LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (27)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (26)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

TESTI SPIRITUALI

Ultimo ritiro di “Laudem Gloria,, (II.)

Sesto Giorno

Quelle anime sono vergini…

« E vidi: ed ecco l’Agnello eretto sulla montagna di Sion, e con lui centoquarantaquattromila che avevano scritto in fronte il nome di Lui e il nome del Padre di Lui; e udii una voce dal Cielo come rumore di molte acque e come di parecchi suonatori di arpa, ed essi cantavano un nuovo cantico innanzi al trono… e nessuno poteva ripetere il cantico se non quei centoquarantaquattromila… perché sono vergini. Quelli seguono P Agnello ovunque Ei vada » (Ap. XIV, 4). Vi sono degli esseri che, fin dalla vita terrena, fanno parte di questa generazione pura come la luce, e portano Già sulle loro fronti il nome « dell’Agnello e quello del Padre »: il nome dell’Agnello, per la loro somiglianza e conformità con Colui che san Giovanni chiama « il Fedele, il Verace » (Apoc. III, 14), e ci mostra rivestito di una tunica tinta di sangue; anche questi esseri, infatti, sono i fedeli, i veraci, e la loro veste è tinta nel sangue della loro continua immolazione. Portano in fronte anche il nome del Padre perché Egli irradia in essi la bellezza delle sue perfezioni, riflettendovi i suoi divini attributi; e le anime loro sono come altrettante corde che vibrano e cantano il cantico nuovo. Seguono l’Agnello ovunque Egli vada; e non solo nelle via larghe e facili, ma nei sentieri spinosi, fra i rovi pungenti; e tutto ciò perché queste anime sono vergini, cioè libere, distaccate, spoglie…: libere di tutto, meno che del loro amore; distaccate da tutto, specialmente da se stesse, spoglie di ogni cosa, tanto nell’ordine naturale che in quello soprannaturale. Ma tutto questo, quale separazione dal proprio io non suppone! Quale morte! Ripetiamo con san Paolo: « Quotidie morior! » (1 Cor. XV, 31). Il grande santo scriveva ai Colossesi: « Voi siete morti e la vostra vita è nascosta in Dio con Gesù Cristo» (Col. III, 3). Ecco la condizione: bisogna essere morti; altrimenti, si potrà essere nascosti in Dio, ogni tanto, ma non si vivrà abitualmente nell’Essere divino, perché la sensibilità, le pretese dell’io e tutto il resto, verranno a farcene uscire. L’anima che fissa il suo Signore con quell’occhio semplice che rende luminoso tutto il corpo, è protetta dal « fondo di iniquità » (Salmo XVII, 24) che è in lei, e del quale si lamentava il Profeta; e il suo Dio la introduce in quel luogo spazioso (Salmo XVII, 20) che è poi Lui stesso, ove tutto è puro, tutto è santo. O morte in Dio, morte beata! O soave e gioconda perdita di sé nell’Essere amato, che permette alla creatura di esclamare:« Vivo, ma non più io; il Cristo vive in me; per cui la vita che ho adesso in questo corpo di morte, la vivo nella fede che ho nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato se stesso alla morte per me!» (Gal. II, 19-20).

Settimo Giorno

Niente altro che la gloria dell’Eterno

« Cœli enarrant gloriam Dei » (Salmo XVIII, 1): ecco che cosa narrano i cieli: la gloria di Dio. Poiché la mia anima è un cielo dove vivo nell’attesa della celeste Gerusalemme, bisogna che anche questo cielo canti la gloria dell’Eterno, niente altro che la gloria dell’Eterno. « Il giorno trasmette al giorno questo messaggio » (Salmo XVIII, 2). Tutti i lumi interiori, tutte le comunicazioni di Dio all’anima mia, sono questo giorno che trasmette al giorno il messaggio della Sua gloria. « Il precetto di Jahveh è puro », canta il Salmista, « ed illumina lo sguardo » (Salmo XVIII, 9). Per conseguenza, la mia fedeltà nel corrispondere ad ogni suo precetto, ad ogni suo interno comando, mi fa vivere nella luce sua; anche essa è un messaggio che annunzia la sua gloria. Ma, ecco la dolce meraviglia: « Jahveh, chi ti guarda, risplende  » (Salmo xviii, 6), esclama il Profeta. L’anima che, con la profondità del suo sguardo interiore, nella semplicità che la distacca da ogni altra cosa, contempla attraverso a tutto il suo Dio, quest’anima è risplendente: essa è un giorno che annunzia al giorno il messaggio della sua gloria. « La notte l’annuncia alla notte » (Salmo XVIII, 3): ecco una cosa davvero consolante: le mie impotenze, i miei disgusti, le mie oscurità, persino le mie colpe, narrano la gloria dell’Eterno; e le mie sofferenze fisiche e morali celebrano anch’esse la gloria del mio Signore. Davide cantava: « Che cosa renderò a Dio per tutti i benefici che mi ha fatti? Prenderò il calice della salute » (Salmo CXV, 12-13). Se io lo prendo, questo calice imporporato dal sangue del mio Maestro e se, nel mio ringraziamento pieno di gioia unisco il sangue mio a quello della Vittima santa che lo rende partecipe in qualche modo del suo infinito, esso può dare al Padre una lode magnifica; allora, il mio dolore è un messaggio che annunzia la gloria dell’Eterno. «Là, (nell’anima che narra la sua gloria), Egli ha posto una tenda per il sole ». Il sole è il Verbo, è lo Sposo. Se Egli trova l’anima mia vuota di tutto ciò che non rientra in queste due parole: « il suo amore, la sua gloria », allora la sceglie per sua camera nuziale; « vi si slancia come un gigante che si precipita trionfatore nella corsa… ed io non posso sottrarmi al suo calore » (Salmo XVIII, 6-7). Questo « fuoco consumante » opererà la felice trasformazione di cui parla san Giovanni della Croce: « Ciascuno, egli dice, sembra essere l’altro, e tutti e due non sono che uno », per essere lode di gloria del Padre.

Ottavo Giorno

Si prostrano, adorano… depongono le loro corone

« Essi non hanno riposo né giorno né notte, e ripetono: Santo, santo, santo è il Signore, Dio onnipotente che era, che è, che sarà nei secoli dei secoli. … Si prostrano, adorano, depongono le loro corone dinanzi al trono, dicendo: Degno Tu sei, o Signore, di ricevere la gloria e l’onore e la potenza… » (Apoc, IV, 8-11). Come imitare nel cielo dell’anima mia questa occupazione incessante dei Beati nel cielo della gloria? Come attuare questa lode, questa adorazione ininterrotta? San Paolo mi illumina in proposito quando scrive ai suoi: « Che il Padre vi fortifichi in virtù, per mezzo del suo Spirito, nell’anima vostra; affinché il Cristo abiti nei vostri cuori mediante la fede e voi siate radicati e fondati nell’amore » (Ephes. III., 16-17): « Essere radicati e fondati nell’amore »: è questa, mi sembra, la condizione per assolvere degnamente il proprio compito di «laudem gloriæ ». L’anima che penetra e dimora nella « profondità di Dio» (I Cor. II, 10) e che fa tutto in Lui, con Lui e per Lui, con quella limpidezza di sguardo che le conferisce una certa somiglianza con l’Essere semplicissimo, quest’anima con ogni suo movimento, ogni sua aspirazione, ogni suo atto — per quanto comune sia — si radica sempre più profondamente in Colui che ama. Tutto, in lei. rende omaggio al Dio tre volte Santo; essa è, per così dire, un « Sanctus » perenne, una incessante lode di gloria. « Si prostrano, adorano, depongono le loro corone ». Prima di tutto, l’anima deve prostrarsi, immergersi nell’abisso del suo nulla, penetrarvi così a fondo, da trovare — secondo l’ineffabile espressione di un mistico — la pace vera e perfetta che nulla può turbare, perché si è sprofondata così in basso, che nessuno andrà a cercarla, laggiù. Allora potrà adorare. L’adorazione! ah, è una parola di cielo: mi sembra che possa definirsi: l’estasi dell’amore. È l’amore annientato dalla bellezza, dalla forza, dall’immensa grandezza dell’oggetto amato; l’amore che cade in una specie di deliquio, in un silenzio pieno, profondo, quel silenzio di cui parlava Davide quando esclamava: « Il silenzio è la tua lode » (Salmo LXIV, 2). Sì, ed è la lode più bella, perché è quella che cantasi eternamente nel seno dell’immutabile Trinità: ed è anche « l’ultimo sforzo dell’anima che trabocca e non può esprimersi più » (Lacordaire). « Adorate il Signore, perché Egli è santo» (Salmo XCVIII, 9), dice il Salmista; ed ancora: « Sempre Lo adoreremo a motivo di Lui stesso » (Salmo LXXI, 15). L’anima che si raccoglie in questi pensieri, che li penetra con quel « senso di Dio » (Rom. XI, 34) di cui parla san Paolo, vive in un cielo anticipato, al di sopra di tutto ciò che passa, al di sopra di se stessa. Sa che Colui che essa adora in sé possiede in sé ogni gloria ed ogni felicità e, gettando la sua corona dinanzi a Lui come i beati, si disprezza, non bada più a sé e, in mezzo a qualunque sofferenza e dolore, trova la sua felicità in quella dell’Essere adorato, perché ha lasciato se stessa ed è passata in un altro. Mi sembra che, in questo atteggiamento di adorazione, l’anima assomigli a quei pozzi di cui parla san Giovanni della Croce, in cui si raccolgono le acque che scendono dal Libano; vedendola, si può dire: « La città di Dio è rallegrata dal corso di impetuosa fiumana » (Salmo XLV, 5).

Nono Giorno

« Siate santi, perché io sono santo »

« Siate santi, perché io sono santo » (Lev. XIX, 2). Chi mai può dare un simile comando? Egli stesso rivelò il suo nome, quel nome che gli è proprio, che Egli solo può avere. « Sono — egli dice a Mosè — Colui che è » (ES. III, 14), il solo vivo, il principio di tutti gli esseri. « In Lui abbiamo l’essere, il moto, la vita » (Act. XVII, 28). « Siate santi, perché io sono santo »: mi sembra che questa sia la stessa volontà che venne espressa il giorno della creazione dalle parole divine: « Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza » (Gen. I, 26). E il desiderio del Creatore non muta: sempre Egli vuole unirsi alla sua creatura, renderla simile a Sé. San Pietro dice che « siamo stati fatti partecipi della natura divina » (S. Piet. I, 4) e san Paolo ci raccomanda di « conservare salda questa base, questo inizio del suo Essere » che Egli ci ha dato (Ebr. III, 14); il discepolo dell’amore poi ci dice: « Già fin d’ora siamo figli di Dio, ma non si è ancora manifestato a noi quello che saremo. Sappiamo che … quando si mostrerà, saremo simili a Lui, perché lo vedremo quale Egli è, e chiunque ha questa speranza in Lui, si santifica, come Egli pure è santo (1 S. Giov. III, 2, 3). – Essere santi come Dio è Santo: questa, mi sembra è la misura dei figli del suo amore; non ha detto, infatti il Maestro: « Siate perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto »? (S. Matt. V, 48). Parlando ad Abramo, Dio gli diceva: « Cammina alla mia presenza e sii perfetto » (Gen. XVII, 1). Dunque, camminare alla sua presenza è il grande mezzo per aggiungere quella perfezione che il nostro Padre dei Cieli richiede da noi. San Paolo, dopo essersi immerso nei divini consigli, rivelava la stessa cosa alle anime nostre, quando scriveva: « Dio ci ha eletti in Lui prima della creazione, affinché siamo immacolati e santi alla sua presenza, nell’amore » (Ephes. I, 4-5). – Ricorrerò ancora alla luce di questo santo, onde essere illuminata nel percorrere, senza deviarne mai, questa via magnifica della presenza di Dio dove l’anima procede « sola col Solo », sostenuta dalla « forza della sua destra » (Salmo XIX, 7) protetta dalle sue ali, senza paventare le insidie della notte, « né la freccia lanciata in pieno giorno, né il male che s’insinua nelle tenebre, né gli assalti del demone meridiano » (Salmo XC, 4-6).  –  « Spogliatevi dell’uomo vecchio secondo il quale siete vissuti nella vostra vita prima — mi dice — e rivestitevi dell’uomo nuovo che è stato creato secondo Dio, nella giustizia e nella santità » (Ephes. IV, 4-5). Ecco tracciata la via: basta spogliarsi, per percorrerla secondo i desideri di Dio; e sì, morire a se stessi, perdersi di vista, credo che volesse intendere anche il Maestro quando diceva: « Chi vuol Seguirmi, rinunci a se stesso, e prenda la sua croce » (Matt. XVI, 24). – « Se vivrete secondo la carne — dice ancora l’Apostolo —— morrete; ma se, con lo spirito, darete morte alle opere della carne, vivrete » (Rom. VIII, 13). Questa è la morte che il Signore ci chiede e della quale è scritto: « La morte è stata assorbita dalla vittoria » (1 Cor. XV, 54). « O morte — dice il Signore — io sarò la tua morte » (Osea, XIII, 14); è come se dicesse: O anima, mia figlia adottiva, guarda me e allora non baderai più a te; dileguati interamente nell’Essere mio, vieni a morire in me, perché Io viva in te.

Decimo Giorno

In un eterno presente

« Siate perfetti come il vostro Padre celeste è perfetto » (S. Matt.). Quando il mio Signore mi fa sentire queste parole nel profondo dell’anima, mi pare di capire che Egli mi chiede di vivere, come il Padre, in un eterno presente, senza prima, senza poi, ma tutta nell’unità del mio essere in questo adesso eterno. E in che cosa consiste questo presente? Davide mi risponde: « Sarà adorato sempre a causa di Se stesso » (S. Matt. V, 48). Ecco l’eterno presente in cui « laudem gloriæ » si deve stabilire. Ma perché essa sia verace nella sua adorazione, perché possa cantare: « Io sveglio l’aurora » (Salmo LXVI, 15), bisogna che possa dire con san Paolo: « Per suo amore, ho perduto tutto » (Fil. III, 8), cioè: per Lui, per adorarlo sempre, mi sono isolata, separata, spogliata di me stessa e di ogni cosa, sia nell’ordine naturale che nell’ordine soprannaturale riguardo ai doni di Dio; perché un’anima che non sia così morta a se stessa e libera del proprio io, sarà per forza, in certi momenti, banale e naturale, e ciò è indegno di una figlia di Dio, di una sposa del Cristo, di un tempio dello Spirito Santo, Per premunirsi contro questa vita naturale, bisogna che l’anima sia tutta desta nella sua fede, col limpido guardo rivolto sempre al suo Maestro. Allora « camminerà — come cantava il Re-profeta — nell’innocenza del cuore, nell’interno della sua casa » adorerà sempre il suo Dio per Lui stesso, e vivrà ad immagine sua nell’eterno presente in cui Egli vive. –  « Siate perfetti come è perfetto il vostro Padre dei cieli » (S. Matt. V, 48). E Dio, ci dice san Dionigi, è il « grande Solitario ». Il mio Maestro mi chiede di imitare questa perfezione, di rendergli o essendo io pure una grande solitaria. L’Esser diino vive in un’eterna. sconfinata solitudine, da cui non esce mai, pur interessandosi ai bisogni delle sue creature. perché non esce mai da se stesso; e questa solitudine non è che la sua divinità. Affinché nulla mi distolga da questo bel silenzio interiore, devo porre le stesse condizioni, sempre: lo stesso isolamento, lo stesso distacco, lo stesso spogliamento. Se i miei desideri, i miei timori, i miei dolori, le mie gioie, se tutti i moti che derivano da queste quattro passioni, non saranno perfettamente ordinati a Dio, io non sarò solitaria; vi sarà del tumulto in me; occorre dunque la quiete, il sonno delle potenze, l’unità dell’essere, « Ascolta, figliola mia, porgi l’orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre, e il Re si innamorerà della tua belle sembra che sia un invito al silenzio; « Ascolta, tendi l’orecchio… ». Ma, per udire, bisogna dimenticare la casa paterna, cioè tutto quanto appartiene alla vita naturale, quella vita di cui intende parlare l’Apostolo quando dice: « Se vivrete secondo la carne, morrete » (Rom. VIII, 13). « Dimentica il tuo popolo »: è più difficilmente, perché questo popolo è tutto quel mondo che fa parte, per così dire, di noi stessi: la sensibilità, i granuli, i ricordi, le impressioni, ecc…, l’io, in una parola. Bisogna dimenticarlo, abbandonarlo; e quando l’anima ha fatto questo strappo, quando è libera da tutto ciò, il Re si innamora della sua bellezza, perché la bellezza, soprattutto quella di Dio, è unità.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.