LA DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (9)

M. M. PHILIPPON

LA DOTTRINA SPIRITUALE DI SUOR ELISABETTA DELLA TRINITÀ (9)

Prefazione del P. Garrigou-Lagrange

SESTA RISTAMPA

Morcelliana ed. Brescia, 1957.

CAPITOLO TERZO

L’INABITAZIONE DELLA TRINITÀ

(III)

6) L’esercizio della carità è ancora più necessario di quello della fede. Queste due grandi virtù teologali sono le due ali che ci elevano fino a Dio: credere non basta, bisogna amare… soprattutto’ amare!… Suor Elisabetta della Trinità, come tutti i santi, ha sottolineato fortemente questo primato dell’amore, su cui lo stesso divino Maestro insisteva tanto, facendo risalire la legge, i Profeti e tutti i comandamenti di Dio, a questo primo precetto: «Israele, ascolta… tu amerai il tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze» (S. Marco, XII, 29-30 – Deuteronomio, VI-4).Ci troviamo, qui, al punto culminante della dottrina cristiana; è bene fermarci un istante. Niente ci commuove tanto come il constatare con quale fedeltà gli Apostoli, i Padri della Chiesa, i Dottori tutti hanno insistito, senza stancarsi mai, su questo precetto del Signore, il precetto che la Chiesa tramanda a tutti i secoli, senza ripetersi mai. San Giovanni, posando sul petto del Maestro, ne aveva compreso la divina profondità; e quivi si riassumeva, per lui, tutto l’insegnamento di Gesù. Divenuto un vegliardo venerando, il precetto dell’amore era sempre sulle sue labbra, e ai circostanti che, talvolta, se ne stupivano, egli dette una risposta degna del discepolo prediletto: « È il comandamento del Signore; e questo solo basta » (San Gerol.: Galati. Libro III, cap. VI, P. L. XXVI-433). San Paolo insegnava la stessa dottrina quando scriveva: « Camminate nell’amore » (Ephes. V,, 2). «La carità è la pienezza della legge» (Romani, XIII-10.). È noto il celebre motto di sant’Agostino: « Ama et fac quod vis. Ama, e poi fa’ ciò che vuoi »; e dopo di lui, san Bernardo, nel suo trattato: « De diligendo Deo » ripeteva che « la misura di amare Dio è di amarlo senza misura ». San Domenico, patriarca di una grande famiglia intellettuale, confessava: « Ho studiato nel libro della carità più che in ogni altro libro: l’amore insegna tutto » (Vitæ fratrum, lib. II, cap 5). E san Tommaso, brevemente: « L’amore è la vita dell’anima » (San Tommaso II-II, q. 23, a. 2 ad 2.). C’è bisogno di altre citazioni? Tutto il linguaggio dei santi non è che una parafrasi del comandamento dell’amore. Santa Teresa affermava che, per le anime giunte alla vetta della perfezione, «l’unico ufficio è quello di amare » (« Castello interiore», VI e VII dimora. E san Giovanni della Croce: «Cantico », strofa XXVIII.). San Giovanni della Croce, il dottore dell’Amore più ancora che delle « Notti oscure », scriveva: « Al tramonto della vita, saremo giudicati sull’amore » (Silverio: Obras t. 3 p. 238). E dopo venti secoli, facendo eco alla grande parola del suo » Maestro: « Diliges (Matth. XXII, 37), vivi di amore », santa Teresa di Gesù Bambino ha lasciato al mondo moderno il suo bel cantico: « Vivere d’amore ». Equivale a dire che esso è la quintessenza del Cristianesimo; e san Francesco di Sales, nella prefazione al « Trattato dell’amore di Dio », suo capolavoro, dichiara: « Nella santa Chiesa, tutto è dell’amore, nell’amore, per l’amore e dall’amore ». La ragione è semplice: la carità ci stabilisce nello stato di amicizia con Dio. Tutte le ricchezze della Trinità divengono nostre per mezzo della grazia, e noi entriamo veramente in « società » col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo; ci è dato, così, il potere di « gioire » (San Tommaso I, q. 43, art. 3, ad 1) delle Persone divine. Questo commercio fra Dio e l’anima si svolge secondo le leggi più pure dell’amicizia: Dio si dona e ci comunica la sua propria beatitudine; l’uomo, in ricambio, ama Dio come un Amico, infinitamente più di se stesso, e pone la sua suprema felicità in quella del suo Dio. – Suor Elisabetta aveva fatto «sua» la dottrina del Maestro; e ritornava di preferenza alla frase di san Giovanni: « Noi siamo di quelli che hanno creduto all’amore ». Si può anzi affermare, senza timore di esagerazione, che essa aveva posto tutta la sua vita spirituale sotto la luce dell’« eccessivo amore » di cui parla san Paolo. « Sento tanto peso di amore sull’anima mia! È come un oceano nel quale mi inabisso, mi perdo; è la mia visione della terra, in attesa del «faccia a faccia» nella luce. Egli è in me; io sono in Lui; non ho che amarlo, lasciarmi amare; e questo sempre, in tutto e nonostante tutto: svegliarmi nell’amore, muovermi nell’amore, addormentarmi nell’amore, l’anima nell’anima sua, il mio cuore nel suo cuore, affinché il suo contatto mi purifichi, mi liberi dalla mia miseria… (Lettera al Canonico A… – Agosto 1903). « Notte e giorno, nel cielo dell’anima sua, ella vuol cantare l’amore del suo Dio » (Lettera al Canonico A… – Giugno 1906.). « Non ho più che un desiderio: amarlo, amarlo senza interruzione, zelare l’onore suo come una vera sposa, formare le sue delizie, renderlo contento, dandogli una dimora e un rifugio nell’anima mia, dove voglio fargli dimenticare, a, forza d’amore, tutte le abominazioni dei cattivi » (Lettera alla signora A… – 15 febbraio 1903). « Egli mi ha amato, si è dato per me» (Galati II, 20.). Questo, dunque, è il culmine dell’amore: donarsi, passare interamente in Colui che si ama; l’amore fa uscire di sé l’amante per trasportarlo, in un’estasi ineffabile, nel seno dell’amato. Oh, non è immensamente bello questo pensiero? Sia esso come un motto luminoso per le anime nostre; che esse si lascino in balìa dello Spirito d’amore e alla luce della fede, intonino già coi beati l’inno d’amore che eternamente si canta dinanzi al trono dell’Agnello. Sì, cominciamo il nostro cielo nell’amore. Quest’amore è Lui; ce lo dice san Giovanni: « Deus charitas est ». Rimaniamo nel Suo amore e che il Suo amore sia in noi » (Lettera alla signora A… – 15 febbraio 1904.). – Come Teresa di Gesù Bambino e forse sotto l’influenza ricevuta dalla lettura della « Storia di un’anima », anche ella ha trovato la sua vocazione nell’amore: «…Voglio essere santa, santa per farlo contento; chiedigli che io non viva più che di amore; è la mia vocazione » (Lettera a G. de G… – 20 agosto 1903.). « Credo sia proprio l’amore che non ci consente di rimanere a lungo quaggiù; e, del resto, san Giovanni della Croce lo dice chiaramente; ha un capitolo meraviglioso in cui descrive la morte delle anime vittime di amore, gli ultimi assalti che esso vibra loro, poi le onde fluenti dell’anima che va a perdersi nell’oceano del divino amore: onde che sembrano già dei mari, tanto sono immense. San Paolo dice che « il nostro Dio è un fuoco consumante » (Ebrei, XII-29). Se noi ci teniamo sempre unite a Lui con uno sguardo di fede semplice e piena d’amore se, come il nostro adorato Maestro, possiamo dire alla sera di ogni giornata: « Poiché amo il Padre, faccio sempre ciò che a Lui piace » (San Giovanni, VIII-29). Egli veramente ci consumerà, e noi andremo a perderci in quella immensa « fornace ardente » d’amore ove potremo bruciare a nostro agio per tutta quanta l’eternità » (97(A C. B. – 1906). – Nel momento in cui tutto muore in lei, si manifesta più fulgido che mai questo primato dell’amore. Riceve il sacerdote che le reca l’Estrema Unzione, esclamando: « 0 Amore!… Amore!… Amore!… ». Prima di volarsene al suo Dio, scrive ad una amica: « L’ora si avvicina, in cui sto per passare da questo mondo al Padre; e, prima di partire, voglio mandarvi una parola del cuore, un testamento dell’anima mia. Il cuore del divino Maestro non fu mai così traboccante d’amore come nell’ora suprema in cui stava per lasciare i suoi; e qualche cosa di analogo mi pare avvenga nella sua piccola sposa in questa sera della sua vita; sento quasi un fiume di tenerezza salire dal mio cuore per effondersi nel vostro cuore… Alla luce dell’eternità, l’anima vede le cose dal vero punto di vista; vede come tutto ciò che non è stato fatto per Dio e con Dio è nulla. Ponete su tutto, vi prego, il sigillo dell’amore: questo solo rimane » (Lettera alla signora De B… – 1906.). E lo stesso consiglio rivolge alle sue consorelle che, riunite attorno a lei morente, recitano le preghiere degli agonizzanti: « Al tramonto della vita, tutto passa; l’amore solo resta. Bisogna fare tutto per amore ». Per suor Elisabetta della Trinità, dunque, tutta la dottrina pratica dell’inabitazione divina si riassume in un continuo scambio di amore: « C’è un Essere che si chiama l’Amore e che vuole farci vivere in società con Lui » (Lettera alla mamma – 20 ottobre 1906.).

7) L’esercizio della presenza di Dio non è riserbato alle sole anime contemplative; la grazia del Battesimo mette la Trinità santa in ciascuna delle nostre anime. « Questa « parte migliore » che sembra essere un privilegio mio nella mia diletta solitudine del Carmelo, è offerta da Dio a ciascuna anima battezzata » (Lettera alla signora De S… – 25 luglio 1902.). Basta aderire a Lui con la fede, la carità, la pratica delle virtù cristiane. Alcuni credono che, per vivere alla presenza di Dio, si debbano tenere gli occhi chiusi e prendere un fare compassato. Niente di più ridicolo. Se è vero che la vita spirituale e, per conseguenza «il regno di Dio che è tutto interiore, non consiste nel cibo e nella bevanda » (Romani, XIV-17), come ci fa notare l’Apostolo san Paolo, tuttavia Egli stesso ci avverte che anche in questo noi possiamo lodare magnificamente il Signore. San Giovanni Bosco faceva le capriole insieme ai suoi ragazzi, e suor Elisabetta della Trinità sapeva, nelle ore di ricreazione, assumere con grazia atteggiamenti vari e scherzosi; eppure, né l’uno né l’altra perdevano, per questo, la presenza di Dio. L’essenziale sta nell’intenzione che bisogna custodire rivolta sempre a Lui, quanto più attualmente è possibile. E proprio qui incomincia la differenza fra i santi e noi. I santi, in tutte le loro azioni, cercano la gloria di Dio « sia che mangino, sia che bevano » (I Corinti, X-31), mentre molte anime cristiane non sanno più trovare Dio neppure nell’orazione, perché complicano tutto, e si immaginano che la vita spirituale sia qualche cosa di inaccessibile, riservata a un piccolissimo numero di anime previlegiate, dette « anime mistiche ». La vera mistica è quella del santo Battesimo, con lo sguardo alla Trinità e col sigillo del Crocifisso, cioè nella via ordinaria della croce quotidiana. Suor Elisabetta sapeva insistere su questo punto con le anime che le erano spiritualmente unite, ma che il Signore tratteneva nel mondo: «Voi vorreste essere tutta sua, quantunque nel mondo; la cosa è semplicissima: Egli è sempre con voi; siate voi pure sempre con Lui. In tutte le vostre azioni, in tutte le vostre pene, quando il corpo è affranto, rimanete sotto la luce del Suo sguardo, Scorgetelo vivente nell’anima vostra » (Lettera alla signora A… – 29 settembre 1902). Nulla può impedirci di aderire a Lui con l’amore, né le gioie né le tristezze della terra, né la salute né la malattia, né le lusinghe o la malizia degli uomini…, nulla; e «nemmeno i nostri peccati » (Ultimo ritiro – 7° giorno), aggiunge suor Elisabetta della Trinità, facendo eco all’espressione ardita di sant’Agostino, nel suo commento all’epistola di san Paolo ai Romani: « Tutto concorre al bene di coloro che vogliono amare Dio »; sì, tutto, « etiam peccata », anche il peccato; perché il perdono che lo assolve glorifica la divina misericordia, e perché la coscienza della propria debolezza che essa dà all’anima, la pone e la mantiene nell’umiltà. Suor Elisabetta non complica le cose. Per vivere di questo grande mistero dell’inabitazione divina essa non dà che un consiglio pratico: « Fare atti di raccoglimento alla Sua presenza ». « Mammina mia, approfitta della tua solitudine per raccoglierti col buon Dio. Mentre il tuo corpo riposa, pensa che è Lui il riposo dell’anima tua; e, come il bimbo è felice tra le braccia della mamma, così tu trova il tuo sollievo nelle braccia di quel Dio che da ogni parte ti avvolge. Noi non possiamo uscire da Lui, ma ahimè, quante volte dimentichiamo la sua santa presenza e lo lasciamo solo, per occuparci di ciò che non è Lui! Ed è invece così semplice questa intimità con Dio; non stanca, anzi riposa, come soave è il riposo del bimbo sotto lo sguardo della mamma. Offrigli tutte le tue pene; e sarà, questa, una maniera tanto bella di unirti a Lui, e una preghiera a Lui tanto cara » (Alla mamma – 30 luglio 1906). « Sai? c’è un’espressione, in san Paolo, che è come il riassunto della mia vita e che potrebbe applicarsi a ciascuno dei miei istanti: « Propter nimiam charitatem » (Efesini, II-4). Sì; tutti questi torrenti di grazia hanno un solo perché: « Perché Egli mi ha troppo amata ». « Oh, mamma, amiamolo, viviamo con Lui come con l’Essere amato da cui non è possibile separarsi! Mi dirai, nevvero?, se fai dei progressi nella via del raccoglimento alla presenza di Dio; perché tu sai ch’io sono la « mammina » dell’anima tua, quindi piena di sollecitudine per essa. Ricorda le parole del Vangelo: « Il regno di Dio è in voi » (San Luca, XVII, 21), ed entra in questo piccolo regno per adorarvi il Sovrano che vi risiede come nella propria reggia » (Lettera alla mamma – Giugno 1906). Per segnare questi atti di raccoglimento, suor Elisabetta le aveva preparato un coroncino e, in una lettera, si informava se la mamma era fedele nell’usarlo: « Dimmi se i piccoli grani degli atti di presenza di Dio scorrono fedelmente ».

8) Due lettere sono particolarmente rivelatrici dei metodi che usava lei stessa e della sua psicologia dinanzi a questo mistero dell’inabitazione divina che fu il tutto della sua vita. La prima è indirizzata ad una giovane amica, natura straordinariamente ricca, ma indole ancora capricciosa ed irrequieta che faceva soffrire chi le viveva accanto. Con tenerezza tutta materna, suor Elisabetta interviene: « Sì, Prego per te e ti porto nell’anima mia, vicina vicina al buon Dio, in questo piccolo santuario così intimo in cui Lo trovo ad ogni ora del giorno e della notte; vedi: io non sono mai sola; il mio Cristo è sempre qui che prega in me, ed io prego con Lui. Mi fai pena, mia piccola cara, perché sento che sei infelice; e lo sei per colpa tua, credimi. Mettiti calma: io non ti credo affatto « nevrastenica », ma snervata e sovreccitata; e quando sei così, fai soffrire anche gli altri. Oh, se potessi insegnarti il segreto della felicità come il Signore l’ha insegnato a me! Tu dici che io non ho né preoccupazioni, né dolori; ed è vero, che sono proprio felice; ma se tu sapessi come si può essere altrettanto felici, anche quando si è contrariati! Bisogna guardare sempre a Dio. Da principio costa molto sforzo, quando si sente ribollire tutto, di dentro; ma poi piano piano, a forza di pazienza e con l’aiuto della grazia, vi si giunge. Provati a edificare, come ho fatto io, una celletta nell’anima tua; e, pensando che lì c’è Dio, éntravi di tanto in tanto; quando ti senti nervosa, triste, rifugiati subito là e confida tutto a Gesù. Se tu lo conoscessi un poco, la preghiera non ti annoierebbe più; essa è un riposo, un sollievo, è un andare con tutta semplicità da Colui che amiamo, è uno starsene vicino a Lui come un bimbo nelle braccia della mamma, e lasciare effondere il proprio cuore. Ricordi?… Ti piaceva tanto sederti vicina a me e confidarmi il tuo cuore. Così devi fare con Lui; se tu sapessi come Egli ti comprende! Oh, se tu lo sapessi, non soffriresti più. Questo, vedi, è il segreto della vita Carmelitana, che è una incessante comunione con Dio. Se Egli non riempisse le nostre celle e i nostri chiostri, come tutto sarebbe vuoto! Ma noi Lo vediamo in ogni cosa, perché Lo portiamo in noi, e la nostra vita è un paradiso anticipato » ((7°) Lettera a F. de S… – 1904). – La seconda lettera è indirizzata alla mamma. Suor Elisabetta non soleva precipitare gli avvenimenti, né forzare le persone; ma sapeva attendere, pur senza negligenza l’ora di Dio. Ci volle il dolore prodotto dalla crisi che aveva fatto temere di perderla, per consentirle di entrare profondamente nell’anima della mamma sua e prenderne possesso. In una conversazione che credevano l’ultima, il cuore della mamma e quello della figlia, a lungo si erano incontrati e compresi fino a quel grado di intimità in cui coloro che si amano sentono che tutto sta per finire. Suor Elisabetta ne approfittò per iniziare la mamma sua che amava tanto al segreto della sua vita interiore; e fu per le loro anime il punto « di partenza di una forma di amicizia nuova, tutta divina, sotto lo sguardo di Dio. Il giorno dopo questo colloquio, le scrisse una lettera che si può considerare un vero, piccolo catechismo della presenza di Dio: « Se alcuno mi ama, custodirà la mia parola, e il Padre mio l’amerà, e noi verremo a lui e porremo in lui la nostra dimora » (San Giovanni, XIV-23). « Mammina mia tanto cara, oggi comincio la mia lettera con una dichiarazione. Sai! ti amavo già tanto, ma dopo il nostro ultimo colloquio, il mio affetto per te è cresciuto ancora, immensamente. Era così dolce espandere la propria anima in quella della mamma, e sentirle vibrare all’unisono! Mi pare che il mio amore per te sia, non soltanto quello di una figliola per la più buona e la più cara delle madri, ma anche quello di una mamma per la sua bimba. Io sono la mammina dell’anima tua; e tu me lo concedi, non è vero? Noi siamo in ritiro per prepararci alla festa di Pentecoste; ed io lo sono ancor più delle mie consorelle, qui, nel mio caro piccolo cenacolo, separata da tutte. Chiedo allo Spirito Santo di rivelarti quella presenza di Dio in te, della quale ti ho parlato. Ho esaminato per te dei libri che trattano questo argomento, ma preferisco rivederti, prima di darteli. « Presta pur fede alla mia dottrina, perché essa non è mia ». – « Se leggerai il Vangelo di san Giovanni, vedrai come spesso Gesù insiste su questo comando: « Rimanete in me. ed io in voi » (San Giovanni, XV-4.), e sul pensiero tanto bello che ho scritto al principio di questa mia lettera, nel quale Egli ci promette di « fare in noi la sua dimora ». Nelle sue epistole, san Giovanni ci esorta a vivere « in società con la Trinità Santa » (San Giovanni, I-3). Questa parola è così semplice, e così soave! Basta credere, ci dice san Paolo. « Dio è spirito »  (San Giovanni, IV-24) e noi ci avviciniamo a Lui mediante la fede. Pensa che l’anima tua è « il tempio di Dio » (Corinti, VI-16): è ancora san Paolo che te lo dice. Ad ogni istante del giorno e della notte, le tre Persone divine abitano in te; e, se non possiedi di continuo l’Umanità santissima come allorché ti comunichi, porti sempre però nell’anima tua la Divinità, quell’Essenza ineffabile che i beati adorano in cielo. Quando si sa tutto questo, si stabilisce fra Dio e noi una intimità adorabile; non si è più soli, mai. Se preferisci pensare che Dio è vicinissimo a te, piuttosto che in te, segui pure la tua attrattiva, purché tu viva con Lui. Non dimenticarti di usare il coroncino che ho fatto apposta per te, con tanto amore; e poi, spero che farai quelle tre orazioni di cinque minuti, nel mio piccolo santuario. – Pensa che tu sei con Lui; e comportati come con una persona che ti è molto cara; la cosa è tanto semplice: non c’è bisogno di bei pensieri, basta l’effusione del cuore » (Lettera alla mamma – Giugno 1906.).

9) Ma non si pensa poi, come si dovrebbe, che questa divina presenza recata all’anima cristiana dalla grazia del santo Battesimo è in continuo progresso. Ogni nuovo grado di grazia santificante porta una nuova presenza della Trinità (San Tommaso I, q. 43, a. 6, ad 2). Non già che Dio cambi: ma l’anima, facendosi sempre più divina, entra in comunicazioni sempre più intime con ciascuna Persona della Trinità Santa. Il Padre è più intimamente presente, a misura che la grazia di adozione comunica all’anima una somiglianza maggiore con la natura divina. Il Verbo diviene più presente all’anima, a misura che questa, illuminata dai Suoi doni, non sa più vedere le cose divine ed umane se non in Colui che è la Sapienza increata, la Luce sostanziale, l’eterno Pensiero in cui Dio esprime tutto ciò che Egli vede: la Trinità e l’universo. L’Amore è sempre più presente a misura che l’anima spogliandosi di se stessa e di ogni affetto terreno, non si lascia più guidare che dagli impulsi di questo Spirito il Quale compie in Dio il ciclo della vita trinitaria. La teologia non ha titubanze su questo punto nel suo insegnamento; ed afferma che la presenza della Trinità in un’anima, cresce nella misura delle grazie ricevute, specialmente in certi periodi in cui Dio viene a visitarla con grazie straordinarie: grazie della professione religiosa o del sacerdozio, grazie di purificazioni passive, grazie mistiche che elevano l’anima di grado in grado, fino all’unione trasformante. – Suor Elisabetta della Trinità non insiste su questa dottrina capitale e che regola tutto il progresso della nostra vita spirituale sulla terra; ma alla sua maniera, per un altro sentiero, la ritrova e le dà particolare rilievo. Scrive infatti: « Egli vuole che là dove è Lui, siamo anche noi, non solo durante l’eternità ma fin d’ora, nel tempo, che è l’eternità incominciata e in continuo progresso » (« Il paradiso sulla terra », I-1.).

DOTTRINA SPIRITUALE TRINITARIA (10)

LA GRAZIA E LA GLORIA (4)

LA GRAZIA E LA GLORIA (4)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO PRIMO

IL FATTO E LA REALTÀ DELL’ADOZIONE DIVINA

CAPITOLO III.

Preminenza molteplice dell’adozione divina rispetto alle adozioni umane.

È il momento di gettare uno sguardo all’indietro per mostrare con ciò che abbiamo visto come l’adozione divina differisca dalle adozioni umane. Adottare è concedere spontaneamente ad una persona estranea per origine, il titolo di figlio ed i diritti di erede. Con l’adozione perfetta il soggetto di questo favore entra così bene nella famiglia del padre adottivo che gode delle stesse prerogative come se gli appartenesse, non per privilegio, ma in virtù della sua nascita. Questo è ciò che Dio fa per amore, ed è così che ci adotta. Sì, entriamo nella sua famiglia benedetta, e per la sua grazia apparteniamo alla società del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Questa è la dottrina dei nostri Libri Sacri, e la nostra infinita consolazione e gloria è che non possiamo dubitarne, dopo tante solenni affermazioni. « Fedeli a Dio, per mezzo del quale siete stati chiamati alla Società con Gesù Cristo nostro Signore », scrive San Paolo ai fedeli di Corinto (1 Cor. I, 9). E S. Giovanni, l’Apostolo dell’amore: « Quello che abbiamo visto e udito ve lo annunciamo, perché entriate voi stessi in società con noi, e perché la nostra società sia con il Padre e con suo Figlio Gesù Cristo » (1 Gv. I, 3). Ma ammiriamo le differenze tra l’adozione umana e l’adozione divina, e vediamo come la seconda sotto ogni aspetto e da ogni punto di vista superi incomparabilmente la prima.

1. – In primo luogo, trovo che da parte di Dio l’adozione è infinitamente più spontanea, più un’opera d’amore, che da parte degli uomini. S. Agostino ci ha detto che ciò che ha introdotto l’adozione tra gli uomini sia stata o l’intimità naturale dei genitori, o la perdita e talvolta l’indegnità dei figli che Dio aveva dato loro. La natura rifiuta che i bambini, desiderati in casa, siano da lì portati via; lo si fa per scelta e per amore. Ci può essere qualche figlio, indegno del nome che porta, i cui crimini lo hanno estromesso dalla famiglia, come avviene ancora in Estremo Oriente: lo si rimpiazza con uno più degno, talmente che l’interesse proprio non abbia meno parte all’adozione che la benevolenza e l’amore. – Certamente, questo non è il caso del nostro grande Dio, quando vuole scegliere dei figli adottivi tra le sue creature. Da tutta l’eternità Egli ha generato un Figlio uguale a se stesso; un Figlio che delizia il suo cuore e riempie tutta la sua capacità di amare, così come esaurisce, per così dire, la fecondità del Padre; un Figlio, in una parola, che Egli ama e che lo ama di un amore tale che, amandosi, producono lo Spirito Santo, pegno e vincolo infinito del loro amore infinito. Qual dispiacere ha mai causato quest’Unico a suo Padre, e che bisogno Egli potrebbe avere di un altro figlio per essere eternamente felice, eternamente perfetto? Da dove viene, quindi, che avendo un Figlio, nato dalle sue viscere, un Figlio, l’oggetto più degno della sua indulgenza, Egli voglia tuttavia adottarci? Se non è ovviamente né l’indigenza né la necessità che vi obblighi, quale altra ragione può avere se non la sovrabbondanza infinita del suo amore? Certamente, l’Apostolo S. Giacomo ha detto con verità: “Voluntarie genuit nos“; Egli ci ha generati con la sua Volontà; una volontà libera, una volontà spontanea, una volontà gratuita ed amorosa, che lo ha portato a dare fratelli al suo Unico, e coeredi al diletto del suo cuore. (Bossuet, sermone per la festa del Rosario, 1° punto). – L’effusione della sua bontà non si ferma però qui. Non contento di unire al proprio Figlio i figli che adotta per misericordia, Dio consegna questo Figlio alla morte per dare alla luce gli adottivi. E non sono io a dire questo: è Gesù Cristo stesso che ce lo insegna nel Vangelo. « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, affinché quelli che credono non periscano, ma abbiano la vita eterna » (Joan. III, 15). Vedete: offre il Figlio proprio per far vivere i figli d’adozione, e la stessa carità che lo abbandona e lo sacrifica, ci adotta, ci rigenera e ci vivifica. Ecco, dunque, di nuovo la nostra adozione alla sua fonte: l’amore infinitamente disinteressato del Padre. – A questo si aggiunga l’amore non meno disinteressato del Figlio. Se è stato offerto dal Padre suo, Egli stesso si è offerto; e ognuno dei figli dell’adozione può e deve ripetere appresso a S. Paolo: « Se io vivo, anzi se Gesù Cristo vive in me… è perché Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal. II, 20). Quanto è vero, quanto è urgente l’invito dello stesso Apostolo ai Cristiani di Efeso: « Siate imitatori di Dio, come figli amati, e camminate nell’amore, come Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi come offerta a Dio e come Ostia di odore soave » (Efesini V, 1-2). « Egli ci ha volontariamente generati con il Verbo di verità », cioè, secondo un’interpretazione molto plausibile del testo, da suo Figlio. Se fossimo stati solo servi, sarebbe stata già una grazia incomparabile; ma schiavi per natura, eravamo ancor più una razza decaduta, ribelle, decisamente indegna dei favori divini. E di quanti oltraggi personali abbiamo aggravato l’ingiuria fatta a Dio per mezzo del capo e rappresentante della famiglia umana. Ed ecco su quale letamaio Dio stesso è venuto a prenderci, per elevarci al rango di principi del suo popolo (Sal. CXII, 7), cioè, tra i suoi figli adottivi che sono rimasti immutabilmente fedeli a Lui che li aveva creati nella giustizia.

2. – Più gratuita, più opera d’amore delle adozioni umane, l’adozione divina le sopravanza ancora in efficacia (S. Th., III p. q. 23, a, 1). Così è delle opere di Dio come della sue perfezioni. Quand’anche le une e le altre abbiano qualche rapporto con le nostre perfezioni e le opere delle nostre mani, esse sono sempre infinitamente superiori per la loro singolare eccellenza. Non devo mostrare qui quanto le perfezioni di Dio sorpassino le nostre: la Sapienza di Dio, la nostra sapienza; la sua giustizia, la nostra giustizia; la sua bontà, la bontà della creatura, per quanto grande noi supponiamo che sia. Ma per comprendere l’argomento che ci occupa, dobbiamo insistere sul confronto delle opere, o meglio ancora sui loro contrasti. Accanto alle creazioni di Dio, ci sono quelle che si chiamano le creazioni dell’uomo. I nomi sono comuni, ma nelle cose che differenza! L’atto creativo di Dio cerca il fine della sua attività fin dal nulla, mentre tutto il genio dell’uomo è impotente a fare dal nulla il più piccolo granello di polvere. – Dio e l’uomo possono affidare ad altri una parte della loro autorità, da esercitare sotto la loro dipendenza. Ma, se il Superiore è un uomo, l’azione con cui comunica il suo potere non penetra nelle profondità dell’essere per cambiarlo internamente; nessun perfezionamento fisico né nel corpo né nell’anima, risponde a questa comunicazione di autorità.  Tali non sono le attribuzioni di poteri fatte dalla munificenza del nostro Dio. Se dice all’uomo: «Tu dominerai sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su tutte le bestie che si muovono sulla faccia della terra », gli dà la ragione del governarli, del dirigerli ed usarli (Gen. I, 28). Se, in un ordine superiore, Egli vuole che gli uomini ricevano e conferiscano i sacramenti della Chiesa per la loro propria santificazione e per la salvezza dei loro fratelli, questo potere di riceverli e questo potere di conferirli comporta per i battezzati che ricevono e per i ministri del santuario che conferiscono, una perfezione altrettanto reale e altrettanto vera del nostro potere di conoscere e di volere, il carattere sacramentale. – L’uomo può insegnare all’uomo. Ma come insegna? Tutta la sua azione si riduce immediatamente a segni esterni. È una direzione per l’intelligenza del discepolo; ma la parola del maestro non arriva direttamente all’intelligenza per risvegliarla, rafforzarla, crearla. L’insegnamento che Dio dà alla sua creatura è diverso. Egli è il Maestro che illumina producendo in essa il potere stesso di conoscere e di sentire (Giovanni I, 9); il Maestro che penetra quanto vuole anche nelle ultime pieghe dell’intelligenza per far nascere nuove idee, le più alte, le più luminose, in assenza di qualsiasi segno, indipendentemente da qualsiasi concorso preventivo degli Organi, nel silenzio di tutto ciò che non è Lui. Nostro Signore ci dice dunque che Lui è il Maestro davanti al quale tutti gli altri maestri sono come se non lo fossero, Egli il grande, l’Unico Maestro della creatura ragionevole. « Non lasciatevi chiamare maestri, perché non avete che un solo Maestro, il Cristo » (Matt. XVIII, 10). – Dove ci conducono queste considerazioni, se non a concludere che la paternità, quando è Dio che si fa dei figli, debba prevalere in efficacia su ogni altra paternità di adozione. Perché l’uomo che adotta il suo simile non comunica nulla di intrinseco al bambino che fa suo, né la sua natura, poiché questo bambino è un uomo come lui; né le qualità che possono determinare la sua scelta, poiché questa scelta le suppone e le motiva. Impotente nel dargli una salute più fiorente, un Sangue più generoso e più puro, una mente più viva, non gli da altro con il suo amore che un titolo e dei diritti: il titolo di figlio, i diritti di erede. Ben diversa è la condotta e l’amore del nostro Dio, quando per la sua grazia si degna di allargare il cerchio della sua famiglia e di scegliere per sé dei figli di predilezione. Ed è questo che dobbiamo studiare più particolarmente, alla scuola del Dottore Angelico. San Tommaso fa notare che c’è una differenza essenziale tra l’amore del Creatore e quello della creatura. Ciò che muove la volontà dell’uomo è il bene che preesiste nelle persone o nelle cose; ne consegue che l’amore umano non causa la bontà di ciò che ama, ma la presuppone in parte o addirittura in tutto. Al contrario, l’amore di Dio produce il bene nel suo termine per renderlo degno della sua compiacenza. Ciò che ama in se stesso non è ciò che trova, ma ciò che porta. Amare, per Dio, è volere e fare il bene. Quando diciamo che Dio ha più o meno amore, il più o il meno non deve essere inteso nel senso di una maggiore o minore intensità nell’atto con cui ama: poiché Egli ama tutte le cose e se stesso con un solo e medesimo atto, sempre semplice e sempre immutabile, che non è altro che la sua stessa essenza. Ma questo più e questo meno si riferiscono ai beni che Egli conferisce a coloro che ama (S. Thom.1 p, q. 20 a. 2 e 3). – Perciò, per amare gli uomini con questo amore speciale che li rende figli di adozione, è necessario che Egli li trasformi arricchendoli di perfezioni interiori e molto reali, in relazione all’amore che porta loro e alla dignità che conferisce loro (S. Th. C. Gent. L. III, c. 150, n. 2; de Verit. Q. 27, a, 1). – E questo è chiaramente ciò che ci dicono sia la Sacra Scrittura che i nostri Dottori nei testi già citati. Come capire una nuova nascita, una rigenerazione, una creazione, un rinnovamento di tutti noi stessi senza un cambiamento interiore? È possibile riparare nell’uomo l’immagine di Dio, renderlo parte della natura divina, rifarlo, ricrearlo, rifondarlo (tutte espressioni usate dagli Scrittori Sacri e dai Padri), e non aggiungere nulla di reale al suo essere? No, senza dubbio (Sup. I, 1, c. 2, p. 18-31). Si può discutere sulla natura di questa sublime metamorfosi, e avremo occasione di scartare le opinioni meno sicure per sostituirle con la vera dottrina. Ma da questo momento si impone una Conclusione: l’adozione divina è eccellentemente più efficace di tutte le adozioni umane.

3. – In terzo luogo, aggiungiamo che è infinitamente fruttuoso. « Se siete figli, siete eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo » (Rom. VIII, 18). Qual è il bene di Dio? Dio stesso! Sarebbe Egli Dio se dovesse cercare fuori di sé la sua ricchezza e il suo tesoro? Conoscersi infinitamente, amarsi infinitamente, è per lui possedere il bene sovrano, la sua infinita ricchezza e il suo tesoro; possederlo, dico, nella sua pienezza. E poiché questa contemplazione e questo amore di se stesso sono Se stesso, da ciò deriva che Dio non solo è felice e ricco, ma è la sua stessa ricchezza, e la sua stessa beatitudine (S. Thom. C. Gent. L. I, C. 41 e 101). In virtù dell’ineffabile trasformazione che ci fa entrare come figli nella famiglia di Dio, noi poveri e miserabili come siamo, noi abbiamo in noi il diritto di partecipare un giorno alla beatitudine di Dio, a quel godimento che Egli ha di se stesso attraverso la visione e l’amore. Così, facendoci suoi figli, ci consacra suoi eredi, poiché ci chiama a possedere con Lui il Bene supremo. Una ricca, una splendida eredità (Sal. XV, 6): cosa sono, se comparate a Lui, le eredità terrestri? – Eredi di Dio; coeredi di Gesù Cristo; poiché questa è anche l’eredità che l’Unico ricevette come uomo, quando divenne nella sua umanità « plenus gratiæ et veritatis, pieno di grazia e di verità » (Joan, I, 14). Più tardi cercheremo di formarci un’idea meno confusa delle ricchezze indicibili che Dio riserva ai suoi figli adottivi; ma è già una conoscenza molto alta di esse sapere che sono al di sopra di tutto ciò che la mente dell’uomo possa immaginare e il suo cuore desiderare. – Qui, qualche lettore potrebbe fermarsi a considerare questa speciosa obiezione. Se sono solo un figlio per adozione, e, quindi, se non ho in me la natura stessa di mio padre, né la bontà né la bellezza divina sono mie. Non è infatti la mia ricchezza, ma solo quella di Dio. Senza dubbio, risponderei, queste perfezioni non saranno mai le nostre: né la saggezza, né la giustizia, né la grandezza, né l’onnipotenza, né, per dirla in una parola, l’essere sussistente, l’essere che non essendo che essere è tutto l’essere, può diventare la mia saggezza, la mia giustizia, la mia grandezza, la mia potenza, il mio essere. Ma non è meno vero che questa bontà suprema può essere il mio possesso, e di conseguenza la mia eredità. Perché cos’è possedere pienamente una cosa, se non goderne secondo la propria volontà; goderne immutabilmente, senza che nulla ci separi mai da essa? Cosa importa che questo campo non sia di mia proprietà, se sono assolutamente sicuro di conservarne sempre l’usufrutto ed il godimento? Ora, il godimento e il possesso della Verità Suprema e della Bellezza Sovrana consistono nel conoscerle ed amarle. Perciò, possedendo Dio attraverso la conoscenza e l’amore, entro veramente nel godimento; e sono un erede: un erede di diritto, se porto la grazia di Dio nel mio cuore; un erede di diritto e di fatto, se porto la grazia di Dio nel mio cuore; erede di diritto e di fatto, se muoio con la stessa grazia. « Ma, amati, ora siamo figli di Dio; ma ciò che saremo non appare ancora. Sappiamo che quando apparirà, saremo simili a Lui, perché lo vedremo come Egli è » (I Joan. III, 2).

4. – È qui che dobbiamo ancora ammirare un’ultima prerogativa che chiamerò, in mancanza di un altro nome, la singolarità dell’adozione divina. Tra gli uomini, l’adozione, quando suppone qualche bambino nella famiglia, non può avvenire senza portargli pregiudizio o causargli dispiacere. A volte soffrirà nel suo onore, e, se l’onore è salvo, almeno soffrirà una divisione con un altro nell’eredità paterna e nell’amore. Non c’è niente del genere da temere invece, quando si tratta di adozioni divine. Mi chiedo: quale danno e quale dispiacere può ricevere il Figlio secondo la natura, Gesù Cristo Nostro Signore, dai fratelli che suo Padre si degnerà di dargli? Un pregiudizio: ma non resta ancora l’unico Figlio di Dio? È Lui stesso meno perfetto, meno santo, meno potente, meno Dio? Ditemi, quale prerogativa perde, e se cessa di essere infinitamente amato da un amore infinito? Un dispiacere; ma questa adozione, chi l’ha voluta, chi l’ha fatta, chi ha pagato con il Suo Sangue, volontariamente, liberamente, se non Lui? – La gloria di Dio è che Egli è così grande, così buono, talmente bello, così ricco, che senza esaurirsi, né perdere la minima parte delle sue infinite perfezioni, può riversare a torrenti sulle sue creature bontà, bellezza, grandezza e ricchezza. La gloria del Figlio Unigenito è che Egli può, rimanendo l’Unico nella sublimità incomunicabile della sua sfera, diventare, nella sua qualità di uomo, lo strumento ineffabile delle adozioni paterne. Pretendere di escluderle per l’onore del Figlio Unigenito, significa dire o che la perfezione di questo Unigenito sia troppo limitata per essere comunicata senza essere diminuita, o che il sangue versato da Lui sul Calvario non sia stato un prezzo pagato sovrabbondante alla dignità dei figli adottati. Per me, Gesù, mio Salvatore, mio fratello e mio Dio, Voi mi apparite tanto più bello, tanto più ricco e più amato, tanto più l’Unico del Padre, che vi dà più fratelli ed eredi. Il loro splendore accresce la vostra grandezza; e più numerosi li vedo affollarsi intorno a Voi, più vi ammiro e vi amo. – Dopo questo, che bisogno c’è di mostrare che la crescente moltitudine dei figli adottivi, lungi dall’essere una diminuzione dei privilegi per ciascuno di essi, non divenga piuttosto un meraviglioso accrescimento in loro? Nel cuore del Padre comune c’è posto per tutti, poiché questo cuore è infinito come Dio stesso. Non mi stupisce che tutte le eredità umane siano frammentate quanto più numerosi diventano gli eredi: sono beni materiali il cui possesso, per essere perfetto, deve essere esclusivo. Ma l’eredità spirituale, Dio, la verità posseduta dall’intelligenza, Dio, la bontà posseduta dall’amore, può essere tutta mia benché sia tutta vostra. Le due braccia con cui Lo stringo nel mio spirito e nel mio cuore non possono diventare un ostacolo al vostro abbraccio. Colui che è più vicino a questo grande e sublime spettacolo, non impedisce a nessuno di contemplarlo ed ammirarlo. Dall’alto del cielo il sole non mi illumina di meno, perché ci sono milioni di altri uomini a ricevere la sua luce con me (S. Agost. de Lib. L. Il, c. 14, Ricard. Victor. in Cact. c. 10). – Così la felicità del possesso in un figlio adottivo non esclude la felicità dell’altro; ne è piuttosto il complemento. Possedere Dio è la mia ricchezza e la mia felicità. Lo possiedo mille volte di più, se i fratelli che amo e che considero nella carità come altri me stesso, sono mille a possederlo con me. E non è tutto; contemplando Dio faccia a faccia ed investiti della sua luce, diventano tanti specchi splendenti in cui vedo con piacere ripetersi la bellezza che ammiro e che amo. A maggior ragione l’eredità del primogenito non può diminuire quella dei figli adottivi, così come l’eredità di questi ultimi non può diminuire quella del primogenito. né l’eredità di quest’ultimo può essere diminuita dalla loro. Né la sorgente sempre piena è in pericolo di inaridirsi per il defluire nei ruscelli; né i ruscelli sono impoveriti per fluire da una fonte inesauribile. – Aggiungiamo, prima di concludere, che questa eredità comune dei figli di Dio non conosce duolo. Sulla terra, perché i figli entrino nel godimento dei beni del padre, la morte deve colpire il padre e far posto agli eredi una volta eliminato. Ma l’eredità che i figli adottivi di Dio attendono è Dio stesso; e per loro sapere che Dio è il Re immortale dei secoli è essere sicuri che la loro eredità sia immutabile e che niente potrà mai rapirgliela: niente, dico, né la caducità del bene che sperano, né la morte dell’erede, poiché Dio, questo sommo Bene, eterno in sé, dà la vita eterna a chi lo possiede. – Dopo questa meditazione, chi non vorrebbe sottoscrivere le parole del santo Papa, Leone Magno: « Omnia dona excedit hoc donum ut Deus hominem vocet filium, et homo Deum nominet patrem (S. Leo. serm. 26 al. 25, in. Nativ., 6, c. 4). Il dono per eccellenza, quello che supera incomparabilmente tutti gli altri, è quello per cui Dio dica all’uomo: “Figlio mio!”, e l’uomo chiami Dio: “Mio padre”. Che gli altri si glorino delle loro ricchezze, delle loro dignità, delle loro alte alleanze; il Cristiano ha ben altra gloria: Io sono della famiglia di Dio, il figlio di Dio, l’erede di Dio. « Filius Dei sum ego ». Capirà quale eccesso di onore comporti questo titolo, colui che può capire cos’è Dio e il suo Figlio primogenito, Gesù Cristo nostro Signore. – Ma una parentela così alta, una filiazione così ammirevole, quanta santità di vita richiede! Pertanto, « che la razza eletta, la nazione reale, risponda alla dignità della sua rigenerazione; ami ciò che è amato dal Padre suo, e non sia mai in disaccordo con il suo autore, temendo di meritare quel reclamo che già fece una volta per bocca d’lsaia; ho nutrito ed esaltato dei figli, che mi hanno ricoperto di disprezzo » (S. Leo, Serm. loc. cit., c. 3). « Sì, poiché ci è dato di chiamare Dio nostro Padre, comportiamoci da figli; se ci compiacciamo per avere Dio come nostro Padre, facciamo che Egli si compiaccia per averci come figli, siamo in verità i templi di Dio, e sia manifesto che Egli abiti in noi: divenuti celesti e spirituali, non pensiamo, non amiamo se non ciò che sia del cielo e dello spirito » (S. Cipr., de Orat. Dom. n. 11). Ed è così che i Santi Dottori fanno emergere la lezione della nostra grandezza. Gesù Cristo l’aveva insegnato prima di loro: « Io vi dico: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano; pregate per i vostri persecutori e i vostri calunniatori. » E perché questi atti eroici della carità Cristiana? « Affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli » (Matt. V, 44-45); esserlo per la somiglianza delle opere, « poiché Egli fa risplendere il suo sole sui buoni e sui cattivi »; diventarlo con l’imitazione sempre più perfetta, « affinché gli uomini, testimoni delle nostre virtù, glorifichino il Padre che è nei cieli » (Matt. V, 16; col. I Pet. II, 12). Allora potremo dire di ognuno di noi, in tutta proporzione, ciò che il centurione professò di Gesù Cristo, nostro fratello maggiore, sul Calvario: « Vere filius Dei erat iste » (Matt. XXVII, 54): Sì, costui è veramente un figlio di Dio!

LA GRAZIA E LA GLORIA (5)