DOMENICA V dopo PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVI:7; XXVI:9 Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus. [Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Ps XXVI:1 Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timébo? [Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò?]

Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus. [Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Oratio

Orémus. Deus, qui diligéntibus te bona invisibília præparásti: infúnde córdibus nostris tui amóris afféctum; ut te in ómnibus et super ómnia diligéntes, promissiónes tuas, quæ omne desidérium súperant, consequámur. [O Dio, che a quanti Ti amano preparasti beni invisibili, infondi nel nostro cuore la tenerezza del tuo amore, affinché, amandoti in tutto e sopra tutto, conseguiamo quei beni da Te promessi, che sorpassano ogni desiderio.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet III:8-15

“Caríssimi: Omnes unánimes in oratióne estóte, compatiéntes, fraternitátis amatóres, misericórdes, modésti, húmiles: non reddéntes malum pro malo, nec maledíctum pro maledícto, sed e contrário benedicéntes: quia in hoc vocáti estis, ut benedictiónem hereditáte possideátis. Qui enim vult vitam dilígere et dies vidére bonos, coérceat linguam suam a malo, et lábia ejus ne loquántur dolum. Declínet a malo, et fáciat bonum: inquírat pacem, et sequátur eam. Quia óculi Dómini super justos, et aures ejus in preces eórum: vultus autem Dómini super faciéntes mala. Et quis est, qui vobis nóceat, si boni æmulatóres fuéritis? Sed et si quid patímini propter justítiam, beáti. Timórem autem eórum ne timuéritis: et non conturbémini. Dóminum autem Christum sanctificáte in córdibus vestris.”

Omelia I

[Mons. Bonomelli, “Nuovo saggio di OMELIE per tutto l’anno”, Vol. III, Torino 1899, Om. XI –imprim.]

“Siate tutti concordi, compassionevoli, amatori dei fratelli, pietosi, modesti, umili: non rendendo male per male, od ingiuria per ingiuria; ma, per contrario, benedite, perché a questo siete chiamati, acciocché ereditiate la benedizione. Chi pertanto vuole amare la vita e vedere giorni felici, raffreni la sua lingua dal male e le sue labbra non proferiscano frode. Si ritragga dal male e faccia il bene, cerchi la pace e la procacci. Perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti, e le sue orecchie intente alle loro preghiere; ma il volto del Signore sta contro quelli che fanno male. E chi mai potrà farvi male, se siete studiosi del bene. Ma se pure patite alcuna cosa per la giustizia, beati voi! Non abbiate timore di loro, né ve ne turbate. Adorate Cristo Signore nei vostri cuori„ (I. di S. Pietro c. III, 8-15).

In questi otto versetti vi ho presentato nella nostra lingua il tratto dell’epistola, che or ora si è letta nella Messa. Esso è tolto dal capo terzo della prima lettera di S. Pietro ai fedeli sparsi in varie province dell’Asia Minore. È cosa affatto superflua il farvi osservare come ogni versetto, dirò meglio, quasi ogni parola di questa breve lezione racchiuda un documento altissimo di sapienza morale; voi stessi, udendone la versione, ve ne sarete accorti. Noi avvezzi fino da fanciulli ad udire queste sì sante verità, quasi non vi poniamo mente e non ne riceviamo grande impressione, come non facciamo le meraviglie allorché al mattino il sole spunta sull’orizzonte, raggiante di luce. Ma così non doveva essere dei primi Cristiani, massime di quelli che erano allora allora usciti dal paganesimo. Io immagino, che quei cristiani all’udirsi leggere queste sentenze sì semplici, sì sublimi e sì conformi ai principi della stessa ragione naturale ed ai sentimenti più nobili del cuore, eppure sì nuove, pieni di stupore gratitudine, dovessero esclamare: Oh! come bella, ammirabile e divina questa Religione! Benedetto Colui, che per sua misericordia l’ha manifestata agli uomini! Felici gli uomini che la ricevono e la osservano! – Ma lasciato da banda ogni esordio, mettiamo mano non tanto alla spiegazione (che in tanta chiarezza non occorre), ma alla considerazione ed applicazione di queste verità, che rispondono ad ogni età e condizione di persone. – S. Pietro nei versetti, che precedono, ricorda alle donne i loro doveri verso dei mariti, e le esorta ad essere sollecite più degli ornamenti esterni, della vera bellezza, che è tutta interna; poi eccita i mariti ad usare ogni riguardo alle loro donne, affinché possano avere insieme l’eterna eredità. Poi proseguendo, scrive: ” Siate tutti concordi, compassionevoli, amatori dei fratelli, pietosi, modesti, umili. „ Dite, o carissimi: era possibile in sì poche parole condensare maggior numero di massime morali di queste più belle e più stupende ? “Siate tutti concordi, „ o, come porta il testo della Volgata, ” unanimi, „ cioè abbiate tutti un animo solo, un solo sentimento. Si può dire che nelle lettere, specialmente di S. Paolo, la raccomandazione della concordia si incontra ad ogni pagina. La concordia esterna, delle parole e degli atti, nella famiglia e società, perché sia vera concordia e durevole, deve essere una conseguenza dell’interna, deve scaturire dalla mente e dal cuore. Abbiamo tutti gli stessi principi, professiamo tutti le stesse verità, amiamoci tutti come fratelli, e la concordia regnerà regina in mezzo a noi. Mi direte: Sta bene aver comuni gli stessi principi, tener salde le stesse verità, ecco la base della concordia. — Ma è egli possibile trovarci uniti nelle stesse verità e negli stessi principi? Volete voi che ciascuno sacrifichi le sue convinzioni? La diversità di parlare e di giudicare è una necessità delle cose ed è voluta in gran parte dalla disuguaglianza delle menti, della istruzione e di cento altre cause, onde la concordia in tanta differenza di caratteri e di pensamenti è impossibile. — No, non è impossibile, o cari. La carità scambievole, senza offendere la libertà individuale, può mantenere la concordia. Le voci dell’organo sono diverse fra loro, ma si possono armonizzare: il rispetto vicendevole, la tolleranza, figlia della carità, possono mantenere la più perfetta concordia: anche tra quelli, che quanto a princîpi dissentono profondamente tra loro. Studiamoci di essere uniti nella verità e avremo la concordia: che se non possiamo essere uniti nella stessa verità, lo siamo sempre nella carità e ne avremo egualmente il frutto nella concordia esterna. Lo so dilettissimi: alcuni credono che la differenza di religione e di fede debba spezzare il vincolo della carità e generare la discordia e l’odio. È un errore: Dio non ama Egli i peccatori e per amore non li chiama a penitenza? Gesù Cristo non morì forse per tutti? Se Dio li ama, se Gesù Cristo morì anche per essi, perché non ameremo noi pure quelli che non hanno comune con noi la stessa fede? Noi non approveremo mai la loro dottrina e i loro errori, che faremmo oltraggio a Dio: ma rispetteremo sempre ed ameremo le loro persone, li terremo in conto di fratelli, perché anch’essi come noi creati da Dio, chiamati alla stessa fede, perché anche per essi è morto Gesù Cristo. Tolga dunque Dio che noi nutriamo ombra d’odio o di rancore contro quelli, che non professano la nostra fede o che avendola professata, la rigettarono. Deploreremo la loro caduta, la loro miscredenza, ma li rispetteremo e li ameremo sempre e cordialmente, e perciò anche con loro sarà perfetta la nostra concordia. – “Siate compassionevoli„ Compatientes, dice S. Pietro, che importa piangere con chi piange, patire con chi patisce. Allorché un membro del nostro corpo soffre, in qualche modo soffrono tutti gli altri e il corpo nostro languisce, perché il male d’uno è male degli a1tri: similmente quando una persona a noi cara patisce, noi pure patiamo con essa, perché l’amore, che ad essa ci lega, di due anime ne forma quasi una sola, e perciò il dolore è comune. Ciò, in qualche misura, dovrebbe avvenire ogni qualvolta vediamo un fratello soffrire: se lo amiamo, come vuole il Vangelo, il suo soffrire, sarà nostro soffrire: allora saremo compassionevoli e tosto appariranno i frutti della carità, giacché non è possibile sentire vera compassione pei mali altrui e non far nulla per alleviarli. È egli possibile che una spina vi si conficchi nella mano sinistra e la destra non si adopri a levarla prontamente? “Siate amatori dei fratelli, „ Fraternitatis amatores. O la santa parola! Quegli uomini pieni d’orgoglio, che nel secolo scorso proclamarono la fratellanza universale, quasi che fossero stati essi gli scopritori ed i primi apostoli, meditino queste due parole, diciannove secoli or sono, scritte dal principe degli Apostoli: Fraternitatis amatores. – Non solo dobbiamo essere concordi, compassionevoli gli uni verso gli altri, ma dobbiamo amarci come fratelli. Per i fratelli, per i veri fratelli che si amano, ogni bene è comune, e la sventura che colpisce uno, colpisce tutti. Ah! Carissimi, come sarebbe felice il mondo, se questa fratellanza inculcata da Gesù Cristo e predicata da S. Pietro in questo luogo, regnasse in mezzo a noi e si manifestasse nelle opere. Si parla molto, si parla eloquentemente di fratellanza; tutti 1’hanno sulla lingua: ma l’hanno anche nelle opere? Ohimè! Parlano di fratellanza e si lacerano tra loro, e il forte opprime il debole, il ricco il povero, l’uomo istruito abusa dell’ignoranza altrui e vedo una classe armata e fremente contro l’altra. È questa la fratellanza che Gesù Cristo ha portato sulla terra e san Pietro proclama altamente quando scrive: siate amatori dei fratelli — Fraternitatis amatores? — Ditelo voi, carissimi. S. Pietro prosegue: siate pietosi, „ Misericordes, che suona alcun che di più vivo e sentito del compassionevoli. Cosa strana e quasi incredibile! Vi furono filosofi antichi, come Seneca, che osarono insegnare la pietà verso i miseri essere una debolezza d’animo, una infermità dello spirito e doversi combattere e disprezzare. La pietà e la commiserazione verso i sofferenti è la dote che maggiormente onora la natura umana e la rende più simile a Dio, che è la stessa bontà e misericordia: per essere insensibili ai dolori altrui; bisogna rinnegare la propria natura e renderci simili alle piante ed alle pietre, non dico alle bestie, le quali talvolta sembrano compatire ed aver pietà almeno coi loro nati. Noi, o dilettissimi, non dimenticheremo mai questa sublime sentenza di Gesù Cristo, che disse: “Siate misericordiosi, com’è misericordioso il Padre vostro che è nei cieli, „ e “Beati i misericordiosi, perché anch’essi otterranno misericordia. „ “Siate modesti, umili, „ Modesti, umile. Modestia ed umiltà, osserva S. Bernardo, sono due sorelle, ed io volentieri le chiamerei piuttosto, madre e figlia, giacché mi sembra che la modestia sia la figlia della umiltà. La modestia riguarda direttamente l’esterno dell’uomo, l’umiltà si riferisce all’interno. Per la modestia l’uomo compone il suo esterno in guisa che torna caro ed amabile a tutti: la modestia apparisce nelle vesti, nel passo, nel suono della parola, nell’aspetto, negli atti esterni, nell’atteggiamento della persona, che spira benevolenza, piacevolezza, benignità, rispetto, affabilità e grazia, a talché la compagnia della persona modesta è da tutti desiderata e tutti rallegra. Perché poi la modestia non sia ingannevole apparenza, ma virtù vera e solida, deve germogliare dal fondo dell’anima, deve emanare dall’umiltà del cuore, come la fragranza dal fiore. L’anima, che conosce se stessa e perciò sente bassamente di sé, veglia sempre sopra de’ propri atti, ama il nascondimento, tutti reputa migliori di sé, si tiene all’ultimo luogo, e ne gode: essa è sempre tranquilla e pacifica nel santuario della sua coscienza: e qual meraviglia, che la pace interna informi i suoi atti esterni e si irradii costantemente sul suo volto e si manifesti nella modestia? – “Non rendendo male per male e ingiuria per ingiuria. „ Veramente un uomo, un cristiano, quale lo vuole S. Pietro i n questo luogo, che abbiamo chiosato brevemente, dovrebbe essere amato da tutti e parrebbe impossibile possa essere offeso: ma non è così. Tanta è la malignità di certi uomini e il pervertimento di certi cuori, che le anime più umili, più modeste, più pie, più caritatevoli non vanno salve dall’odio e dalle offese più gravi, e sembra talvolta che le loro virtù siano incitamento e motivo ad accrescere l’ira e le persecuzioni dei tristi. Pietro stesso che scriveva queste verità sì sante e le praticava; tutti gli Apostoli e Gesù Cristo medesimo non furono fatti segno della malevolenza più cupa, dell’odio più feroce dei malvagi fino a rimanerne vittime? Perciò S. Pietro, continuando la sua esortazione, dice: “Ancorché voi, o cari, siate perfettissimi in codeste virtù, non dovete meravigliarvi se il mondo vi tratterà da pari suo, e se vi perseguiterà e coprirà d’ingiurie. È questa la mercede ch’egli suole dare ai buoni. E voi che farete? Non rendete male per male, ingiuria per ingiuria. „ In queste parole di S. Pietro ed in quelle che seguono si ripete quasi letteralmente l’insegnamento di Cristo registrato nel capo V del Vangelo di S. Matteo. E non solo noi non dobbiamo rendere male per male, ingiuria per ingiuria, che sarebbe già molto; ma per contrario dobbiamo benedire chi ci offende: Sed e contrario benedicentes; frase che risponde perfettamente al precetto di Cristo: Benedicite maledicentibus vobis (Matteo, V, 44). È il grado sommo della carità, è virtù eroica, senza dubbio; ma Gesù Cristo l’ha comandata, più ancora, l’ha praticata Egli stesso sulla croce, e per noi basta. “E questa, soggiunge S. Pietro, quasi per prevenire la difficoltà, la vostra vocazione, „ “Quia in hoc vocati estis.” Non movete difficoltà, sembra dire l’Apostolo, perché la religione, alla quale siete chiamati, vi impone virtù sì alta, “se volete ereditare la benedizione, „ Ut benedictionem hareditate possideatis. Di quale benedizione intende qui parlare S. Pietro, data qual premio del perdono generoso delle offese, del benedire chi ci maledice? Non dubito che intenda parlare principalmente della benedizione eterna, del premio dei giusti, ma non senza una allusione anche alla benedizione o mercede temporale, che il mondo stesso non rare volte riserba ai magnanimi, che perdonano le offese e rendono bene per male. Affermata questa dottrina sì eccelsa del perdono delle offese, anzi del rendere bene per male, benedizione per maledizione, S. Pietro cita un luogo del Salmo XXX, 13 e seg., e dice: ” Chi dunque vuole amare la vita e godere buoni giorni, raffreni la sua lingua dai male, e le sue labbra non proferiscano frode; „ vale a dire: chiunque desidera di possedere la vita beata in cielo e felice anche quaggiù sulla terra, quanto a noi è possibile, raffreni la sua lingua e si guardi dal tessere inganno od ordire frode contro il fratello. È chiaro che questa testimonianza del Salmo si connette colla sentenza evangelica del perdonare e benedire chi ci maledice: Benedìcite maledicentibus vobis, ed è qui riportata da S. Pietro come conferma, tanto più conveniente in quantoché la lettera era indirizzata ai cristiani, la maggior parte dei quali era di Ebrei, cresciuti nelle idee naturalmente ebraiche. Una lingua che non sa raffrenarsi, che rende ingiuria per ingiuria, non solo si prepara giorni amari nella vita futura, dove sarà reso a ciascuno secondo le opere sue, ma sovente se li prepara anche nella presente, perché sparge il seme della discordia, offende ed irrita i fratelli, si crea dei nemici e dilata l’incendio degli odi, dove ché colui che tace, benefica chi gli fa male e benedice chi lo ingiuria, gli chiude la bocca e vince, come scrive S. Paolo, col bene il malvagio. Si ritragga dal male, faccia il bene, cerchi la pace e la procacci. „ Quest’altra sentenza, tolta dallo stesso Salmo, è amplissima, vedete, e contiene quattro cose distinte, che S. Pietro conferma e raccomanda e sulle quali mi passo. Fuggire il male, fare il bene, cercare la pace e conservarla con ogni diligenza, le sono cose generalissime, sulle quali non occorre fermarci, e perciò passiamo all’altra sentenza del Salmo. – “Perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti, e i suoi orecchi sono intesi alle loro preghiere; ma il suo volto sta contro quelli che fan male. „ Il fissare gli occhi sopra una persona può avere un doppio significato affatto contrario: gli occhi si fissano sopra una persona per mostrare ira e disprezzo, o per mostrare compiacenza ed amore. Si guarda il nemico con occhi torbidi, fieri, dispettosi; la madre sul bambino, che porta sulle braccia, tiene fissi gli occhi pieni di letizia e d’amore. In qual senso il Salmista afferma che Dio tiene fissi gli occhi sui giusti? Evidentemente li tiene fissi sopra di loro con cura ed affetto paterno, perché si tratta di giusti, che sono figli bene amati. Dio poi verso di loro tiene aperte le orecchie per udire le loro preghiere ed esaudirle. Come è bella e soave questa pittura, che il Salmista fa di Dio rispetto ai buoni! Iddio li guarda amoroso, li ascolta sollecito, come un padre, anzi come una madre fa con i suoi figli: la madre è tutta intenta ai bisogni dei figli, li mira tacita, li previene ed appena ode un loro grido, un gemito, vola a loro e darebbe per essi la vita. È questa una poverissima immagine delle sollecitudini amorose, onde Iddio circonda i giusti e provvede ai loro bisogni. Che se Dio è tutto tenerezza verso dei giusti, il suo volto, dice il salmista, è pieno di sdegno e di terrore contro i malvagi, per scuoterli e ridurli a miglior consiglio. Non è mestieri, o dilettissimi, il dirvi che in questo luogo della sacra Scrittura, come in mille altri, si parla di Dio, come se fosse un uomo, che ha occhi, orecchie e volto, mentre per ragione sappiamo e per fede, che Dio è puro spirito e come tale non ha né occhi, né orecchi, né volto, ma solo mente e volontà, come si conviene alla natura sua semplicissima. – Qui S. Pietro ripiglia la sua esortazione e scrive: “E chi mai potrà recarvi danno, se siete studiosi del bene? „ Sopra ha detto ai suoi discepoli, che non rispondano male per male, ma benedicano a chi li maledice, e qui a confermarli nel bene aggiunge: Se voi fate bene a tutti, anche a chi vi odia, e se volgete in vostro vantaggio il male, che tentano di farvi i nemici, chi mai potrà recarvi danno? Non ve lo possono fare, i nemici; chi dunque ve lo farà? Ai giusti, ai veri figli di Dio tutto giova sulla terra e tutto si volge a bene, dice S. Paolo: Omnia cooperantur in bonuum. Giovano i favori e le benedizioni degli uomini, come le contraddizioni e le maledizioni, perché i giusti da tutto traggono occasione di esercitare la virtù e di servire a Dio. – “Che se pure, così S. Pietro, soffrite alcuna cosa per la giustizia, felici voi!” È questa una sentenza tolta quasi di peso dal Vangelo, dove Cristo dice: “Beati quelli che soffrono persecuzione per la giustizia; „ e ancora: “Beati voi allorché gli uomini vi avranno maledetti e vi avranno perseguitato: godete ed esultate, perché grande è la vostra mercede. „ E non temete di loro, né vi turbate, soggiunge S. Pietro. A che temere quelli che vi odiano, vi maledicono e vi perseguitano? Essi vi spianano la via del cielo, vi preparano la corona, e se possono togliervi il corpo, non possono togliervi l’anima, né torcervi un solo capello. Dunque bando ad ogni timore non solo, ma ad ogni più lieve turbamento: Non conturbemini. – Ci resta da spiegare l’ultimo versetto: “Adorate nei vostri cuori Cristo Signore. „ Il testo della nostra Volgata dice: “Santificate”, parola che risponde all’adorate, nel senso preciso che ha pure nell’orazione domenicale, in cui diciamo a Dio; “Sia santificato il vostro nome, „ cioè siate onorato, glorificato, e adorato. Come doppia è la nostra natura, così doppio vuol essere il culto, che tributiamo a Dio, il culto dello spirito e del cuore, che è interno, e il culto del corpo, che è esterno: questo non può mai separarsi da quello e, se è separato, si risolve o in una ipocrisia o in atti materiali senza valore dinanzi a Dio. Il culto del cuore deve precedere ed informare il culto esterno come l’anima informa il corpo, e benché il primo alcune volte possa esistere senza il secondo, tuttavia ordinariamente lo trae seco come una necessità: è come il pensiero, che produce naturalmente la parola. San Pietro in questo luogo inculca ai suoi figliuoli questo culto interno, questa adorazione di Cristo nel cuore, causa e radice del culto esterno. Miei cari! Dio è spirito, disse Gesù Cristo alla samaritana, e perciò vuole che gli uomini lo adorino anzi tutto in spirito. Allorché pertanto vogliamo o dobbiamo adorare Iddio, poniamoci dinanzi alla sua maestà infinita, raccogliamo i nostri pensieri ed i nostri affetti, ritiriamoci nel santuario della nostra mente e del nostro cuore, e quivi riconosciamo il nostro nulla e la grandezza di Dio: questo conoscimento, questo sentimento intimo del nostro nulla, e del tutto che è Dio, mentre fa curvare tutto l’essere nostro al cospetto di quella immensa grandezza e quasi lo annienta, fa piegare le nostre ginocchia e la nostra fronte e fa risuonare sulla nostra lingua quelle parole di S. Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” Allora adoriamo Dio nei nostri cuori: Dominum Christum sanctificate in cordibus vestris. –  È questo adorare Dio in spirito e verità.

Graduale

Ps LXXXIII:10; LXXXIII:9

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice super servos tuos, [O Dio, nostro protettore, volgi il tuo sguardo a noi, tuoi servi]

V. Dómine, Deus virtútum, exáudi preces servórum tuórum. Allelúja, allelúja [O Signore, Dio degli eserciti, esaudisci le preghiere dei tuoi servi. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XX:1

Alleluja, alleluja Dómine, in virtúte tua lætábitur rex: et super salutáre tuum exsultábit veheménter. Allelúja. [O Signore, nella tua potenza si allieta il re; e quanto esulta per il tuo soccorso! Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt. V:20-24

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Nisi abundáverit justítia vestra plus quam scribárum et pharisæórum, non intrábitis in regnum coelórum. Audístis, quia dic tum est antíquis: Non occídes: qui autem occídent, reus erit judício. Ego autem dico vobis: quia omnis, qui iráscitur fratri suo, reus erit judício. Qui autem díxerit fratri suo, raca: reus erit concílio. Qui autem díxerit, fatue: reus erit gehénnæ ignis Si ergo offers munus tuum ad altáre, et ibi recordátus fúeris, quia frater tuus habet áliquid advérsum te: relínque ibi munus tuum ante altáre et vade prius reconciliári fratri tuo: et tunc véniens ófferes munus tuum.”

Omelia II

[G. Bonomelli, ut supra, om. XII]

“Io vi dico che se la vostra “giustizia non sarà migliore di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete udito, che fu detto agli antichi: Non ucciderai, e chi uccide sarà sottoposto al giudizio; ma io vi dico, che chiunque si adira contro il fratel suo sarà sottoposto al giudizio; e chi gli avrà detto Racha, sarà sottoposto al sinedrio: e chi gli avrà detto Pazzo sarà sottoposto al fuoco della geenna. Se tu pertanto presenti la tua offerta sull’altare e quivi ti rammenti, che il tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia colà la tua offerta sull’altare è va prima a riconciliarti col fratel tuo, e allora venendo, presenta la tua offerta „ (S. Matteo, V, 20-24).

Fin qui l’odierno Vangelo. – Il Vangelo è la succinta narrazione dei fatti principali della vita di Gesù Cristo e l’esposizione della sua dottrina: questa poi viene esposta o in parabole od in discorsi nelle forme più semplici e più efficaci. Ora tra i discorsi di Cristo, principalissimo senza dubbio è quello che dicesi del monte, perché fu tenuto sopra un monte, e comincia al capo quinto di S. Matteo e si chiude col settimo. Chi va da Nazaret a Tiberiade, oltrepassa il Tabor, che resta a destra, attraversa un altopiano ondulato ed alla sua sinistra vede elevarsi un piccolo colle, affatto nudo: quel colle si dice colle delle beatitudini, perché la tradizione vuole che Gesù Cristo lassù abbia pronunciato il discorso del monte, che comincia con le otto beatitudini. Esso è il compendio di tutta la dottrina morale di Gesù Cristo, esposta in una forma sì chiara, sì semplice e sì efficace, che formò sempre e formerà fino alla fine dei secoli la meraviglia di chiunque lo scorra con qualche attenzione. Da questo discorso del monte è tolto il brano che vi ho recitato e che deve essere il soggetto della presente omelia.. “Vi dico che se la vostra giustizia non sarà migliore di quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno de’ cieli. „ Per comprendere questa sentenza di nostro Signore, è necessario sapere che cosa era la giustizia, ossia la virtù od osservanza della legge praticata dagli scribi e dai farisei. Essi professavano di osservare rigorosamente la legge mosaica: a questa avevano aggiunto molte pratiche o prescrizioni esterne di nessun conto ed alle quali davano grande importanza, per es. il lavarsi le mani prima di prendere il cibo, il mondare certi vasi e via dicendo. Gesù Cristo non condannava l’uso di queste pratiche; meno poi ancora l’osservanza esatta della legge; ciò ch’Egli fortemente biasimava negli scribi e nei farisei era il mettere la virtù nell’adempimento materiale della legge e nell’esigere con estremo rigore l’osservanza di cose di poco momento, trascurando l’interno e lo spirito della legge. Gesù guariva un infermo nel giorno di sabato, e gli scribi ed i farisei l’accusavano d’aver violato il riposo prescritto da Mosè; gli Apostoli in giorno di sabato sfregavano le spighe di frumento per calmare la fame che li tormentava; ed eccoti quei crudeli a designarli come profanatori della legge. In una parola: erano duri, senza carità, tutti intesi a fare materialmente le pratiche esterne, non curanti per nulla dell’interno. Gesù Cristo proclama che con siffatta virtù non si può entrare nel regno dei cieli: che oltre gli atti esterni e prima e più che questi si domandano gli interni, o più che le cerimonie del culto si esige il sacrificio del cuore. Il carattere proprio della dottrina di Cristo è la riforma dello spirito, la rigenerazione interna, la purezza del cuore, la carità vera, che dall’anima si traduce nelle opere, precisamente il rovescio di ciò che facevano i farisei, ai quali Cristo sdegnato diceva: ” Lavate il di dentro, e poi vedrete di mondare il di fuori „ (S. Matteo, XXIV, 26). Allorché pertanto Gesù Cristo vuole che la nostra giustizia sia migliore di quella degli scribi e farisei, ci comanda di far sì che per noi si curi più l’interno che l’esterno; che al di sopra delle pratiche esterne e delle cerimonie si metta il culto dello spirito e del cuore, e che al formalismo, se così posso dire, materiale, vada innanzi la carità, in una parola, che quello che nell’uomo è principale, cioè lo spirito, tenga il primo luogo. – Ora, o dilettissimi, alcun che della lebbra gli scribi e dei farisei non si sarebbe appiccicata anche ad alcuni Cristiani? A Dio non piaccia; ma non sarebbe da farne le meraviglie. Giustizia farisaica, da Cristo sfolgorata, è recitare lunghe orazioni, prender parte a pratiche religiose non obbligatorie, far pellegrinaggi, novene, tridui, ascriversi a pie confraternite e lacerare la fama del prossimo, seminare la discordia tra fratelli, opprimerli con le usure, tenere discorsi osceni, imbrattarsi in laide tresche, negare un tozzo di pane al poverello affamato. – Sente di giustizia farisaica la condotta di quei Cristiani, che crederebbero colpa omettere il Rosario, la Messa in giorno feriale, la visita al Sacramento, e poi in casa tiranneggiare la moglie, i figli, le sorelle, i servi. Ricordiamolo bene, o fratelli; tutte le pratiche religiose, ancorché eccellenti, gli stessi Sacramenti, non hanno ragione di fine, ma sì di mezzo, e potrebbe essere per conseguenza che uno abbondasse e sovrabbondasse in queste cose e scarseggiasse nella virtù, e per contrario altri abbondasse nella virtù e facesse appena il necessario quanto alle pratiche di religione e all’uso dei Sacramenti. Cerchiamo dunque l’acquisto della virtù vera e solida, che si alimenta di sacrifici e di opere di carità, la virtù che Cristo vuole nei suoi seguaci, perché questa sola ci schiuderà le porte del cielo. – Cristo, dopo avere dichiarato in genere che la virtù richiesta in chi lo vuol seguire deve essere ben superiore a quella praticata dagli scribi e dai farisei, prosegue e discende ai particolare, dicendo: ” Avete udito che fu detto agli antichi: Non ucciderai, e chi uccide sarà sottoposto al giudizio; ma io vi dico, che chiunque si adira contro il fratel suo, sarà sottoposto al giudizio. „ – La legge antica, quanto al prossimo vietava direttamente l’omicidio e con l’omicidio tutte le altre offese fatte esternamente alle persone, ed infliggeva la pena proporzionata: legge nuova, ch’io promulgo ed impongo, dice Cristo, va più oltre e vieta severamente non solo tutte le offese personali esterne fatte al prossimo, ma l’ira, il rancore, l’odio interno, qualunque ne sia il grado. L’omicida nella legge di Mose è soggetto al giudizio, e trovato colpevole di volontario omicidio è condannato a morte: quella legge si limita agli atti esterni: il Vangelo in quella vece entra nei penetrali della coscienza e dichiara reo nel giudizio divino e meritevole dell’eterna perdizione chiunque nell’animo suo cova ira ed odio contro il prossimo. – Sarebbe far torto a Mosè ed ai profeti ed alla fede dell’antica sinagoga se noi affermassimo semplicemente che la legge antica si limitava agli atti esterni e non si curava degli interni. Quando Davide gemendo diceva: “Signore, crea in me un cuor mondo e rinnova in me il tuo spirito retto: „ e ancora: “Se tu, o Signore, l’avessi voluto, io ti avrei offerto il sacrificio: ma tu non gradisci gli olocausti: il sacrificio grato a Dio è lo spirito dolente: è il cuore contrito ed umiliato che tu non respingi: „ allora Davide esprimeva a meraviglia come Iddio voglia anzi tutto e sopra tutti il culto interno, il sacrificio del cuore. Ma è anche certo che questa dottrina nobilissima era poco conosciuta e praticata in Israele e che solo Gesù Cristo la elevò alla sua perfezione e la rese comune e popolare nella sua Chiesa. – Direte: È dunque peccato sdegnarci alla vista dei delitti e chiedere od infliggere la punizione dei facinorosi? Convien distinguere, o cari.  Se noi odiamo la persona colpevole e ne vogliamo il castigo per desiderio di bassa vendetta, noi incorriamo la condanna qui fulminata da Cristo, che dice: Qui irascitur fratri suo reus erit judicio. Se noi ci sdegniamo per il male commesso, per l’offesa fatta a Dio, per il desiderio che sia represso lo scandalo e punito il colpevole, affinché si emendi e gli altri siano ritratti dal peccato, l’ira nostra non è biasimevole, è buona, è santa, come quella di Gesù, del quale è detto nel Vangelo “che guardò con ira gli scribi ed i farisei,” che resistevano alla verità: Circumspiciens eos cum ira. Gesù procede, mostrando sempre la perfezione della legge evangelica sulla mosaica, e dice: “Chi avrà detto racha, fatuo, senza cervello, sarà sottoposto al sinedrio, „ cioè al gran Consiglio giudaico, al quale spetta pronunciare la sentenza nei maggiori delitti. “Chi poi avrà detto pazzo al fratello, sarà sottoposto al fuoco della geenna, „ cioè maggiore condanna. E qui è necessario spiegare un po’ più ampiamente la cosa, se vogliamo debitamente intendere le parole di Cristo. – Ponete mente che Gesù Cristo parlava agli Ebrei e naturalmente il suo linguaggio doveva rispondere ai loro usi e fino ad un certo punto alle loro idee. Ora per i Giudei vi erano tre sorta di tribunali: il primo riguardava le questioni d’interesse pecuniario, ed era composto di tre giudici: il secondo si occupava di cause più gravi, come omicidi, e vi sedevano ventitre giudici: il terzo rendeva sentenza sulle cause gravissime, come di idolatria, di apostasia, e si componeva di settantadue giudici, e dicevasi il sinedrio, il concilio per eccellenza. Gesù Cristo in questo luogo mette tre gradazioni di colpe, l’ira contro il fratello, l’ingiuria del dirgli raca e l’altra più grave del trattarlo da pazzo, e insegna che ciascuna di queste tre colpe subirà il suo giudizio e la sua pena proporzionata, e per farne risaltare più chiaramente la differenza, penso io, piglia l’immagine dal triplice tribunale ebraico. La pena, che Cristo dice inflitta a ciascun grado di colpa qui accennata, è senza dubbio eterna, ma differente secondo la gravità della colpa: massima poi si intende la pena inflitta al terzo grado di colpa, come apparisce dal testo e però conviene dire che in queste tre forme di colpe, s’intende offesa gravemente la carità fraterna. – Gesù Cristo in questo luogo parla del fuoco della geenna, reus erit gehennæ ignis; espressione che secondo tutti gli interpreti significa il fuoco infernale. Che cosa è questa geenna? Qual è il senso di questa parola, che troviamo in questo luogo del Vangelo, nell’Apocalisse, in Geremia ed in Isaia? È  necessario fare un po’ di storia se vogliano rilevarne il valore. –  Dalla parte meridionale della città di Gerusalemme, ai piedi del colle di Sion, esiste una piccola valle, chiamata Gehenna. In quella valle gli Ebrei, caduti nella idolatria, passavano per il fuoco, cioè offrivano talvolta i loro figli a Molok, Dio dei Fenici o Cananei bruciandoli (Lib. X dei Re, XXVIII, 10), e per coprire le strida disperate di quelle vittime infelici, facevano grande strepito con timpano, onde quella valle fu detta tophet, che vuol dire timpano. Il re Giosia, allorché abolì quella orrenda e quasi incredibile barbarie, per rendere abominevole ed infame quel luogo, vi fece gettare tutte le immondezze della città e i cadaveri dei giustiziati e, per impedirne le pestifere esalazioni, vi faceva grandi fuochi quasi continui. Gesù Cristo, parlando della pena infernale agli Ebrei, prende l’immagine di quella valle infame e di quel fuoco, che quasi sempre vi ardeva, e chiama geenna lo stesso inferno. – Da queste sentenze di Cristo noi apprendiamo qual gran male sia nutrire odio contro il fratel nostro, e come sia maggior male sfogare quest’odio esternamente con parole oltraggiose, che lo amareggiano e lo disonorano. Eppure siffatte colpe non solo sono frequenti in mezzo a noi, ma quel che è ancor peggio le si reputano poca cosa, e appena è che le si confessino, se pure si confessano. Ah! Miei cari, è sempre un male deplorevole quello che ferisce la carità fraterna, quella carità che Gesù Cristo inculcò con tanta efficacia, che dichiarò essere precetto suo e precetto nuovo e segno, al quale si debbono riconoscere i suoi discepoli – Gesù, volendo mettere in maggior luce la differenza che corre tra la legge mosaica e la giustizia farisaica da una parte e la legge evangelica dall’altra, aggiunge una sentenza gravissima, che dobbiamo seriamente meditare: “Se dunque tu presenti la tua offerta sull’altare e quivi ti ricordi, che il fratel tuo ha qualche cosa contro di te, lascia colà la tua offerta sull’altare e va a riconciliarti col fratel tuo, e poi, venendo, presenta la tua offerta. „ Sembra che gli scribi ed i farisei insegnassero tra le altre cose, che la violazione del precetto: Non occides, non ucciderai, non offenderai il tuo prossimo, si potesse espiare con offerte e sacrifìci fatti a Dio per mezzo dei suoi sacerdoti: Gesù Cristo rigetta questa dottrina e dichiara qual sia il dovere che vuolsi tosto adempire. E non dimentichiamo una cosa degna di attenta considerazione, ed è che in questo precetto Gesù Cristo non distingue tra offeso ed offensore, ma vuole che l’uno e l’altro si affrettino a far pace col fratello. Ben è vero, che l’offensore è tenuto a riparare l’offesa e a dare soddisfazione all’offeso; così vuole la giustizia: ma Gesù Cristo non fa distinzione, e in generale inculca la necessità di ristabilire subito i vincoli della carità fraterna: l’offensore vi è tenuto per giustizia, e l’offeso, quantunque non sia tenuto ad offrire per primo la pace, se lo farà, l’opera sua sarà santa e sommamente gradita a Dio. – Eccovi un uomo nel tempio, ai piedi dell’altare: egli presenta al sacerdote la vittima da offrire a Dio per ringraziarlo dei suoi benefici, o per espiare i proprii falli: in quella, dice Gesù Cristo, la coscienza gli ricorda che il fratel suo nutre rancore contro di lui. Che deve fare? Forse deve continuare la sua preghiera ed offrire il suo sacrificio e rimette ad altro tempo la riconciliazione col fratello? A noi parrebbe che così e non altrimenti  fosse da fare. È già nel tempio: l’offerta è pronta; il sacerdote l’ha ricevuta; perché interrompere il sacrificio? Perché lasciar Dio per l’uomo? Perché turbare l’ordine e il  culto divino? A tempo più conveniente ristabiliremo la pace: nessuna necessità di precipitare la pace. Si compia il sacrificio a Dio e poi si darà la pace al fratello. Così ragioneremmo noi, o dilettissimi; ma non così ragiona Gesù Cristo. Lascia, dice Cristo, la tua offerta sull’altare, interrompi pure il sacrificio, va. corri, vola dal fratello tuo, fa la pace con lui e poi vieni, ripiglia e compi il sacrificio, che sarà accettevole a Dio. Come ciò, o fratelli? Perché così vuole la ragione e la fede. L’offerta al tempio, il sacrificio a Dio è di consiglio, doveché la carità col prossimo è imposta da un precetto divino; perché è sdegnato con noi finché dura l’offesa del prossimo; perché il sacrificio è simbolo di pace, e come Dio potrebbe gradire l’offerta del simbolo di pace quando questa pace non alberga nel tuo cuore? Perché finalmente a Dio torna più cara la pace, la concordia tra i suoi figliuoli, che l’offerta delle vittime. Dio non vuole le cose nostre, ma noi stessi, e sopratutto il sacrificio della nostra mente per la fede e quello del nostro cuore per la carità: è la carità che informa i nostri cuori, quella che rende accettevole il sacrificio, non il sacrificio quello che santifica il cuore e lo rende accettevole a Dio: il valore del dono si misura dalla bontà o generosità e purezza del cuore : dove questo fa difetto, gli uomini stessi respingono il dono;  quanto più Dio, che non guarda a ciò che apparisce, ma guarda al cuore e questo solo lo onora! Offrire il sacrificio al Dio della pace senza la pace nel cuore? Chiedere a Lui la remissione dei nostri debiti, e rifiutarla noi ai nostri fratelli e sotto i suoi occhi? Pregar Dio che si plachi con noi, mentre noi non ci plachiamo col fratello? No, il tuo sacrificio non può essere gradito a Dio se prima non gli hai offerto il sacrificio incomparabilmente più degno e più nobile del tuo cuore, col perdono dell’offesa e con la riconciliazione sincera col fratel tuo. Fatta questa, il tuo sacrificio, dice Cristo, sarà accolto in cielo e salirà a Dio in odore di soavità. – Di questo precetto di Cristo, espresso con tanta chiarezza e vivacità di immagine, abbiamo un ricordo od un simbolo bellissimo nella liturgia antica, conservato ancora in parte fino a noi. Sappiamo che i Cristiani antichi, prima di ricevere la S. Comunione, si  davano a vicenda il bacio di pace per mostrare che tra loro regnava la più perfetta carità: di quest’uso è rimasta una memoria nel rito, che i ministri sacri usano ancora nelle Messe solenni, di darsi l’amplesso di pace. È forza confessare che di certi riti bellissimi e pieni d’alti significati, introdotti nella Chiesa, sembra non essere rimasti che i riti materiali e lo spirito si è perduto! – Carissimi figliuoli e fratelli! Non vi sia grave, ora, qui, innanzi all’altare, su cui tra breve sarà immolata la Vittima divina di pace di perdono, gettare uno sguardo nei penetrali del vostro cuore, a Dio solo pienamente manifesto. Alla luce della coscienza e della fede,  scrutate le sue fibre più intime e vedete se mai, per avventura, vi si annidasse qualche risentimento, qualche rancore, qualche ruggine contro il fratel vostro; non cercate se voi siete gli offesi o gli offensori, ciò poco importa. Se trovate che il vostro cuore non ama tutti egualmente, non perdona l’offesa ricevuta, o della offesa data non ha ancora chiesto perdono, né offerta soddisfazione: se trovate che serba memoria amara di certe ingiurie, e che forse vagheggia l’idea della vendetta, fosse pure leggera, e non gode del suo bene come del proprio: se trovate, in una parola che la carità non regna sovrana nel vostro cuore, prima che si offra il divino sacrificio della Messa, risolvete generosamente di fare la pace col fratello, chiunque egli sia, e vi assicuro che quest’atto sarà più grato a Dio e più meritorio per voi, che non sia l’osservanza del precetto che oggi vi ha qui condotti. Se volete il perdono dei vostri peccati, perdonate ai vostri offensori: se volete la pace con Dio, abbiate la pace con i vostri fratelli: la misura che voi userete con essi sarà quella che Dio userà con voi.

Credo …

Offertorium

Orémus

Ps XV:7 et 8. Benedícam Dóminum, qui tríbuit mihi intelléctum: providébam Deum in conspéctu meo semper: quóniam a dextris est mihi, ne commóvear. [Benedirò il Signore che mi dato senno: tengo Dio sempre a me presente, con lui alla mia destra non sarò smosso.]

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris: et has oblatiónes famulórum famularúmque tuárum benígnus assúme; ut, quod sínguli obtulérunt ad honórem nóminis tui, cunctis profíciat ad salútem. [Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche, e accogli benigno queste oblazioni dei tuoi servi e delle tue serve, affinché ciò che i singoli offersero a gloria del tuo nome, giovi a tutti per la loro salvezza.]

Communio

Ps XXVI:4 Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ. [Una cosa sola chiedo e chiederò al Signore: di abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita].

Postcommunio

Orémus.

Quos cœlésti, Dómine, dono satiásti: præsta, quæsumus; ut a nostris mundémur occúltis et ab hóstium liberémur insídiis.

LO SCUDO DELLA FEDE (XVI)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XVI.

LA DIVINA PROVVIDENZA.

Come mai Iddio è provvido, se vi hanno tanti disordini nella natura? — Se vi sono tanti esseri inutili? — Se vengono al mondo tanti mostri e nomini infelici? — Se siamo oppressi da tanti mali? — Se accadono tanti disastri?

— Si dice che Iddio è provvido, e cioè si dice aver egli cura delle creature, conservarle, governarle, dirigerle al loro fine, procacciare a tutte quel che loro abbisogna. Ora come conciliare questa divina provvidenza con tanti disordini, che vi sono nel mondo?

E di quali disordini intendi parlare?

— Dei disordini che vi hanno nella natura e nella società. Per esempio nella natura vi sono tanti esseri, piante, animali, che potrebbero venire al mondo e vivere a lungo, e invece improvvisamente sono soffocati e distrutti. E questo non è già un disordine?

Nella mente nostra potrà benissimo parer tale, ma non già di fronte a Dio. Hai tu mai intesa una qualche sinfonia d’un celebre Maestro, supponiamo di Haydn o di Verdi? E nel sentire quella sinfonia non ti è sembrato che vi fossero delle note sacrificate? massime certe note di accompagnamento? Eppure se tu le togliessi, non ne risulterebbe più quel complesso armonico, che tanto molce l’orecchio. Una sinfonia dev’essere considerata nel suo complesso per goderne l’effetto. Così, caro mio, se anche nell’armonia del mondo vi sono delle note sacrificate, ciò non toglie che l’armonia esista e sia sommamente ammirabile ed esalti il Maestro Divino che la crea. Dunque devi riconoscere che Dio in vista dell’ordine generale può permettere qualche disordine parziale, che alla fin fine non si può nemanco chiamar tale, in quanto che serve a stabilire l’armonia e l’equilibrio del mondo. Supponiamo ad esempio che tutti i semi delle piante si svolgessero, e tutte le pianticelle nate dai semi si conservassero in vita, il mondo intero non diventerebbe una sola foresta? Supponiamo che si moltiplicassero, come potrebbero, i nati di un moscherino, al termine di una stagione non basterebbero a coprire quattro ettari di terreno? E se si schiudessero tutte le uova dei merluzzi e degli storioni, in meno di cento anni non potrebbero riempire tutti gli oceani? Vedi adunque come nel lasciare che vadano distrutte e soffocate tante esistenze, Dio, tutt’altro che far contro alla sua Provvidenza, ne dà bellissima prova.

— Ciò è vero. Ma appunto perché tanti esseri sono inutili, come mai li crea?

Nella tua domanda vi è un bello sproposito. Tu dici: Come mai Dio crea tanti esseri inutili? Ma ciò è possibile? Quando un essere qualsiasi non servisse ad altro che a mostrare la perfezione di Dio, non sarebbe già sommamente utile? Ora vi è forse anche un solo di quegli animaluzzi, di cui in una sola goccia d’acqua ve n’ha migliaia, che non serva a questo scopo? Ma oltre a ciò bisogna pur riconoscere che non c’è alcun essere nell’universo, che Dio non abbia creato con un fine particolare e che non rechi all’armonia del mondo la sua utilità.

— Ma che utilità arrecano certi insetti, che non danno che molestia?

Ricordi il fatto o la parabola di quel re che si lamentava perché Dio avesse creato i ragni e le pulci? Un dì dopo una disastrosa battaglia avendo dovuto darsi alla fuga, finalmente stanco si nascose in un antro, dove si stette a riposare per alcune ore. Intanto un ragno dispiegò alla porta di quell’antro una ragnatela. E quando già era stata compiuta, ecco alcuni soldati nemici di quel re, che si erano dati a ricercarlo, passare di là. Vi fu bene chi disse: entriamo qui a vedere, se qui si fosse nascosto. Ma vi fu subito chi osservò ciò non essere possibile dal momento che si vedeva quella ragnatela intatta. E così quei soldati essendo andati oltre, il re scampò alla morte, e cominciò a riconoscere l’utilità dei ragni. Il dì seguente dormendo in luogo aperto sarebbe del pari caduto nelle mani dei nemici, se una pulce non l’avesse talmente morsicato da svegliarlo a tempo, sì che potesse accorgersi dell’arrivo dei nemici e fuggire. E allora riconobbe anche l’utilità delle pulci. Questo fatto o parabola mi par che basti a darti la spiegazione dell’esistenza di tutto ciò che a noi può parere inutile.

— Mi sembra però assai difficile conciliare la divina Provvidenza coi tanti mostri che vengono al mondo, e soprattutto con tanti uomini infelici, con tanti ciechi, con tanti sordomuti, con tanti cretini, con tanti storpi, con tanti rachitici eccetera, eccetera.

Ascolta : « Quanto ai mostri essi mettono in luce la debolezza delle forze create, e non vi ha ragione di meravigliarcene. Quantunque noi non possiamo sempre assegnare loro una causa particolare nei disegni di Dio, né sapere a quale forza occulta tornino profittevoli, teniamo per certo ch’essi hanno la loro ragione di essere e che non possono cogliere in fallo la divina Provvidenza. E non basta, come osserva giudiziosamente S. Agostino (Enccheridion, capo 5), « che essi attraggano la nostra attenzione e muovano la nostra intelligenza ad investigare le leggi, alle quali fanno eccezione, affinché noi ne accertiamo l’ordine abituale e ne ammiriamo la sublime disposizione? » (Monsabrè). In quanto poi a quelli che nascono al mondo ciechi, sordi, storpi, cretini, pazzi e va dicendo, anzi che a Dio, il quale fa bene ogni cosa, ciò si deve attribuire agli uomini, che concorrono per parte loro all’azione creatrice di Dio, e che ne sono la causa con certi loro vizi e peccati, E quando poi per parte loro non si possa scoprire alcuna causa, bisogna pur riconoscere che Dio permette ciò con un fine sempre buono, perché la sua volontà non può mai essere altrimenti che buona, ad esempio per provare certe famiglie, per mantenerle nell’umiltà, per far acquistare loro dei meriti, se non altro per far apprezzare meglio a chi vede questi infelici il benefizio di essere sani e di buona costituzione, e per altri simili ottimi fini. E stando così le cose, si potrà forse disconoscere per questo lato la Divina Provvidenza?

— No certo; lo comprendo anch’io. Nondimeno non so darmi pace perché Iddio così buono e provvido lasci poi che la nostra breve vita sia ripiena di tanti mali, di tante infermità, di tante tribolazioni, di tanti dispiaceri, di tanti dolori!

* Tu non ti sai dar pace di ciò, perché al pari di tanti altri in questi mali fisici, che contrastano i nostri sensi e si oppongono alla nostra tendenza di non voler soffrire, vedi dei veri mali, mentre essi non sono propriamente tali. Di fatti a che cosa possono essi servire tutti questi mali fisici? Essi possono servire mirabilmente a indurre l’uomo a distaccare il cuore dalla terra, a darsi al servizio di Dio, ad espiare per loro mezzo, soffrendoli con pazienza, i peccati propri e persino gli altrui, ad operare la propria santificazione, a conseguire l’ultimo fine per cui è stato creato. Se adunque è vero, come è verissimo, che questi mali fisici servano a conquistare i beni eterni del cielo, si possono ancora chiamare veri mali? o non si hanno piuttosto a chiamare divini benefizi? E Iddio che ce li manda non si manifesta veramente buono e provvido? Tutto sta che noi, da parte nostra pigliandoli rassegnati dalle mani di Dio, sappiamo convenevolmente giovarcene.

— Questo è vero. Nondimeno certe disgrazie, come ad esempio, i terremoti, le inondazioni, i fulmini, gli incendi, le rovine, i disastri in ferrovia e per mare e simili non sono così contrarli alla divina Provvidenza? Questi mali tolgono agli uomini la vita in un attimo e purtroppo non tutti coloro che sono colpiti si trovano in grazia di Dio, sicché dal colpo del disastro passano all’eterna dannazione.

Prima di tutto ti osservo che se taluni in questi disastri, che Dio per giusti suoi fini permette, perdono la vita improvvisamente, e morendo senza grazia vanno all’eterna dannazione, non è da ascriversi a Dio, ma a loro che avrebbero potuto anche in quel punto trovarsi preparati a ben morire. In secondo luogo ti dico, che anche in tali sventure è difficile che non vi sia un istante per quelli che ne sono colpiti, nel quale, se il vogliono, possano pentirsi e provvedere ancora in tempo alla loro salvezza. E poi ti dichiaro addirittura, che questi mali ben lungi dall’opporsi alla divina Provvidenza, ne sono anzi una conferma, in quanto che danno a tutti il serio avvertimento di star sempre pronti e ben disposti dell’anima, perché può accadere purtroppo, che quando meno ci si pensa, si abbia a passare all’eternità.

— Ma intanto da questi mali fisici e da queste disgrazie, che succedono nel mondo, taluni sono spinti al suicidio, oppure al furto, alle frodi e ad altri simili delitti!

E con ciò ne vorresti dar la colpa alla divina Provvidenza? Se taluni sono malvagi, e anziché servirsi delle pene, che Iddio loro manda per guadagnarli a sé e metterli sulla via della salvezza, se ne servono per darsi in braccio alle colpe, ed alle colpe più gravi, quale è tra le altre il suicidio, si dovrà dire che Dio non è buono e provvido? Ma allora si dovrebbe dire lo stesso, quando Iddio concede a taluno gran copia di beni, e costui si serve di essi per accontentare le sue passioni e dannarsi. Se non che a chi mai è saltato in testa di accusar la divina Provvidenza per i beni, che essa largisce agli uomini?

— È vero: non ostante tutte le difficoltà, bisogna ammettere in tutto la divina Provvidenza e in tutto ammirarla.