Domenica II dopo Pentecoste (2018)
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Introitus Ps XVII:19-20.
Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me. [Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.] Ps XVII:2-3
Díligam te. Dómine, virtus mea: Dóminus firmaméntum meum et refúgium meum et liberátor meus. [Amerò Te, o Signore, mia forza: o Signore, mio sostegno, mio rifugio e mio liberatore.]
Factus est Dóminus protéctor meus, et edúxit me in latitúdinem: salvum me fecit, quóniam vóluit me.[Il Signore si è fatto mio protettore e mi ha tratto fuori, al largo: mi ha liberato perché mi vuol bene.]
Oratio
Orémus. Sancti nóminis tui, Dómine, timórem páriter et amórem fac nos habére perpétuum: quia numquam tua gubernatióne destítuis, quos in soliditáte tuæ dilectiónis instítuis. [Del tuo santo Nome, o Signore, fa che nutriamo un perpetuo timore e un pari amore: poiché non privi giammai del tuo aiuto quelli che stabilisci nella saldezza della tua dilezione.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Joánnis Apóstoli 1 Giov. III:13-18
“Caríssimi: Nolíte mirári, si odit vos mundus. Nos scimus, quóniam transláti sumus de morte ad vitam, quóniam dilígimus fratres. Qui non díligit, manet in morte: omnis, qui odit fratrem suum, homícida est. Et scitis, quóniam omnis homícida non habet vitam ætérnam in semetípso manéntem. In hoc cognóvimus caritátem Dei, quóniam ille ánimam suam pro nobis pósuit: et nos debémus pro frátribus ánimas pónere. Qui habúerit substántiam hujus mundi, et víderit fratrem suum necessitátem habére, et cláuserit víscera sua ab eo: quómodo cáritas Dei manet in eo? Filíoli mei, non diligámus verbo neque lingua, sed ópere et veritáte.”
I Omelia
[Mons. Bonomelli; Nuovo saggio di Omelie, Marinetti ed. vol III – Torino 1899, Omel. V]
“Non fate le meraviglie, o fratelli, se il mondo vi odia. Noi sappiamo d’essere stati tramutati dalla morte alla vita, perciò amiamo i fratelli. Chi non ama, resta nella morte. Chiunque odia il fratello suo è un micidiale; ora voi sapete, che nessun omicida ha la vita eterna in sé. In questo poi abbiamo conosciuto la carità di Dio, ch’Egli diede per noi la sua vita, e noi dobbiamo per i fratelli dare la vita. Ora se alcuno ha dei beni di questo mondo e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuda il suo cuore verso di quello, come mai la carità di Dio alberga in costui? Figliuoletti miei, facciamo di amare, non in parole e colla lingua, ma coi fatti e con la verità. „ (S. Giovanni, I . c. III, vers. 13-18). –
Voi stessi avrete compreso, che queste sentenze debbono appartenere all’Apostolo della carità, S. Giovanni. Gli scritti di questo diletto discepolo di Gesù Cristo, e specialmente la prima delle sue lettere dalla quale è tolto il brano che avete udito, hanno un carattere tale, una fisionomia sì spiccata, che è impossibile non riconoscerne tostamente l’autore. – Pressoché tutte le sue sentenze sono un’armonia continuata, una variazione stupenda di due soli motivi fondamentali, l’amore di Dio e l’amore del prossimo. Nessuno degli autori ispirati del nuovo Testamento meglio di lui mise in luce l’indole e la natura della legge di grazia, che è l’amore, secondo quella sentenza di nostro Signore, che disse: “La legge ed i profeti si compendiano nella carità “Ex quo universa lex pendet et prophetæ”.– Nessuna meraviglia pertanto che negli scritti di Giovanni, e nominatamente nella prima lettera, siano frequentissime le ripetizioni. Narra S. Girolamo, che l’evangelista e l’Apostolo della carità, già nonagenario, era portato a braccia dai discepoli in mezzo alla radunanza dei fedeli, affinché rivolgesse loro qualche parola di edificazione. Ed egli non faceva che ripetere queste parole: “Miei figlioletti, amatevi tra di voi. „ Annoiati i fedeli, gli domandarono, perché dicesse sempre la stessa cosa; ed egli, scrive S. Girolamo, diede una risposta degna di lui: “Perché, disse, è comando del Signore, e se questo si osserva, basta. „ La lettera, che abbiamo di lui, si direbbe essere la fedele ripetizione della esortazione che l’Apostolo faceva alle pie adunanze, delle quali fa cenno Girolamo. – Se voi pertanto udrete, anche in questa omelia, ripetuta più e più volte la stessa verità dell’amore fraterno, non vogliate meravigliarvi né annoiarvi: è precetto del Signore, e se questo si adempie, basta. Seguitiamo dunque il maestro e l’Apostolo della carità, e meditiamone le sante parole. Perché possiate intendere meglio la spiegazione dei versetti sopra riferiti, è mestieri rifarci alquanto indietro e rilevare il nesso che corre tra loro. Quelli che fan male, dice S. Giovanni, perciò stesso che fan male, si mostrano seguaci del demonio, e figli di Dio si palesano quelli che fanno bene. Il grande annunzio portato sulla terra da Gesù Cristo, è l’amore dei fratelli. Il mondo, cioè i cattivi, i seguaci del demonio, odiano naturalmente i buoni, i figli di Dio: essi cominciano da Caino, che odiò ed uccise il fratel suo, Abele e continuano sino a noi. Per il che, dice Giovanni: “Non fate le meraviglie, o fratelli, se il mondo vi odia. „ È questa la ripetizione alla lettera d’una sentenza di Gesù Cristo che leggiamo nel Vangelo dello stesso Giovanni: ” Voi non siete del mondo, anzi Io vi ho eletti dal mondo, per questo il mondo vi odia „ (XV, 19). Il santo Apostolo non vuole che ci meravigliamo di questo odio del mondo contro i discepoli di Gesù; eppure a me sembra cosa piena di meraviglia, perché quasi incredibile. Questi Cristiani, a somiglianza del divino loro Maestro, non fan male a chicchessia; amano tutti come fratelli, a tutti fanno quel bene che possono, anche ai loro nemici più implacabili: sono umili, modesti, pazienti, casti, adorni di tutte le virtù, formano lo stupore degli stessi pagani. Nessuno dunque poteva odiarli, tutti dovevano amarli, od alla men peggio tollerarli. Nondimeno essi sono fieramente odiati, e S. Giovanni afferma che nessuno doveva stupirne: “Nolite mirari si odit vos mundus”. Come ciò? Come si spiega questa contraddizione manifesta del mondo? Il mondo, cioè gli uomini tristi, generalmente odiano i buoni e li devono odiare: le tenebre sono nemiche della luce e i tristi sono nemici dei buoni; la virtù di questi è un rimprovero continuo e amaro per quelli: la condotta dei buoni è la condanna dei malvagi, sveglia nei loro cuori il rimorso, li umilia, li offende, li ferisce, e perciò non vorrebbero vederli, né udirli, e se fosse possibile li vorrebbero sbanditi dalla terra. L’odio dei malvagi contro dei buoni, più che dalla ragione e dalla riflessione, deriva dall’istinto, nasce dalla natura delle cose; è l’odio del lupo per l’agnello, del cane che si getta sulla lepre: non provocati e nemmeno stimolati dalla fame, il lupo sbrana l’agnello, il cane insegue e addenta la lepre, e l’uomo tristo si strugge di odio contro il virtuoso. Il mondo ha odiato e perseguitato gli Apostoli, tutti i Santi, il Santo dei santi, Gesù Cristo: e noi stupiremo che odi e perseguiti quelli che camminano dietro a Lui? – Il mondo ci odia, come Caino odiò Abele, e i Giudei odiarono Cristo: quale conforto possiamo avere? Questo: “Noi sappiamo di essere stati tramutati dalla morte alla vita „ – Che importa a noi l’essere odiati e perseguitati da questo mondo perverso? Noi camminavamo nelle tenebre dell’errore: eravamo noi pure figli di questo mondo riprovato e morti a Dio; ora, per sua grazia, siamo usciti da queste tenebre, ci siamo separati da questo mondo, siamo sfuggiti alla morte, e pel Battesimo e per la fede siamo entrati nel regno della vita. E come lo sappiamo noi? Quale prova ne abbiamo? Questa è sicurissima: “Che amiamo i fratelli, – Quoniam diligimus fratres„ Segno infallibile che abbiamo la vita della grazia, a cui risponderà a suo tempo la vita della gloria, è il sentire in noi stessi l’amore verso de’ fratelli. Non dubito punto, che con la parola fratelli, qui usata, S. Giovanni intenda non solo i fratelli nella fede, ma tutti indistintamente gli uomini, anche non credenti e nemici, perché anche questi sono fratelli. E invero S. Giovanni in questo luogo vuol mettere sottocchio ai suoi lettori Cristiani il contrassegno indubitato, ch’essi sono nel regno della vita divina, e lo mette nella carità fraterna. Se questa carità fosse stata circoscritta ai pochi Cristiani che allora esistevano, ad esclusione di tutti gli altri, come poteva essere un segno ch’essi erano trasportati nel regno della vita, nel regno di Gesù Cristo? Anche gli Ebrei, anche i pagani, fino ad un certo punto si amavano tra loro, almeno i congiunti, almeno gli amici, i conoscenti, i connazionali, ma se noi pigliamo questa parola “fratelli, nel senso amplissimo, in quantoché abbraccia tutti gli uomini, allora ci dà veramente il carattere sovraumano e divino della carità. “Noi, così S. Giovanni, abbiamo una prova d’essere figli di Dio in questo, che amiamo tutti gli uomini e tutti li teniamo in conto di fratelli, anche quando ci odiano, ci calunniano e ci perseguitano. „ Questo amore universale, sì generoso e sì costante, all’uomo è impossibile con le sole forze della natura: esso non può venire che dall’alto, da Dio stesso, è dono al tutto suo, e perciò in esso noi abbiamo la certezza d’essere veri seguaci di Gesù Cristo, e d’avere nei nostri cuori la sua grazia: “Nos scimus, quoniam translati sumus de morte ad vitàm, quoniam diligimus fratres”. – Accennata la carità verso dei fratelli, questo segno caratteristico dei discepoli di Gesù e della trasformazione meravigliosa operata dalla grazia, S. Giovanni, seguendo il suo stile, dirò meglio, il bisogno del suo cuore, mostra il pregio di questa virtù e scrive: “Chi non ama, dimora nella morte: „ “Qui non diligit, manet in morte”. Chi non ama, cioè chi non ha l’amore dei fratelli, l’amore operoso, che scaturisce dalla grazia, è in peccato, e perciò, ancorché vivo nel corpo, è morto nell’animo. L’anima, per fermo, è immortale per se stessa, come apprendiamo dalla fede e sappiamo dalla ragione: ma priva della grazia, è separata da Dio, e perciò priva della fonte d’ogni vita. Il corpo come e perché è vivo? È vivo in quanto e perché è unito all’anima, che tutto lo penetra ed informa. Separate l’anima dal corpo: che vedete voi? Esso è morto, e va tosto disfacendosi. Così fate che l’anima sia separata dalla grazia, ossia da Dio, essa è come morta. Ora non apparisce la sua morte agli occhi del corpo, come nella stagione invernale non apparisce quali siano gli alberi vivi e quali morti: ma aspettate la bella stagione ed allora vedrete morti i morti e vivi i vivi. Similmente quanto all’anima, e per ragion dell’anima anche quanto al corpo: aspettate la seconda venuta di Gesù Cristo, aspettate: Rispunti il sole di eterna giustizia e vedrete che cosa voglia dire la morte dell’anima e del suo compagno eterno. – L’anima senza la grazia o senza la carità, è in stato di morte. Questa idea della morte desta nello scrittore ispirato un’altra idea analoga, ma che rischiara e ribadisce la prima: “Chiunque odia il fratel suo è omicida. Parmi chiaro che per S. Giovanni il non avere amore per i fratelli è un odiarli, ancorché per sé il non amare non sia sempre odiare, giacché si concepisce uno stato di indifferenza, quasi medio tra l’amore e l’odio. Ma in questo luogo l’Apostolo dice chiaramente: “Chi non ama, odia, e chi odia il fratello è omicida. „ Omicida di chi? Di sé o del fratello? Si può intendere che è omicida di sè, perché non avendo in sé la carità verso il fratello, anzi odiandolo, pecca gravemente, e perciò uccide l’anima sua, e in questo senso disse benissimo S. Ambrogio, che “chi odia, anzitutto uccide se stesso, „ Qui odit, non alium prius quam seipsum occidit”. Ma non sembra questo il senso più ovvio e naturale della sentenza apostolica: essa sembra esigere che l’ucciso non sia chi odia, ma l’odiato. Ma come può dire che chi odia il fratello lo uccide? Non è questa una esagerazione? Tra l’odiare e l’uccidere una persona corre una differenza grandissima. É vero l’odio non è l’omicidio, e guai al mondo se l’uno fosse sempre l’altro: ma ricordiamoci, o fratelli, di un’altra sentenza del Vangelo simile a questa: “Chi avrà rimirata una donna con desiderio di lei, dice Gesù Cristo, ha già commesso peccato con lei in cuor suo „ (Matt. V, 28). Il che vuol dire, che il solo pensiero deliberato di commettere peccato, dinanzi a Dio è come commesso, perché Dio vede e giudica i cuori; similmente in questo luogo S. Giovanni vuol dire: badate, o figliuoli, di non albergare nel vostro cuore odio contro il fratello, perché quell’odio vi porterà a volere il suo male e a desiderare di torgli la vita e a toglierla di fatto. Ed in vero, donde le risse, i ferimenti e gli omicidi? Dall’odio. L’odio partorisce l’omicidio e in quanto ne è causa si può chiamare omicida chi lo accoglie in cuore. Scrive S. Girolamo (Epist. 36 Ad castor.). Grazie a Dio, non sono molti quelli che odiano il fratello: ma quelli che lo vedono di mal occhio, che nutrono rancore contro di lui, che non sanno dimenticare un’offesa ricevuta, spesso immaginaria, che tengono chiuso cuore con lui e se non l’odiano, certo non l’amano, pur troppo sono molti, e non è il caso anche tra persone che si reputano devote. Che dire di costoro? Dio solo legge nei cuori e pesa sulla sua bilancia le colpe degli uomini: ma ciò che è indubitato è, che di questo difetto di carità, comunemente non si tiene calcolo o leggero, tantoché le stesse persone non se ne curano. Eppure vi è sempre colpa e tale che spesso apre la via all’odio manifesto. Carissimi! stiamo in guardia e non lasciamo penetrare nel nostro cuore questo mal seme, che traligna facilmente in odio. – Ora, domanda l’Apostolo, qual è la pena riserbata all’omicida? La morte. Dunque, chi odia non può avere la vita eterna. E qui S. Giovanni torna da capo all’idea della carità ed al modello supremo della carità, che è Gesù Cristo, ed esclama: “E in questo noi abbiamo conosciuto la carità di Dio, che Egli diede per noi la sua vita. „ Gli uomini troppo spesso odiano e tolgono la vita ai fratelli loro: Gesù Cristo per contrario ama tutti gli uomini, e li ama per guisa che dà per essi la sua vita. Quale e quanta carità! Qual modello da imitare! E non è fuor di proposito l’osservare come San Giovanni in questo luogo chiami Gesù Cristo Dio, giacché dice espressamente, che noi abbiamo conosciuto l’amore di Dio nel fatto che Egli diede la sua vita per noi. Ora chi diede la sua vita e si immolò per noi? Gesù Cristo! Dunque Gesù Cristo in questa sentenza è chiamato Dio. E che dobbiamo apprendere da Gesù Cristo, modello supremo di carità? ” Egli diede per noi la sua vita e noi dobbiamo porre la nostra per i fratelli. „ Questa sentenza di nostro Signore significa forse che noi possiamo sacrificare la vita dell’anima, la vita eterna per la salvezza spirituale dei fratelli nostri? Più che una follia sarebbe un’empia bestemmia il solo pensarlo: la vita dell’
anima è il supremo nostro bene, e per esso tutto devesi sacrificare, non mai esso ad altro bene quale che sia. La vita di cui parla S. Giovanni e che noi dobbiamo sacrificare per i fratelli, non può essere che la vita del corpo. Ma come? direte voi. Siamo noi obbligati a dare la vita per i fratelli nostri? È questo un Debemus, come dice il sacro testo? E sempre? Ma in tal caso noi saremmo tenuti ad amare il prossimo più di noi stessi, mentre il Vangelo e la stessa natura ci impongono di amare il prossimo come noi stessi, cioè ad imitazione dell’amore che dobbiamo a noi medesimi. – La risposta è piana e manifesta. L’ordine della carità vuole che amiamo noi stessi più dei fratelli, perché ciascuno è più prossimo a sé che non lo sia il fratello, e perciò per regola ordinaria nessuno è tenuto a dare la sua vita per salvare quella del fratello. E se lo fa, che diremo noi? Se per salvare chi travolto dalla corrente d’un fiume, chi è circondato da un incendio, altri si getta nel fiume e si slancia tra le fiamme, diremo che viola l’ordine della carità, che merita biasimo? Ce ne guardi il cielo: nessuno è obbligato a far questo, onde se non lo fa, non pecca, perché non viola nessuna legge: ma se lo fa noi lo saluteremo come un eroe e ci inchineremo riverenti dinanzi a tanta grandezza d’animo, a questo martire glorioso della carità, a questo imitatore del divino Maestro, che diede la vita per noi! – E se accadesse che per salvare la vita spirituale del fratello fosse necessario far getto della mia temporale, sarei io tenuto ad immolarla? Senza dubbio sarei tenuto ad immolarla quando fossi tenuto per ufficio, che tengo. Onde in ogni tempo noi vedemmo sacerdoti, parrochi, vescovi, pastori di anime non esitare un istante a sfidare la morte al capezzale degli appestati negli ospedali e nei lazzaretti per offrir loro i conforti della Religione. Se il soldato, fedele al suo dovere, non paventa la morte sui campi di battaglia per la difesa della patria, per gli interessi della terra, come potremmo esitar noi ad affrontare la morte, allorché si tratta degli interessi del cielo, dell’acquisto della patria superna? No, non vi è sulla terra spettacolo più sublime di colui che offre il sacrificio della propria vita per salvare la vita temporale del fratello: che dovrà essere quando l’offre per salvare non la vita temporale, ma l’eterna del fratello? – Dopo aver parlato della carità verso dei fratelli in genere e del supremo suo grado che consiste in dare per essi, se è necessario, anche la vita, il nostro Apostolo discende alla pratica applicazione più comune della carità, e così prosegue: “Se alcuno ha beni in questo mondo e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuda il suo cuore verso di quello, come mai la carità di Dio albergherà in costui? „ – La carità, la vera carità si manifesta nelle opere: vuoi tu conoscere se questa carità alberga nel tuo cuore? Guarda alle opere: la bontà dell’albero si conosce e si giudica dai frutti e non dalle foglie. Vedi tu il fratello che soffre la fame? che mal vestito trema dal freddo? che non ha tetto, che lo copra? Che non ha un giaciglio su cui passare la notte? Che infermo non ha chi lo assista? che soffre e non ha chi lo conforti? Qui si vedrà alla prova la tua carità. A te sfamarlo, vestirlo, trarlo, soccorrerlo con la limosina, o meglio ancora, se è possibile, col dargli lavoro, limosina che non umilia: a te, se non puoi aiutarlo del tuo, farti suo avvocato presso chi può soccorrerlo: a te rivolgergli una parola di consiglio, di conforto, aprirgli il tuo cuore affinché egli ti apra il suo. – Il mondo, atterrito, ode grida di minaccia e vede turbe di uomini che si aggirano per le vie chiedenti pane o lavoro: vede un esercito immenso di sofferenti, che aspettano o vagheggiano l’ora dello sconvolgimento sociale: il fragore della bufera (che vale dissimularlo?) più e più si avvicina: la marea monta, monta sempre e finirà col passare come un torrente di lava su tutto il continente, distruggendo tutto ciò che troverà sul suo passaggio. Vi è un rimedio, che ci salvi da tanta rovina? Sì, vi è; ma non è riposto nei discorsi, nei trattati, nei libri dei dotti e nemmeno nelle leggi e nella forza armata
a difesa delle leggi. Esso sta riposto nella gran legge della carità: gli istruiti, i ricchi, i grandi si abbassino, amino davvero i loro fratelli, li ammaestrino, li soccorrano: li soccorrano nel loro superfluo, e sopratutto si mescolino a loro, formino con essi una sola famiglia per quella carità che tutto pareggia, e la bufera sarà dissipata. La soluzione del tremendo problema che si agita intorno a noi, è tutta in questi due periodi di S. Giovanni: “Se qualcuno ha beni di questo mondo e, veduto il fratello trovarsi in necessità, chiuderà il suo cuore verso di lui, come mai la carità di Dio albergherà in esso? Figliuoletti miei, facciamo di amare, non con parole e con la lingua, ma con le opere e in verità. „ Ecco il rimedio infallibile ai mali che ci minacciano; ecco la vera e pratica soluzione del problema che ci affanna: la eguaglianza, figlia non della forza e della ingiustizia, ma della carità volontaria. – Chiuderò la mia omelia, ripetendo le parole di due Padri della Chiesa: il primo parla al Vescovo e, fatta proporzione, ai preti; l’altro a voi, o laici. Udite il primo, S. Bernardo: “Guai a te, vescovo. Non ti è lecito spiegar lusso con i beni della Chiesa e sprecare in cose superflue: non ti è lecito arricchire: non ti è lecito portare in alto i consanguinei: non ti è lecito fabbricare palazzi: tutto ciò che oltre il vitto necessario ed il semplice vestito tieni dalla Chiesa, non è tuo: è rapina, è sacrilegio! „ – Udite il secondo, o laici: ” Forse che tu non sei spogliatore, tu, che reputi tuo ciò che hai ricevuto per distribuirlo altrui? Quel pane, che tieni per te, è pane dell’affamato: appartiene all’ignudo quella veste che conservi nell’armadio: allo scalzo spettano quei calzari che si consumano in casa tua: è denaro del povero quello che crudelmente possiedi. Ondeché tu fai ingiuria a tanti poveri, quanti sono quelli, ai quali potresti porgere soccorso. „
Graduale
Ps CXIX:1-2 Ad Dóminum, cum tribulárer, clamávi, et exaudívit me. [Al Signore mi rivolsi: poiché ero in tribolazione, ed Egli mi ha esaudito.]
Alleluja
Dómine, libera ánimam meam a lábiis iníquis, et a lingua dolósa. Allelúja, allelúja [O Signore, libera l’ànima mia dalle labbra dell’iniquo, e dalla lingua menzognera. Allelúia, allelúia]
Ps VII:2 Dómine, Deus meus, in te sperávi: salvum me fac ex ómnibus persequéntibus me et líbera me. Allelúja. [Signore, Dio mio, in Te ho sperato: salvami da tutti quelli che mi perseguitano, e liberami. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIV:16-24
“In illo témpore: Dixit Jesus pharisæis parábolam hanc: Homo quidam fecit coenam magnam, et vocávit multos. Et misit servum suum hora coenæ dícere invitátis, ut venírent, quia jam paráta sunt ómnia. Et coepérunt simul omnes excusáre. Primus dixit ei: Villam emi, et necésse hábeo exíre et vidére illam: rogo te, habe me excusátum. Et alter dixit: Juga boum emi quinque et eo probáre illa: rogo te, habe me excusátum. Et álius dixit: Uxórem duxi, et ídeo non possum veníre. Et revérsus servus nuntiávit hæc dómino suo. Tunc irátus paterfamílias, dixit servo suo: Exi cito in pláteas et vicos civitátis: et páuperes ac débiles et coecos et claudos íntroduc huc. Et ait servus: Dómine, factum est, ut imperásti, et adhuc locus est. Et ait dóminus servo: Exi in vias et sepes: et compélle intrare, ut impleátur domus mea. Dico autem vobis, quod nemo virórum illórum, qui vocáti sunt, gustábit coenam meam”.
Omelia II
[Ut supra, omel. VI]
Gesù disse: Un certo uomo fece una gran cena ed invitò molti. E all’ora della cena mandò il suo servo per dire agli invitati che venissero perché tutto era pronto. Ma quelli tutti ad un modo, cominciarono a scusarsi. Il primo disse: Ho comperato una villa e devo andarla a vedere: te ne prego abbimi per scusato. Ed un altro disse: Ho comperato cinque paia di buoi e vo a provarli: te ne prego, tienimi per scusato. Ed un terzo disse: Ho menato moglie e perciò non posso venire. E tornato il servo, ogni cosa riferì al padrone. Allora il padrone di casa indignato, disse al servo: Esci tosto nelle piazze e per le strade della città e mena qua i mendici, i monchi, gli storpi e i ciechi. Poi il servo gli disse: Signore, si è fatto come hai comandato e vi è ancora posto. E il padrone disse al servo: Va per le strade e per le siepi e costringili ad entrare affinché la mia casa si riempia. Perché io vi dico che nessuno di coloro che furono invitati assaggerà la mia cena „ .
Evidentemente la Chiesa ci fa leggere la parabola che vi ho recitata, in questa Domenica che corre nell’ottava del Corpus Domini, perché in essa vede in qualche modo adombrato, almeno indirettamente, il banchetto eucaristico. Somigliantissima a questa parabola di san Luca, a quella che troviamo nel capo XXII di S. Matteo, a talché parve ad alcuni interpreti che in sostanza le due parabole fossero una medesima parabola con alcune leggere differenze. Ma se le raffrontiamo accuratamente tra loro, è agevole il vedere che sono distinte, e che Gesù le recitò in tempi e luoghi diversi, con diverso intendimento, e che gli aggiunti diversi non permettono di confonderle in una sola (S. Ireneo e dopo lui il Maldonato ritennero identica la parabola riferita dai due Evangelisti con qualche differenza. Forse fu la stessa parabola proposta due volte da nostro Signore con qualche varietà e con diverso fine). Gesù, nei versetti che precedono la nostra parabola, aveva esortato gli uditori di mettersi sempre all’ultimo posto e di invitare ai conviti quelli che, essendo poveri, non possono ricambiare, perché, in tal modo operando, la mercede sarà data da Dio nella vita futura. Si comprende facilmente il perché di questa dottrina di nostro Signore, quando si avverta ch’Egli la espose mentre si trovava a mensa presso uno de’ principali farisei che l’aveva invitato. Udita quella dottrina, un tale che sedeva a mensa e di cui il Vangelo non ci lasciò il nome, esclamò: “Beato colui che siederà alla mensa nel regno di Dio. „ Allora Gesù, cogliendo occasione da quelle parole, disse la parabola che siamo per spiegare e nella quale rappresenta il regno di Dio sotto la immagine, a Lui famigliare, d’un grande convito. Ora a noi, o carissimi. – “Un certo uomo fece una gran cena e invitò molti. E all’ora della cena mandò il suo servo per dire agli invitati che venissero, perché tutto era pronto. „ Chi è desso quest’uomo, questo signore, che fa la gran cena? Chi rappresenta? Indubbiamente esso rappresenta Dio, o l’uomo-Dio, Gesù Cristo. E la cena che cosa adombra? Può adombrare la Chiesa militante: può adombrare eziandio la S. Eucaristia; ma sembra più naturale il dire che raffigura la vita eterna, la gloria celeste, a cui tutti sono chiamati gli uomini. Voi vedete che in questa senso la cena racchiude indirettamente la Chiesa militante e la S. Eucaristia, perché nessuno può aver parte a questa cena se prima non sia entrato nella Chiesa e non abbia partecipato alla Eucaristia. Si dice cena, perché si dà sul chiudersi della vita presente, che rispetto all’eternità è come un giorno, perché è come la mercede dovuta a chi ha lavorato tutto il giorno. Si dice poi cena grande, sia perché ivi tutti sono invitati, sia perché dura eternamente, sia perché la ricchezza di quella cena non ha l’eguale per la copia dei beni che faranno sazio ogni nostro desiderio. Il servo, che a nome del padrone chiama al banchetto gli invitati, rappresenta i profeti, gli Apostoli, tutti i continuatori del ministero apostolico, tutti i ministri della Chiesa, per mezzo dei quali Dio, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, fa udire la sua voce ed invita tutti alla Cena dell’Agnello, all’acquisto cioè, della vita eterna. Ho detto che Dio invita; alla gran cena; ma taluni di voi potrebbero farmi osservare che il sacro testo dice: molti e non tutti — Vocavit multos. — Ma voi sapete la parola molti significa talvolta tutti, la moltitudine, e veramente tutti sono molti, e qui senza dubbio, tutti sono invitati alla gran cena. E non è verità di fede che Iddio vuol salvi tutti gli uomini? che Gesù Cristo è morto per tutti? che Dio non vuole che alcuno perisca? La stessa ragione non ci dice che Dio, infinita bontà, deve volere la salvezza e la felicità di tutti gli uomini senza eccezione? Ora se Iddio, quanto è da sé, non chiamasse tutti alla sua cena, non tutti li vorrebbe salvi, giacché quelli che non invita, non possono venire a lui, e non venendo, perirebbero necessariamente. Dio pertanto invita, chiama tutti al convito della vita eterna: vari sono i modi, ma non uno è escluso. Dio chiama con la parola dei profeti, dei patriarchi, degli apostoli, dei ministri: Dio chiama con l’esempio, coi rimorsi, con le ispirazioni interne, direttamente, indirettamente, coi libri, con le figure, con la voce della coscienza, in mille svariatissime maniere, note a Lui solo, ma invita, ma chiama tutti; e chi non fosse chiamato potrebbe dirgli: Signore! io non potevo venire alla vostra cena senza essere chiamato da Voi; Voi non mi avete chiamato e perciò non sono venuto: se colpa v’ è, non è mia, ma Vostra, perché non faceste giungere a me la vostra voce. Ecco perché Gesù nella parabola, non dice che l’invito fosse rifiutato ad un solo, verità che più innanzi nella parabola sarà più manifesta. – Checché sia degli altri, vi è tra voi un solo che non sia stato invitato alla cena della vita eterna e ripetutamente e con le più calde istanze? Dio non vi ha prevenuto con le sue grazie, facendovi nascere in seno alla Chiesa? Non ha circondata la vostra infanzia, la vostra fanciullezza, la vostra giovinezza, la vostra virilità, la vostra vecchiaia de’ suoi favori? Quante volte il servo del gran Padrone è venuto a voi, a chiamarvi, ad invitarvi alla cena? Come avete risposto? Alla vostra coscienza la risposta… – Gesù prosegue la sua parabola: “Gli invitati, tutti ad un modo, cominciarono a scusarsi. „ Voi sapete, che rifiutare un invito grazioso ed autorevole senza motivo proporzionato, è offesa che si fa, e tanto maggiore quanto è maggiore la dignità della persona che invita. E non dirle col fatto che non curiamo l’onore d’essere suoi commensali, che preferiamo i nostri comodi. Che scusa addussero gli invitati? – Il primo disse: Ho comperato una villa e devo andare a vederla: te ne prego, abbimi per scusato. Ed un altro disse: Ho comperato cinque paia di buoi e vo a provarli: te ne prego, tienimi per scusato. Ed un terzo: Ho menato moglie e perciò non posso venire. „ – Gli invitati che rifiutano di recarsi alla cena sono distinti in tre categorie e in queste tre categorie gli interpreti vedono indicate le tre concupiscenze capitali, che secondo S. Giovanni signoreggiano il mondo: la concupiscenza degli occhi, la concupiscenza della carne e l’orgoglio della vita, ossia l’amore sregolato dei beni materiali, dei piaceri sensuali e della propria eccellenza. E in vero tutti i motivi o, meglio, i pretesti, pei quali l’uomo si sottrae agli inviti della grazia e si rifiuta di sedere al banchetto della vita eterna, si riducono costantemente a questa triplice concupiscenza, che ci incatena ai beni della terra, ai piaceri del corpo e all’orgoglio del proprio spirito. – “Che altro significa la villa, scrive S. Gregorio, se non i beni della terra? Egli se ne andò a vedere la villa, perché aveva tutti i pensieri e tutti gli affetti nei beni materiali (Homil. 36 in Evangel.). „ O miei cari figliuoli! quale spettacolo si dispiega continuamente sotto dei nostri occhi! Che fanno essi tutti o quasi tutti gli uomini? In mille modi essi corrono dietro senza posa ai beni della terra: chi attende al commercio, chi all’industria, chi ad acquistare campi e farli fruttare: tutti sono intesi ad accumulare danari, strumento del godere! È forse per questi beni, che Iddio ci ha creati? E quando pure potessimo procacciarli e possederli, vi troveremmo noi la felicità, la vera felicità, della quale andiamo in cerca? Oh! certamente no. Il nostro cuore, fossimo anche padroni del mondo intero, non direbbe mai basta, non troverebbe mai la felicità che domanda, sarebbe sempre inquieto e desolato. Perché dunque correre dietro a questi beni della terra, volgendo le spalle ai messi del Signore che ci invita alla sua cena, al godimento di quei beni che nessuno potrà più mai rapirci e che sazieranno per sempre tutti i desideri del nostro cuore? Questi beni della terra, dei quali siamo sì ghiotti, ci saranno irrevocabilmente tolti, al più tardi, alla nostra morte, e più li avremo amati e più acuto e straziante sarà il dolore di doverli lasciare. Dunque è sapienza lo staccare da essi il cuor nostro, prima che la morte ce ne divella a viva forza; è sapienza collocarlo là dove vivrà eternamente e dove troverà la vera e perfetta felicità. Nessuno pertanto di noi risponda villanamente a Dio, che ci chiama all’eterno convito: Ho comperato una villa, devo andare a vederla. – – E l’altro disse: Ho comperato cinque paia di buoi e vo a provarli. „ In costui vediamo designati ancora quegli uomini che sono ingolfati negli affari mondani, come e peggio di quelli accennati sopra, giacché i buoi servono a coltivare la terra e sono congiunti, per naturale associazione di idee, alla terra ed ai proprietari della stessa. Tra la classe di uomini indicata sopra e quella qui designata, se male non vedo, corre quel divario, che corre tra i padroni o proprietari della terra ed i semplici coloni. Quei primi dicono: Noi abbiamo i nostri poderi, le nostre terre da vedere e dobbiamo sorvegliarne i lavori: sono i ricchi e i signori, che passeggiano pei loro campi, pieni d’orgoglio e dicono con altera compiacenza: tutto questo è mio. Questi secondi sono gli operai, gli uomini del lavoro, che stanno a’ cenni di quegli altri. Il lavoro è dovere di tutti e nessuno può sottrarsi senza violare quella legge intimata al primo uomo: “Tu mangerai il tuo pane col lavoro delle tue mani e col sudore della tua fronte. „ Ma questo lavoro manuale, non deve mai impedire un lavoro troppo più nobile e necessario, il lavoro della mente e dello spirito che deve nutrire l’anima nostra. — Datemi un contadino, un operaio qualunque, che attendano solamente a svolgere la gleba del campo, che siano sempre là curvi sugli istrumenti del lavoro, senza ricordarsi mai di Dio, della preghiera, dell’anima: per i quali la Domenica non differisce dal lunedì: i quali a chi ricorda loro che oltre il corpo vi è l’anima, che oltre il padrone terreno c’è il Padrone celeste, Iddio, e che bisogna santificare la festa, udire la parola di Dio, pregare e accostarsi ai Sacramenti, rispondono: abbiamo altro da fare; ci attendono i campi, ci aspetta l’officina; questo contadino, questo operaio vi rappresentano a meraviglia l’uomo del Vangelo che invitato alla cena risponde: “Ho comperato cinque paia di buoi e vo’ a provarli. „ O carissimi figliuoli! non imitate costoro. Chiamati alla Chiesa, alla preghiera, al convito eucaristico, pegno del convito eterno del cielo, rispondete: Eccoci, veniamo. Al corpo la sua parte ed è ben larga, e all’anima la sua, che è ben poca cosa rispetto a quella del corpo. – “Il terzo rispose: ho menato moglie e perciò non posso venire. „ S. Gregorio, in quest’uomo che rifiuta di intervenire al convito per ragione d’aver menato moglie, vede raffigurato l’uomo voluttuoso: Quid per uxorem nisi voluta carnis accipitur? (Hom. 36). È terribile, la sentenza d’un gran santo moderno, conoscitore perfetto della società, che disse: quelli che si perdono, o si perdono per il peccato di lussuria o non, senza di esso. „ Purtroppo è così. Dove sono, o mio Dio, quegli uomini o quelle donne che abbiano serbato monda l’anima loro in mezzo a questo contagio universale? Dove sono quelle anime che simili alla colomba noetica, abbiano aleggiato su questa terra senza posare il piede o imbrattare le candide piume sul fango che la copre? Voi solo, o Signore, lo sapete; ma devono essere ben poche, e perciò tanto più care a’ vostri occhi. Dilettissimi! entrate per pochi istanti nei penetrali del cuore, interrogate la vostra coscienza, e alla luce della fede, vedete se per avventura l’amore disordinato dei piaceri, la passione sensuale, quella che S. Giovanni chiama concupiscenza della carne, vi tenesse legati alla terra e vi impedisse di accorrere al banchetto celeste. Se così fosse, non perdiamo tempo: rompiamo questa catena, recidiamo queste funi, finiamola con queste tresche, con queste voluttà indegne di uomini, quanto più di Cristiani! Questa concupiscenza della carne è di natura sì rea, che lo schiavo di essa non si cura nemmeno di scusare il suo rifiuto all’invito del Signore, come fecero gli schiavi delle altre passioni. Questi dissero al servo che li invitava: ” Te ne prego, abbimi per scusato, „ e mostrarono nel rifiuto qualche cortesia; doveché quello bruscamente, villanamente rispose: “Ho menato moglie: non posso venire. „ La passione brutta ha questo di proprio, che soffoca i sensi più nobili del cuore, fa tacere gli affetti stessi più naturali e rende le anime volgari, abbiette, ingrate e peggio. “Via dunque, vi dirò con S. Agostino, via le vane e cattive scuse e andiamo al convito, ove le anime nostre saranno ristorate e nutrite. Non ci sia di ostacolo l’alterigia, non ci gonfi curiosità illecita, non ci metta paura la maestà di Dio, e non ce lo impedisca la voluttà della carne: andiamo e impinguiamoci (In Joan. c. 2, apud a Lapide). „ Non si vuole dimenticare, o carissimi: questa parabola fu detta da Cristo in un convito, offertogli da un principale tra i farisei, e indirizzata specialmente a quelli che l’ascoltavano, e in generale agli Ebrei che si mostravano ritrosi alla sua parola. Nei tre chiamati alla cena sono dunque adombrati direttamente gli Ebrei, e apprendiamo da Cristo che il loro rifiuto si deve attribuire all’orgoglio, all’amore delle ricchezze e alla propensione ai piaceri del senso. – Gli invitati rifiutarono di venire alla cena: resterà dunque questa deserta? La mensa sì talmente imbandita non sarà dunque onorata da commensali, a scorno del padrone? Tolga Iddio che così avvenga. “Il padrone di casa indignato disse tosto al servo: Esci tosto per le piazze e per le vie della città, e mena qua i mendici, gli zoppi, i monchi ed i ciechi. „ I primi invitati appartenevano, come chiaro dal tutto insieme, alle classi ricche e ragguardevoli, e rappresentavano gli scribi, i farisei e in generale gli Ebrei, i quali, ammaestrati dai profeti e dalla legge, potevano conoscere facilmente la verità, rispetto ai poveri Gentili, avvolti in ogni maniera di errori. Ebbene: poiché i ricchi, i dotti d’Israele non vogliono venire alla cena imbandita dal padrone, cioè da Cristo, si chiamino al primo luogo i poveri, gli ignoranti, i reietti, questi mendici e storpi e ciechi; così si adempie la parola di Cristo, che disse: “I pubblicani e le meretrici vi precederanno nel regno dei cieli, e i primi saranno gli ultimi e gli ultimi primi. „ E veramente fu così: mentre i peccatori, i publicani, le peccatrici, i veri storpi e mendici, lasciata ogni cosa, seguivano Gesù, gli scribi e i farisei, i grandi, i ricchi, non si curavano di Lui, lo sprezzavano, lo rigettavano, lo perseguitavano: mentre Israele, nella sua grande maggioranza, infatuato nei sogni d’una mondana potenza, volgeva le spalle a Cristo, i Gentili pieni di docilità e di fede correvano a sedersi alla sua cena. I figli del regno per il loro orgoglio, per le loro cupidigie uscivano dalla casa del Padrone, e d’ogni parte vi entravano, al loro luogo, i Gentili nella semplicità della loro fede. É ciò che avvenne in tutti i secoli ed avviene anche di presente. S. Paolo, fin dai suoi tempi, scriveva che non erano molti i sapienti, non molti i potenti, non molti i ricchi, non molti i nobili che seguivano il Vangelo (I. Cor. c. l , vers. 26); Origene ripeteva lo stesso due secoli dopo, e noi pure in qualche senso lo dobbiamo riconoscere ai nostri giorni, sono quelli che riempiono le nostre chiese, che ascoltano la parola di Dio, che si accostano ai Sacramenti, che osservano le pratiche religiose? Generalmente siete voi, o figli del popolo, uomini del lavoro, voi che vivete col sudore della vostra fronte: raro è che i ricchi, gli uomini della scienza, vera od apparente che sia, si vedano in chiesa mescolati con voi e facciano pubblica professione di fede. Anch’essi sono chiamati alla cena evangelica e chiamati forse prima e più efficacemente di voi; ma l’orgoglio della gloria, la superbia e le terrene cupidigie, che si accompagnano sì facilmente alle ricchezze, fanno loro rispondere: Non possiamo venire. Non possum venire. Non scandalizzatevi di questi nostri fratelli, non scoraggiatevi di trovarvi quasi tutti poveri a questa cena: Gesù Cristo lo predisse, e la sua parola non può cadere. – ” Poscia il servo, così prosegue il Vangelo, disse al signore: Signore, si è fatto come hai comandato, e vi è ancor posto. „ Certamente il numero degli eletti è noto a Dio tantoché a quella cena eterna non siederà non più od uno meno di quelli, che nella sua sapienza ha destinato. Perciò le parole di questo servo, che riferisce esservi ancor posto, non possono lasciar luogo al sospetto, che Dio ignori il numero degli eletti; sono aggiunte soltanto per ornamento della parabola e per mostrare che Dio chiama gli uomini alla salute eterna in vari modi, largheggiando più o meno della sua grazia. – “Il padrone disse al servo: va per le strade e per le siepi e costringili ad entrare, sicché la mia casa sia ripiena. „ È questa la terza chiamata, che per ragione della estensione e dei modi pressanti mette in maggior luce la bontà del padrone di casa. Vuole che il servo percorra non solo le piazze e le vie della città, ma perfino le siepi fuor dell’abitato, e quanti ne trova di poverelli e zoppi e ciechi, e tutti li inviti non solo, ma li costringa ad entrare nella sua casa e prendere parte alla cena. Questa parabola prova ad evidenza come Dio voglia la salvezza di tutti, perché chiama e ripetutamente e in qualunque luogo o regione essi si trovino, senza badare alla loro condizione e miseria. Ponete mente a quella parola fortissima “costringili ad entrare, compelle intrare—. Forseché Dio costringe ad entrare nella Chiesa e nel regno celeste? Forse che violenta la libertà nostra? No, mai: la libertà è dono di Dio e Dio non si ripiglia mai i suoi doni: anzi sta scritto che Iddio ci tratta con riverenza. Se Dio costringesse o forzasse comecchessia la nostra libertà, cesserebbe ogni nostro merito e perderebbe ogni valore il nostro omaggio, la nostra obbedienza. E verità di fede che noi possiamo resistere alla voce ed alla grazia Dio, e che quando la secondiamo, la secondiamo liberamente. Quella parola pertanto forte — costringili — ad entrare, significa chiamata energica, un impulso gagliardo, una grazia straordinaria, ma non mai un vero costringimento, che è impossibile, che farei torto a Dio ed a noi. La libertà nostra, che è riposta nella facoltà di scegliere, per la quale siamo arbitri, padroni dei nostri atti, è il maggior dono che Iddio ci abbia fatto, quello per il quale siamo a Lui più simili. Di questa libertà noi andiamo alteri, e guai se altri la offende od anche solo minaccia di offenderla. Chi non esalta e magnifica la libertà? Che non si fa per difenderla e conservarla? Eppure, vedete contraddizione! non sono pochi i dotti che, negando l’anima e riducendola ad una dote, funzione o qualità della materia, come il calore d’un corpo, negano necessariamente la libertà e fanno dell’uomo un essere che non può operare altrimenti di quello che fa, simili alla pianta che germoglia, fiorisce e fruttifica bene o male sotto i raggi del sole, simile al bruto che si regola coll’istinto! Tanto orgoglio congiunto a tanta bassezza! Levare a cielo la libertà, che poi si nega! Non apriamo le orecchie agli insegnamenti di costoro, che fanno ingiuria in pari tempo alla fede alla ragione e teniamo fermamente che abbiamo l’altissimo dono della libertà e che dell’uso suo dovremo rendere strettissima ragione. Taluno può forse meravigliarsi che il padrone di casa abbia usata quella parola sì forte: — Costringili ad entrare, — ma vi è un tale costringimento amoroso, che non ferisce la libertà, e di questo senza dubbio parla il Vangelo. – Una persona a voi cara e che voi altamente stimate vi invita, vi chiama presso di sé: voi non volete aderire: essa insiste, ripete l’invito, vi prega, vi piglia per mano, dolcemente vi tira, tanto fa e dice che finalmente fate il voler suo. Senza dubbio, quella persona non vi ha forzato nel senso rigoroso della parola, e voi potevate pur sempre rifiutare; ma è pur vero che altri potrebbe dire, che vi ha fatto dolce violenza e in qualche modo, vi ha costretto a fare il suo desiderio. Questa espressione “costringili ad entrare, „ ci fa conoscere e sentire al vivo quanto sia cocente il desiderio di Dio che tutti partecipino alla sua cena. – Si chiude la parabola con quella formidabile sentenza di Cristo: “In verità vi dico che nessuno di quelli che furono invitati, gusterà la mia cena. „ Furono invitati, rifiutarono villanamente: è dunque giusto che non assaggino quella cena che non vollero. Evidentemente, qui si parla della vita eterna, nella quale non potranno giammai entrare quelli che volontariamente si esclusero da se medesimi, respingendo i ripetuti ed amorosi inviti del Padrone. Deh! che nessuno di noi si trovi nel numero di quegli infelici, che col loro rifiuto al generoso invito di tanto Padrone, meritarono quella terribile condanna: “Io vi dico che nessuno di coloro che furono invitati, assaggerà la mia cena. „
Credo …
Offertorium
Orémus Ps VI:5 Dómine, convértere, et éripe ánimam meam: salvum me fac propter misericórdiam tuam. [O Signore, volgiti verso di me e salva la mia vita: salvami per la tua misericordia.]
Secreta
Oblátio nos, Dómine, tuo nómini dicánda puríficet: et de die in diem ad coeléstis vitæ tránsferat actiónem. [Ci purifichi, O Signore, l’offerta da consacrarsi al Tuo nome: e di giorno in giorno ci conduca alla pratica di una vita perfetta.]
Communio
Ps XII:6 Cantábo Dómino, qui bona tríbuit mihi: et psallam nómini Dómini altíssimi. [Inneggerò al Signore, per il bene fatto a me: e salmeggerò al nome di Dio Altissimo.]
Postcommunio
Orémus. Sumptis munéribus sacris, qæesumus, Dómine: ut cum frequentatióne mystérii, crescat nostræ salútis efféctus. [Ricevuti, o Signore, i sacri doni, Ti preghiamo: affinché, frequentando questi divini misteri, cresca l’effetto della nostra salvezza