LA GRAZIA E LA GLORIA (14)

LA GRAZIA E LA GLORIA (14)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO III

I PRINCIPI DI ATTIVITÀ CHE RISPONDONO ALLA GRAZIA – LE VIRTÙ INFUSE E I DONI DELLO SPIRITO SANTO.

CAPITOLO III

Delle altre virtù infuse, comunemente chiamate virtù cardinali, e delle loro dipendenze.

I. – Le ultime righe del testo di San Tommaso che abbiamo appena letto, ci indicano, insieme alla fede, la speranza, la carità, altre virtù divinamente infuse che darebbero l’ultimo complemento all’attività soprannaturale dei figli di Dio. Si è convenuto di chiamarle Virtù Cardinali, perché sono come l’asse attorno al quale ruota tutta la vita morale dell’uomo. I teologi ed i filosofi, seguendo i Padri, ne riconoscono quattro: prudenza, giustizia, temperanza e fortezza; virtù principali a ciascuna delle quali sono attaccate un numero più o meno grande di virtù secondarie che non sta a noi caratterizzare in dettaglio (S. Thom. de Virt. card. c. un. a. 1. cum sqq.; col. 1. 2, q. 61). Ciò che è più appropriato al nostro argomento è cercare se, nell’uomo divinizzato dalla grazia, queste quattro virtù con quelle loro annesse siano virtù infuse e soprannaturali in se stesse, allo stesso modo delle virtù più divine della fede, della speranza e della carità. Bisogna ammettere che non troviamo più qui il perfetto accordo che abbiamo trovato parlando delle virtù teologali. È opinione di diversi teologi, che però sono di minore autorità, che questa prerogativa di avere necessariamente Dio solo come Autore, e di essere quindi soprannaturale come e quanto alla sostanza, è appropriata solo alle virtù propriamente teologiche. Per quanto riguarda le altre, esse avrebbero il loro principio nelle forze della natura; e, se i loro atti sono meritori, questo valore verrebbe loro, non dalla propria eccellenza, ma dalla dignità della persona che li compie e da un’influenza più o meno esplicita della carità. – Supponiamo che due uomini compiano lo stesso atto di giustizia; questo atto sarà meritorio per colui che porta in sé la grazia, e non lo sarà per l’altro. Ciò che fa la differenza non è il valore del principio prossimo, che da entrambe le parti è puramente naturale, ma la diversità dello stato. Avremo occasione di studiare questa questione del merito con calma, quando verrà il momento di considerare i figli adottivi dal punto di vista della loro crescita, poiché il merito ne è uno dei fattori principali. Qualunque possa essere il peso dei motivi addotti dai sostenitori di questa visione, due considerazioni mi sembrano più o meno decisive a favore delle virtù cardinali infuse.  La prima è una prova di autorità: ricordiamo la controversia che un tempo divideva i maestri della scienza sul tema della grazia santificante e delle virtù: i primi negavano che fossero conferite al Battesimo i secondi negavano che esse fossero conferite ai bambini nel Battesimo, e gli altri non stabilivano alcuna differenza tra i battezzati, qualunque fosse la loro età. Ora, su quali virtù verteva il dibattito? Si trattava solo delle virtù teologali, o si trattava anche delle altre? Il  Papa Innocenzo III, in un famoso documento (Innoc. III, cap. 3 Majores.), ce ne dà la risposta: « Ciò che molti affermano, cioè che né la fede, né la carità, né le altre virtù siano infuse nei bambini battezzati, per mancanza di consenso, non è approvato da un maggior numero… »  Pertanto, quando il Concilio di Vienne pronuncia che la sentenza affermativa è la più probabile, il termine “Virtù“, impiegato dai Padri, comprende sia le Virtù Cardinali che le Teologali, poiché erano entrambe oggetto del dibattito. – A questa venerabile autorità si deve aggiungere quella della Sacra Scrittura e della tradizione. Della Scrittura, dico: infatti, sono frequenti i passi in cui le nostre Sacre Lettere ci propongono la prudenza, la saggezza e la giustizia come atti o virtù, procedenti non dalla natura, ma dallo Spirito di Dio (Sap. VIII, 7; Gal. V, 22-23: II Pet. I, 4- 7, ecc.).  – Se, nel consultare la Tradizione, noi chiedessimo ai Padri, essi ci risponderebbero per bocca del grande Agostino: « Le virtù che ho nominato (pietà, castità, modestia, sobrietà…), queste sono le cose che devono essere conservate sempre e ovunque, in pubblico come in privato, nel lavoro come nel riposo: perché queste stesse virtù abitano nel cuore. E chi potrebbe elencarle tutte? Esse ci appaiono come l’esercito del grande Imperatore che siede nel centro della tua anima. L’imperatore fa del suo esercito ciò che gli piace; così Gesù Cristo Nostro Signore, appena comincia a dimorare nell’uomo interiore attraverso la legge, si serve di queste virtù come ministri per realizzare i suoi disegni » (S. August. in I ep. S.. Joan. Tract. 8, n. 1). Questo testo è così bello che merita di essere messo per intero davanti agli occhi del lettore.  “Opera misericordiæ, affectus charitatis, sanctitas, pietatis, modestia, sobrietatis, Semper hæc tenenda sunt. Sive cum in publico sumus, sive cum in domo, sive cum ante homines, sive cum in cubiculo, sive tacentes, sive aliquid agentes, sive vacantes; semper hæc tenenda sunt; quia intus sunt omnes istæ virtutes quas nominaxi. Quis autem sufficit omnes nominare? Quasi exercitus est imperatoris qui sedet intus in mente tua, Quomodo enim imperator per exercitum suum agit quodque (al. quod ei) placet; sic Dominus noster Jesus Christus incipiens habitare in interiore homine nostro, id est in mente per fidem, utitur his virtutibus quasi ministris suis. Et per has virtutes quæ videri oculis non possunt, et tamen quando nominantur, laudantur; non antera laudarentur nisi amarentur, non amarentur nisi viderentur; et si utique non amarentur nisi viderentur, alio oculo videntur, interiori cordis aspectu; per has virtutes invisibiles moventur membra visibiliter. Pedes ad ambulandum; sed quo? Quo moverit bona voluntas quæ militat bono imperatori. Manus ad operandum; sed quid? Quo jusserit charitas quœ inspirata est intus à Spiritu Sancto. Membra ergo videntur cum movenbur; qui jubet intus non videtur. Et quis intus jubeat, prope ipse solus novit qui jubet, et ille intus qui jubetur). – E, per caratterizzare meglio l’origine di questi doni, il santo Dottore ce li ha già mostrati come infusi nell’anima dei bambini piccoli, prima di qualsiasi uso dei loro poteri di ragionamento e fin dal Battesimo. – Veniamo alla seconda considerazione. Supponiamo che gli atti che dirigono e costituiscono l’osservanza della legge morale, quelli della giustizia, della religione, della temperanza ed altri, siano atti naturali in se stessi; supponiamo, per una successione conseguente, che le virtù da cui procedono non appartengano all’ordine delle virtù infuse, cosa ne risulterebbe? Questa conseguenza veramente stupefacente: che l’uomo trasfigurato nel suo essere dalla grazia, e divenuto deiforme, sarebbe deificato incompletamente nella sua vita morale; in altre parole, che la vita morale, in cui la dignità dei figli di Dio deve riflettersi, sarebbe esclusa da questa gloriosa trasformazione; perché i principi coinvolti rimarrebbero puramente naturali, come si possono trovare pure in un peccatore che è nemico di Dio. – Si può allora credere che Dio, che è così magnifico in tutti gli altri aspetti verso i suoi figli, abbia usato qui una tale parsimonia? Colui che, nell’ordine della natura, ha voluto che l’uomo avesse il potere di acquisire le virtù che lo ordinano all’adempimento più fedele e soave dei suoi obblighi morali di giustizia, temperanza e le altre virtù, avrebbe rifiutato lo stesso potere a colui che Egli eleva alla dignità di figlio? Un figlio degli uomini avrebbe le sue proprie virtù, e un figlio di Dio non avrebbe quelle che convengono alla sua nuova vita? Soprannaturalizzato nella sua tendenza immediata verso l’ultimo fine dalla fede, dalla speranza e dall’amore, non sarebbe più soprannaturalizzato nelle sue tendenze verso i fini intermedi e futuri, così indissolubilmente uniti con l’esistenza o la perfezione della carità! Io sono d’accordo che tra gli uomini, l’entrata in un nuovo stato di vita non richieda che solo una diligenza puramente incidentale nel modo di agire. Un semplice suddito che diventa imperatore o re, non riceve in sé un nuovo principio di azione che corrisponde alla sua nuova dignità. Né questo cambiamento di posizione sociale si basa su una trasfigurazione dell’essere interiore della persona che lo riceve. Ma la condizione dell’uomo a cui Dio dà il dono della sua grazia è ben diversa. Rivestito com’è di un nuovo essere, un essere che lo rende un dio, la sua vita morale deve corrispondere all’essere che ha ricevuto: deve avere un carattere superiore, e di conseguenza deve anche procedere da principii più alti dell’attività puramente naturale. Giudicare diversamente è stabilire una dualità di vita che nulla legittima (Vedi S. Franc. de Sales, Traité de l’amour de Dieu, L. VII, c. 6; S. Thom: 1,2 q. 63. A. 4) e da cui mancherebbe manifestamente l’opera di Dio per eccellenza. – Ciò che fa esitare molti a ricevere come infuse le virtù, intellettuali e morali, di cui qui difendiamo l’esistenza, è che non hanno potuto vedere come, nella loro intima natura, esse differiscano dalle virtù acquisite naturalmente con la ripetizione di atti. Eppure, che abisso tra le une e le altre, quando le guardiamo dal punto di vista della loro essenza specifica!  Certamente, per fare solo un esempio, non è la stessa cosa praticare la temperanza secondo la regola imposta dalla ragione naturale, e osservarla secondo la regola propria dei figli di Dio, quella del Vangelo. – Non indulgere in eccessi nell’uso del cibo che danneggerebbero la salute del corpo, o moderare gli altri piaceri dei sensi in modo tale da vivere castamente, secondo gli obblighi dello stato di vita in cui ci si trova; non abbandonarsi alle inclinazioni disordinate che troppo spesso ci spingono ai piaceri proibiti; in una parola, mantenere la misura: questa è la natura propria della temperanza umana. Ma la temperanza del Cristiano che vive secondo i precetti ed i consigli del Vangelo, porta i suoi obiettivi ed i suoi sforzi molto più in alto. Non gli basta moderare i piaceri grossolani dei sensi; li rifiuta e li disprezza; non contento di governare il corpo, lo castiga e lo riduce in servitù. La croce è la sua delizia e la purezza degli Angeli la sua ambizione suprema. Vivere nella carne, come se non ci fosse più la carne, ecco fin dove arriva la temperanza di un figlio di Dio. – Sono ben consapevole che per avere la ragione ultima di questa rinuncia si deve tornare alla carità. Solo le anime fortemente innamorate dello Spirito Santo sono capaci di eccessi così eroici. Ma non ignoro nemmeno che, se è l’amore che le comanda, non è l’amore che deve eseguirne gli atti. Ogni virtù è determinata dal suo oggetto proprio e speciale – E siccome questo oggetto è per la carità Dio stesso, Dio sovranamente buono e sovranamente amabile, ne consegue chiaramente che l’oggetto della temperanza e delle altre virtù morali non sia immediatamente quello della carità. Dite, se volete, che queste virtù sono al servizio della carità; dei seguaci che la accompagnano per eseguire i suoi ordini, ciascuna nel suo dominio particolare, ed io lo sottoscrivo volentieri; perché l’ho imparato da S. Paolo. « La carità – egli dice – è paziente, è benigna, non è ambiziosa, non si gonfia », e così via. – Ma questo stesso richiede che queste Virtù appartengano allo stesso ordine della carità, che partecipino alla nobiltà del suo lignaggio, in una parola che siano virtù soprannaturali e, come la loro regina, divinamente infuse.

2. – Osserviamo che le virtù soprannaturali non escludono le virtù inferiori di cui la natura ci ha dato i germi, e che l’abitudine agli atti sviluppa più o meno prontamente nelle anime più di quanto la grazia non distrugga la natura stessa. Ma queste virtù umane non sono più, nel figlio di Dio, che le umili ausiliarie delle virtù superiori, e il loro ruolo è tanto più efficace quanto sempre più profonde esse gettano radici nelle profondità delle anime. – Ricordiamoci anche, perché lo si dimentica sì facilmente, che le virtù soprannaturali prevalgono su quelle della natura, non solo dal punto di vista dell’eccellenza, ma soprattutto dal punto di vista dell’attività, direi della virtualità, se fosse permesso usare questa parola. Infatti, esse non hanno solo lo scopo di facilitare il libero gioco delle nostre forze, o al massimo di perfezionare la loro stessa energia; ma danno loro anche una forza supplementare che non è nel loro dominio. Con esse, l’intelligenza alza le sue vedute ad altezze che nessuna mente creata potrebbe raggiungere, e la volontà conosce impulsi che la natura da sola non è in grado di produrre. Sebbene le virtù infuse diano all’anima una nuova potenza, non crediamo tuttavia che esse siano da sé stesse come le potenze naturali, un principio completo di operazioni. Per agire, esse hanno bisogno del concorso delle facoltà che suscitano e che servono loro da supporto. Non è che ci siano negli atti come due parti distinte, una delle quali una abbia la facoltà naturale e l’altra la virtù come causa: No: l’atto è tutto intero della virtù, come è tutto intero della potenza; infatti, la potenza e la virtù non formano che un principio prossimo che non è né la sola virtù, né la sola potenza, ma la potenza elevata, rafforzata, divinizzata dalla virtù. Non c’è nulla di identicamente simile nell’ordine degli agenti naturali, ma se ne possono trovare alcune lontane analogie. Vedete questa opera d’arte, un dipinto, per esempio: essa è del pittore e del pennello: tutto del secondo, tutto intero del primo. Ma il pennello, questa, non l’avrebbe mai fatta, se il genio dell’artista non l’avesse diretto, né vivificata con la sua azione. E, in un altro ordine, la sensazione, non è tutta del corpo e dell’anima, cioè dell’organo animato? – Se mi chiedete cosa ci sia nell’atto soprannaturale che richieda l’influenza della facoltà naturale, vi risponderò: È che esso è un atto di intelligenza o di volontà. Chiedetemi cosa sia la virtù infusa, e vi risponderò di nuovo: che essa è superiore ad ogni conoscenza, ad ogni volontà puramente umana. Certamente non che questi due elementi siano separati, né separabili nell’atto soprannaturale; ma comunque sono uniti in un’unità molto semplice, l’atto così com’è, o non sarebbe, o non sarebbe quello che è senza la doppia influenza che lo rende tale. Dire, come alcuni sembrano aver fatto, che la facoltà naturale non abbia nulla a che fare con l’operazione soprannaturale, e che tutto il suo ruolo si limiti a servire da supporto alla virtù, è dimenticare che la facoltà dell’anima è solo elevata nella sua attività per essere elevata nel suo atto. In verità, non so più perché la carità non debba essere nell’intelligenza e la fede nella volontà, se l’intelletto e la volontà non abbiano alcuna partecipazione attiva nella produzione degli atti che emanano dall’una e dall’altra virtù.

3. C’è una conclusione molto pratica da trarre da queste considerazioni sulle virtù infuse. Abbiamo ammirato in loro tutto un sistema di forze il cui possesso arma l’uomo, in vista dei combattimenti della vita cristiana, un’organizzazione completa per questo nuovo essere che è il figlio adottivo di Dio. Non lasciamo che la nostra armatura arrugginisca in un vergognoso riposo; usiamo questi meravigliosi organi, e non lasciamo che ciò che ci è stato dato per agire rimanga in una vile inerzia. È un gran peccato vedere un uomo di bei talenti e di grande intelligenza languire nell’ignoranza e nella pigrizia. Sarebbe un peccato minore se i Cristiani, portando nelle loro anime così tanti e così alti principi di attività soprannaturale, li annullassero con la loro indolenza, a rischio di perderli presto insieme alla vita divina che li sostiene? – Voi avete in voi la fede, la speranza e la carità; quelle abitudini di virtù che sono la pazienza, la dolcezza, la longanimità, la modestia, la continenza, la castità (Gal. V, 22), lo Spirito Santo li avrebbe seminati nelle vostre anime venendo Lui stesso a fissarvi la sua dimora, ed esse sarebbero lenti a rivelarsi con i loro atti? Sarebbe una pianta su cui pochi fiori sboccerebbero a malapena e che al massimo darebbe dei magri frutti? Ascoltiamo l’Apostolo e prendiamo per noi l’esortazione che ha fatto agli Ebrei, dopo aver raccontato lo stato disastroso di una terra che, spesso irrigata dalla pioggia, non produce altro che rovi e spine: « Miei diletti, benché parliamo in tale modo, noi ci aspettiamo cose migliori da voi  e più vicine alla salvezza… noi desideriamo che non diventiate indolenti, ma imitatori di coloro che per fede e pazienza erediteranno le promesse » (Ebr., VI, 9-13 ).

LA GRAZIA E LA GLORIA (15)

LA GRAZIA E LA GLORIA (13)

LA GRAZIA E LA GLORIA (13)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO III

I PRINCIPI DI ATTIVITÀ CHE RISPONDONO ALLA GRAZIA – LE VIRTÙ INFUSE E I DONI DELLO SPIRITO SANTO.

CAPITOLO II

Le virtù teologali, la fede, la speranza e la carità

Tra le virtù infuse, la dottrina cattolica ne propone tre principali: la fede, la speranza e la carità. Tutte e tre rispondono alla denominazione comune di virtù teologiche (o teologali), non solo perché hanno Dio come causa immediata, ed è Lui che ce ne ha rivelato la loro esistenza, ma anche e soprattutto perché, ordinandoci verso Dio, lo hanno direttamente come oggetto. Ho detto che ci sono proposte dalla dottrina cattolica: infatti, oltre al fatto che i Concili, ed in particolare il Concilio di Trento, ne fanno una menzione molto speciale, la Sacra Scrittura stessa le raccomanda in ogni momento; e la Chiesa, questa madre comune dei Cristiani, conformandosi alla volontà del suo divino Sposo, non desidera niente di meno che metterle nei cuori e nelle labbra dei suoi figli. Ora, se è vero, come abbiamo dimostrato, che gli atti presuppongono naturalmente dei principi d’azione che sono dello stesso ordine di questi atti, ovviamente gli atti di credere in Dio, di sperare in Dio, di amare Dio richiedono delle virtù infuse. Del resto, partendo da questo principio: che il nostro fine ultimo, come figli di Dio rigenerati in Cristo, fine verso cui dobbiamo tendere, e che, una volta raggiunto, farà la nostra beatitudine, è il possesso di Dio, non è difficile stabilire l’esistenza e la natura di queste tre virtù con una deduzione rigorosamente logica. Prenderò in prestito il mio ragionamento da S. Tommaso d’Aquino, e non farò che tradurre appena ciò che egli ci insegna nel terzo libro della Summa Philosophica (S. Thom., III, c. Gent., c. 102-103).

I. – Ecco, per prima cosa, come argomenta per dimostrare l’esistenza della più alta di queste tre virtù: la carità. La grazia santificante – dice questo grande Dottore – richiama in noi la carità, cioè l’amore perfetto di Dio. Che cos’è infatti la grazia se non un dono eccelso della dilezione divina? Ora, l’effetto proprio e naturale della dilezione divina nell’uomo è di condurlo a restituire a Dio, il donatore per eccellenza, amore per amore. Quando io amo e prodigo le testimonianze del mio amore amando, non è con lo scopo di conquistare il cuore della persona che amo, cioè di essere amato come io amo? Tanto che il mio amore, se incontra solo indifferenza e freddezza, invece di un amore reciproco, diventa languido e si spegne come un fuoco che è privato di ogni nutrimento! Cosa fa la grazia santificante in noi? – Ci assimila a Dio, ci rende partecipi della sua natura; ci dà diritto al possesso del Bene supremo; ci costituisce figli adottivi, amici, commensali ed eredi di Dio. Tutti questi titoli richiedono amore, non un amore qualsiasi, ma l’amore di carità. La somiglianza richiede l’amore: infatti ne è il naturale fondamento, poiché porta all’unità coloro che si somigliano (S. Thom., 1. 2, q. 27, a. 3). – La partecipazione della natura richiede amore: perché se partecipo alla natura di Dio, devo anche partecipare agli atti di cui, secondo il nostro modo di concepire, questa natura è essenzialmente il principio e la fonte, e di conseguenza nell’amore che ha per la sua infinita bontà. – La qualità di figlio adottivo richiede amore: perché si è mai figlio senza amare il padre, e qual Padre? – L’unione perfetta che sarà la nostra eredità richiede amore: come non amare infatti Colui che così teneramente e fortemente ci invita a vivere la sua vita, a possedere con Lui il sommo Bene, a sedere eternamente alla sua tavola nella gioia di un comune ed eterno banchetto? – E questo amore deve essere un amore puro e perfetto, l’amore della carità: perché la carità, come l’amicizia che contiene in sé, è fondata su questa comunione di natura, di aspirazioni, di beni e di vita (S. Thom., 1. 2, q. 27, a.3.). Ora, se la grazia santificante esige da noi in così tanti modi un amore filiale per Dio, non è necessario che nel darci questo amore, Dio ci dia anche il principio interiore che ci renda capaci di produrne gli atti? Posso io credere mai che, dopo aver fatto tanto perché io l’ami, mi abbia negato poi questa virtù della carità, il focolaio naturale da cui scaturisce l’amore divino? – Ma, si dirà forse, che bisogno c’è di un nuovo principio, poiché l’anima ragionevole con le sue potenze naturali può amare Dio con un amore di benevolenza, per se stessa, in vista della sua infinita bontà; amarlo non solo perché è la fonte da cui provengono tutti i beni, ma ancora perché Egli è in se stesso sovranamente buono, la bontà suprema, il Bene infinito. Io so quanti ostacoli potrebbero fermare l’anima in questo movimento di compiacenza amorosa; ma, mi guarderò bene dal negarlo, guardando le cose in sé stesse: questo amore di Dio conviene alla natura, e non supera assolutamente né la sua energia nativa né la sua tendenza naturale. Tuttavia, rimane pur vero che l’amore di carità supera assolutamente tutte le forze della natura. In effetti, che cos’è questo amore? L’amore di un bambino, l’amore di un amico? Ma in entrambi gli aspetti è di un’essenza così alta che nessun essere creato, per quanto perfetto e qualunque sia il diritto che presuma avere, possa vantarsi di giungere fin là. – Per convincervi di questo, chiedetevi quale sia l’amore naturale di Dio in una semplice creatura? L’amore di un umilissimo servo per il suo signore e padrone, l’amore di un fedele suddito per il suo re: infatti questo amore deve riflettere in sé la relazione essenziale della creatura con Dio. Noi vediamo ogni giorno, è vero, bambini adottati che nutrono per i loro genitori d’adozione sentimenti di figli, sudditi che diventano per i loro principi amici del cuore, senza che sia necessario infondere loro una nuova capacità d’amore. – Questa osservazione, lungi dall’invalidare la nostra conclusione, ci aiuta a capire meglio la sua forza. Poiché, infatti, il comune affetto del servo e del suddito, può essere convertito nell’amore di un bambino e di un amico, senza che si operi alcuna trasformazione nel principio interiore da cui procede l’amore? Questo perché l’estraneo che diventa figlio, il suddito che diventa amico, è uguale per natura alla persona che lo accoglie nella sua famiglia o nella sua cerchia di amicizia. Dall’una e dall’altra parte, ci sono degli uomini che si avvicinano e si uniscono. Se la facoltà di amare nel suddito o nell’estraneo è della stessa natura che nel padre e nel principe, essa è pienamente sufficiente per i nuovi sentimenti richiesti, come è sufficiente che il padre adottivo o il principe ami se stesso. Ma ditemi: questo servo di Dio, questo suddito del Re dei Cieli, partecipa nel suo proprio essere alla natura di Dio, e il suo amore è in qualche modo l’espressione viva di quella ineffabile carità di cui arde eternamente la società delle Persone divine? Dunque, ancora una volta, non c’è amore di figlio e di amico per Dio senza la partecipazione creata dell’amore infinito che chiamiamo Carità divina (Concil. Trident., sess.VI, c. 7).

2. – Se la grazia richiede la carità, essa può ancor meno esistere in un’anima senza la virtù della fede. La prima ragione è che il movimento che, partendo dalla grazia, ci inclina e ci porta verso il nostro fine ultimo, deve essere un movimento volontario e libero; perché è la provvidenza di Dio a condurre le sue creature al loro fine per vie appropriate alla loro natura. Ed è questo l’onore della creatura intelligente e libera di governare essa stessa la propria vita sotto il governo di Dio (“participat rationalis creatura divinam providentiam non solum secundum gubernari, sed etiam secundum gubernare: gubernat enim se suis actibus et etiam alia. S. Thom, Summ,. c.. Gent. LIII, c. 113. E da questo deriva che essa riceva comunicazione dalla fede (Ibid. c. 114). Ma ogni movimento volontario presuppone la conoscenza della meta da perseguire, poiché la volontà non agisce alla cieca. Se, dunque, devo muovermi liberamente e volontariamente verso il perfetto possesso del Bene Sovrano, il mio ultimo fine nell’ordine della grazia, devo necessariamente sapere, e in una maniera certa, qual sia questo fine del mio essere come figlio di Dio, e quali mezzi debba usare per acquisirlo. Ora, non è né la ragione da sola né la visione di Dio che mi dà questa doppia conoscenza; non è la ragione: poiché queste altezze sfuggono ai lumi naturali. Né è una visione, perché non la possiedo ancora che solo nella speranza. Cosa rimane allora, se non la fede? La fede, dico, « Sostanza delle cose che dobbiamo sperare, dimostrazione di quelle che non si possono vedere » (Hebr. XI, 1). – Una seconda ragione, non meno convincente della prima, deriva dalla legge del progresso, che governa ogni creatura uscita dalle mani divine. È infatti l’ordine della provvidenza di Dio che nessun essere al di fuori di Lui riceva, nel primo momento della sua esistenza, la perfezione finale che deve raggiungere. Ovunque e sempre ci deve essere crescita e movimento verso uno stato più perfetto. Tutto quaggiù è soggetto a questa legge; tutto deve salire dal meno perfetto al più perfetto, dalla bontà cominciata alla bontà consumata, sia le opere della natura, sia le produzioni dell’arte, sia le meraviglie della stessa grazia. – Io ho detto: le opere della natura. Aprire il libro di Genesi e vedrete la materia informe che, sotto l’azione del Creatore e per tappe successive, viene ordinata, si organizza e s’anima, e diventa il mondo dei vivi, il palazzo che Dio ha preparato per l’uomo. Senza andare tanto in alto, guardate quest’albero coronato di foglie e di frutti; non era all’inizio un debole stelo, che emergeva appena dalla terra e tremava al minimo soffio? E in quest’uomo di una maturità così vigorosa, quanti progressi si sono compiuti dal giorno in cui si è potuto dire: un bimbo è stato concepito! Ho detto: le produzioni dell’arte umana. Dov’è l’operaio che fin dalla prima stesura imprime al suo lavoro la perfezione? Quante notti passate nelle veglie, prima di avere questi capolavori di eloquenza, di poesia, di pittura!  Ho infine detto: le opere della grazia. Coloro che conoscono i misteri della nostra Santa Fede, sanno bene che per arrivare alla legge evangelica, la più perfetta di tutte, fu necessario che il mondo, sepolto nelle tenebre, fosse preparato per essa da rivelazioni, le quali vennero ad aggiungersi l’una di seguito all’altra, attraverso una lunga serie di secoli. “…e quando, nella pienezza del tempo, Dio, che un tempo aveva parlato ai nostri padri attraverso i profeti, ci ha rivelato tutta la Verità attraverso il Suo Figlio e lo Spirito del Figlio” (Ebr. I, 1), il progresso della fede non era ancora al suo termine. Al progresso nella rivelazione della verità è seguito il progresso nella comprensione e nell’espressione di quella stessa verità. – Dove ci portano queste considerazioni generali, se non alla conclusione che il figlio di Dio che deve, alla fine del suo sviluppo finale, trovarsi di fronte alla Bellezza Sovrana, contemplata senza ombre e veli, non possa, nel corso della sua formazione successiva, né vederla faccia a faccia né ignorarla completamente; in altre parole, che debba credere a ciò che vedrà? Poiché togliere la fede è togliere quel primo abbozzo di perfezione finale, “aliqua inchoatio finis“, che si trova in ogni essere creato, come il seme del suo normale sviluppo. Voi siete diventati, suppongo, con il lavoro e la meditazione uno studioso di prim’ordine. Ma questa Scienza ne aveva ricevuto il germe, indipendentemente da ogni studio e lavoro, nei primi principi che la natura incide universalmente nell’intelligenza umana al suo primo risveglio (S. Tom. De Verit,, q. 14, a 2; col. a.10). Ora, ancora una volta, Dio non è meno saggio né meno liberale nell’ordine della grazia che in quello della natura. Perciò, all’inizio della formazione soprannaturale, è necessario imprimere nel profondo delle anime questa conoscenza elementare delle grandi cose che un giorno vedremo, cioè la fede. – Ho dimostrato la necessità di conoscere il nostro fine mediante la fede: questa fede non è meno indispensabile per arrivare alla conoscenza delle vie che possono e devono condurvici. « Perché ciò che è ordinato verso il fine deve essere proporzionato al fine. Se dunque il fine ultimo della vita umana supera le potenze della natura, e di conseguenza della ragione … è anche necessario che ciò che ci dirige a questo supremo fine sia anche al di là della loro portata » (S. Thom. III, D. 24, q.1, a.3, sol 1. ad 3). Ecco perché il Santo Concilio Vaticano, con la Costituzione “Dei Filius“, ha formalmente insegnato che la rivelazione, e di conseguenza la fede, è assolutamente necessaria. Perché? « Perché Dio nella sua infinita bontà ha ordinato l’uomo ad un fine soprannaturale, cioè alla partecipazione di quei beni divini che superano l’intelligenza di ogni anima umana » (Concilio Vaticano, sess. III, Cost. de Fide catholic, c. 2). – Aggiungiamo un’ultima prova, basata, come quelle che precedono, su un’analogia molto sorprendente che: in ogni essere capace di conoscere, il modo di conoscere è in relazione alla natura propria di colui che conosce. Infatti, il modo e la portata della conoscenza sono diversi in Dio, diversi nell’Angelo, puro spirito, diversi nell’uomo, composto di spirito e materia, e diversi nell’animale privo di ragione, secondo la differenza delle proprietà e delle nature. – Ora, la natura dei figli adottivi di Dio non è più una natura puramente umana, una natura racchiusa nei limiti che essa comporta in virtù dei suoi principi costitutivi e della sua origine; è una natura elevata, trasfigurata dalla grazia, la natura di un essere divinizzato, una natura deiforme. Perciò è necessario, in accordo con la legge che regola il modo e il campo della conoscenza secondo la natura e le sue proprietà, occorre, al figlio di Dio, dico, una conoscenza commisurata a ciò che è diventato per grazia. Più tardi questa sarà nella pienezza del suo essere di grazia, la visione di Dio; ora deve essere la fede a rivelargli misteri sconosciuti alla ragione. Perché solo la fede può stare tra la conoscenza naturale e l’intuizione della gloria, condividendo le infermità dell’una e gli splendori dell’altra.

3. – Infine, la grazia è in noi la radice della virtù della speranza. Il vero amore non prescinde dal desiderio di un’unione sempre più intima con la persona amata. Per questo è così dolce per gli amici vedersi e vivere tra loro in modo familiare, e così difficile a volte essere separati per troppo tempo. E nella famiglia, che strazio quando la morte porta via un padre o dei figli teneramente amati! Che gioia quando siamo riuniti alla stessa tavola, nella stessa casa. – E così, dal momento che la grazia fa dell’uomo un amico di Dio e, ancor più, un figlio prediletto di questo Padre così amoroso; poiché sappiamo per fede che è possibile per noi avere con questo amico e Padre l’ineffabile unione che renderà la nostra beatitudine eterna, come può il desiderio di questa vita comune con Lui non essere il frutto naturale della grazia e della carità? E siccome il desiderio, senza la speranza di arrivare al possesso dei beni a cui si aspira, è il tormento dell’anima, era necessario che Dio, arricchendoci della sua grazia, desse alla fede e alla carità quella compagna inseparabile: la speranza divina. – Questa prova suppone l’esistenza della carità nell’anima del fedele. E ce n’è un’altra che non poggia necessariamente su questa ipotesi. La fede che ci ha fatto conoscere il nostro destino soprannaturale, ci mostra che esso non è solo sovranamente invidiabile, ma anche possibile con l’aiuto promessoci da Dio. Questo è sufficiente per far nascere in noi l’atto di speranza. Così io trovo in questa doppia rivelazione le due condizioni necessarie per aspirare al possesso di Dio: l’amore iniziale della bontà suprema e la fiducia di poterla raggiungere per goderne. E poiché, nei giusti, le abitudini infuse rispondono agli atti come una causa al suo effetto, ne consegue chiaramente che la grazia che ci giustifica non può entrare in un’anima senza portare con sé la santa speranza, forza e consolazione del nostro esilio. Diciamo dunque con il Principe degli Apostoli: « Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, il quale, secondo la grandezza della sua misericordia, ci ha rigenerati… nella viva speranza di quella eredità immortale e incorruttibile che ci è riservata nei cieli…  »  (1 Pet., I, 3-4- ).

4. – S. Tommaso riassume tutta questa dottrina in un passaggio molto bello nelle sue Questioni Controverse. Penso che sia utile dare qui tutto il testo, in modo che si possa abbracciare a colpo d’occhio tutto l’insegnamento del principe della Scuola sulla grazia e le virtù infuse. Dopo aver osservato che la funzione propria della virtù è quella di rendere buono l’essere che la possiede e l’atto che compie, e che, di conseguenza, la virtù si distingue dunque nell’uomo dai beni che sono appropriati all’uomo, il santo dottore continua: « Dobbiamo considerare che c’è un doppio bene per l’uomo:  uno che è proporzionato alla sua natura razionale, l’altro che supera incomparabilmente i poteri e le esigenze di questa stessa natura… Ora – egli aggiunge – tutto ciò che è ordinato verso un fine lo è per sua operazione. D’altra parte, è evidente che i mezzi debbano essere realmente proporzionati a questo stesso fine. La conclusione che segue rigorosamente da queste tre verità è che l’uomo, ordinato verso un fine soprannaturale, debba avere in sé delle perfezioni che superano in virtù i principi e le perfezioni proprie alla sua natura. Questo non potrebbe essere, se Dio, con la sua operazione onnipotente, non gli abbia infuso, oltre e al di sopra dei principi naturali, altri principi di operazione essenzialmente superiori alle sue energie native. – « Ora, i principi naturali di operazione, quelli che sono propri dell’uomo in quanto uomo, sono l’essenza dell’anima e le sue potenze ragionevoli, l’intelligenza e la volontà: l’essenza per cui è uomo; l’intelligenza, con quella conoscenza come innata dei principi primi che presiedono ad ogni sviluppo intellettuale; la volontà, con l’inclinazione naturale verso il bene che deve essere la perfezione della natura e il suo legittimo coronamento. È necessario, quindi, che l’uomo sia capace di compiere gli atti che lo ordinano al fine della vita eterna, debba, dico, avere in sé sia la grazia che dà all’anima l’essere spirituale, sia i principi di attività che sono in armonia sia con il nuovo essere che con il fine superiore per cui è fatto. – « Quali saranno questi principi? Prima di tutto, sono le virtù teologali, la fede, la speranza e la carità: la fede per illuminare l’anima con certe verità soprannaturali che sono in quest’ordine ciò che i principi naturalmente conosciuti sono nell’ordine della natura; la speranza e la carità per inclinare e muovere l’anima all’acquisizione del bene soprannaturale verso cui la volontà puramente umana non è sufficientemente ordinata. E, proprio come questi principi naturali richiamano con essi le abitudini di virtù che perfezionano l’uomo nell’ordine della natura, così è necessario che l’anima rigenerata riceva dall’influsso divino, oltre alla grazia e alle virtù teologali, altre virtù infuse che la perfezionino e la rendano capace di tendere, attraverso tutta la sua attività, al fine supremo della sua vita soprannaturale e divina » (S. Thom. De Virt. In comm. q., un., a, 10).

LA GRAZIA E LA GLORIA (14)