notissimi far corona a Gesù Cristo e pendere riverenti dalla sua bocca, lungi dal rallegrarsene e sperar bene della loro conversione, se ne mostravano offesi, e guardandosi gli uni gli altri, crollando il capo, in aria di scherno, mormoravano e dicevano: “Costui accoglie i peccatori e mangia con essi – Hic peccatores recipit et manducat cum illis. Doppia accusa; accoglie i peccatori e mangia con loro! – la setta farisaica, osservante fino allo scrupolo tutte le cerimonie della legge e gli usi dei maggiori, tutta zelo per le pratiche esterne del culto, non curava l’interno pieno d’orgoglio, trattava con alterigia il povero popolo, e reputandosi santa, disprezzava e scacciava via da sé i peccatori. Isaia aveva dipinto a meraviglia questi superbi in poche parole:”Essi dicevano: Non mi toccare, perché io sono mondo. „ Per essi era colpa avvicinare i peccatori, parlare con loro, intrattenersi famigliarmente con essi. Ne abbiamo una immagine nelle caste superiori attuali dell’India, specialmente i Bramini, che reputano colpa comunicare con le caste inferiori o toccar cosa da queste toccata. Non par vero tanto e sì odioso accecamento in uomini. Ora Gesù era venuto per salvare tutti, ma più quelli che ne avevano maggior bisogno. Perciò Egli non solo lasciava che si accostassero a Lui i peccatori, i gabellieri, i pubblicani e tutta questa gente reputata perdutissima, ma Egli stesso andava a loro, sedeva con essi a mensa,  li trattava con dolcezza e con ogni carità. Siffatta condotta non è a dire quanto irritasse il partito farisaico: era la sua condanna, ne fremeva, ne menava rumore come d’uno scandalo enorme: Murmurabant pharisæi et scribæ, dìcentes: quia peccatores recipit et manducas cum eis. Nessuna cosa è tanto bella e sì cara come questa condotta di Gesù con i peccatori. Egli sta in mezzo a loro, li ammaestra, accetta gli inviti alla loro mensa, dissimula le loro miserie, i loro scandali, Egli, la santità in persona! Non mai una parola dura, acerba, un rimprovero amaro. Ecco il modello che dobbiamo imitar noi, sacerdoti: lasciamo agli scribi e ai farisei il fiero cipiglio, la durezza, l’alterigia con i peccatori; noi imitiamo la carità, il tenero compatimento di Gesù (S. Greg. M. Homil. 34 in hunc locum.). [Si, è zelo falso, nocivo, farisaico quello che ci fa essere duri e aspri con i poveri peccatori: è amor proprio mascherato di zelo. Si possono rimproverare anche fortemente i peccatori, e talora è necessario, ma senza dimenticare la carità che si sente anche nel più fiero rimprovero], e ricordiamo sempre quelle benedette parole uscite un dì dalla sua bocca: “Io voglio la misericordia, la compassione, e non la giustizia: „ Misericordiam volo et non judìcìum. È vero, anche Gesù ebbe parole terribili, le leggiamo nel Vangelo; ma per chi? Non mai, neppure una volta, per i peccatori, pubblicani, meretrici, gabellieri, ma per i farisei e per gli scribi, gente superba, senza cuore per gli erranti; questi, e questi soli flagellò e condannò con parole roventi, con una serie di formidabili “guai”, che fanno rabbrividire pure a leggerli, (S. Matteo XXIII, 13-33.). – Gesù udendo e conoscendo questo mormorare degli scribi e dei farisei per la domestichezza che usava coi peccatori, colse occasione di mostrare la natura della nuova dottrina, di far conoscere e far sentire quale sia lo spirito di Dio e, seguendo il suo stile, disse questa parabola: ” Chi è fra voi, il quale, avendo cento pecore, se ne ha perduta una, san lasci le novantanove nel deserto, per correre dietro alla smarrita, finché la trovi? „ La parabola od immagine è tolta da un fatto comunissimo, che tutti avevano sotto gli occhi giacché la pastorizia presso gli orientali e presso gli Ebrei era in grande uso non solo, ma anche in onore. Ponete, così Cristo agli scribi, ai farisei e alle turbe, ponete che uno di voi sia pastore ed abbia cento pecore. Egli le conduce per monti e per valli e in luoghi remoti e deserti per pascerle. La pecora, voi lo sapete, è semplice, mansueta, tranquilla, docile, sì, ma stordita. Essa facilmente si scorda del pastore e brucando i cespugli o l’erba a poco a poco si allontana dal pastore e dalle compagne e si caccia nel fitto della boscaglia e vi si smarrisce. Ebbene, dice Cristo, che fareste voi se foste il pastore di quelle cento pecorelle? Ah! voi, lascereste certo le novantanove nel deserto, affidate a buona custodia, e andreste subito in traccia di quell’unica, che si è sbrancata; voi la cerchereste per colli e per valli, per boschi e per burroni; voi tendereste l’orecchio por udire i suoi belati, la chiamereste col noto fischio, non risparmiereste fatica per ritrovarla e appena vedutala od uditala, correreste ad essa, e pigliatala, non la battereste, né la trascinereste per via, maltrattandola, come pur meriterebbe; ma la accarezzereste, la porreste sulle vostre spalle, la riportereste all’ovile tutto lieto e giulivo. E giunti all’ovile, continua Cristo, che fareste? Chiamereste gli amici pastori, i vicini, i conoscenti e dimentichi della fatica durata e del dispiacere avuto, direste loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecorella, che avevo perduto. „ Nulla di più semplice, di più ingenuo, di più amabile di questa scena pastorale, che Gesù Cristo ha tratteggiata in tre soli versetti. Vi è una naturalezza, un candore, una freschezza di immagini e di linguaggio che non solo pareggia, ma supera quanto di somigliante troviamo nei classici latini e greci. Ora chi è questo pastore? Chi raffigurano le agnelle rimaste fedeli al pastore nel deserto? Chi adombra l’agnella smarritasi che è riportata all’ovile? Chi rappresentano gli amici ed i vicini, chiamati a rallegrarsi col pastore? La similitudine è sì chiara e sì graziosa, che si spiega da sé, e il velo è sì trasparente, che non occorre levarlo per vedere ciò che esso copre. Nondimeno alcune osservazioni non saranno superflue. – Il pastore, non fa mestieri il dirlo, è Gesù Cristo; le novantanove agnelle, che non si sbrancarono e rimasero col pastore, secondo alcuni significano gli Angeli fedeli, che Cristo lasciò nei cieli per venire sulla terra e operare la salvezza degli uomini traviati; ma sembra più conveniente il dire, che quelle novantanove agnelle significano in genere i buoni, siano Angeli, siano uomini e si dicono novantanove, unicamente allo scopo di far risaltare maggiormente la bontà del pastore che corre dietro alla centesima. L’agnella smarrita significa il peccatore; gli amici ed i vicini rappresentano i buoni, Angeli e uomini, e forse sono posti nella similitudine come complemento della medesima e per abbellire il quadro. – Se in tutto il Vangelo non si incontrasse che questa sola parabola o similitudine, essa sarebbe più che bastevole a mostrarci la bontà del divino Pastore e l’amore che lo strugge per la conversione dei peccatori. Questo Pastore, che è l’Uomo-Dio, il quale lascia per qualche tempo i buoni per correre in cerca di un solo peccatore, che non guarda a stenti, a fatiche, a viaggi, a pericoli, che non si dà pace se non quando l’ha trovato, e guadagnato, che non lo rimprovera, ma fa festa dell’averlo ricondotto a sé, ci dipinge al vivo la sua carità e più che non farebbe un lungo ed eloquentissirno discorso. O peccatori fratelli, se mai qui foste a udirmi, uno sguardo a questo amabilissimo Pastore, che è Gesù Cristo! Voi vi siete allontanati dall’ovile, andate errando miseramente per boschi e per deserti, da un istante all’altro potete cadere tra le zanne di bestie feroci e divenir pasto del lupo infernale; voi correte dietro follemente alle vostre passioni, al mondo che vi seduce. Sappiate  che Gesù vi segue, vi chiama, vi prega ritornare a Lui; ascoltate la sua voce, fermate il passo, muovetegli incontro, gettatevi tra le sue braccia: Egli vi accoglierà, vi stringerà al suo seno, non vi rimprovererà, sarete ancora i suoi cari figliuoli e ancora vi farà sentire tutte le dolcezze della sua carità. – A taluno di voi potrà sembrare strano quel confronto che troviamo nella parabola tra le novantanove pecore e l’unica sbrancata, e vedere il pastore che lascia quelle e corre dietro a questa. Forseché d’innanzi a Gesù Cristo val più un peccatore che novantanove giusti? Dov’è mai quel pastore sì dissennato, che abbandonerà le novantanove pecore per cercare una che si è smarrita? Sarebbe mai che Dio amasse il peccatore più dei giusti? Ciò non è, né può essere, e voi lo comprendete bene.  Il paragone usato da nostro Signore vuolsi  intendere allo scopo di mettere in rilievo la contentezza, la gioia che la conversione del peccatore apporta, a nostro modo di dire, a Gesù Cristo e agli spiriti beati, non mai all’intento di mostrare che a Dio siano più cari i peccatori dei giusti. Una madre ha parecchi figli, li ama tutti teneramente: l’uno, e forse quello che talvolta la contrista, cade infermo e si riduce in termini di vita e poi risana: non é egli vero che questa madre fa più festa della guarigione di quell’uno che della sanità perfetta, di cui godono tutti gli altri? Chi  dirà mai che ella ama quel figliuolo risanato più degli altri? – Gesù passa ad una seconda similitudine, ma svolgendo sempre la stessa verità. ” Qual è quella donna, la quale, avendo dieci dramme, se abbia perduta una, non accenda la lucerna e non spazzi la casa e cerchi con diligenza finché la trovi? E trovatala, raduna le amiche e le vicine, dicendo loro: Rallegratevi meco, perché ho trovato la dramma perduta? „ Balza all’occhio di tutti che se nella similitudine precedente Cristo rappresenta se stesso nel pastore, qui si rappresenta nella donna, e se il peccatore era raffigurato nella pecora smarrita qui si raffigura nella dramma perduta. – Immaginate una povera donna, che possieda in casa dieci dramme, ossia dieci monete; la dramma o moneta, di cui parla in questo luogo l’Evangelista, ragguagliato il valore, rispondeva ad ottanta dei nostri centesimi. Ponete che la poverella ne perda anche una sola; per essa non è piccola cosa. Che fa? Vedetela tosto dar di piglio alla lucerna, accenderla, frugare per ogni angolo della casa, spazzarla e rimescolare quel pattume, tutt’occhi, per trovarvi la perduta monetuccia, e se le vien fatto di trovarla, la piglia, e tenendola in mano, tutta lieta, chiama le amiche e le vicine e, mostrandola loro, le invita a partecipare alla sua allegrezza, dicendo: Ho trovato la dramma che avevo perduta. – S. Gregorio Magno, spiegando questa parabola, dice molto graziosamente, che in questa donna dobbiamo riconoscere l’eterna Sapienza che ha creato l’uomo a sua somiglianza; nella moneta dobbiamo scorgere l’uomo stesso, che porta in sé l’immagine di Dio, come la moneta stessa porta l’immagine del re, che l’ha fatta coniare. L’uomo col peccato guastò in sé l’immagine di Dio: ecco la moneta perduta. Allora Dio, la divina Sapienza, accende la lucerna, ossia si incarna e nasconde la sua luce nella lucerna stessa, rischiara la casa, cioè il mondo, illumina la coscienza, la purifica e va ristorando in essa l’immagine sua svisata e bruttamente guastata, ed ecco trovata la dramma, cioè salvata l’anima peccatrice. La sostanza delle due parabole, non è d’uopo ripeterlo, è l’amore e la gioia di Gesù Cristo, e di quanti stanno con Lui, allorché un peccatore ritorna a penitenza. – Voi, o scribi e farisei, così il divino Maestro, mormorate di me, anzi vi scandalizzate, perché lascio che i peccatori vengano a me, perché li accolgo con amore e siedo a mensa con essi: ma è questo il fine della mia missione: son venuto per essi, perché sono gli infermi che han bisogno del medico, non i sani, e volentieri me ne sto con loro, affine di compiere in essi l’opera mia. Vi dirò di più: è poco per me accogliere i peccatori e mangiare con essi; io andrò a loro, li cercherò, come il pastore cerca l’agnella smarrita e una povera donna cerca la moneta perduta; non solo siederò alla loro mensa, ma Io imbandirò loro il banchetto e farò festa. Sappiatelo bene: quest’opera è cara a me, cara al Padre mio, cara agli Angeli, e voi stessi dovreste goderne ed aiutarmi. – Queste due parabole sono una sublime lezione per noi tutti sacerdoti e ministri di Gesù Cristo, e ci insegnano come dobbiamo sempre ed ovunque amare i peccatori, cercarli, trattarli con carità per condurli alla verità, alla Chiesa e salvarli. Esse insegnano anche a uomini, eredi dello spirito e della durezza degli scribi e dei farisei, come sia falsa la via che essi tengono e falso il loro zelo. Anche al giorno d’oggi, dopo l’insegnamento e l’esempio di Gesù Cristo, vi sono alcuni che biasimano la benignità con i poveri peccatori; che li vorrebbero tener lontani dalla Chiesa, che forse talvolta li cacciano con parole aspre, con modi duri, con invettive rabbiose e si meravigliano e fanno gli scandalizzati se altri loro si accosta e conversa con loro e li tratta come vuole la carità. Oh! costoro pensino all’esempio di Gesù Cristo, meditino le due parabole che disse agli scribi e ai farisei e che vi ho spiegato. Là soltanto è la nostra norma infallibile.

CREDO …

 Offertorium

Orémus: Ps IX:11-12 IX:13 Sperent in te omnes, qui novérunt nomen tuum, Dómine: quóniam non derelínquis quæréntes te: psállite Dómino, qui hábitat in Sion: quóniam non est oblítus oratiónem páuperum. [Sperino in te tutti coloro che hanno conosciuto il tuo nome, o Signore: poiché non abbandoni chi ti cerca: cantate lodi al Signore, che àbita in Sion: poiché non ha trascurata la preghiera dei poveri.]

 Secreta

Réspice, Dómine, múnera supplicántis Ecclésiæ: et salúti credéntium perpétua sanctificatióne suménda concéde. [Guarda, o Signore, ai doni della Chiesa che ti supplica, e con la tua grazia incessante, fa che siano ricevuti per la salvezza dei fedeli.]

 Communio

Luc XV:10. Dico vobis: gáudium est Angelis Dei super uno peccatóre poeniténtiam agénte. [Vi dico: che grande gaudio vi è tra gli Angeli per un peccatore che fa penitenza.]

 Postcommunio

Orémus. Sancta tua nos, Dómine, sumpta vivíficent: et misericórdiæ sempitérnæ praeparent expiátos. [I tuoi santi misteri che abbiamo ricevuto, o Signore, ci vivifichino, e, purgandoci dai nostri falli, ci preparino all’eterna misericordia.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XIV)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

LO SCUDO XIV.

NATURA DI DIO E SUOI ATTRIBUTI.

Dio esiste da sé. — È immutabile, semplicissimo e puro spirito. — Infinitamente perfetto ed immenso. — Sapientissimo ed onnipotente. – Obbiezioni contro la divina onnipotenza. — Delle altre perfezioni.

— Dio esiste; la stessa ragione me ne persuade; ma vorrei un po’ sapere come mai Iddio ha fatto ad esistere, cioè quando ha avuto principio e per virtù di chi o di che cosa.

Dio, per essere tale, non deve aver avuto mai alcun principio, né può aver cominciato ad esistere per virtù d’altri. Dio è per se stesso e da sé. Cioè: nessuno creò Dio, ed è sempre eternamente esistito senza alcun principio. Ed invero se Egli non esistesse da tutta l’eternità, ed avesse cominciato ad esistere in un punto determinato del tempo, bisognerebbe che qualche causa a Lui superiore lo avesse prodotto. E se fosse così, Dio sarebb’Egli ancora il supremo degli esseri?

— No, certamente, perché quella causa a Lui superiore, che lo avesse prodotto, starebbe al di sopra di Lui. Vuol dire adunque che è Egli stesso che si è creato?

Nemmeno. Affinché  una causa qualsiasi agisca, è necessario assolutamente che esista; l’agire suppone l’esistere. Per esempio se io parlo, scrivo, opero, mi muovo, faccio delle azioni, è perché esisto: se non esistessi non potrei farle. Pertanto dicendo tu che Dio si è creato Egli stesso, verresti a dire questo assurdo, che Dio è esistito prima di esistere, per dare a se stesso l’esistenza che già possedeva.

— Ho inteso. Dunque?

Dunque devi ritenere che Dio è per sua natura, che ha in se stesso eternamente la ragione della sua esistenza.

— E potrebbe Iddio non esistere o essere distratto?

No, assolutamente. Dio avendo in se stesso la ragione della sua esistenza deve necessariamente esistere da tutta l’eternità e per tutta l’eternità. In altri termini: Dio è necessario ed eterno.

— E non potrebbe per lo meno mutarsi, crescere o diminuire se stesso?

No, mai e poi mai. Dio non è solamente necessario nella sua esistenza, ma lo è ancora in tutto il suo essere. Egli ha quanto deve e può avere come Dio, cioè Egli è tutto l’essere, l’essere per eccellenza, l’essere assoluto, l’essere sommamente perfetto, l’essere che non ha alcun vuoto da riempire, che non ha potenze da svolgere, che non ha cognizioni da acquistare, che ha nulla insomma da aggiungere, epperò l’essere che non può crescere se stesso neppure in un etto. E come non può crescersi, così non può diminuirsi, perché se si diminuisse anche per poco, lascerebbe di avere tutto ciò che deve e può avere come Dio, ossia lascerebbe di essere Dio, di essere eterno, di essere sempre eguale a se stesso.

— Dunque Iddio avendo tutto ciò che deve e può avere, sarà Egli un composto di quanto di più eletto si può immaginare?

Tutt’altro. Egli è semplicissimo. Un essere composto risulta degli elementi, diversi, che lo costituiscono, ridotti all’unità da una forza superiore e precedente, che regga il moto e l’ordine. Se Dio fosse composto, sia pure di quanto vi ha di più eletto, bisognerebbe che qualche forza superiore e precedente a Lui fosse esistita per comporlo; e così Egli non sarebbe più l’essere che è da sé, essere eterno, indipendente da ogni altro, l’essere primo e la causa prima di tutto. Inoltre non sarebbe neppure più l’essere necessario, perché  ogni composto può scomporsi, risolversi negli elementi che lo compongono, e per tal guisa cessare di esistere. Pertanto quando immaginiamo Iddio, dobbiamo rimuovere qualsiasi idea di composto, sia di elementi corporei, sia di elementi spirituali, e riconoscerlo per uno spirito purissimo e semplicissimo, come ci insegna a riconoscerlo la dottrina cattolica.

— Ma io intendo sempre a parlare degli occhi di Dio, delle sue mani, del suo dito ecc. Che vuol dir ciò?

Sì, è vero, nelle Sacre Scritture si parla di quanto tu dici, e sull’esempio delle Scritture anche la Chiesa adopera simili espressioni. Ma tutto ciò non è già per negare quello che le stesse Sacre Scritture insegnano, che cioè « Dio è spirito », ma per adattarsi alla debolezza della mente nostra, la quale anche nelle più alte cognizioni non può far a meno che ricorrere ad immaginazioni sensibili.

— Per altro, benché Dio sia uno spirito purissimo e semplicissimo io lo vorrei conoscere.

A questo tuo vorrei potrei darti la risposta di Giobbe: « Che pretendi tu di fare? Non sai che Dio è più alto dei cieli, e più profondo degli abissi? Come lo vuoi tu conoscere? » Tuttavia siccome, pigliar cognizione di Dio, per quanto è possibile alla debolezza della nostra intelligenza, è cosa ottima, perciò mi studierò, nel modo più facile e adatto per te, di dartene qualche idea. Poni ben mente: allo stesso modo che dalle cose create abbiamo potuto arguire l’esistenza di Dio, così dalle bellezze e dalle perfezioni di queste cose possiamo salire in qualche guisa alle bellezze e perfezioni di Dio. Pigliamo a tal fine tutte le qualità o proprietà, che esistono nelle creature, e specialmente nell’uomo; spingiamole con la nostra mente all’infinito; leviamo da esse qualsiasi imperfezione, riduciamole alla massima unità, ed avremo così una idea lontana, meno imperfetta che sia possibile, di ciò che è Dio.

— Dunque la grandezza e la maestà, la vita e la fecondità, l’intelligenza, la scienza, la saggezza, la potenza, la libertà, la giustizia, la carità, la benevolenza, la misericordia, la felicità e tutti gli altri beni, che si possano concepire, vi sono tutti in Dio?

Sì, vi sono tutti, perfetti nel loro insieme e perfetti ciascuno nell’essere suo, senza l’ombra di alcun difetto, dimodoché Dio è l’essere infinitamente perfetto, vale a dire senza limite alcuno nella sua perfezione.

— Bicordo di aver appreso che Dio è anche immenso. Che vorrebbe dire ciò?

Ciò vuol dire che Egli è da per tutto e tutto da per tutto, né può esser contenuto in alcuno spazio. Come l’anima nostra è tutta in tutto il corpo e in ogni sua parte, così Dio riempie tutti gli spazi ed è tutto intero in tutte le divisioni dello spazio.

— E si trova Egli anche in cose non belle?

Senza dubbio.

— E ciò non gli torna di sfregio?

Mente affatto. Come la luce del sole illuminando il fango della terra non ne resta imbrattata, così neppure Iddio riceve sfregio alcuno dal trovarsi in cose anche non belle.

— E quando si dice che Dio è sapientissimo, s’intende di dire che Dio sa moltissime cose?

No, caro mio; ma si intende di dire che Egli sa tutto, conosce tutto, vede tutto. Dio vede immediatamente se stesso e vede tutto, tutto ciò che Egli è, tutto ciò che Egli può, penetrando fino ai più intimi nascondigli, della sua essenza, conoscendo tutto quanto l’infinito valore di ciascuno de’ suoi attributi, comprendendo in una parola se stesso. E conoscendo se stesso, conosce tutte le cose, perché essendo Egli la causa universale di tutto ciò che esiste, nell’atto che conosce se stesso non potrebbe ignorare ciò che Egli stesso produce. Epperò Egli sa il passato, il presente, il futuro, Egli conosce tutte quante le creature esistite, esistenti, che esisteranno, e quelle persino che possono esistere; Egli vede le nostre opere, le nostre parole, i nostri movimenti, i nostri pensieri, i nostri desiderii, i nostri affetti, Egli vede i destini dei popoli, delle città, dei paesi, del mondo intero; Egli vede tutto ciò che facciamo di bene e tutto ciò che facciamo di male e misura esattamente le nostre intenzioni, la nostra buona o cattiva volontà, insomma non v’è cosa alcuna che si sottragga al suo sguardo, alla sua conoscenza.

— Ho inteso. E quando si dice che Dio è onnipotente, si vuol dire che Dio può propriamente fare tutto ciò che vuole?

Precisamente, giacché un Dio, che non possa far tutto ciò che vuole, non è Dio. Noi diciamo talvolta a noi stessi per incoraggiarci all’opera che « volere è potere ». Ma la cosa non è così propriamente, e non fa bisogno di essere filosofi per capirlo. Invece in Dio volere è propriamente potere.

— Perché nel Credo, in cui si dice: « Credo in Dio Padre onnipotente », non si parla di altro attributo divino che di questo?

Perchè, se così posso dire, questo attributo è il più palpabile. Vedendo l’universo con tutte le meraviglie, che in esso vi sono, l’onnipotenza divina balza tosto innanzi alla nostra mente. E così la divina onnipotenza ci serve come punto di partenza per iscoprire l’una dopo l’altra tutte le perfezioni divine.

— Iddio però con la sua onnipotenza non potrà mai fare che un circolo sia quadrato, che uno più uno facciano tre.

E con ciò! Penseresti tu che la sua onnipotenza sia così abbreviata! L’assurdo, vale a dire ciò che è contrario alla ragione, non può certamente avere un’esistenza reale. Pretendere adunque che Dio, ad essere del tutto onnipotente, possa fare ciò che non può avere un’esistenza reale, come ad esempio che un circolo sia quadrato, che uno più uno facciano tre, è lo stesso che pretendere che Iddio crei il nulla. Ora pare a te che sia difetto d’onnipotenza il non poter creare il nulla?

— La risposta data alla mia obbiezione è limpidissima, e non me la sarei aspettata tale. Ma vorrei ancora sapere, se Dio essendo onnipotente possa fare anche il male.

Eh! no, certamente. Il poter fare il male non è effetto di onnipotenza, ma di debolezza. Tu, ad esempio, ti credi potente, perché puoi ammalarti?

— Tutt’altro. Mi crederei potente, se potessi star sempre perfettamente sano.

Dunque anche Dio è al sommo potente, perché non può perdere la potenza di fare il bene, perché non può fare il male, ciò che sarebbe difetto di potenza. Giacché la volontà di Dio è retta, è santissima, è indissolubilmente legata al bene, e non può e non potrà mai menomamente piegare al male. Se ciò potesse accadere, Dio non sarebbe più l’essere santissimo, che Egli è, anzi non sarebbe più Dio.

— Ho inteso.

E se hai inteso mi sembra che non ti occorrano altre spiegazioni intorno agli altri attributi o perfezioni di Dio, quali sarebbero la santità, la giustizia, la bontà, la misericordia, la veracità, la fedeltà ecc., perché facilmente comprendi da te quello che significano.

— Mi piacerebbe nondimeno che mi dicesse anche una qualche parola di essi.

Ebbene ti appagherò. L a santità è quella divina perfezione, per cui Dio vuole ed ama il bene, ed abborrisce il male. Il titolo di Santo è quello che si dà a Dio per eccellenza nelle Sacre Scritture: lo si dice tre volte Santo, cioè infinitamente santo.

La giustizia è la perfezione, per cui secondo il merito premia i buoni e castiga i cattivi, dando così a ciascuno ciò che è dovuto.

La bontà è quella, per cui Egli ci vuol sommamente bene e sommamente ci benefica, sicché ogni bene, che noi abbiamo, ci viene da lui.

La misericordia è la perfezione per cui, quasi col cuore dato alle nostre miserie, ci perdona facilmente e volentieri le nostre colpe, e ci sottrae a tanti mali, oppure ce ne libera.Dio poi dicesi ancora verace e fedele, perché Egli non potendo dir mai altro che la pura verità, non può né mentire, né ingannare, e sempre mantiene la sua parola. « Iddio, dice la Santa Scrittura, non è come l’uomo che può mentire; né come il figliuol dell’uomo che può mutarsi. Egli ha detto una cosa e non la farà? Ha parlato, e non manterrà la parola? » (Vedi il Libro dei Numeri, capo XXIII, versetto 19). Da ultimo, per tacere di altro, Iddio dicesi infinitamente provvido, perché Egli ha cura delle sue creature, le conserva nel loro essere, e le governa e dirige a conseguire il fine di loro esistenza, provvedendo ossia procacciando a tutte quel che loro fa bisogno. Ma ora basti di ciò per la nostra debolezza, memori di quel detto della Sacra Scrittura: « Colui, che si fa scrutatore della maestà di Dio, rimarrà sotto il peso della sua gloria ».