DOMENICA X DOPO PENTECOSTE (2022).
(Messale Romano di S. Bertola e G. Destefani, comm. di D. G. LEFEBVRE O. S. B; L. I. C. E. – R. Berruti & C. Torino 1950)
Semidoppio. – Paramenti verdi.
La liturgia di questa Domenica ci insegna il vero concetto dell’umiltà cristiana che consiste nell’attribuire alla grazia dello Spirito Santo la nostra santità; poiché le nostre azioni non possono essere soprannaturali, cioè sante, se non procedono dallo Spirito Santo, che Gesù ha mandato agli Apostoli nel giorno della Pentecoste e che dona a tutti quelli che glielo chiedono. Dunque la nostra santificazione è impossibile se vogliamo raggiungerla da soli, perché, abbandonati a noi stessi noi non siamo che impotenti e peccatori. Dobbiamo a Dio se evitiamo il peccato, se ne otteniamo il perdono, se riusciamo a fare il bene, poiché nessuno può pronunciare neppure il santo nome di Gesù con un atto di fede soprannaturale, che affermi la sua regalità e divinità, se non mediante lo Spinto Santo. L’orgoglio è, dunque, il nemico di Dio, perché si appropria dei beni che solo lo Spirito Santo distribuisce a ciascuno nella misura che crede conveniente e impedisce alla potenza divina di manifestarsi nelle nostre anime in modo da farci credere che noi bastiamo a noi stessi. Come Dio potrebbe perdonarci (Oraz.), se noi non vogliamo riconoscerci colpevoli? Come potrebbe aver compassione di noi ed esercitare su noi la sua misericordia (Oraz.), se nel nostro cuore non vi è nessuna miseria riconosciuta cui il suo Cuore divino possa compatire? L’umile, invece, riconosce il proprio nulla perché sa che solo a questa condizione discenderà su lui la virtù di Cristo. Mentre la Chiesa sviluppa in questa Domenica tali pensieri, le letture, che fa durante questa settimana nel Breviario, danno due esempi di orgoglio e di grande umiltà. Dopo la figura del profeta Elia che si oppone così fortemente a quella di Achab e di lezabele, dei quali nell’ufficio è ricordato il terribile castigo, vi è quella del giovane Gioas che contrasta fortemente con quella di Atalia. Figlia di Achab e di lezabele, empia come sua madre, Atalia sposa il re di Giuda Ioram, che morì poco dopo. Allora la regina si trovò padrona del regno di Giuda e per esserlo per sempre fece massacrare tutta la famiglia di David. Ma losabeth, sposa del gran sacerdote Joiada tolse dalla culla l’ultimo nato della famiglia reale e lo nascose nel Tempio. Questi si chiamava Gioas. Per sei anni Atalia regnò ed innalzò templi in onore del dio Baal perfino nell’atrio del Tempio. Nel settimo anno il gran sacerdote attorniato da uomini risoluti e armati, mostrò Gioàs che allora aveva sette anni e disse: « Voi circonderete il fanciullo regale e se qualcuno cercherà di passare fra le vostre file, lo ucciderete! ». E quando il popolo si riversò nell’atrio, all’ora della preghiera, Joiada fece venire avanti Gioas, l’unse e lo coronò al cospetto di tutta l’assemblea che applaudi’ e gridò: «Viva il Re!». Quando Atalia intese queste grida, uscì dal palazzo ed entrò nell’atrio e quando vide il giovane re assiso sul palco, circondato dai capi e acclamato dal popolo col suono delle trombe, stracciò le sue vesti e gridò: « Congiura! Tradimento! ». Il gran sacerdote ordinò di farla uscire dal sacro recinto e quando essa giunse nel suo palazzo venne uccisa. La folla allora saccheggiò il tempio di Baal e non lasciò pietra su pietra. E il re Gioas si assise sul trono di David, suo avo; regnò quarant’anni a Gerusalemme e si dedicò a riparare e abbellire il Tempio (All., Com.). La Scrittura fa di lui questo bell’elogio: « Gioas fece quello che è giusto agli occhi di Dio » È questa l’Antifona del Magnificat dei Vespri alla quale fa eco quella dei II Vespri che è tratta dal Vangelo di questo giorno: « Questi (il pubblicano) ritornò a casa sua giustificato e non quello (il fariseo), poiché chi si esalta sarà umiliato e chi s’umilia sarà esaltato ». – « Quelli che si innalzano sono visti da Dio da lontano, dice S. Agostino. Egli vede da lontano i superbi, ma non perdona loro. « L’umile invece, come il pubblicano, si riconosce colpevole! ». Egli si batteva il petto, si castigava da sé, e Dio perdonava a quest’uomo perché confessava la sua miseria. Perché meravigliarsi che Dio non veda più in lui un peccatore dal momento che si riconosce da sé peccatore? Il pubblicano si teneva lontano ma Dio l’osservava da vicino » (Mattutino). Così l’umile fanciullo Gioas fu gradito a Dio perché la sua condotta avanti a Lui era quale doveva essere. Egli fece ciò che era giusto agli occhi del Signore. Atalia, invece, orgogliosa ed empia, non fece ciò che era giusto avanti al Signore, e sdegnò e insultò quelli che facevano il loro dovere, poiché l’orgoglio verso Dio si manifesta ogni giorno nel disprezzo verso il prossimo. Dice Pascal che vi sono due categorie di uomini: quelli che si stimano colpevoli di tutte le mancanze: i Santi; e quelli che si credono colpevoli di nulla: i peccatori. I primi sono umili e Dio li innalzerà glorificandoli, i secondi sono orgogliosi e Dio li abbasserà castigandoli. « Il diluvio, dice S. Giovanni Crisostomo, ha sommerso la terra, il fuoco ha bruciato Sodoma, il mare ha inghiottito l’esercito degli Egiziani, poiché non è altri che Dio, il quale abbia inflitto ai colpevoli questi castighi. Ma, dirai tu, Dio è indulgente. Tutto ciò allora non è che parola vana? E il ricco che disprezzava Lazzaro non fu punito? … e le vergini stolte non furono discacciate dallo Sposo? E quegli che si trova nel banchetto con le vesti sordide non verrà legato mani e piedi e non morrà? E colui che richiederà al compagno i cento denari non sarà dato al carnefice? Ma Dio si fermerà solo alle minacce? Sarebbe molto facile provare il contrario e dopo quello che Dio ha detto e fatto nel passato possiamo giudicare quello che farà nell’avvenire. Abbiamo piuttosto sempre in mente il pensiero del terribile tribunale, del fiume di fuoco, delle catene eterne nell’inferno, delle tenebre profonde, dello stridore dei denti e del verme che avvelena e rode » (2° Nott.). Questo sarà il mezzo migliore per rimanere nell’umiltà, che ci fa dire con la Chiesa: « Ogni volta che io ho invocato il Signore, questi ha esaudita la mia voce. Mettendomi al sicuro da quelli che mi perseguitavano, li ha umiliati, Egli che è prima di tutti i tempi » (lntr.). « Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dei tuoi occhi, perché i tuoi occhi vedono la giustizia » (Grad.). « Signore, io ho innalzata l’anima mia verso te, i miei nemici non mi derideranno perché quelli che hanno confidenza in te non saranno confusi » (Off.).
Incipit
In nómine Patris, ☩ et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.
.Adjutórium nostrum ✠ in nómine Dómini.
R. Qui fecit cælum et terram.
Confíteor …
Deo omnipoténti, beátæ Maríæ semper Vírgini, beáto Michaéli Archángelo, beáto Joánni Baptístæ, sanctis Apóstolis Petro et Paulo, ómnibus Sanctis, et vobis, fratres: quia peccávi nimis cogitatióne, verbo et ópere: mea culpa, mea culpa, mea máxima culpa. Ideo precor beátam Maríam semper Vírginem, beátum Michaélem Archángelum, beátum Joánnem Baptístam, sanctos Apóstolos Petrum et Paulum, omnes Sanctos, et vos, fratres, oráre pro me ad Dóminum, Deum nostrum.
M. Misereátur tui omnípotens Deus, et, dimíssis peccátis tuis, perdúcat te ad vitam ætérnam.
S. Amen.
S. Indulgéntiam, ✠ absolutiónem et remissiónem peccatórum nostrórum tríbuat nobis omnípotens et miséricors Dóminus.
R. Amen.
V. Deus, tu convérsus vivificábis nos.
R. Et plebs tua lætábitur in te.
V. Osténde nobis, Dómine, misericórdiam tuam.
R. Et salutáre tuum da nobis.
V. Dómine, exáudi oratiónem meam.
R. Et clamor meus ad te véniat.
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
Introitus
Ps LIV: 17; 18; 20; 23
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.
[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]
Kyrie
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Christe, eléison.
M. Christe, eléison.
S. Kýrie, eléison.
M. Kýrie, eléison.
S. Kýrie, eléison.
Dum clamárem ad Dóminum, exaudívit vocem meam, ab his, qui appropínquant mihi: et humiliávit eos, qui est ante sæcula et manet in ætérnum: jacta cogitátum tuum in Dómino, et ipse te enútriet.
[Quando invocai il Signore, esaudí la mia preghiera, 9salvandomi da quelli che stavano contro di me: e li umiliò, Egli che è prima di tutti i secoli e sarà in eterno: abbandona al Signore ogni tua cura ed Egli ti nutrirà.]
Gloria
Glória in excélsis Deo. Et in terra pax homínibus bonæ voluntátis. Laudámus te. Benedícimus te. Adorámus te. Glorificámus te. Grátias ágimus tibi propter magnam glóriam tuam. Dómine Deus, Rex cæléstis, Deus Pater omnípotens. Dómine Fili unigénite, Jesu Christe. Dómine Deus, Agnus Dei, Fílius Patris. Qui tollis peccáta mundi, miserére nobis. Qui tollis peccáta mundi, súscipe deprecatiónem nostram. Qui sedes ad déxteram Patris, miserére nobis. Quóniam tu solus Sanctus. Tu solus Dóminus. Tu solus Altíssimus, Jesu Christe. Cum Sancto Spíritu ✠ in glória Dei Patris. Amen.
Oratio
Orémus.
Deus, qui omnipoténtiam tuam parcéndo máxime et miserándo maniféstas: multíplica super nos misericórdiam tuam; ut, ad tua promíssa curréntes, cœléstium bonórum fácias esse consórtes.
[O Dio, che manifesti la tua onnipotenza soprattutto perdonando e compatendo, moltiplica su di noi la tua misericordia, affinché quanti anelano alle tue promesse, Tu li renda partecipi dei beni celesti.]
Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XII: 2-11
Fratres: Scitis, quóniam, cum gentes essétis, ad simulácra muta prout ducebámini eúntes. Ideo notum vobis facio, quod nemo in Spíritu Dei loquens, dicit anáthema Jesu. Et nemo potest dícere, Dóminus Jesus, nisi in Spíritu Sancto. Divisiónes vero gratiárum sunt, idem autem Spíritus. Et divisiónes ministratiónum sunt, idem autem Dóminus. Et divisiónes operatiónum sunt, idem vero Deus, qui operátur ómnia in ómnibus. Unicuíque autem datur manifestátio Spíritus ad utilitátem. Alii quidem per Spíritum datur sermo sapiéntiæ álii autem sermo sciéntiæ secúndum eúndem Spíritum: álteri fides in eódem Spíritu: álii grátia sanitátum in uno Spíritu: álii operátio virtútum, álii prophétia, álii discrétio spirítuum, álii génera linguárum, álii interpretátio sermónum. Hæc autem ómnia operátur unus atque idem Spíritus, dívidens síngulis, prout vult.
[“Fratelli: Voi sapete che quando eravate gentili correvate ai simulacri muti, secondo che vi si conduceva. Perciò vi dichiaro che nessuno, il quale parli nello Spirito di Dio dice: «Anatema a Gesù»; e nessuno può dire: «Gesù Signore», se non nello Spirito Santo. C’è, sì, diversità di doni; ma lo Spirito è il medesimo. Ci sono ministeri diversi, ma il medesimo Signore; ci sono operazioni differenti, ma è il medesimo Dio che opera tutto in tutti. A ciascuno poi è data la manifestazione dello Spirito, perché sia d’utilità. Mediante lo Spirito a uno è data la parola di sapienza, a un altro è data la parola di scienza, secondo il medesimo Spirito. A un altro è data nel medesimo Spirito la fede; nel medesimo Spirito a un altro è dato il dono delle guarigioni: a un altro il potere di far miracoli; a un altro la profezia; a un altro il discernimento degli spiriti; a un altro la varietà delle lingue, a un altro il dono d’interpretarle. Ma tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, il quale distribuisce a ciascuno come gli piace”].
UNITA’ NELLA VARIETA’ E VICEVERSA.
Gli uomini piccoli si rivelano colle loro unilateralità. C’è chi al mondo non vede, non vuole, non ama che la unità, una unità esagerata che diviene, né essi se ne dolgono, uniformità; c’è chi non vede, non vuole, non ama che la varietà, la diversità, una diversità che diviene, così esagerata, del che ad essi non cale, confusione babelica, caos. Per i primi tutti dovrebbero pensare allo stesso identico modo in tutto e per tutto, fare tutti la stessa cosa, farla tutti allo stesso modo. Per gli altri il rovescio, tutti pensare e agire diversamente. Estremismi opposti, figli della stessa micromania. Il Vangelo, il Cristianesimo ci si rivela grande e divino anche per quella formula « unitas in varietate » che è la sua divisa. N. S. Gesù ha detto una parola nella quale è lo spunto di quello che oggi dice San Paolo nel brano domenicale della Epistola prima ai Corinzi: « nella casa di mio Padre vi sono molte dimore. » La Casa è una, una la Chiesa, Casa di Dio, edificio classico e prediletto di Gesù Cristo; una per unità di culto. Se non fosse così, non sarebbe divina. Una nelle cose essenziali, sostanziali. Ma in questa bellissima e forte e compatta e vigorosa unità non si esaurisce la vita della Chiesa; se no saremmo nell’uniformità plumbea. La casa è una e le stanze, anzi i piani sono molti e diversi. San Paolo riprende il pensiero evangelico e dice testualmente così: « Or vi sono (nella Chiesa) distinzioni (ossia varietà) di doni, ma non c’è che un medesimo Spirito; e c’è distinzione nei ministeri, ma non c’è che un medesimo Signore; e c’è distinzione nei modi di operare, ma non c’è che un medesimo Dio, il quale opera ogni cosa in tutti ». Varietà, continua l’Apostolo, utile al corpo sociale, come, dico io, la varietà dei cibi è utile al corpo umano. Di questa varietà non bisogna né scandalizzarsi, né abusare. Alcuni estremisti se ne sono scandalizzati. Per esempio: i Greci, che poi si separarono dalla Chiesa, si scandalizzarono quando fu aggiunta una paroletta « Filioque » al Credo di Nicea, senza domandarsi se essa stonava o sintetizzava, armonizzava col Credo nel suo insieme, nel suo spirito. Altri ne abusano e vorrebbero portare la diversità dappertutto, dappertutto le novità, dimenticando l’aureo principio: «in necessariis unitas ». Varietà che nel campo pratico, l’operare e il modo dell’operare sono ben altrimenti ricche e accentuate che non siano nel campo teorico. Quante diversità, salva la unità essenziale, nei riti! Quante nell’azione dei Santi! Ecco qua dei Santi e delle spirituali famiglie dei Santi che son tutto calcolo e prudenza; altri e altre che sono tutta spontaneità e ingenuità. Santi che edificano monasteri grandiosi come spirituali reggie, quasi ad affermare la maestà dello spirito, e santi che fabbricano modestissimi conventini; Santi che sono tutto zelo e severità, altri il cui zelo realissimo è fatto di mansuetudine. Paolo che va a destra, Barnaba che va a sinistra e camminano per le vie di un unico apostolato. Ma lo Spirito è uno; lo spirito di Dio, spirito di verità d’amore. Rallegriamoci di questa varietà che è ricchezza e rispettiamola; rallegriamoci di questa unità e cerchiamola, lieti per conto nostro ciascuno del posto che gli è toccato nella casa del Padre, nella vigna del Signore, non smaniosi di cambiarlo, avidi solo di occuparlo degnamente.
P. G. Semeria: Le epistole delle Domeniche, Op. naz. Per il mezzogiorno d’Italia, Milano, 1939.
(Nihil obstat sac. P. De Ambroggi – Imprim. P. Castiglioni vic. Gen. Curia Arch, Mediolani, 1-3-1938)
Graduale
Ps XVI: 8; LXVIII: 2
Custódi me, Dómine, ut pupíllam óculi: sub umbra alárum tuárum prótege me.
[Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dell’occhio: proteggimi sotto l’ombra delle tue ali.]
V. De vultu tuo judícium meum pródeat: óculi tui vídeant æquitátem.
[Venga da Te proclamato il mio diritto: poiché i tuoi occhi vedono l’equità.]
Alleluja
Allelúja, allelúja
Ps LXIV: 2
Te decet hymnus, Deus, in Sion: et tibi redde tu votum in Jerúsalem. Allelúja.
[A Te, o Dio, si addice l’inno in Sion: a Te si sciolga il voto in Gerusalemme. Allelúia.]
Evangelium
Sequéntia ✠ sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc XVIII: 9-14.
“In illo témpore: Dixit Jesus ad quosdam, qui in se confidébant tamquam justi et aspernabántur céteros, parábolam istam: Duo hómines ascendérunt in templum, ut orárent: unus pharisæus, et alter publicánus. Pharisæus stans, hæc apud se orábat: Deus, grátias ago tibi, quia non sum sicut céteri hóminum: raptóres, injústi, adúlteri: velut étiam hic publicánus. Jejúno bis in sábbato: décimas do ómnium, quæ possídeo. Et publicánus a longe stans nolébat nec óculos ad cœlum leváre: sed percutiébat pectus suum, dicens: Deus, propítius esto mihi peccatóri. Dico vobis: descéndit hic justificátus in domum suam ab illo: quia omnis qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.”
[“In quel tempo disse Gesù questa parabola per taluni, i quali confidavano in se stessi come giusti, e deprezzavano gli altri: Due uomini salirono al tempio: uno Fariseo, e l’altro Pubblicano. Il Fariseo si stava, e dentro di sé orava così: Ti ringrazio, o Dio, che io non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri; ed anche come questo Pubblicano. Digiuno due volte la settimana; pago la decima di tutto quello che io posseggo Ma il Pubblicano, stando da lungi, non voleva nemmeno alzar gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: Dio, abbi pietà di me peccatore. Vi dico, che questo se ne tornò giustificato a casa sua a differenza dell’altro: imperocché chiunque si esalta, sarà umiliato; e chi si umilia, sarà esaltato”].
Omelia
(G. Colombo: Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi; VI ediz. Soc. Ed. Vita e pensiero – Milano)
SUPERBIA
Gesù aveva sedato la burrasca del lago, ma non disse mai: « Imparate da me a comandare all’acqua e al vento ». Gesù aveva moltiplicato il pane e il pesce, ma non disse mai: « Imparate da me a moltiplicare il cibo e la bevanda ». Neppure quando ebbe guarito i lebbrosi, gli storpi, i ciechi, i muti disse: « Imparate da me a sanare le malattie ». Però a tutti comandò: « Da me dovete imparare ad esserne umili e miti di cuore ». Umili e miti! Invece molti erano gonfi di sé, sprezzanti degli altri. Allora il Maestro contò una parabola. « Al tempio di Gerusalemme, nello stesso giorno e nella stessa ora, si trovarono due uomini: uno era fariseo, l’altro pubblicano. Stando in piedi, il primo cominciò la sua preghiera: Signore! La legge ordina di digiunare una volta all’anno; ed io digiuno due volte alla settimana. La legge ordina al coltivatore di pagare la decima dei suoi prodotti; ed io, non solo di quelle che raccolgo nel campo ma anche di quello che acquisto al mercato, pago la decima. Signore! dopo tutto ciò, non è meraviglia che tu sia stato come costretto a riempirmi di grazie. Poiché, tutti lo possono dire, io non sono un ingordo di roba altrui, non sono frodatore nel commercio, non sono un disonesto adultero: queste cose le lascio a certa gente come quel disgraziato pubblicano, laggiù… » Laggiù, infatti, lontano dall’altare, dove sapeva risiedere un Dio giusto, v’era un umile pubblicano che neanche ardiva levar gli occhi al cielo, e si batteva il petto e gemeva: — O Dio, sii buono con me che son gran peccatore. A questo punto Gesù terminò la parabola e conchiuse: « Vi dico che costui ritornò a casa sua giustificato, ma l’altro no: perché chi si innalza sarà abbassato e chi si abbassa sarà esaltato ». Tanto chiara è la parabola, che ogni spiegazione sarebbe di troppo. Piuttosto vediamo se anche contro di noi è rivolta: Dixit ad quosdam qui în se confidebam tamquam iusti, et aspernabantur ceteros: la disse per quelli che si stimano perfetti e disprezzano tutti gli altri. Oh la superbia! ora è smascherata: essa è vanteria di sé e sprezzo degli altri. Il contrario precisamente di come Gesù ci vuole: umili e miti. – 1. PER QUELLI CHE SI STIMANO PERFETTI. S. Giovanni Climaco, raccogliendosi intorno i suoi monaci, amava spesso raccontare la cattiva figura che fece un giorno la cornacchia. Si era essa fatto prestare da ciascun uccello una piuma colorita, e con quelle adornandosi, si vantava di essere più bella di tutti. Gli uccelli indignati di tanta superbia vollero indietro ciascuno la propria piuma: apparve allora agli occhi di tutti la deformità naturale della cornacchia, che svergognata in mezzo alle risa dei compagni, voleva morirsene di rabbia. « È cosa vergognosa — concludeva S. Giovanni Climaco — insuperbire delle piume altrui: ma il vantarsi dei doni ricevuti da Dio come se si trattasse di roba nostra è il colmo della pazzia. Il Dio nostro resiste ai superbi; se il superbo si gonfia appropriandosi i suoi doni, subito Egli li riprende, ed il disgraziato millantatore resta deforme spoglio tra le risa maligne dei demoni ». La favola della cornacchia sarà ingenua, però non manca d’opportunità neppure oggi, per noi. Vediamo un po’ queste penne di cui ci gloriamo. Per molti sono le dignità umane: hanno un posto di fiducia nel paese, nella città; sono consultati in casa, inchinati per le strade, onorati da per tutto. Costoro, dimenticando che ogni autorità viene da Dio, che ogni onore è un peso in favore degli altri, si curano soltanto di emergere e di raccogliere gli incensi delle lodi, come fossero piccole divinità. Per altri invece le piume di cornacchia sono le ricchezze: perché hanno un palazzo, una casa, servi, automobile, vesti lussuose, danaro in quantità si credono superiori ad ognuno meno ricco di loro; quasi che anch’essi non fossero figliuoli peccatori di Adamo, ma appartenenti ad una stirpe privilegiata. Altri ancora, e non sono pochi, insuperbiscono per la bellezza del loro volto, per la compitezza della loro persona. Quanto al corpo che cosa eravate voi? chiede San Bernardo; che cosa sarete più tardi? Voi eravate un vero niente, voi sarete vermi e cenere. Ci sono infine di quelli che son gonfi del loro sapere. Ebbene, infinitamente maggiore è il numero delle cose che ignorano di quelle che conoscono; ed il numero di quelli che sanno più di loro è pur esso grandissimo. E poi bisogna ricordare che gli uomini dotti sono umili, poiché la superbia è madre dell’ignoranza. Non io negherò che in tutte queste cose, — dignità, ricchezza, bellezza, scienza — vi sia un certo valore. Ma donde vengono esse? Sono opera delle nostre mani? Che cosa abbiamo di non ricevuto? Perfino il Fariseo di questo s’era persuaso e ne ringraziava il Signore: « O Dio, ti dico grazie… ». Ma poi se ne vantava come se non avesse nulla ricevuto. E noi l’imitiamo. Si autem accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis? (I Cor., IV, 7). – 2. PER QUELLI CHE SPREZZANO GLI ALTRI. I santi han sempre avuto per divisa il motto: « Tutto per Dio »; ma i superbi vi hanno sostituito quest’altro: « Tutto per sé ». Essi si credono altrettanti soli in giro a cui tutte le stelle e i pianeti si raccolgono e girano. Per ciò, se qualche cosa non piega davanti a loro, la disprezzano: disprezzo che, a volta a volta, si cambia in giudizi maligni, in invidia, in odio. Il disprezzo che i superbi hanno per il loro prossimo appare facilmente nei giudizi malevoli: tacciono i meriti altrui e palesano solo i difetti. Di meriti anzi negli altri essi non ne scorgono, ma, se proprio sono costretti a far qualche concessione, per non sembrare malintenzionati, sanno dosare la lode con molte riserve, reticenze, insinuazioni: « Sì, senza dubbio è buono… lo dicono tutti, ma… tempo addietro! Sì, è laborioso, ma… ma!… Sì è onesto, è devoto, ma…, a frequentarlo un po’, a stargli vicino!… ». E sempre, come una vipera in mezzo ai fiori, c’è quel terribile « ma » della superbia. Quando poi si tratta di scoprire i difetti altrui, essi hanno occhi di lince mentre a vedere i propri hanno occhi di talpa. Essi si usurpano l’autorità di giudicare tutto e tutti, e non pensano che Dio solo è giudice: « Sono io il loro giudice! » (Ger., XXIX, 23). A loro non toccherà certo la bella morte di quel santo monaco, che sentendo prossima la fine sorrideva: « Non avete paura del tribunale di Dio? » — gli fu chiesto. « Io non ho mai giudicato nessuno, — rispose — e non sarò giudicato ». Ma chi invece, come il Fariseo nel tempio, avrà giudicato gli altri per rapaci, ingiusti, adulteri, lui stesso davanti a Dio sarà tenuto per tale. L’invidia, che insieme al disprezzo occupa il cuor del superbo, si manifesta in due modi: o col dispiacere del bene altrui o col piacere dell’altrui male. Saul era sempre stato il re forte, il re vincitore; ma ecco che un giorno, dai campi in cui pascolava il gregge, arriva David. Esso pure è forte e vincitore. Lo applaude il popolo e dice: « Valoroso è Saul, ma David lo è di più. Mille ne uccise Saul e diecimila David ». Saul sente, ne riceve un colpo al cuore: diviene intrattabile, taciturno, cupo fino a impazzirne. Ecco l’invidia: rincrescimento del bene altrui. Quando davanti alla fortuna d’un nostro vicino, quando davanti alla gioia di un nostro parente, noi ci sentiamo afflitti, ricordiamoci che la superbia ha invaso il nostro cuore e se lo fa schiavo. Se lo fa schiavo fino al punto di desiderare il male agli altri, e di goderne allora che sono colpiti. Da lungo tempo quel negoziante ha guardato con l’occhio torbido d’invidia il fiorente negozio di un suo collega; ma ecco che il suo sguardo si schiarisce e brilla di piacere maligno, ora che crede di constatare una disavventura dell’invidiato. E quel medesimo contadino che si è sempre afflitto per la fertilità del campo d’un altro, quella donna che si è irritata per la bellezza d’un’altra, quello stesso uomo che s’angustiava per gli onori ottenuti da un altro, quanto si rallegrano appena gli invidiati incontrano una disgrazia, una malattia, una calunnia! Guai a chi si lascia trascinare dalla superbia per queste vie! Giungerà fino a procurare egli stesso al prossimo quel male che tarda a venire. Non è così che Caino ha ucciso Abele? Non è così che gli undici fratelli han venduto Giuseppe? che Saul ha vibrato la lancia contro David? che la gente di Palestina rovinò i pozzi d’Isacco? « Aveva seminato Isacco in quella terra, e, l’anno stesso, ne raccolse il centuplo, avendolo benedetto il Signore. S’arricchì, divenne grande e potente, ebbe armenti e servi. Per questo i Palestinesi si rodevano d’invidia e gli riempirono di terra i pozzi che servivano di beveraggio al gregge ed innaffiamento agli orti ». (Gen., XXVI 12-14). Ancora una cosa è da aggiungersi: ed è che nessun cuore è pieno di odio come quello del superbo. Il superbo non bada per il sottile se i suoi pensieri, le sue parole le sue azioni offendono gli altri. Che cosa sono questi altri in suo confronto? Egli è il centro del mondo. Ma quando l’offeso è lui, fosse pure leggera l’offesa, allora non dimentica, non perdona: e aspetta settimane e settimane l’occasione propizia per una vendetta completa. Vi sentirete rinfacciare un torto di cui non vi eravate nemmeno accorti, un’ingiuria d’antica data, uno sbaglio di cui avevate già fatto le scuse e date riparazione. Dio può dimenticare e perdonare le offese, ma il superbo, no! – Povero S. Bernardo! Era stato assalito dal demonio della superbia e nella tentazione aveva titubato un istante. Subito comprese che il Signore s’era da lui ritirato. Sentiva il cuore indurito come un sasso, e l’anima arida come terra senz’acqua. Voleva piangere, ma non una lacrima cadeva dagli occhi; voleva pregare, ma i salmi non gli volevano uscire dalla bocca; voleva meditare, ma la mente s’annebbiava come una vetta durante il temporale. Vagava come un fantasma angosciato sotto gli archi del chiostro, e guardava con interiore sofferenza i suoi monaci lieti e fervorosi: Heu! omnes montes în circuito meo visitat Dominus, ad me autem non appropinquat. A tutti i Cristiani che si lagnano di non ottenere grazie, di non avere pace, e di essere dimenticati da Dio ripeterò le parole di S. Bernardo: « Non senza ragione sono abbandonato. Ti signoreggiò la superbia: quella del cuore, per cui tu non pensi che a te e alle tue virtù, quella della bocca, per cui tu non parli bene che di te e delle tue cose, mentre degli altri e delle loro cose non sai che criticare; quella dell’azione per cui tu cerchi sempre il primo posto, non fai il bene che per essere lodato, non vuoi perdonare le offese, non vuoi rallegrarti con quelli che godono, non vuoi dolerti con quelli che soffrono: quella del vestito, per cui vuoi parere più ricco, più bello, più istruito di quello che sei. Ti signoreggia la superbia: perciò Dio s’avvicina a tutti gli altri cuori umili e miti, ma non al tuo ». Heu!… ad me autem non appropinquat! (In Cantica, sermo LIV, 8). – CUOR CONTRITO ED UMILIATO. Dico vobis descendit hic iustificatus in domum suam. Quante volte anche noi siamo andati al tempio per confessare i nostri peccati davanti a Dio e al suo ministro: siamo sempre ritornati a casa nostra giustificati? Se le nostre confessioni furono simili a quella del superbo Fariseo che accusava i peccati degli altri e le proprie virtù, non solo non siamo stati perdonati ma abbiamo fatto sacrilegio. Iddio perdona soltanto a quelli che hanno un cuore umile e contrito. Cor contritum et humiliatum Deus non spernit. (Ps., L. 19). Ed umile era il cuore del Pubblicano che si riconosceva con gemiti peccatore: Deus propitius esto mihi peccatori. L’umiltà infatti non è che sincerità, e consiste nel riconoscerci quali noi siamo: senza nascondere nulla di ciò che abbiamo commesso, senza aggiungere nulla di ciò che abbiamo tralasciato. Contrito era il cuore del Pubblicano. La contrizione non è un dolore sensibile come il male di testa o di denti; non consiste in piangere o sospirare: la contrizione è un dispiacere del cuore che sente d’aver offeso Dio e promette di non offenderlo più. Per ciò sul cuore si batteva il Pubblicano: percutiebat pectus suum. Dal cuore, ha detto Gesù, escono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri,, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie (Mc., VII, 21); e dal cuore esce anche la contrizione dei peccati. La confessione del pubblicano c’insegna le due condizioni necessarie a un vero peccatore: sincerità e dolore. Le voglio spiegare con due esempi. – 1. Sincerità. Cromazio prefetto di Roma era malato di un male strano che nessun medico sapeva guarire. Gli dissero allora che in Roma v’erano due Cristiani che compivano guarigioni miracolose, e, chi sa, avrebbero forse guarito ancor lui. Cromazio li fece chiamare: erano Sebastiano e Policarpo. « Cromazio — dissero i due santi al prefetto pagano — se tu vuoi guarire, dacci in mano tutti gli idoli della tua casa, ché noi vogliamo distruggerli ». « Se è necessario — rispose a malincuore, — io v’insegnerò dove sono, e voi prendeteli ch’io non oso ». Sebastiano e Policarpo presero tutte le immagini dei falsi dei e le frantumarono, poi tornarono da Cromazio. Ma Cromazio non era guarito; anzi stava peggio. « Cromazio! » dissero i santi, guardandolo fisso nella nube ch’era nel bianco dei suoi occhi, « Cromazio, tu hai mentito: nella tua casa ci sono idoli ancora ». Ed il prefetto dovette confessarlo: egli ne aveva nascosti alcuni nella sua camera vicino a lui, perché gli erano più cari. Solo quando si decise a consegnare anche quelli, poté guarire. Così è pure nella Confessione; quelli che tengono nascosti nel più fondo della loro anima anche un solo peccato mortale, non saranno perdonati neppur degli altri, anzi si incolpano di un pessimo sacrilegio. S. Giovanni Crisostomo esclamava: « O uomo, che cosa è peggiore: fare il male o dirlo? Se dunque al cospetto di Dio non hai avuto rossore a far male, perchè hai vergogna a dirlo davanti agli uomini? Se non hai avuto vergogna a macchiarti, perché avrai vergogna a lavarti? ». In tre modi la superbia ci fa mancare di sincerità in confessione: non accusando, accusando per metà, scusando. Non accusando: anche il Fariseo ha fatto così, egli ha taciuto le sue colpe, per dir soltanto le proprie virtù, per dir soltanto i peccati degli altri. Ma uscì dal tempio senza giustificazione. Infelici noi se taciamo, di proposito, anche un peccato solo, profaneremmo il sangue di Cristo, e cominceremmo il primo anello d’una catena maledetta: la catena che ci strapperà giù nell’inferno. Accusando per metà: alcuni dicono d’aver un po’ d’ambizione, e non dicono che per questa ambizione hanno seguito una moda pagana, ed hanno suscitato discorsi e passioni cattive. Altri dicono d’aver detta qualche bugia, e non dicono che questa bugia l’hanno detta in confessione, oppure non dicono che dalla loro bugia è derivato un grave danno al prossimo. Scusando: ci sono di quelli, infine, che mentre si confessano involgono i lori peccati in una miriade di scuse, quasi quasi, in faccia a Dio son loro che ne avanzano. Non c’è umiltà in queste confessioni, e per ciò non c’è perdono. – 2. DOLORE. Santa Caterina da Genova, nata da una delle più ricche e nobili famiglie della città, contro sua voglia, costretta dai genitori sposò Giuliano Adorno. Ma la bontà di Dio permise che le fosse dato un marito contrario e difforme alla sua vita, il quale consumò il patrimonio nei giochi e la fece soffrire moltissimo. Ella, stanca del lungo martirio, aveva cessato d’essere buona, cercando qualche consolazione nelle delizie e nelle vanità del mondo. Ma il giorno arriva che queste dilettazioni stancano, che sotto le belle apparenze si trovan frutti di cenere e tosco; allora l’anima scontenta anela di sciogliersi dai legami del peccato e implora. Era appunto in questo stato di tristezza quando la sorprese una mirabile e dolorosa visione. La porta di casa si aperse d’un tratto da sola, e in un’aureola luminosa Gesù con la croce in spalla entrò ospite silenzioso nelle sue stanze. Camminava faticosamente senza parlare: dalla testa coronata, dalle spalle flagellate, dagli occhi piangenti grondava sangue per modo che tutta la casa ne pareva bagnata. Caterina si gettò in ginocchio esclamando: « O Amore, mai più, mai più peccati! Se bisogna, sono disposta a confessare le mie colpe in pubblico ». Voleva dir altro e la parola non le usciva, voleva piangere e non poteva: uno scroscio come di fiume cadente le rimbombava negli occhi, sotto le palpebre chiuse. Era il giorno dopo la festa di S. Benedetto del 1473. Quando vi accostate al Sacramento della confessione pensate voi che i vostri peccati sono stati la vera causa della passione di Cristo? pensate voi che quel perdono che implorate vi è concesso solo per il sangue versato da Cristo? Che fu l’agonia del Getsemani, che fu l’umiliazione dei tribunali di Caifa e di Pilato, che fu la morte in croce a liberarci dal fuoco della maledizione eterna; lo pensate voi quando vi confessate? Non si può pensare a questo attentamente senza gridare dal profondo dell’anima il grido di Santa Caterina da Genova: « O Amore, mai più, mai più peccati! ». Dite: che dolore può avere certa gente che va a confessarsi come si va all’osteria, senza pregare, senza esame di coscienza, senza riflettere che s’accosta al sangue del Figlio di Dio? Che dolore possono avere taluni che prevedendo di doversi confessare presto, accrescono il numero dei peccati dicendo: — confessarne dieci e confessarne venti è la stessa fatica? E quelli che trascinano la loro vita in un’altalena di confessioni e di peccati, e non si decidono mai, e non si sforzano mai di cambiar vita, come possono illudersi di avere il dolore dei peccati? E senza dolore non c’è perdono. – Si presentò a S. Antonio di Padova un gran peccatore per confessarsi: ma era tanto confuso che non gli riusciva d’articolar parola e dava in singhiozzi. Il santo gli disse: « Va, scrivi i tuoi peccati e poi ritorna ». Il penitente ubbidì. Poi tornò: e leggeva i suoi peccati come li aveva scritti. Appena ebbe terminato di leggere vide che dalla carta era scomparsa ogni traccia di scrittura e restava solo il foglio candido. Così sarà dell’anima nostra quando ci confesseremo con l’umiltà e con il dolore del pubblicano descritto da Gesù nella sua parabola bella. Ogni macchia di peccato svanirà dal nostro cuore e apparirà soltanto il candore dell’innocenza riacquistata. E dal Cielo Gesù che ci segue, si rivolgerà a’ suoi Apostoli ancora e agli Angeli e dirà: « Io vi dico che costui torna a casa giustificato ». Dico autem vobis descendit hic iustificatus in domum suam. L’UMILTÀ – Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato. Essere giustificato, ottenere il perdono delle nostre colpe e poter possedere la grazia di Dio, per l’anima è cosa essenziale: sta qui tutta la vita cristiana! Ma bisogna avere l’umiltà del pubblicano, bisogna presentarsi al Signore adorno di questa virtù, coi segni di possederla davvero. – 1. COSA È L’UMILTÀ. Michelangelo lavorava per la Cappella Sistina. Doveva dipingerne la volta e da parecchi mesi, con passione indomita si affaticava attorno ai disegni. Finalmente, quando tutto fu pronto, diede inizio alla esecuzione. Saliva al mattino sui ponti e non scendeva che al calar del sole. Il lavoro presentava difficoltà enormi. Doveva starsene tutto il giorno disteso o rannicchiato sull’impalcatura, colla faccia verso l’alto. La volta era tanto vicina che spesso pareva lo volesse schiacciare. Che fatica scegliere i colori giusti! Che fatica cambiare ed intingere il pennello; quando poi lo sollevava in alto verso la volta, gli cadevano addosso le gocce di pittura che gli sporcavano tutta la faccia. Ci vollero lunghi mesi di questo martirio, ma alla fine su quelle pareti lasciò capolavori di fama imperitura. Ma almeno doveva metterci il suo nome? Dopo tanta fatica ne aveva tutto il diritto, eppure non volle. Invece del suo nome scrisse un alfa ed un omega per indicare che a Dio riferiva ogni gloria; al Signore principio e fine d’ogni cosa creata, consacrava il frutto dei suoi lunghi sudori. Cristiani, sulle nostre opere e su quello che è in nostro possesso, noi abbiamo meno diritto di scriverci sopra il nostro nome che non ne avesse Michelangelo. Fossero pure dei capolavori, come i dipinti della Sistina, noi dobbiamo mettervi il Nome Santo di Dio. L’umiltà sta appunto in questo, riconoscere i diritti di Dio su quello che noi possediamo, a Lui riferire ogni gloria ed onore. Trenta, cinquanta, cento anni fa nessuno di noi era al mondo: il Signore ci ha dato la vita! È forse un merito nostro se abbiamo salute, se possiamo lavorare, se ci sentiamo ripieni di vita? L’oggi ed il domani è nelle mani di Dio e da parte nostra non potremmo allungare di un solo minuto i giorni della esistenza quaggiù. Se poi guardassimo i beni dell’anima, vi troveremmo sopra il nome di Gesù. È scritto collo stesso suo sangue poiché la grazia e la gloria sono i frutti della sua Passione. Oseremmo cancellare quel nome divino e sostituirlo col nostro? Quid habes quod non accepisti? Si autem accepisti quid gloriaris quasi non acceperis? (I Cor., IV, 7). – 2. SEGNI DELL’UMILTÀ. S. Tommaso d’Aquino, colla sua sapienza, aveva meravigliato il mondo. Sulle cattedre delle più celebri Università del suo tempo, negli scritti profondi e chiari, dai pulpiti più famosi e affollati mostrava di avere una delle più grandi intelligenze della umanità. Un giorno, nel convento di Bologna, passeggiava sotto i portici, assorto in contemplazione. Come al solito, teneva lo sguardo rivolto al Cielo. Un frate domenicano entra allora in Convento e neppur sospettando che parlava col grande Dottore si accosta e gli dice: « Fratello, seguitemi in città! Debbo fare la questua e mi fu dato licenza di farmi accompagnare dal primo religioso che qui avessi incontrato ». S. Tommaso sorridente accetta ed è tutto felice di attraversare Bologna stendendo umilmente la mano. Ma… alle prime porte cominciano le più alte meraviglie ed il povero frate s’accorge di avere con sé Tommaso d’Aquino. Gli si butta ai piedi, gli domanda perdono e vuole subito far ritorno al convento. Ed il Santo: « No, fratello, proseguiamo per amore di Cristo. Torneremo quando avremo finito! ». Parlar di umiltà non è cosa difficile, che anzi… lo facciamo così volentieri! Ma saremmo ben stolti se soltanto per questo pensassimo di essere umili. Forse, anche quando preghiamo, noi ci accontentiamo di parole. Domandiamo al Signore che ci dia l’umiltà, ma… e perché non chiediamo che ci mandi umiliazioni? Il nome di umiltà è qualche cosa di astratto, ma se la virtù non vuol essere un nome, deve constare di fatti concreti. Sarà umile colui che ubbidisce ai suoi genitori e superiori senza discussioni di sorta, non già per servire all’occhio dell’uomo, ma soltanto per la gloria di Dio. Potrà dirsi davvero Cristiano chi dimentica che Gesù si è fatto ubbidiente fino alla morte in Croce? La vita è una lotta che bisogna vincere: ma è l’uomo ubbidiente che canterà la vittoria. Ha l’umiltà chi accetta i consigli degli altri e li segue nel suo operare. È umile davvero chi ama gli inferiori e li tratta con amore fraterno. Quando c’è umiltà il padrone vuol bene all’operaio che lavora sotto di lui; il ricco non disprezza il povero che gli tende la mano; il dotto va volentieri insieme a quelli che sono ignoranti. Non è forse vero che un po’ di umiltà renderebbe più bella la vita sociale, e ancor più dolce la vita domestica? – Non tutti quelli che vanno in paradiso han predicato il Vangelo ai popoli infedeli; non tutti hanno versato il sangue o perduta la vita per amore di Cristo; non tutti hanno la stola sacerdotale o vengono dal chiostro. Ma tutti, nessuno escluso, devono aver praticato l’umiltà perché verrà esaltato solo colui che si sarà umiliato.
IL CREDO
Offertorium
Orémus
Ps XXIV: 1-3
Ad te, Dómine, levávi ánimam meam: Deus meus, in te confído, non erubéscam: neque irrídeant me inimíci mei: étenim univérsi, qui te exspéctant, non confundéntur.
[A Te, o Signore, ho innalzata l’anima mia: o Dio mio, in Te confido, che io non abbia ad arrossire: che non mi irridano i miei nemici: poiché quanti a Te si affidano non saranno confusi.]
Secreta
Tibi, Dómine, sacrifícia dicáta reddántur: quæ sic ad honórem nóminis tui deferénda tribuísti, ut eadem remédia fíeri nostra præstáres.
[A Te, o Signore, siano consacrate queste oblazioni, che in questo modo volesti offerte ad onore del tuo nome, da giovare pure a nostro rimedio.]
Præfatio
V. Dóminus vobíscum.
R. Et cum spíritu tuo.
V. Sursum corda.
R. Habémus ad Dóminum.
V. Grátias agámus Dómino, Deo nostro.
R. Dignum et justum est.
… de sanctissima Trinitate:
Vere dignum et justum est, æquum et salutáre, nos tibi semper et ubíque grátias ágere: Dómine sancte, Pater omnípotens, ætérne Deus: Qui cum unigénito Fílio tuo et Spíritu Sancto unus es Deus, unus es Dóminus: non in uníus singularitáte persónæ, sed in uníus Trinitáte substántiæ. Quod enim de tua glória, revelánte te, crédimus, hoc de Fílio tuo, hoc de Spíritu Sancto sine differéntia discretiónis sentímus. Ut in confessióne veræ sempiternǽque Deitátis, et in persónis propríetas, et in esséntia únitas, et in majestáte adorétur æquálitas. Quam laudant Angeli atque Archángeli, Chérubim quoque ac Séraphim: qui non cessant clamáre quotídie, una voce dicéntes:
Sanctus, Sanctus, Sanctus Dóminus, Deus Sábaoth. Pleni sunt cæli et terra glória tua. Hosánna in excélsis. Benedíctus, qui venit in nómine Dómini. Hosánna in excélsis.
Preparatio Communionis
Orémus: Præcéptis salutáribus móniti, et divína institutióne formáti audémus dícere:
Pater noster, qui es in cælis. Sanctificétur nomen tuum. Advéniat regnum tuum. Fiat volúntas tua, sicut in cælo et in terra. Panem nostrum quotidiánum da nobis hódie. Et dimítte nobis débita nostra, sicut et nos dimíttimus debitóribus nostris. Et ne nos indúcas in tentatiónem:
R. Sed líbera nos a malo.
S. Amen.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: miserére nobis.
Agnus Dei, qui tollis peccáta mundi: dona nobis pacem.
Panem cæléstem accípiam, et nomen Dómini invocábo.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
V. Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur ánima mea.
COMUNIONE SPIRITUALE
Communio
Ps L: 21.
Acceptábis sacrificium justítiæ, oblatiónes et holocáusta, super altáre tuum, Dómine.
[Gradirai, o Signore, il sacrificio di giustizia, le oblazioni e gli olocausti sopra il tuo altare.]
Postcommunio
Orémus.
Quǽsumus, Dómine, Deus noster: ut, quos divínis reparáre non désinis sacraméntis, tuis non destítuas benígnus auxíliis.
[Ti preghiamo, o Signore Dio nostro: affinché benigno non privi dei tuoi aiuti coloro che non tralasci di rinnovare con divini sacramenti.]
PREGHIERE LEONINE (dopo la Messa)
RINGRAZIAMENTO DOPO LA COMUNIONE (1)
ORDINARIO DELLA MESSA