LA GRAZIA E LA GLORIA (38)

LA GRAZIA E LA GLORIA (38)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

II.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

LIBRO VII

LA CRESCITA SPIRITUALE DEI FIGLI ADOTTIVI DI DIO. – IL MERITO COME PRIMO MEZZO DI CRESCITA

CAPITOLO VI.

Le cause da cui dipende per le nostre opere la misura del loro merito.

Il merito ha per oggetto la grazia e la gloria; per meglio dire, l’aumento di entrambe, poiché presuppone, in colui che lo acquisisce, lo stato di grazia con le sue appendici inseparabili, le virtù infuse. Non ci resta quindi che, dopo aver determinato i fattori, le condizioni e la portata del merito, indagare sulla sua misura. Fatto questo, possiamo poi apprezzare il grado di crescita che vi corrisponde nei figli adottivi di Dio. Per fare questo con maggiore chiarezza, stabiliamo quattro principi o regole, che derivano dalla dottrina dimostrata in precedenza.

1) Primo principio. – A parità di condizioni, più un atto è libero, più è meritorio (S. Thom, II, D. 29, q. 4, a. 4). La prova di ciò è evidente: poiché i nostri atti sono nostri per la libertà, daremo tanto più del nostro a Dio quanto più la volontà che li offre è libera da ogni impedimento.

Secondo principio. – A parità di altre condizioni, più un figlio di Dio è tale, più intima è la presenza dello Spirito Santo nel suo cuore; in altre parole, più perfetta è la grazia santificante, più grande è il merito delle opere e l’incremento che ne deriva. Questa regola, è vero, non è approvata da tutti i teologi che concordano con noi sulla sostanza della dottrina. Ma è sostenuta da una base così solida che mi rimprovererei di doverla passare sotto silenzio. Questo, credo, è il significato da attribuire a queste parole del Dottore angelico, San Tommaso d’Aquino: « Quanto maggiore è la grazia di cui un atto è informato, tanto più meritorio è quell’atto (« Quanto majori gratia actus informatur, tanto magis est meritorius. – S. Thom, II, D. 29, q: 1, a. 4). È noto, infatti, che per lui, come per tutta la Scolastica antica, la parola grazia esprime la grazia santificante, quella che perfeziona l’anima e la unisce a Dio. Suarez approva il principio e lo dimostra con Gregorio di Valencia ed altri teologi di grande autorità (Suar., de Gratia, L. XII, c. 22: Gregor. a Valent.. in 1. 2, q-6, p. 3). Ora, tra le ragioni che portano a sostegno del loro sentimento, ce ne sono due che sembrano assolutamente convincenti. In primo luogo, in base a che cosa giudichiamo che ogni singolo atto con cui il Salvatore Gesù ci ha redenti avesse di per sé un valore non solo pari al prezzo richiesto dalla giustizia divina, ma sovrabbondante, semplicemente infinito? Sul fatto che la dignità soprannaturale della persona sia come la forma suprema che determina il valore delle azioni soddisfattorie e meritorie. Se, nel caso delle offese, la grandezza dell’insulto aumenta con l’eccellenza della persona a cui è stato rivolto, quando si tratta di onore, la regola deve essere invertita, e deve essere valutato non in base alla condizione di chi lo riceve, ma in base a quella di chi lo dà. Che una creatura, vile e umile com’è l’uomo, osi scagliare il proprio disprezzo su Dio, suo Signore e Maestro, è un’offesa di tipo infinito, perché la distanza tra il ribelle e la maestà divina supera ogni misura finita. Ma se questo stesso uomo, con la sua dignità nativa, cerca di rimediare all’oltraggio nello stesso modo, non ci riuscirà mai. Infelici come siamo, potenti all’infinito per oltraggiare Dio, restiamo impotenti fino al nulla per riparare al nostro disprezzo e per restituirgli la gloria. Infatti tutto ciò che possiamo fare da soli non supererà mai i limiti della nostra bassezza. Per questo, solo un Dio fatto uomo poteva offrire a Dio, ferito nella sua gloria, l’onore e la rigorosa soddisfazione di cui aveva bisogno per restituire al genere umano prevaricatore le sue grazie e il suo antico amore. E questo basterebbe anche a spiegare i terribili colpi con cui la giustizia di Dio colpisce eternamente i peccatori ostinati, che non hanno voluto applicarsi né i meriti né le espiazioni del Redentore. – Ora, per tornare al nostro principio, ciò che conferisce una dignità veramente divina alla persona del giusto è la grazia, poiché essa lo rende figlio di Dio, un “dio per partecipazione”. Pertanto, quanto più avremo questa nobiltà soprannaturale, tanto più questa aureola divina risplenderà sulla nostra anima, tanto più parteciperemo alla divinità; tanto più il nostro omaggio glorificherà la suprema maestà e, di conseguenza, tanto più sarà meritorio ai suoi occhi. – La semplice considerazione del ruolo della grazia santificante nella questione del merito ci porterà direttamente alla stessa conclusione. Come abbiamo già visto, è in questa grazia che dobbiamo cercare la prima e fondamentale ragione del merito: essa è la sua causa primordiale. Ne deriva, come conseguenza molto naturale, che la grazia non può crescere in un’anima senza che il merito cresca in essa. Così, poiché uno dei principi che rendono meritevoli i nostri atti è il dominio in virtù del quale sono nostri, il loro valore è ineguale a seconda che li compiamo con libertà più o meno intera. Certo, c’è molto da consolare chi, con una lunga perseveranza al servizio di Dio Nostro Signore, ha sviluppato ampiamente in sé questo incomparabile tesoro di grazia. A volte non possono, senza un profondo senso di desolazione, pensare a quanto poco sembrano fare per glorificare il giusto Ricompensatore delle nostre opere. Questi atti di così scarso valore in sé hanno un peso immenso, se c’è l’abbondanza della grazia interiore a nobilitarli e a renderli forse incomparabilmente più vantaggiosi per chi li compie, di quanto non lo sarebbero per altri con opere apparentemente più belle e più gloriose. E questa consolazione crescerà nelle loro anime quando avranno compreso e meditato il principio assolutamente certo che stiamo per esporre.

2Terzo principio. – Quanto più un atto, al di là di ogni altra considerazione, appartiene propriamente alla carità, tanto più partecipa al suo influsso vivificante, tanto più si presta a meritare un aumento di grazia e di gloria. Questa regola deriva naturalmente dalle conclusioni tratte nel capitolo precedente. Se nessun’altra virtù può produrre atti meritori indipendentemente dalla carità, è perché il primato del merito è la sua sorte speciale e il suo privilegio incomunicabile. Perché dunque dovrebbe essere la prima delle virtù, la più nobile, la più eccellente, una regina tra il suo seguito, se ci fosse qualcuno che compie opere superiori alle sue nella stima di Dio? Essa può dire allora: « Io, che faccio partorire gli altri, non potrei partorire io? Io, che do agli altri la loro posterità, resterò sterile » (Is., LXVI, 9. Questa è una sicura applicazione dell’antico adagio: Propter quod unumquodque tale, et illud magis). Perciò, tra tutte le opere, la più meritoria di per sé è quella della carità; tanto più meritoria perché è un’operazione più intensa e più elevata. Pertanto, man mano che la carità entri più profondamente negli atti delle altre virtù, e le assimili maggiormente, esse toccheranno più fortemente il cuore di Dio (« Premium respondens merito ratione charitatis, quantumcunque sit parvum, est majus quolibet præmio respondente actui ratione sui generis ». S. Thom, IV, D. 49. q. 5, a. 5, a.d. 5). Per una madre nulla è più gradito, dopo l’amore dei figli, degli atti in cui la virtù di questo amore filiale si manifesti più chiaramente. Un esempio preso in prestito dalla teologia morale farà ancora più luce sul nostro pensiero. Appropriarsi dei beni altrui è un’offesa a Dio, tanto più grave quanto più alto è il valore degli oggetti ingiustamente sottratti. Se un uomo, spinto da una diabolica malizia, commette un furto non solo per amore dell’oro, ma per odio e disprezzo formale di Dio, non è forse vero che il suo demerito e la sua colpa saranno ben diversi da quelli del semplice furto? Perché? Perché se l’uno e l’altro furto sono contrari all’amore di Dio, questo amore è incomparabilmente più oltraggiato nel secondo che nel primo: perché in un caso l’opposizione è direttamente voluta, mentre nell’altro caso non lo è che per contraccolpo. (Ogni peccato mortale è contro la carità, e proprio per questo è mortale. Infatti appartiene alla carità porre l’ultimo fine dell’umanità praticamente in Dio. Ora, peccare mortalmente significa essere talmente attaccati al bene creato da sceglierlo come ultimo fine, a scapito della bontà sovrana. Ogni uomo che pecca mortalmente preferisce, in virtù del suo atto, il bene che brama per se stesso, al bene per eccellenza, Dio suo ultimo fine, e di conseguenza all’amicizia divina. Cfr. S. Thom, de Malo, q. 7, a. 1). Da questo principio derivano diverse conclusioni di grande importanza per la nostra vita spirituale. Non indagherò, come si fa in un trattato di teologia morale, su quando siamo assolutamente tenuti a compiere atti di carità; in altre parole, a riferire formalmente noi stessi, tutto il nostro essere e tutte le nostre azioni alla gloria di Dio: una questione molto oscura, su cui si può dissertare a lungo senza arrivare, in mancanza di autorità sufficienti, ad una piena certezza. Ma ciò che è importante considerare qui è che quanto più frequentemente si ripetono gli atti di amore di Dio e quanto più fervidamente un’anima vi si dedica, quanto più si applica a diffondere il motivo della carità divina su tutte le sue opere, cioè a farle per piacere a Dio, per puro amore della suprema bontà, tanto più rapida è la sua crescita spirituale e il suo progresso nella santità. – Se la dilezione è ardente, potente ed eccellente in un cuore, essa arricchirà e perfezionerà anche tutti gli atti di virtù che ne derivano. Si può soffrire la morte e il fuoco per amore di Dio senza avere la carità, come presuppone San Paolo e come dichiaro altrove; a maggior ragione si può soffrire con un po’ di carità. Ora io dico, Teotimo, che può darsi che una piccolissima virtù sia più preziosa in un’anima dove regni ardentemente l’amore sacro, che non il martirio in un’anima dove l’amore sacro è debole e lento. Così le virtù minori della Madonna, di San Giovanni e degli altri grandi Santi, avevano un valore maggiore davanti a Dio, rispetto a quelle più elevate di molti santi inferiori; così come molti dei piccoli slanci amorevoli dei Serafini sono più infiammati che quelli dei più elevati tra gli Angeli dell’ultimo ordine; così come il canto degli usignoli principianti è incomparabilmente più armonioso di quello dei cardellini meglio impostati. – Così, Teotimo, le piccole semplicità, le abiezioni e le umiliazioni in cui i grandi Santi si sono tanto compiaciuti per fortificare e per proteggere i loro cuori dal pericolo della vana gloria, essendo state fatte con una grande eccellenza di parte e con l’ardore dell’amore celeste, sono state trovate più gradevoli davanti a Dio che le grandi o illustri opere di molti altri che sono state fatte con poca carità e devozione » (S. Fr. de Sales, Trattato dell’amor di Dio, L. XI, c. 5). Chi non ha riconosciuto l’enfasi di San Francesco di Sales e non ha visto quanto questa dottrina sia consolante e vera? – Certamente, non si può negare, la nostra vita sarà tanto più perfetta, e di conseguenza tanto più meritoria, quanto più sarà formata sul modello della vita beata, dalla quale speriamo di morire un giorno con Dio. Ora, in questa vita benedetta, ameremo soprattutto tutto ciò che amiamo in Dio per se stesso; lo ameremo al di fuori di Lui e faremo tutto per Lui. Le altre virtù, se escludo quelle che, come la speranza e la fede, presuppongono essenzialmente uno stato di imperfezione, non saranno assenti dal cielo: poiché sono nel dolore, è giusto che un giorno siano nell’onore: ne avremo atti compatibili con la gloria e la gioia di cui sarà piena la nostra anima; ma, in tutto e sempre, con l’intenzione di piacere a Dio, per il suo beneplacito e perché li approva. Non tutto sarà un atto esplicito di carità; ma poiché tutto sarà fatto sotto il moto più amorevole e universale della carità, sarà veramente la vita dell’amore puro. Lavoriamo, dunque, camminiamo, mortifichiamo il nostro corpo o diamogli un adeguato riposo; siamo giusti, casti e obbedienti, con l’intenzione sempre più presente e viva di piacere al cuore di Dio; nulla può contribuire più efficacemente alla crescita del figlio di Dio in noi, perché nulla aggiunge di più alla dignità dei nostri meriti. – Da ciò si evince cosa dobbiamo pensare della pratica così urgentemente raccomandata da tutti i maestri di vita spirituale: offrire le nostre azioni a Dio e protestare che vogliamo portarle interamente alla sua gloria. Non si tratta di un precetto, ma di un consiglio; né di una condizione necessaria per il merito, ma di un mezzo sovranamente utile per aumentarlo senza misura. –  San Francesco di Sales, che mi piace tanto citare in questa materia, e del quale forse nessun autore ha parlato in modo così dotto e chiaro, non si stanca di lodare questa pratica e di insegnarne il metodo: « Per progredire in modo eccellente nella devozione, dobbiamo, non solo all’inizio della nostra conversione, e poi ogni anno (con i pii esercizi) dedicare a Dio la nostra vita e tutte le nostre azioni; ma dobbiamo anche offrirgliele ogni giorno, secondo l’esercizio mattutino che abbiamo insegnato a Filotea: Infatti, in questo rinnovamento quotidiano della nostra oblazione, riversiamo sulle nostre azioni il vigore e la virtù della dilezione attraverso una nuova applicazione del nostro cuore alla gloria divina, per mezzo della quale viene sempre più santificato. – « Inoltre, applichiamo la nostra vita cento e cento volte al giorno all’amore divino con la pratica delle preghiere giaculatorie, delle elevazioni del cuore e dei ritiri spirituali: perché questi santi esercizi lanciano e fissano continuamente la nostra mente su Dio, e quindi portano a Lui tutte le nostre azioni. E come potrebbe essere, vi prego, che un’anima, che aspiri sempre alla bontà divina e sospiri incessantemente parole di devozione per mantenere il suo cuore sempre nel seno di questo Padre celeste, non sia stimata che compia tutte le sue buone azioni in Dio e per Dio? – Colei che dice: “Ehi Signore, sono tuo”. La mia amata è tutta mia e io sono tutto suo (Cant., IV, 16). Mio Dio, tu sei il mio tutto. O Gesù, tu sei la mia vita… Non dedica forse, dico, continuamente le sue azioni allo Sposo celeste? » (S. Franç. de Sales, Trattato dell’amor di Dio, L. XI, c, 9, 2). Si realizza così alla lettera, e nel modo più eccellente, ciò che San Paolo raccomandava ai Corinzi: « Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto a gloria di Dio » (1 Cor. X, 31). Ecco, quindi come l’influenza della carità contribuisca non solo all’esistenza, ma anche alla perfezione dei meriti. – Dal libro dei Cantici, vi mostrerò che questa carità divina ha davvero la virtù di trasformare tutto in oro. Leggete e vedrete come tutto ciò che è presente nella sposa inebri e delizi il cuore dello Sposo celeste. Lei parla: « Le tue labbra – le dice – sono come una fascia di scarlatto e la tua conversazione è più dolce del latte e del miele ». Lei cammina: « O figlia del principe – dice lui – come sono belle le tracce dei tuoi piedi ». Lei dorme, e il suo sonno è così incantevole per lui che proibisce alle figlie di Gerusalemme di disturbarlo: « Vi prego, per i caprioli e i cervi della montagna, lasciate che la mia amata dorma, finché non si sveglierà da sola ». Tutto in lei ha un fascino per lui, una grazia ineguagliabile, uno sguardo, un gesto, un niente. Da qui le esclamazioni dell’amata: « Hai ferito il mio cuore, sorella mia, sposa mia, hai ferito il mio cuore con uno dei tuoi occhi, con un pelo del tuo collo » (Cant. IV, 3, 11; VI, 1; III; V 5, IV, 9). È perché essa è l’amante, perché è tutta intera nel diletto: « Ego dilecto meo »; è perché la grazia del suo fervore e la purezza del suo amore comunicano alle sue minime opere un valore incomparabile. Con quanto ardore lo Sposo che lei ama in modo unico la chiama a godere della sua presenza e dei suoi beni. « Alzati, mia colomba, mia bella, e vieni. Vieni dal Libano, mia sposa, vieni dal Libano; vieni e sarai incoronata » (Ibid. V, 8). Notiamo un altro influsso della carità che porta ad un aumento dei meriti. Come già sappiamo, le nostre azioni sono tanto più meritorie quanto più spontanee, volontarie e libere provengano dall’anima. Ora, cosa fa la carità quando regna e governa come sovrana in un’anima? Che quest’anima, essendo condotta dall’amore alle cose di Dio, agisce con meno ripugnanza, con un cuore migliore; in una parola, più spontaneamente e più liberamente. – La vita dei santi ce lo dimostra chiaramente. Dal modo in cui accettano, o meglio, cercano, i sacrifici più ripugnanti per la natura, sembrerebbe che questi non siano né difficili né amari per loro. Laddove chi ha come movente la paura piuttosto che la carità, esita, indietreggia o avanza solo con rammarico, spinto dal terrore dei giudizi di Dio, essi si precipitano in avanti, trascinati dal peso dell’amore. Hanno mille cuori e mille vite che darebbero per il loro Signore e Maestro. Per questi uomini non c’è bisogno di una legge. La loro legge è il loro amore. Infatti, « l’amore è una grande cosa. Solo esso fa luce su tutto ciò che è pesante. Appesantisce un peso senza esserne gravato; rende piacevole e dolce ciò che è più amaro. Chi ama, corre, vola; è felice, è libero, nulla lo ostacola » (Imit. J. C. G. L. III c. 5). – Per questo l’Angelo della Scuola, dopo aver dimostrato la necessità della carità per rendere meritorie le nostre opere indirizzandole verso Dio, nostro sommo Bene, aggiunge subito: « È evidente che facciamo una cosa più volentieri quando è l’amore a condurci ad essa. Pertanto, poiché il merito richiede la volontarietà, esso deve essere attribuito principalmente alla carità » (S. Thom, 1. 2, q. 114, a. 4, in corp.). – Posso ben prevedere l’obiezione che può essere fatta: come può la carità, più attiva e più intensa, essere causa di un aumento del merito nelle nostre opere, se lungi dall’aumentare le difficoltà, le diminuisce? Infatti, insegnarci, come fa l’Apostolo, che ciascuno riceverà la sua ricompensa in proporzione al suo lavoro (II Cor., III, 8), significa dirci equivalentemente che la grandezza del merito è proporzionale allo sforzo, alla fatica, alla violenza che ci imponiamo, in una parola, alla difficoltà del lavoro. Basta una semplice osservazione per ribaltare l’obiezione. Un’opera può essere laboriosa in molti diversi modi. È faticosa per sua natura, come il martirio o come l’olocausto offerto a Dio nella professione religiosa. Da questo punto di vista, la difficoltà del lavoro contribuisce ad aumentare il merito. Non è in questo modo che la carità diminuisce il lavoro, che ci fa intraprendere cose così grandi per l’onore di Dio. Un’opera è faticosa per la mollezza della volontà di chi la deve compiere: il minimo sacrificio sembra troppo duro per un Cristiano così imperfetto; ed è solo questa difficoltà che diminuisce il merito, e che l’amore fa svanire con la paura. Si rallegrino dunque coloro ai quali la lunga abitudine a portare la croce del Signore Gesù ha reso quasi amabili le loro fatiche, le loro penitenze e le loro rinunce. L’olio che li addolcisce è quello dell’amore; e proprio questa dolcezza è il segno e la causa di un merito più abbondante, di una penitenza più fruttuosa (S. Thom., 1. 2. D. 114, a. 4, ad 2; de Verit., q. 26, a. 6, ad 12).

3. – Quarto e ultimo principio. – Più la virtù che l’amore informa è di ordine superiore, più il suo atto è meritorio. Suppongo che il merito, pur appartenendo principalmente alla Carità, non sia una sua prerogativa esclusiva. Mille luoghi della Scrittura e dei Concili confuterebbero chiunque pretendesse di affermare questo: ora queste virtù, le cui opere la carità fa proprie, non sono dello stesso rango. Seguono le orme della carità, ma a distanze diseguali. Tutti i seguaci di una regina non sono ugualmente vicini al suo trono, né partecipano ai suoi privilegi nella stessa misura. È il caso delle virtù in questo impero spirituale dove la carità, sostenuta dalla grazia, è la regina. Alcune, come la speranza e la fede, sono quasi del suo sangue, poiché hanno Dio come oggetto immediato; altre, senza andare direttamente a Dio, sono tuttavia legate in modo più prossimo alle sue perfezioni: come, ad esempio, la religione, la pietà e la penitenza. Chi oserebbe sostenere, con quegli antichi eretici, che non ci sia differenza tra la castità coniugale e la verginità, tra il buon uso delle ricchezze e l’abnegazione volontaria, tra qualche giorno di digiuno e il martirio? E questa disuguaglianza che trovo tra le virtù, la ritrovo anche tra i loro atti. Che io faccia una piccola elemosina o che mi spogli delle mie ricchezze a favore del mio prossimo, è la stessa virtù a fare entrambe le cose; ma sarebbe una cecità affermare che questi due atti abbiano di per sé lo stesso valore. – È vero che tutti gli atti virtuosi debbano essere vivificati dalla carità per essere meritori, ma questo da solo non basta a metterli sullo stesso piano. Gli organismi viventi non sono tutti paragonabili per vigore e finezza di forma, anche se l’anima che li anima è ugualmente perfetta in tutti. E, per prendere a prestito da San Francesco di Sales uno dei suoi paragoni più graziosi, il sole, pur dando a tutti i fiori la colorazione brillante di cui erano privi nell’oscurità, non ne eguaglia tuttavia i colori o la bellezza. Illuminati diversi tipi di fiori nella stessa luce, la rosa e il giglio manterranno i loro privilegi. Così come la carità per quei fiori profumati dell’anima che sono le virtù. Lungi dal privarli del posto d’onore che spetta loro in virtù della loro natura, essa li perfeziona ciascuno secondo la sua misura e il suo grado; così che, sotto la stessa luce, il merito non è lo stesso, mentre l’eccellenza nativa è diversa. Ciò non impedisce, tuttavia, come abbiamo già spiegato, che un atto particolare della virtù più umile possa prevalere su un’opera di una virtù superiore, quando sia una più grande carità a darle vita. Così, questo piccolo fiore ci affascinerà di più con il suo alone di luce rispetto ad un altro, sarà più elegante nella forma e più ricco di colori, appena illuminato da un debole chiarore. (Ecco come il Dottore Angelico riassume in un unico testo tutta la questione della misura del merito: « Quanto majori charitate et gratia actus informatur, tanto magis est meritorius; similiter, quanto magis est voluntarius, plus habet de ratione meriti; similiter etiam, quanto magis objectum est arduum, tanto magis actus est meritorius. » II, D. 29, q. 1, a. 4).

4. – Non concluderò queste spiegazioni senza aggiungere qualche parola sulla gloria di questo Stato religioso oggi così perseguitato nel mondo. Il Dottore Serafico, San Bonaventura, d’accordo in tutto e per tutto con il suo amico Angelico, sembra aver pensato che la sola presenza della carità non sia sufficiente a trasformare in merito le azioni più ordinarie della vita. Per lui, come per la Scuola Francescana in generale, ci sono atti deliberati che sono indifferenti, non solo per la loro natura specifica, su cui tutti concordano, ma nella loro realtà individuale. Si tratta, per esempio, delle azioni del mangiare, del bere, del camminare per svago; tutte quelle, in una parola, che l’infermità della natura ci richiede. Tali azioni, non avendo alcun carattere di moralità per un uomo ragionevole, non potrebbero diventare meritorie che per il fatto stesso che l’agente porta in sé la grazia e vive nell’amicizia di Dio (S. Bonav., in II, D. 41, a. 1, q. 3). Ma accanto a questa dottrina, che è in contrasto con il sentimento più comune delle altre scuole, ne insegna un’altra che eleva infinitamente il privilegio della vita religiosa. Traduco il brano parola per parola, per non indebolirne il significato e la forza. – Il Santo parla del rapporto che le nostre opere devono avere con l’onore di Dio per essere meritevoli. « Questa relazione – egli dice – si trova nei religiosi per il fatto stesso che, all’inizio della loro vita religiosa, hanno fatto professione di portare il giogo del Signore per amore di Dio. Infatti, tutte le loro opere senza eccezione, intendo quelle che appartengono all’osservanza religiosa, sono, in virtù della loro prima intenzione, meritorie di salvezza, a meno che, Dio non voglia, non si verifichi un’intenzione contraria » (Id. Ibid.). Vogliamo sapere fino a che punto può estendersi il dominio dell’osservanza religiosa? Impariamo questo da San Tommaso d’Aquino, dato che San Bonaventura non l’ha detto esplicitamente. Contro la tesi secondo cui l’intera perfezione della vita religiosa consista nell’osservazione dei tre voti, sorge una difficoltà. È che, tra la povertà, l’obbedienza e la castità che rientrano nel voto, ci sono per i religiosi molti altri esercizi: il lavoro, la preghiera, le veglie ed il resto. – Al che il santo Dottore risponde: « Tutte le osservanze della vita religiosa sono ordinate a questi tre voti principali. Infatti, se ci sono azioni che si riferiscono al sostentamento della vita corporea, come lavorare o chiedere l’elemosina, esse sono collegate alla povertà, poiché è per conservarla che i religiosi si procurano le necessità della vita. Se altre pratiche, come il digiuno, la veglia e simili, servono a macerare il corpo, chi non vede che abbiano come fine diretto l’osservanza del voto di castità? Infine, se ci sono pratiche istituite per ordinare gli atti dei religiosi al fine della religione, cioè all’amore di Dio e del prossimo, come la lettura, lo studio, la preghiera, la visita agli ammalati e cento altre cose dello stesso genere, tutto questo è compreso nel voto di obbedienza, la cui funzione propria è quella di dirigere, sotto la direzione di un altro, sia la volontà che l’azione dei religiosi verso il fine comune. » (S: Thom, 2. 2, q. 186, a. T7, ad 2). È dunque a tutto questo che si estende per il religioso l’influsso della carità primordiale che gli ha dettato i suoi voti, sia per rendere meritoria ciascuna di queste azioni, secondo il sentimento di San Bonaventura, sia per dare loro un merito più abbondante, secondo la dottrina di San Tommaso d’Aquino. Vogliamo anche sottolineare che gli stessi atti, oltre al valore meritorio che deriva loro dalla virtù particolare a cui appartengono, ricevono universalmente un altro valore ancora più eccellente dalla virtù della religione, che li ha fatti propri attraverso i voti? Infine, devo dire che c’è un altro punto di vista sotto cui la professione religiosa porta a coloro che l’hanno giurata un ammirevole aumento di merito? Ricordiamo che un atto è tanto più nostro, e quindi più degno di premio o di punizione, quanto più proviene da una volontà più ancorata al male o più fissata nel bene. – Ecco perché i peccati più grandi, quelli che più di ogni altra cosa distolgono la fonte delle grazie, sono i peccati di pura malizia. Chiamo con questo nome i peccati in cui la passione, l’ignoranza, la debolezza, l’allenamento e la sorpresa hanno una parte minore; quelli che vengono commessi freddamente, deliberatamente, con pieno possesso di sé e con una chiara visione dell’ingiuria fatta a Dio. Tale fu il peccato degli angeli ribelli; e tale è anche la ragione per cui, per una sola ribellione, essi meritarono un castigo più terribile degli uomini sfortunati che scendono all’inferno dopo una lunga serie di peccati inescusabili. Ora, cosa fa la professione religiosa, o meglio, cosa diventa la volontà sotto l’influenza e la virtù dei voti religiosi? È liberamente fissata nella necessità morale di fare bene, di agire secondo le regole della perfezione: così fissata che toglie a se stessa il potere di omettere senza prevaricazione ciò che altri possono, liberamente e senza dispiacere, rifiutare al loro Dio. – Dopo questo, che si dica che la professione religiosa conti poco per la perfezione; che si aggiunga addirittura che dove non c’è voto, l’omaggio offerto alla maestà divina è più spontaneo, più volontario, e di conseguenza altrettanto meritorio, se non di più; ascolterò i nostri due grandi Dottori da cui ho tratto la mia dottrina, e considererò falso e pernicioso ogni sentimento contrario (S. Thom, Opusc. de perfectione vitæ spirit…), Questo opuscolo è scritto contro vari errori, uno dei quali è formulato in questo modo: « È più meritorio compiere le opere di virtù di propria volontà, senza la necessità imposta dall’obbedienza o dal voto, che compierle sotto la pressione dell’una o dell’altra. » Allora San Tommaso emette questo giudizio: « È evidente che questa tesi è contraria a ciò che la Chiesa universalmente pratica e insegna! Perciò deve essere rimproverata come eresia » (Ibidem). Riassumiamo con una bella esortazione dell’Apostolo tutto ciò che abbiamo scritto sulla crescita spirituale per mezzo del merito. « Cresciamo in ogni cosa in Colui che è il nostro capo e la nostra testa, Cristo, operando la verità nell’amore. – Veritatem autem facientes in caritate, crescamus in illo per omnia, qui est Caput Christus » (Ef. IV, 15). – San Paolo ha mostrato come il fine di tutte le grazie, i privilegi e i ministeri comunicati con tanta liberalità alla Chiesa di Dio sia la consumazione dei Santi e l’edificazione del Corpo mistico. Membri di Cristo in formazione, cosa dobbiamo fare? Questo è l’incoraggiamento alla crescita spirituale ed è anche la sua legge fondamentale: non crescerà in Cristo chi non è ancora parte di Cristo. Pertanto, se vogliamo meritare questa crescita dell’uomo interiore, del membro di Gesù Cristo, viviamo prima in Gesù Cristo, cioè conserviamo in noi quella grazia santificante e unificante che ci rende membra vive di Cristo. Crescamus in illo….. qui est caput Christus. – Ma con quali movimenti avverrà la nostra crescita; facciamo, pratichiamo la verità. Sta a noi praticare e fare; questi movimenti devono quindi essere nostri, liberi. Pertanto, poiché solo la libertà può portarli sotto il nostro dominio, Facientes veritatem; facciamo la verità, cioè opere rivestite di bontà morale. Nelle nostre Sacre Lettere, il peccato è la menzogna. Ogni uomo è bugiardo, cioè, in misura maggiore o minore, è soggetto a peccare, soggetto al peccato (Sal. CXV, 11).  « Figli di uomini. Perché seguite le vanità e abbracciate la menzogna? » (Salmo, IV, 3. Vedi il Commento di Sant’Agostino, L. I, c, 4, p. 48). Quindi, per necessaria opposizione, praticare la verità significa compiere azioni buone e virtuose, in conformità alla regola della ragione e a quella della fede. Veritatem facientes. Fare la verità nella carità; Veritatem facientes in charitate. Non vedete un’altra condizione necessaria perché le nostre opere siano meritorie? Infatti, agire nella Carità non è forse agire sotto la sua influenza, la sua direzione, il suo impulso benefico? Così, facendo liberamente la verità nella carità, cresciamo in Cristo. E quale sarà la portata di questa crescita? Crescamus per omnia. Cresciamo in tutte le cose e attraverso tutte le cose: nessuna eccezione. In tutte le opere, se operiamo la verità nell’amore. Un piccolo aumento nel piccolo, un grande aumento nel grande, ma sempre un aumento, per omnia. – Infine, non ci sono limiti fissi ai quali dovremmo dire: “Basta così, mi fermo”. Crescamus in illo. Quando il membro di Cristo sarebbe così perfetto da eguagliare la perfezione della testa, o che il corpo non potrebbe ammettere, senza disgrazia, questo sviluppo in una delle sue parti? Il limite finale sarà fissato solo dalla nostra negligenza o dalla morte, che sola ci immobilizzerà per l’eternità nel Corpo glorioso del Cristo.