DOMENICA XVII DOPO PENTECOSTE
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
Semidoppio. – Paramenti verdi.
La storia di Tobia che si legge nell’Officio divino a questa epoca, coincide spesso con questa Domenica. Sarà dunque cosa utile, continuare a studiare la Messa in relazione col biblico racconto. Tobia sarebbe vissuto, sembra, sotto il regno di Salmanasar, verso la fine del secolo VIII prima di Cristo, al tempo della deportazione degli Israeliti in Assiria. Come Giobbe, questo santo personaggio, diede prova di costanza e di fedeltà a Dio in mezzo a tutte le sue afflizioni. « Non abbandonò mai la via della verità, distribuendo ogni giorno quanto poteva avere ai fratelli e a quelli della sua nazione, che con lui erano in prigionia e, quantunque egli fosse il più giovane nella tribù di Nephtali, nulla di puerile riscontravasi nei suoi atti ». Il Salmo dell’Introito può essergli applicato, poiché parla di un adolescente che fin dai suoi più teneri anni ha camminato nella legge del Signore. Fino dagli anni della sua fanciullezza, dice la Sacra Scrittura, « Tobia osservava ogni cosa conformemente alla legge di Dio. Sposata una donna della sua tribù, per nome Anna, ne ebbe un figlio cui diede il proprio nome e al quale insegnò fin dall’infanzia a temere Iddio e ad astenersi da ogni peccato. Condotto prigioniero a Ninive, Tobia di tutto cuore si ricordò di Dio, visitando gli altri prigionieri e dando loro buoni consigli, consolandoli e distribuendo a tutti del proprio avere, secondo quello che poteva. Nutriva chi aveva fame, vestiva quelli che erano nudi, e seppelliva con cura quelli che erano morti o che erano stati uccisi ». Dio permise che venisse cieco, affinché la sua pazienza servisse di esempio alla posterità come quella del sant’uomo Giobbe. « Avendo sempre temuto il Signore fin dalla sua infanzia ed avendo osservato i suoi comandamenti, non si rattristò contro Dio per essere stato colpito da questa cecità, ma rimase fermo nel timore di Dio, rendendogli grazie tutti i giorni della sua vita ». « Noi siamo figli dei santi, soleva dire, e attendiamo quella vita che Dio deve dare a coloro che non hanno mai cambiato la loro fede verso di Lui ». E poiché sua moglie insultava alla sua disgrazia, Tobia proruppe in gemiti e cominciò a pregare con lagrime (Allel. ), dicendo parole che sono identiche a quelle dell’Introito: «Tu sei giusto, Signore, tutti i giudizi tuoi sono equi e tutti i tuoi disegni sono misericordiosi. Ed ora, o Signore, trattami secondo la tua volontà ». E, parlando a suo figlio Tobia, disse: « Figlio mio, abbi sempre in mente Dio tutti i giorni della tua vita, e guardati bene dall’acconsentire ad alcun peccato. Fa elemosina dei tuoi beni e non distogliere il tuo volto dal povero. Sii caritatevole in quel grado che puoi e quello che ti dispiacerebbe fosse fatto a te, guardati bene dal farlo ad altri ». Questo precetto dell’amore di Dio e del prossimo e la sua attuazione sono inculcati dall’Epistola e dal Vangelo: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, tutta l’anima tua e tutto il tuo spirito, e il prossimo tuo come te stesso » (Vang.). « Camminate in umiltà, dolcezza e pazienza, sopportandovi a vicenda con carità, sforzandovi di mantenere l’unità di spirito nei vincoli della pace » (Ep.). Tobia mandò suo figlio presso Gabelo a Rages, sotto la guida dell’Arcangelo Raffaele. Per via, l’Angelo disse a Tobiolo di prendere un pesce che lo aveva voluto divorare e di serbarne il fegato per scacciare ogni specie di demoni e gli indicò inoltre il mezzo per prendere in moglie Sara, senza che il demonio, che aveva già uccisi i suoi primi sette mariti, potesse fargli del male. « Il demonio, spiegò l’Arcangelo, ha potere su coloro che nel contrar matrimonio bandiscono Dio dal loro cuore e ad altro non pensano se non a soddisfare la loro passione ». L’Orazione prega Iddio di dare al suo popolo la grazia di evitare i contatti diabolici, « affinché possa con puro cuore essere unito a te solo che sei il suo Dio ». « Come figli di Dio, noi non possiamo, dissero Tobia e Sara, sposarci come pagani, che non conoscono Dio », e « pregarono insieme istantemente il Signore che ha fatto il cielo e la terra, il mare, le sorgenti ed i fiumi con tutte le creature che contengono ». E Dio « benedisse il loro matrimonio, come aveva benedetto quello dei patriarchi, affinché essi avessero dei figli della stirpe di Abramo » (Graduale). Tobia ritornò con Sara e guarì suo padre dalla cecità e questi allora intonò un cantico di ringraziamento, una specie di Benedictus o di Magnificat, nel quale scoprì le grandiose aspettative messianiche: « Gerusalemme tu castigata per le sue opere malvagie, ma essa brillerà di fulgida luce e si rallegrerà nei secoli dei secoli. Dai lontani paesi verranno verso lei le nazioni, portandole delle offerte e adoreranno in essa il Signore. Maledetti saranno coloro che la disprezzeranno e quelli che la bestemmieranno saranno condannati. Beati, continua egli, coloro che ti amano! lo sarò felice se qualcuno della mia stirpe sopravvivrà per vedere lo splendore di Gerusalemme. Le sue porte saranno di zaffiri e di smeraldi e tutta la cinta delle sue mura sarà di pietre preziose. Tutte le pubbliche piazze saranno lastricate di pietre bianche e pure e nelle strade si canterà: Alleluia. La rovina di Ninive è vicina, poiché la parola di Dio non resta senza effetto ». È questo il « cantico nuovo che troviamo nel Salmo del Graduale « Dio è fedele alla sua parola; Egli dissipa i progetti delle nazioni e rovescia i consigli dei principi. Beato il popolo che Egli ha scelto per suo retaggio. Palesa, o Signore, la tua misericordia su di noi, secondo la speranza che abbiamo posta in te ». E il Salmo del Communio aggiunge: « Dio ha infranto tutte le forze nemiche, i re superbi sono stati abbattuti e i loro eserciti distrutti. Offrite dunque sacrifizi di ringraziamento a questo Dio terribile », poiché, continua l’Offertorio, « Egli ha gettato uno sguardo favorevole sul popolo in favore del quale il suo Nome è stato invocato ». – Gerusalemme, ove il popolo di Dio regna e ove affluiscono tutte le nazioni per lodare il Signore, è il regno di Dio, è la Gerusalemme celeste. Tutti vi sono chiamati con una comune vocazione a formarvi « un solo corpo », la Santa Chiesa, che è una nuova creazione, dice S. Gregorio Magno, e che è animata da « un solo Spirito, una sola speranza, un solo battesimo e una sola fede in un solo Signore » (Epistola). È Gesù Cristo, Figlio di Dio e Figlio di David, che il « Dio unico e Padre di tutti gli uomini, ha fatto sedere alla sua destra fino al giorno in cui tutti i suoi nemici, vinti, saranno sgabello ai suoi piedi ». Questo Dio « sia benedetto nei secoli dei secoli » (Epistola). – L’unità della nostra fede, del nostro battesimo e delle nostre speranze, come pure dello Spirito Santo, di Cristo e di Dio Padre, dice S. Paolo, fa a tutti noi un dovere di essere uniti dai vincoli della carità, sopportandoci a vicenda.
Il comandamento di Dio di amare il prossimo è simile a quello che ci fa amare Dio, poiché è per amor suo che amiamo il prossimo. « Doppio è il comandamento, dichiara S. Agostino, ma una è la carità ». E per consolidare il suo insegnamento agli occhi dei farisei, Gesù Cristo dà loro, in un testo di David, una prova della sua divinità. Dobbiamo dunque, nella fede e nell’amore, essere uniti a Cristo Gesù. « Interrogato circa il primo comandamento, Gesù rivela il secondo, che non è inferiore al primo, facendo loro comprendere che lo interrogavano soltanto per odio, poiché … la carità non è invidiosa » (I Cor. XIII, 4). Egli dimostra inoltre il suo rispetto per la legge ed i profeti. Dopo aver risposto, Cristo interrogò a sua volta, e dimostra che pur essendo figlio di David, ne è il Signore, essendo Egli il Figlio unico del Padre, e li spaventa dicendo che un giorno avrebbe trionfato su tutti coloro che si oppongono al suo regno, poiché Iddio farà dei suoi nemici sgabello ai suoi piedi. Con ciò dimostra la concordia e l’unione che esiste fra Lui e il Padre » (S. Giov. Crisostomo – Mattutino).
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confiteor
Confíteor Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
S. Misereátur nostri omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis nostris, perdúcat nos ad vitam ætérnam.
R. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.
V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
Introitus
Ps CXVIII: 137;124
Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secúndum misericórdiam tuam.
[Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]
Ps CXVIII: 1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.
[Beati gli uomini retti: che procedono secondo la legge del Signore.]
Justus es, Dómine, et rectum judicium tuum: fac cum servo tuo secundum misericórdiam tuam.
[Tu sei giusto, o Signore, e retto è il tuo giudizio; agisci col tuo servo secondo la tua misericordia.]
Kyrie
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
Gloria
Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.
Oratio
Oremus.
Da, quǽsumus, Dómine, populo tuo diabólica vitáre contágia: et te solum Deum pura mente sectári.
[O Signore, Te ne preghiamo, concedi al tuo popolo di evitare ogni diabolico contagio: e di seguire Te, unico Dio, con cuore puro.]
Orémus.
Commemoratio Ss. Angelorum Custodum
Deus, qui ineffábili providéntia sanctos Angelos tuos ad nostram custódiam míttere dignáris: largíre supplícibus tuis; et eórum semper protectióne deféndi, et ætérna societáte gaudére.
[O Dio, che con provvidenza ineffabile ti degni di inviare i tuoi angeli a nostra custodia: concedi a noi, che ti supplichiamo, di essere sempre difesi dalla loro protezione, e di goderne l’eterna compagnia].
Per Dóminum nostrum Jesum Christum, Fílium tuum …
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes IV: 1-6
“Fatres: Obsecro vos ego vinctus in Dómino, ut digne ambulétis vocatióne, qua vocáti estis, cum omni humilitáte et mansuetúdine, cum patiéntia, supportántes ínvicem in caritáte, sollíciti serváre unitátem spíritus in vínculo pacis. Unum corpus et unus spíritus, sicut vocáti estis in una spe vocatiónis vestræ. Unus Dóminus, una fides, unum baptísma. Unus Deus et Pater ómnium, qui est super omnes et per ómnia et in ómnibus nobis. Qui est benedíctus in sæcula sæculórum. Amen.”
[“Fratelli: Io prigioniero nel Signore vi scongiuro che abbiate a diportarvi in modo degno della vocazione, cui siete stati chiamati, con tutta umiltà e mansuetudine, con pazienza, sopportandovi con carità scambievole, solleciti di conservare l’unità dello spirito nel vincolo della pace. Un sol corpo e un solo spirito, come siete stati chiamati a una sola speranza per la vostra vocazione. Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è sopra tutti, che opera in tutti, che dimora in tutti. Egli sia benedetto nei secoli dei secoli. Così sia.”]
LA VOCAZIONE.
Come sono solenni e dense di significato le poche battute con cui si apre il brano domenicale della Epistola agli Efesini! Vi scongiuro, — dice l’Apostolo, e perché lo scongiuro sia più efficace e commovente, si chiama prigioniero di Dio (in Dio), — a camminare degnamente in quella che è la vostra vocazione. E il pensiero corre subito alla « vocazione » di Cristiani, quali erano proprio e tutti i suoi primi, immediati lettori. C’è sotto alle parole dell’Apostolo, una grande, una nobilissima idea di questa vocazione cristiana. È Iddio che chiama i suoi figli dalle tenebre del paganesimo, dalla penombra della religione naturale, alla luce del Cristianesimo. Ogni Cristiano è un chiamato da Dio. Molti lo hanno dimenticato, lo dimenticano. Credono che l’essere Cristiani sia la cosa più naturale del mondo: che si nasca Cristiani come si nasce bimani o bipedi, che la vocazione sia un privilegio di pochi, e precisamente di quei pochi che si avviano al Sacerdozio, oppure entrano in un Monastero. Idee piccole e false. Dio ci ha chiamati, tutti e ciascuno, noi Cristiani alla Religione nostra, al Cristianesimo, al Vangelo che è e rimane una grazia! Ci vuole Lui Cristiani. Manda i Suoi apostoli a battezzarci, a istruirci, a convertirci. Nobilissima vocazione, perché Dio ci chiama nel Cristianesimo mercè del Battesimo, ci chiama ad essere suoi figlioli: « ut fili Dei nominemur et simus. » Basta pronunciare bene, sillabando, meditando, questa parola fili Dei, per capire l’altezza di questa dignità e la gravità degli obblighi che ne conseguono. Bisogna rendersi, in qualche modo, degni del nome e del carattere di figli, ricevuti nel Santo Battesimo, con la bontà delle opere. Bisogna vivere da figli di Dio; vivere veramente da buoni Cristiani. C’è qui tutto un programma, riassunto ancor più largamente nelle parole di un Santo Pontefice, grande anima romana e cristiana, San Leone Magno: — Riconosci, o Cristiano, la tua dignità, e, diventato partecipe della natura divina (non è forse il figlio della stessa natura del padre?) non volere con una condotta degenere tornare all’antica bassezza e viltà. — Sentiamola questa dignità di Cristiani oggi meglio d’allora, oggi dopo quasi duemila anni di esperienza, dopo che, con la loro vita, milioni di Santi e di Eroi, ci hanno mostrato che cosa può produrre di eroico il Vangelo in un’anima, in una società. Diventare Cristiani col Battesimo, oggi, vuol dire ricevere una eredità gloriosa di bene, inserirsi in una corrente luminosa, calda, satura di ciò che vi è al mondo di più sacro e più augusto. E ciò non toglie che ciascuno di noi abbia anche una vocazione, una destinazione, una destinazione provvidenziale in un altro senso. Perché ognuno è chiamato poi dal Padre a servirLo in modo speciale. Nella Casa del Padre, ci sono molte mansioni, o funzioni, come in tutte le case bene ordinate, e ciascuno ha la sua, e tutte sono materialmente diverse ma tutte sono spiritualmente belle e nobili, perché nulla è ignobile nella casa del Padre Celeste, Iddio. E noi dobbiamo stare al nostro posto, fedeli e valorosi come soldati che montano la guardia, e lavorano, e combattono, sapendo di contribuire veramente a una sola, grande vittoria: la vittoria di Dio.
P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.
(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)
Graduale
Ps XXXII: 12;6
Beáta gens, cujus est Dóminus Deus eórum: pópulus, quem elégit Dóminus in hereditátem sibi.
[Beato il popolo che ha per suo Dio il Signore: quel popolo che il Signore scelse per suo popolo.]
Alleluja
Verbo Dómini cœli firmáti sunt: et spíritu oris ejus omnis virtus eórum. Allelúja, allelúja
[Una parola del Signore creò i cieli, e un soffio della sua bocca li ornò tutti. Allelúia, allelúia]
Ps CI: 2
Dómine, exáudi oratiónem meam, et clamor meus ad te pervéniat. Allelúja.
[O Signore, esaudisci la mia preghiera, e il mio grido giunga fino a Te. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum Matthæum.
Matt. XXII: 34-46
“In illo témpore: Accessérunt ad Jesum pharisæi: et interrogávit eum unus ex eis legis doctor, tentans eum: Magíster, quod est mandátum magnum in lege? Ait illi Jesus: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo et in tota ánima tua et in tota mente tua. Hoc est máximum et primum mandátum. Secúndum autem símile est huic: Díliges próximum tuum sicut teípsum. In his duóbus mandátis univérsa lex pendet et prophétæ. Congregátis autem pharisæis, interrogávit eos Jesus, dicens: Quid vobis vidétur de Christo? cujus fílius est? Dicunt ei: David. Ait illis: Quómodo ergo David in spíritu vocat eum Dóminum, dicens: Dixit Dóminus Dómino meo, sede a dextris meis, donec ponam inimícos tuos scabéllum pedum tuórum? Si ergo David vocat eum Dóminum, quómodo fílius ejus est? Et nemo poterat ei respóndere verbum: neque ausus fuit quisquam ex illa die eum ámplius interrogare”.
[“In quel tempo, accostandosi i Farisei a Gesù, avendo saputo com’Egli aveva chiusa la bocca ai Sadducei, si unirono insieme: e uno di essi, dottore della legge, lo interrogò per tentarlo: Maestro, qual è il gran comandamento della legge? Gesù dissegli: Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, e con tutta l’anima tua, e con tutto il tuo spirito. Questo è il massimo e primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti pende tutta quanta la legge, e i profeti. Ed essendo radunati insieme i Farisei, Gesù domandò loro, dicendo: Che vi pare del Cristo, di chi è egli figliuolo? Gli risposero: di Davide. Egli disse loro: Come adunque Davide in ispirito lo chiama Signore dicendo: Il Signore ha detto al mio Signore: Siedi alla mia destra, sino a tanto che io metta i tuoi nemici per sgabello ai tuoi piedi? Se dunque Davide lo chiama Signore, come è Egli suo figliuolo? E nessuno poteva replicargli parola; né vi fu chi ardisse da quel dì in poi d’interrogarlo”.]
Omelia
(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano).
AMORE DI DIO
Nella legge ebraica si contavano generalmente 613 comandamenti. Come si faceva a ricordarli tutti e, peggio, ancora, a metterli in pratica? Di qui le lunghe discussioni per conoscere quali fossero gli indispensabili da sapere e da osservare. Un legista, meravigliato della saggezza con cui Gesù chiudeva la bocca ai suoi maligni nemici, si rivolse a lui per farsi indicare il comandamento più importante. « Il massimo e primo comandamento — gli rispose — è questo: ama il Signore Dio tuo con tutte le tue forze di mente, di cuore, di opere. Il secondo poi è simile al primo: ama il prossimo come te stesso. Tutti i precetti della Legge, tutte le prescrizioni dei profeti sono riassunti in questi due comandamenti d’amore ». Si badi bene come il Vangelo unisce sempre l’amore del prossimo all’amor di Dio; e S. Giovanni l’evangelista vi ha scorto una relazione così intima da giudicarli veramente inseparabili (I Giov., IV, 20-21). Per questa volta noi fermiamo l’attenzione soprattutto sull’amor di Dio. – Un principe russo, camminando per una strada campestre, si imbatté in una contadina che reggeva in braccio un bambino e lo allattava. Ella era ancor giovane e il bambino poteva avere sei settimane. D’improvviso la donna mandò un grido di gioia: per la prima volta da che era nato, il bambino aveva sorriso a sua madre, incominciando a riconoscerla. Il principe vide allora la contadina guardare in alto e farsi devotamente il segno della croce: « Perché fate questo? » le chiese. Ed ella gli rispose: « Come una mamma è lieta allora che scopre il primo sorriso del suo bambino, così Dio gioisce ogni volta che dall’alto dei cieli scorge un atto d’amore » (Cfr.: L’idiota di Dostoievsky). Dio è amore; e l’amore è il sorriso con cui gli uomini cominciano a riconoscerlo come Padre. Perciò egli vuole che essi lo amino con tutta la loro mente, il loro cuore, con tutte le loro opere. 1. CON TUTTA LA MENTE. Per amare davvero Dio con tutta la mente, occorrono tre cose: a) Bisogna tenerla sgombra da ogni pensiero vano o cattivo. L’amore di Dio, nella nostra mente è come la stella luminosa, incoraggiante, orientatrice; ma i pensieri vani o cattivi sono come la nebbia e le nuvole che soffocano quel mite splendore sotto una coltre opaca. Ricorderò un profittevole fatto storico. I Medici, potente famiglia che teneva la signoria di Firenze, avevano imprigionato e condannato a morte nel 1512 un cittadino di nome Pier Paolo Boscoli perché ardente repubblicano com’era, aveva congiurato contro di loro. Dovendo egli morire, sul punto estremo fu avvicinato dal famoso artista Luca della Robbia che lo confortava a rassegnarsi e raccomandarsi a Dio. Ma il Boscoli che aveva letto moltissimo e aveva la mente ingombra di idee rivoluzionarie assorbite man mano leggendo, non riusciva a fissare il suo pensiero nel Signore, e gemeva: « Deh, Luca, cavatemi dalla testa quelle scene e quelle idee, acciò ch’io possa almeno morire da Cristiano! » (« Arch. Stor. It. », I, 1842, pagg. 289-290). Come possono pretendere di vivere da Cristiani, quelli che hanno la mente piena delle figure invereconde viste al cinematografo, o sui giornali, degli intrecci impudichi di tante novelle e romanzi, delle parole equivoche e oscene raccolte nei crocchi degli amici? È impossibile che riescano a pregare con qualche raccoglimento, con qualche consolazione. b) Bisogna pensare spesso al Signore. « Vi capita di restar lungo tempo senza pensare a Dio? » fu domandato un giorno a S. Francesco di Sales; ed egli con semplicità poté dare questa risposta: « Quasi un quarto d’ora ». A un’eguale domanda, che cosa potremmo rispondere noi: Forse appena due volte, una volta al giorno; forse appena una volta alla domenica quando veniamo a Messa, se pur non si è anche allora distratti; forse da qualcuno si sta dei mesi senza ricordarsi di Dio. Eppure, non mancano, nella giornata, frequenti occasioni di pensare al Signore. Tutti almeno due volte al giorno dobbiamo sollevare a Lui la nostra mente: al mattino e alla sera. Poi, secondo l’ammonimento di S. Paolo, dobbiamo sforzarci di ricordare il Signore più spesso che possiamo: prima e dopo i pasti, prima e dopo il lavoro, nella gioia e nel dolore, e specialmente nel momento della tentazione. Così spontaneamente fa chi ama una creatura, e così dobbiamo fare noi se amiamo il nostro divin Padre e Creatore. c) Bisogna cercare di conoscerlo sempre più e sempre meglio. Chi ama con tutta la sua mente il Signore frequenta la dottrina cristiana, studia il catechismo, legge il Vangelo o qualche buon libro che parla di Lui, della sua Chiesa, dei Santi, dei Missionari. – 2. CON TUTTO IL CUORE. S. Agostino, predicando al suo popolo d’Ippona, dopo d’aver spiegato la bontà del Signore, uscì in questa domanda: « V’ha al mondo, o fratelli, qualche cosa che voi non sapreste sacrificare all’’amor di Dio? Se da una parte voi aveste radunati tutti i tesori, tutti i piaceri, tutti i beni del mondo, e, avendo dall’altra Iddio, foste costretti nell’alternativa di perdere o Uno o gli altri, che fareste voi? » A tali parole un grido potente, unanime si sollevò da tutta l’assemblea: « Vadano i beni della terra, ma ci resti Dio — Maneat nobis Deus, pereant universa! ». Quel popolo amava Dio con tutto il cuore; poiché amar qualcuno con tutto il cuore vuol dire preferirlo a tutto e a tutti. Dio non lo si può amare se non con questo amore di esclusiva preferenza perché Egli vale più d’ogni altro bene. Bisogna dunque amarlo più di qualsiasi fortuna; e se il suo amore lo esige, bisogna essere preparati a rinunciare a qualsiasi guadagno. Non possediamo noi qualche cosa che invoca il suo vero padrone? Non c’è nel nostro lavoro, nel nostro commercio, nella nostra industria qualche profitto ingiusto? Se così fosse, l’amor di Dio, ne esige subito la rinuncia e la riparazione. Bisogna amarlo più di qualsiasi onore; per quanto ambito e grande sia; e se ci sono degli onori che sono per noi occasioni di peccato, e che si possono conservare solo conculcando la coscienza, l’amor di Dio ne esige la rinuncia. Bisogna amarlo più di qualsiasi affetto umano anche del più caro e tenero: e se tra i nostri affetti ve ne fosse qualcuno che non s’armonizza con l’amore di Dio, che sia riprovato e condannato dall’amore di Dio, bisogna combatterlo, soffocarlo, strapparlo dal nostro cuore senza indulgenza. Oh, so bene tutte le sottili ragioni, tutti i pretesti che si possono addurre e di fatto s’adducono per giustificare certe amicizie, certi affetti pericolosi: ma io vi dico appoggiato sopra una esperienza che non sbaglia e sopra la voce della vostra stessa coscienza invano soffocata, che i vostri sono pretesti e non vi scusano. Se voi conservate il diritto di esserci, voi contendete il vostro cuore a Dio, voi lo dividete, fate delle parti illegittime, Dio è totalitario: o lo si ama con tutto il cuore, o non lo si ama per niente. – 3. CON TUTTE LE OPERE. L’amor di Dio deve essere « operoso », cioè non lo si può e non lo si deve far consistere in semplici parole, in sospiri, in formule meccaniche di preghiera, ma nelle opere. Non è raro il caso di udire anime buone lamentarsi così: « Ho l’amor di Dio, ma: io non lo sento!… ». Non c’è bisogno di sentirlo, perché non è richiesto l’amor « sensibile », ma è richiesto l’amore « operoso ». Le vostre opere vi diranno se davvero amate Dio, poiché la prova infallibile dell’amore non sono le parole, bensì i fatti. « Non chiunque dirà: Signore, Signore; ma chi farà la volontà del Padre celeste, entrerà nel regno dei cieli » (Mt., VII, 21); « chi osserva i miei comandamenti, è quello che mi ama » (Giov., XIV, 21). E bisogna osservare tutti i comandamenti, perché bisogna amare Dio con tutte le opere. Non ama Dio con tutte le opere quel giovane fedele negli altri comandamenti, ma non nel sesto. Non amano Dio con tutte le opere quegli sposi, anche buoni in molti punti ma non in quello d’accettare la legge di Dio nel matrimonio. Non amano Dio con tutte le opere quei padroni che, benché devoti e onesti, sfruttano l’operaio, ricompensandolo così scarsamente che non gli è possibile una vita civile e decorosa. Non amano Dio con tutte le opere quelli che potendolo non soccorrono i poveri, gli ammalati, gli afflitti. Questo della elemosina e del conforto verso i fratelli bisognosi è il segno più sicuro del vero amor di Dio. – Prima che il Beato Giovanni Colombini si convertisse, sua moglie Biagia dei Carretani aveva pregato tanto perché il marito si desse a miglior vita. Giovanni non era uomo delle mezze misure, il poco o la metà per lui non contavano: o tutto o nulla. E quando si volse a Dio, si diede a Lui con tanta interezza di pensiero, di cuore e di opere che la moglie rimasta nella sua mediocrità spirituale non poteva capirlo: « Non sei stata forse tu a pregare perché mi convertissi? ». « Sì; — ella rispose — ma io pregavo che piovesse non che venisse il diluvio ». La psicologia di quella donna, è pur quella di tanti Cristiani. Vorrebbero essere buoni ed amare Dio per quel tanto che basta, secondo la loro opinione, a tacitare la coscienza e scampare dall’inferno; ma non fino al punto di rinunciare anche a tutti i comodi e piaceri, specialmente a qualche abitudine o affetto caro sopra ogni altro! Il Vangelo insiste sulla necessità d’un amore totalitario a Dio. « Amerai il Signore Dio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente ». — AMORE DEL PROSSIMO. Quando una persona cara è sull’atto di partire, per una lontananza che forse sarà senza ritorno, con quale batticuore si godono le ultime parole! Le ultime parole in cui, chi le dice, mette il suo cuore e la sua volontà per sempre; e colui che le ascolta le porta con sé come una preziosissima eredità per sempre. Giuda era uscito e la notte s’era fatta in giro al cenacolo. C’era Gesù che stava per partire da questo mondo e diceva le ultime parole ai suoi « Figliuolini! ». Non li aveva mai chiamati così; questa espressione di suprema tenerezza aveva voluto riservarla per l’ora della separazione. « Figliuolini, sono gli ultimi momenti che sto con voi; poi mi cercherete invano. Prima di partire vi lascio il mio comandamento nuovo: amatevi tra di voi » (Giov., XIII, 33). Nel Vangelo di questa Domenica v’è un’altra scena importante. È un dottore della legge che domanda a Gesù: « Maestro, qual è il più gran comandamento? ». E a lui Gesù: « Amerai il Signore con tutte le tue forze. Ma v’è un altro comandamento simile a questo: amerai il tuo prossimo come te stesso ». Nessuno può amare Dio, se prima non ama il suo prossimo. Coloro che non hanno carità verso i loro fratelli, s’illudono d’amare il Signore. Ecco perché Gesù Cristo, morendo non ha ricordato l’amore a Dio, ma solo l’amore al prossimo. Ecco perché Gesù ha detto che i suoi discepoli si riconosceranno non per l’amore di Dio, ma dall’amore che porteranno al prossimo. Ecco perché S. Giovanni Evangelista vecchio predicava continuamente così: « Figliuolini, amatevi tra di voi ». E quando gli uditori stanchi gli chiesero: « E poi? » rispose semplicemente: « E poi, basta ». Diliges proximum tuum. In che modo si ama il prossimo? Non a parole, ma coi fatti: con l’aiutarci e compatirci. – 1. AIUTARCI. S. Paolino incontrò una volta una donna che piangeva sconsolatamente. Ella aveva un unico figliuolo, e le era stato fatto prigioniero, e non aveva un soldo per liberarlo. Il santo che non aveva denari, né roba, nulla fuor che la sua persona, si esibì a quella povera mamma per essere egli stesso venduto, così, col prezzo ricavato, potesse poi liberare il figlio. Fu accettata la proposta e S. Paolino venduto schiavo, per molto tempo fece l’ortolano. Ma poi si venne a conoscere la sua santità e il padrone impietosito lo liberò. Ecco come i santi sanno interpretare il gran comandamento della carità: fino all’eroismo dei più forti sacrifici. Se noi per il nostro prossimo non siamo stati capaci mai di patire qualche cosa, non possiamo dire d’amarlo. È vero: non sempre è possibile ad ognuno far quello che ha fatto S. Paolino, ma quanti mezzi noi abbiamo per aiutare il nostro prossimo, che non abbiamo usato mai! Anzitutto la preghiera. S. Teresa, fanciulletta ancora, aveva udito parlare di un gran delinquente, di nome Pranzini, condannato a morte per orrendi delitti. La sua impenitenza faceva anche temere della sua eterna salute. Allora la piccola santa cominciò a pregare perché quello sventurato prima di morire sì convertisse e salvasse così la sua anima dall’inferno. L’indomani della esecuzione della sentenza, ella aperse con tremore il giornale. Il Pranzini era salito sul patibolo senza confessione, senza assoluzione; già i carnefici lo trascinavano verso il punto fatale, quando, come riscosso a un tratto da. una improvvisa ispirazione, Si volta, afferra un Crocifisso presentatogli da un sacerdote, e bacia tre volte quelle santissime piaghe. Nella nostra piccola esperienza possiamo anche noi conoscere qualche persona che vive nei peccati; magari è una persona di casa nostra, del nostro paese. Invece di mormorare, di calunniare, di fingerci scandalizzati, preghiamo Iddio che le usi misericordia, che la tocchi nel cuore e la converta. La preghiera è il primo aiuto che noi possiamo dare al prossimo, ed è il più utile, il più importante, perché se noi possiamo far qualche cosa e con stento, Dio può far tutto e in un attimo. Anche con il consiglio, dobbiamo aiutare il nostro prossimo. San Sebastiano, nascostamente, ogni giorno scendeva nelle carceri ad esortare i Cristiani al martirio. Quando s’accorse che i due fratelli Marco e Marcelliano, inteneriti dalle lagrime dei parenti, avevano paura di morire per la fede di Cristo, così li consigliò: « Fratelli eccovi già vicini alla meta gloriosa e voi volete tornare indietro? I pianti di una donna e le grida de’ vostri figli vi faranno dunque cadere dal capo una corona gloriosa? ». A queste parole i due fratelli si rincorarono al martirio. Una buona parola, un amorevole eccitamento, un saggio consiglio suggerito con bel modo, e a tempo opportuno, può portar frutti più abbondanti che non un intero quaresimale. Un consiglio buono è più prezioso dell’oro e dell’argento; è una guida esperta in una strada oscura. V’è una fanciulla che usa una moda immorale, oh, se una compagna umilmente e con amore la consigliasse ad allungare le vesti come bene avrebbe messo in pratica il gran comandamento. C’è quella donna che è troppo leggera? V’è quella nuora che è in una rissa eterna? V’è quel giovane che perde la Messa? V’è quell’uomo che bestemmia? Consigliamoli saggiamente, e senza pretesa. Noi avremo fatto un’opera di amore verso il prossimo. Infine, aiutiamo il prossimo con le opere. Quando vediamo, una persona che ha bisogno della nostra mano, del nostro soldo, non facciamoci rincrescere. Ricordiamoci che noi facciamo un piacere non a una persona di questo mondo, ma a Gesù Cristo stesso. Tito imperatore alla sera di ogni giorno passato senza un’opera buona di misericordia esclamava tristemente: « Ho perduto una giornata ». E costui era un pagano. Quanti Cristiani giungendo al termine della loro vita dovran forse dire: « Ho perso tutta la mia vita ». – 2. COMPATIRCI. V’è una paraboletta molto espressiva in proposito. Lungo una via domandavano l’elemosina un povero cieco e un povero zoppo. Il cieco gridava: fate la carità al cieco che non ha occhi per vedere la sua strada. Lo zoppo gridava: fate la carità allo zoppo che non ha gambe per fare la sua strada. La disgrazia era gravissima da entrambe le parti. Ma un giorno il cieco disse allo zoppo: « Io non vedo, ma ho le gambe molto buone, tu non hai buone le gambe, ma la tua vista è ottima. Tra tutti e due abbiamo dunque l’occorrente per rimediare in parte alla nostra sventura. Facciamo così: io ti prenderò in spalla, e tu camminerai colle mie gambe ed io vedrò con i tuoi occhi ». La proposta fu bella e accettata; e da quel momento, il cieco prestando le gambe allo zoppo e lo zoppo prestando gli occhi al cieco, formarono un gruppo d’amore vicendevole che girava per il mondo. – S’io fossi un pittore dipingerei in un quadro quelle due dolci creature e poi vorrei che in tutte le case ve ne fosse una copia: in tutte le case, dove ci sono nuore e suocere che non si vogliono bene, in tutte le case, dove ci sono fratelli in lite coi fratelli, cognati in lite coi cognati, vicini coi vicini. Sarebbe una bella esortazione ad amare il nostro prossimo tollerandoci a vicenda i difetti come il cieco tollerava il peso dello zoppo e lo zoppo tollerava la cecità del cieco. S. Agostino ha una piccante osservazione: nell’arca di Noè, durante il diluvio erano raccolte tutte le specie più diverse di animali, domestici e feroci. Eppure, tutti erano in pace. In molte famiglie invece, dove sono tutti uomini, figli di Dio e creati per il Cielo vi è un vero serraglio di belve. Perché? Perché manca il compatimento vicendevole. Non dobbiamo attendere ai difetti del prossimo, ma alle sue virtù, che non son poche; non dobbiamo osservare che è zoppo, ma che ha la vista buona. Del resto ricordiamoci che pur noi abbiamo difetti, e ben grossi quantunque non li conosciamo: che se il prossimo cammina male perché zoppo, noi razzoliamo peggio perché ciechi. – Il povero re di Roma, il pallido figlio di Napoleone I, dovette passare dolorosamente i pochi anni della sua giovinezza in Austria. Il ministro Metternich quando voleva scoraggiare l’Aquilotto, gli mostrava che non aveva nulla di suo padre, nulla che lo rendesse capace di governare. « Voi avete il cappello, ma non la testa di vostro padre! ». A quanti che si dicono Cristiani si potrebbe ripetere l’acerbo rimprovero: « Tu hai il nome, ma non il cuore di Gesù Cristo ». Perché? Perché non sai né aiutare né compatire il tuo prossimo. — CHE VE NE PARE DI CRISTO? I sadducei e i farisei erano giunti a tentare Gesù. Il Maestro, con poche ma ardenti parole, ribatté ogni loro ragionamento, poi, Egli stesso rivolse a’ suoi tentatori una terribile domanda: « Che ve ne pare di Cristo? Di chi è Figlio? ». Qualcuno ardì rispondere: « Di Davide ». Gesù incalzò: « Di Davide, tu dici? Allora, e perché Davide lo chiama suo Signore? ». Più nessuno osò fiatare. A noi, venuti venti secoli dopo, il Maestro rivolge la medesima domanda: « Quid vobis videtur de Christo? ». Cosa che fa stupire: oggi, in cui si parla di fratellanza universale; in cui, senza filo, possiamo comunicare da un estremo altro della terra; in cui, sorpassato ogni confine di monte e di mare, l’uomo in poche ore vola sopra le nazioni e congiunge i continenti, basta rivolgere questa domanda: « che ve ne pare di Cristo » per mettere gli uomini in contraddizione tra loro. Aveva ragione, il candido vecchio che nel tempio aveva consumato la sua vita aspettando il Messia, quando, stringendolo tra le braccia, esclamava: « Ecco il segno della contraddizione: e molti avranno per lui la vita, e molti avranno per lui la morte ». Gesù stesso dirà di sé la medesima cosa: « Venni al mondo per un giudizio: quei che non hanno la vista l’acquisteranno, quei che hanno la vista la perderanno » (Giov. IX, 39). E voleva dire che le anime umili saranno da Cristo illuminate, mentre i superbi da lui saranno accecati. Il crocifisso che domina il mondo, che domina i troni e le potenze della terra, come già una volta sul Calvario è il segno della divisione. Chi lo bestemmia, chi lo ignora, chi lo contempla con amore. « Quid vobis videtur de Christo? ». A questa domanda gli uomini rispondono in un triplice modo: odio, ignoranza, amore. – 1. ODIO. Un giorno del 1797, un ufficiale, passando non lontano dalla città d’Aosta, incontrò nel fondo di una torre in rovina, un disgraziato che vi dimorava da anni, privo d’ogni compagnia. « Che fate qui? » disse il militare. « Sono gli uomini, che non mi possono vedere » gemette l’infelice. Dopo aver scambiate alcune parole, l’ufficiale gli domandò il suo nome. « Il mio nome? » rispose il solitario « ah, il mio nome è terribile. Mi chiamano il Lebbroso ». Cristiani! io conosco qualcuno che fin nell’ultimo villaggio trascorre i suoi giorni nella solitudine, dove l’odio degli uomini cerca di confinarlo. Se domandate il suo nome, quello che un angelo portò dal cielo per lui, è Gesù; ma in terra, l’hanno chiamato con un nome terribile: il Lebbroso. Tale, infatti, lo vide il profeta… putavimus eum quasi leprosum. (Is., LIII, 4). E della sua storia si può dire quanto l’ufficiale diceva di quello d’Aosta: « È una lacrima, una lacrima continua ». — In antico, quando all’alba un lebbroso si lasciava sorprendere presso l’abitato, tutti, urlando, lo cacciavano a sassate. Ed a sassate i nemici della religione hanno cercato d’allontanare Cristo dalla società. E lo hanno cacciato dai comuni, ove insegnava a reggere i popoli: e via l’hanno cacciato dalle scuole ove benediceva la crescente gioventù; e via l’hanno cacciato dai tribunali, ove insegnava la giustizia. Perfino dagli ospedali l’hanno cacciato via, dove gli infermi lo cercavano sulle squallide pareti perché lenisse il loro dolore. — In antico, quando un lebbroso s’avvicinava, per bisogno, agli uomini, doveva segnalare la sua venuta col suono della raganella, e chiunque lo udiva, correva lontano, temendo il contagio. Oggi, quando Gesù esce come Viatico dei morenti nelle vie dei nostri paesi, e il chierichetto davanti l’annunzia col suono del campanello, ecco ripetersi l’antica scena di obbrobrio; tutti fuggono, tutti deviano, tutti, se possono, si nascondono dietro i portoni, per non vederlo, per non salutarlo: il Lebbroso! — « Le mie delizie sono tra i figliuoli degli uomini » ha detto il Signore; ma i figliuoli degli uomini ripetono l’urlo di Voltaire: « schiacciamo l’infame »; e i figliuoli degli uomini l’hanno scomunicato dalla loro società. E Gesù è costretto a ritirarsi in solitudine, perché le bestemmie e il turpiloquio offendono pubblicamente le sue sante orecchie, perché una moda sfacciata e scandalosa, ad ogni passo, offende la sua purissima pupilla, quella che pur guardando convertiva i cuori; è costretto a ritirarsi dalle nostre case e dai nostri cuori perché sono diventati luoghi di peccato. « Quid vobis videtur de Christo? ». — Via! via! crucifiggilo — rispondono gli uomini. – 2. IGNORANZA. Quando Giovanni cominciò a battezzare sulle rive del Giordano, a tutti balenò il sospetto ch’egli fosse il Messia. I Giudei da Gerusalemme mandarono una legazione di sacerdoti e di leviti a interrogarlo. Ma il Battista rispose: « Ecco il Messia è già tra voi: e non lo sapete ». Medius vestrum stetit quem vos nescitis (Giov., I, 26). Questo è il rimprovero che meriterebbero ancora non pochi Cristiani. Dite a loro: « Che ve ne pare di Cristo? ». Sgranerebbero gli occhi come a rispondere: « E che ce ne importa? ». Vivono perciò nell’indifferenza della religione, e quando hanno soddisfatto alle brame del loro corpo, non desiderano più nulla. Cristo è venuto sulla terra e per trent’anni col suo esempio, e per tre anni con la sua parola ci ha istruiti: e ci ha detto chi è Dio e quanto ci ama e che vuole da noi e come si fa ad amarlo e servirlo. Ma gli uomini, che pur sanno tante e tante cose per il loro corpo, non sanno nulla per la loro anima. E non desiderano di sapere, anzi non vogliono sapere; e il solo pensiero di ascoltare una predica, una spiegazione della dottrina cristiana, li fa morir di noia. Ignorano Cristo, perché ignorano il suo Vangelo. Cristo è venuto sulla terra nostra e ha istituito mirabili sacramenti, tra cui il sacramento del perdono, che da colpevoli ci ritorna innocenti, da maledetti ci fa figliuoli di Dio. Ha pure istituito il sacramento che nutrisce l’anima di un cibo soprasostanziale, che fortifica e santifica: questo cibo è la carne stessa, il sangue vero di Cristo nell’Eucaristia. Eppure, gli uomini non lo sanno, Non vengono mai a confessarsi, a comunicarsi; solo qualche volta all’anno, e malamente. Ignorano Cristo, perché ignorano i suoi sacramenti. Cristo è venuto sulla terra nostra debole e bambino avvolto in panni, Lui che è Dio d’eserciti; è venuto nel freddo e nelle tenebre, Lui che ha creato il sole ed ogni fuoco; e pativa fame e sete, Lui che ha cibo per ogni uccello dell’aria e per ogni giglio della valle. E poi si lasciò tradire, e volle essere umiliato, crocefisso. Eppure, gli uomini ignorano tutto questo, perché non amano che i piaceri dei sensi, le ricchezze del mondo, il cibo e le vesti. Ignorano Cristo, perché non sanno quanto Cristo ha patito per loro. Perciò ha detto bene S. Giovanni (I, 10) in principio del suo Vangelo; « In mundo erat et mundus eum non cognovit ». – 3. AMORE!. Fortunatamente però ci furono e ci sono anime che alla domanda: « Quid vobis videtur de Christo », rispondono: « Amore ». Da quel giorno che Pietro ruppe in quel grido: «Tu sei il Cristo, figlio di Dio”, una lunga schiera d’anime sante hanno saputo rendere a Cristo testimonianza vera, con sacrificio e con sangue, e soprattutto con amore. Furono dapprima i martiri che morivano per Lui; pallidi e sanguinanti, tra la vita e la. morte, il loro ultimo palpito era, sempre l’amore di Cristo. È santa Caterina d’Alessandria che davanti ai sapienti parla di Gesù; e poiché tentavano di persuaderla ch’era follia, lei ricca e giovane, adorare un povero ed oscuro Nazareno, la coraggiosa fanciulla gridò: « Cristo è Dio; e chi crede in Lui vivrà anche se muore ». E porse il suo vergine corpo ai tormenti del martirio. Vennero poi i vergini e le vergini che per amore di Gesù, rinunziarono ad ogni amore terreno. È sant’Agnese che alla profferta di un giovane nobile e potente rispose ch’ella amava il Signore con tanta forza che più non le restava amor di creatura. È S. Filippo Neri che nella festa di Pentecoste fu preso da un impeto d’affetto così forte per Gesù Cristo, che il suo cuore non seppe contenersi e ruppe due coste. È S. Teresa che nel monastero d’Avila vide un serafino che le punse il cuore con un dardo d’oro dalla punta infuocata: e da quel giorno non visse che per celeste ardore. Desiderava di morir mille volte per convertire i peccatori; piangeva sulla iniquità degli uomini e si flagellava per ripararle; era insaziabile di dolore e ripeteva sotto i portici del chiostro: O patire o morire. In fine, consumata dal fuoco divino in Alba di Termez morì d’amore per Cristo. Anche ai nostri tempi vivono di queste anime generose e sante, e non sono appena frati e monache; ma anche giovani, come Domenico Savio che preferiva la morte ma non il più piccolo peccato; ma anche uomini, come il professore Contardo Ferrini che si ebbe gli onori dell’altare. E noi, noi che cosa ne pensiamo di Cristo? A parole, certo, tutti diciamo che è Figlio di Dio: ma coi fatti, con la vita nostra quotidiana, che cosa pensiamo di Cristo? Nella notte della passione, il principe dei sacerdoti osò domandare a Cristo cosa egli pensasse di sé. «Ti scongiuro, per Dio vivo, se tu sei figlio di Dio, dillo! ». E Gesù rispose: « L’hai detto ». Allora il principe dei sacerdoti si stracciò i vestimenti. Cristo aggiunse: « Verrà giorno e mi vedrai, seduto alla destra di Dio, giudicare dalle nubi i vivi ed i morti ». In questa vita, come già l’ipocrita Caifa, possiamo pensare quel che vogliamo noi di Cristo. È libero calunniarlo; è libero avvoltolarci nella polvere e nel fango dei vizi, stracciare coi peccati la veste dell’anima che è la grazia santificante. Ma quando lo vedremo sulle nubi, nella maestà, tra gli Angeli, calare verso noi a giudicarci, che cosa potremo pensare di Lui, allora?
Offertorium
Orémus
Dan. IX: 17;18;19
Orávi Deum meum ego Dániel, dicens: Exáudi, Dómine, preces servi tui: illúmina fáciem tuam super sanctuárium tuum: et propítius inténde pópulum istum, super quem invocátum est nomen tuum, Deus.
[Io, Daniele, pregai Iddio, dicendo: Esaudisci, o Signore, la preghiera del tuo servo, e volgi lo sguardo sereno sul tuo santuario, e guarda benigno a questo popolo sul quale è stato invocato, o Dio, il tuo nome.]
Secreta
Majestátem tuam, Dómine, supplíciter deprecámur: ut hæc sancta, quæ gérimus, et a prætéritis nos delictis éxuant et futúris.
[Preghiamo la tua maestà, supplichevoli, o Signore, affinché questi santi misteri che compiamo ci liberino dai passati e dai futuri peccati.]
Commemoratio Ss. Angelorum Custodum
Súscipe, Dómine, múnera, quæ pro sanctórum Angelórum tuórum veneratióne deférimus: et concéde propítius; ut, perpétuis eórum præsídiis, a præséntibus perículis liberémur et ad vitam perveniámus ætérnam.
[Accogli, O Signore, i doni offerti in onore dei tuoi santi angeli; e concedici propizio, per la loro continua protezione, di essere salvi dai pericoli presenti e di raggiungere la vita eterna].
Præfatio
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.
de sanctissima Trinitate
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:
[È veramente degno e giusto, conveniente e salutare, che noi, sempre e in ogni luogo, Ti rendiamo grazie, o Signore Santo, Padre Onnipotente, Eterno Iddio: che col Figlio tuo unigénito e con lo Spirito Santo, sei un Dio solo ed un solo Signore, non nella singolarità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza. Cosí che quanto per tua rivelazione crediamo della tua gloria, il medesimo sentiamo, senza distinzione, e di tuo Figlio e dello Spirito Santo. Affinché nella professione della vera e sempiterna Divinità, si adori: e la proprietà nelle persone e l’unità nell’essenza e l’uguaglianza nella maestà. La quale lodano gli Angeli e gli Arcangeli, i Cherubini e i Serafini, che non cessano ogni giorno di acclamare, dicendo ad una voce:]
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.
Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:
Pater noster,
qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.
Agnus Dei
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.
Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
Communio
Ps LXXV: 12-13
Vovéte et réddite Dómino, Deo vestro, omnes, qui in circúitu ejus affértis múnera: terríbili, et ei qui aufert spíritum príncipum: terríbili apud omnes reges terræ.
[Fate voti e scioglieteli al Signore Dio vostro; voi tutti che siete vicini a Lui: offrite doni al Dio temibile, a Lui che toglie il respiro ai príncipi ed è temuto dai re della terra.]
Postcommunio
Orémus.
Sanctificatiónibus tuis, omnípotens Deus, et vítia nostra curéntur, et remédia nobis ætérna provéniant.
[O Dio onnipotente, in virtù di questi santificanti misteri siano guariti i nostri vizii e ci siano concessi rimedii eterni.]
Orémus.
Commemoratio Ss. Angelorum Custodum
Súmpsimus, Dómine, divína mystéria, sanctórum Angelórum tuórum festivitáte lætántes: quǽsumus; ut eórum protectióne ab hóstium júgiter liberémur insídiis, et contra ómnia advérsa muniámur.
[O Signore, abbiamo ricevuto i divini misteri nella lieta festa dei tuoi santi angeli; concedici che per la loro protezione, siamo sempre liberi dagli assalti dei nemici e difesi contro ogni avversità.]
Per Dóminum nostrum Jesum Christum …
PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)