LA GRAZIA E LA GLORIA (14)
Del R. P. J-B TERRIEN S.J.
I.
Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901
Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.
TOMO PRIMO
LIBRO III
I PRINCIPI DI ATTIVITÀ CHE RISPONDONO ALLA GRAZIA – LE VIRTÙ INFUSE E I DONI DELLO SPIRITO SANTO.
CAPITOLO III
Delle altre virtù infuse, comunemente chiamate virtù cardinali, e delle loro dipendenze.
I. – Le ultime righe del testo di San Tommaso che abbiamo appena letto, ci indicano, insieme alla fede, la speranza, la carità, altre virtù divinamente infuse che darebbero l’ultimo complemento all’attività soprannaturale dei figli di Dio. Si è convenuto di chiamarle Virtù Cardinali, perché sono come l’asse attorno al quale ruota tutta la vita morale dell’uomo. I teologi ed i filosofi, seguendo i Padri, ne riconoscono quattro: prudenza, giustizia, temperanza e fortezza; virtù principali a ciascuna delle quali sono attaccate un numero più o meno grande di virtù secondarie che non sta a noi caratterizzare in dettaglio (S. Thom. de Virt. card. c. un. a. 1. cum sqq.; col. 1. 2, q. 61). Ciò che è più appropriato al nostro argomento è cercare se, nell’uomo divinizzato dalla grazia, queste quattro virtù con quelle loro annesse siano virtù infuse e soprannaturali in se stesse, allo stesso modo delle virtù più divine della fede, della speranza e della carità. Bisogna ammettere che non troviamo più qui il perfetto accordo che abbiamo trovato parlando delle virtù teologali. È opinione di diversi teologi, che però sono di minore autorità, che questa prerogativa di avere necessariamente Dio solo come Autore, e di essere quindi soprannaturale come e quanto alla sostanza, è appropriata solo alle virtù propriamente teologiche. Per quanto riguarda le altre, esse avrebbero il loro principio nelle forze della natura; e, se i loro atti sono meritori, questo valore verrebbe loro, non dalla propria eccellenza, ma dalla dignità della persona che li compie e da un’influenza più o meno esplicita della carità. – Supponiamo che due uomini compiano lo stesso atto di giustizia; questo atto sarà meritorio per colui che porta in sé la grazia, e non lo sarà per l’altro. Ciò che fa la differenza non è il valore del principio prossimo, che da entrambe le parti è puramente naturale, ma la diversità dello stato. Avremo occasione di studiare questa questione del merito con calma, quando verrà il momento di considerare i figli adottivi dal punto di vista della loro crescita, poiché il merito ne è uno dei fattori principali. Qualunque possa essere il peso dei motivi addotti dai sostenitori di questa visione, due considerazioni mi sembrano più o meno decisive a favore delle virtù cardinali infuse. La prima è una prova di autorità: ricordiamo la controversia che un tempo divideva i maestri della scienza sul tema della grazia santificante e delle virtù: i primi negavano che fossero conferite al Battesimo i secondi negavano che esse fossero conferite ai bambini nel Battesimo, e gli altri non stabilivano alcuna differenza tra i battezzati, qualunque fosse la loro età. Ora, su quali virtù verteva il dibattito? Si trattava solo delle virtù teologali, o si trattava anche delle altre? Il Papa Innocenzo III, in un famoso documento (Innoc. III, cap. 3 Majores.), ce ne dà la risposta: « Ciò che molti affermano, cioè che né la fede, né la carità, né le altre virtù siano infuse nei bambini battezzati, per mancanza di consenso, non è approvato da un maggior numero… » Pertanto, quando il Concilio di Vienne pronuncia che la sentenza affermativa è la più probabile, il termine “Virtù“, impiegato dai Padri, comprende sia le Virtù Cardinali che le Teologali, poiché erano entrambe oggetto del dibattito. – A questa venerabile autorità si deve aggiungere quella della Sacra Scrittura e della tradizione. Della Scrittura, dico: infatti, sono frequenti i passi in cui le nostre Sacre Lettere ci propongono la prudenza, la saggezza e la giustizia come atti o virtù, procedenti non dalla natura, ma dallo Spirito di Dio (Sap. VIII, 7; Gal. V, 22-23: II Pet. I, 4- 7, ecc.). – Se, nel consultare la Tradizione, noi chiedessimo ai Padri, essi ci risponderebbero per bocca del grande Agostino: « Le virtù che ho nominato (pietà, castità, modestia, sobrietà…), queste sono le cose che devono essere conservate sempre e ovunque, in pubblico come in privato, nel lavoro come nel riposo: perché queste stesse virtù abitano nel cuore. E chi potrebbe elencarle tutte? Esse ci appaiono come l’esercito del grande Imperatore che siede nel centro della tua anima. L’imperatore fa del suo esercito ciò che gli piace; così Gesù Cristo Nostro Signore, appena comincia a dimorare nell’uomo interiore attraverso la legge, si serve di queste virtù come ministri per realizzare i suoi disegni » (S. August. in I ep. S.. Joan. Tract. 8, n. 1). Questo testo è così bello che merita di essere messo per intero davanti agli occhi del lettore. “Opera misericordiæ, affectus charitatis, sanctitas, pietatis, modestia, sobrietatis, Semper hæc tenenda sunt. Sive cum in publico sumus, sive cum in domo, sive cum ante homines, sive cum in cubiculo, sive tacentes, sive aliquid agentes, sive vacantes; semper hæc tenenda sunt; quia intus sunt omnes istæ virtutes quas nominaxi. Quis autem sufficit omnes nominare? Quasi exercitus est imperatoris qui sedet intus in mente tua, Quomodo enim imperator per exercitum suum agit quodque (al. quod ei) placet; sic Dominus noster Jesus Christus incipiens habitare in interiore homine nostro, id est in mente per fidem, utitur his virtutibus quasi ministris suis. Et per has virtutes quæ videri oculis non possunt, et tamen quando nominantur, laudantur; non antera laudarentur nisi amarentur, non amarentur nisi viderentur; et si utique non amarentur nisi viderentur, alio oculo videntur, interiori cordis aspectu; per has virtutes invisibiles moventur membra visibiliter. Pedes ad ambulandum; sed quo? Quo moverit bona voluntas quæ militat bono imperatori. Manus ad operandum; sed quid? Quo jusserit charitas quœ inspirata est intus à Spiritu Sancto. Membra ergo videntur cum movenbur; qui jubet intus non videtur. Et quis intus jubeat, prope ipse solus novit qui jubet, et ille intus qui jubetur). – E, per caratterizzare meglio l’origine di questi doni, il santo Dottore ce li ha già mostrati come infusi nell’anima dei bambini piccoli, prima di qualsiasi uso dei loro poteri di ragionamento e fin dal Battesimo. – Veniamo alla seconda considerazione. Supponiamo che gli atti che dirigono e costituiscono l’osservanza della legge morale, quelli della giustizia, della religione, della temperanza ed altri, siano atti naturali in se stessi; supponiamo, per una successione conseguente, che le virtù da cui procedono non appartengano all’ordine delle virtù infuse, cosa ne risulterebbe? Questa conseguenza veramente stupefacente: che l’uomo trasfigurato nel suo essere dalla grazia, e divenuto deiforme, sarebbe deificato incompletamente nella sua vita morale; in altre parole, che la vita morale, in cui la dignità dei figli di Dio deve riflettersi, sarebbe esclusa da questa gloriosa trasformazione; perché i principi coinvolti rimarrebbero puramente naturali, come si possono trovare pure in un peccatore che è nemico di Dio. – Si può allora credere che Dio, che è così magnifico in tutti gli altri aspetti verso i suoi figli, abbia usato qui una tale parsimonia? Colui che, nell’ordine della natura, ha voluto che l’uomo avesse il potere di acquisire le virtù che lo ordinano all’adempimento più fedele e soave dei suoi obblighi morali di giustizia, temperanza e le altre virtù, avrebbe rifiutato lo stesso potere a colui che Egli eleva alla dignità di figlio? Un figlio degli uomini avrebbe le sue proprie virtù, e un figlio di Dio non avrebbe quelle che convengono alla sua nuova vita? Soprannaturalizzato nella sua tendenza immediata verso l’ultimo fine dalla fede, dalla speranza e dall’amore, non sarebbe più soprannaturalizzato nelle sue tendenze verso i fini intermedi e futuri, così indissolubilmente uniti con l’esistenza o la perfezione della carità! Io sono d’accordo che tra gli uomini, l’entrata in un nuovo stato di vita non richieda che solo una diligenza puramente incidentale nel modo di agire. Un semplice suddito che diventa imperatore o re, non riceve in sé un nuovo principio di azione che corrisponde alla sua nuova dignità. Né questo cambiamento di posizione sociale si basa su una trasfigurazione dell’essere interiore della persona che lo riceve. Ma la condizione dell’uomo a cui Dio dà il dono della sua grazia è ben diversa. Rivestito com’è di un nuovo essere, un essere che lo rende un dio, la sua vita morale deve corrispondere all’essere che ha ricevuto: deve avere un carattere superiore, e di conseguenza deve anche procedere da principii più alti dell’attività puramente naturale. Giudicare diversamente è stabilire una dualità di vita che nulla legittima (Vedi S. Franc. de Sales, Traité de l’amour de Dieu, L. VII, c. 6; S. Thom: 1,2 q. 63. A. 4) e da cui mancherebbe manifestamente l’opera di Dio per eccellenza. – Ciò che fa esitare molti a ricevere come infuse le virtù, intellettuali e morali, di cui qui difendiamo l’esistenza, è che non hanno potuto vedere come, nella loro intima natura, esse differiscano dalle virtù acquisite naturalmente con la ripetizione di atti. Eppure, che abisso tra le une e le altre, quando le guardiamo dal punto di vista della loro essenza specifica! Certamente, per fare solo un esempio, non è la stessa cosa praticare la temperanza secondo la regola imposta dalla ragione naturale, e osservarla secondo la regola propria dei figli di Dio, quella del Vangelo. – Non indulgere in eccessi nell’uso del cibo che danneggerebbero la salute del corpo, o moderare gli altri piaceri dei sensi in modo tale da vivere castamente, secondo gli obblighi dello stato di vita in cui ci si trova; non abbandonarsi alle inclinazioni disordinate che troppo spesso ci spingono ai piaceri proibiti; in una parola, mantenere la misura: questa è la natura propria della temperanza umana. Ma la temperanza del Cristiano che vive secondo i precetti ed i consigli del Vangelo, porta i suoi obiettivi ed i suoi sforzi molto più in alto. Non gli basta moderare i piaceri grossolani dei sensi; li rifiuta e li disprezza; non contento di governare il corpo, lo castiga e lo riduce in servitù. La croce è la sua delizia e la purezza degli Angeli la sua ambizione suprema. Vivere nella carne, come se non ci fosse più la carne, ecco fin dove arriva la temperanza di un figlio di Dio. – Sono ben consapevole che per avere la ragione ultima di questa rinuncia si deve tornare alla carità. Solo le anime fortemente innamorate dello Spirito Santo sono capaci di eccessi così eroici. Ma non ignoro nemmeno che, se è l’amore che le comanda, non è l’amore che deve eseguirne gli atti. Ogni virtù è determinata dal suo oggetto proprio e speciale – E siccome questo oggetto è per la carità Dio stesso, Dio sovranamente buono e sovranamente amabile, ne consegue chiaramente che l’oggetto della temperanza e delle altre virtù morali non sia immediatamente quello della carità. Dite, se volete, che queste virtù sono al servizio della carità; dei seguaci che la accompagnano per eseguire i suoi ordini, ciascuna nel suo dominio particolare, ed io lo sottoscrivo volentieri; perché l’ho imparato da S. Paolo. « La carità – egli dice – è paziente, è benigna, non è ambiziosa, non si gonfia », e così via. – Ma questo stesso richiede che queste Virtù appartengano allo stesso ordine della carità, che partecipino alla nobiltà del suo lignaggio, in una parola che siano virtù soprannaturali e, come la loro regina, divinamente infuse.
2. – Osserviamo che le virtù soprannaturali non escludono le virtù inferiori di cui la natura ci ha dato i germi, e che l’abitudine agli atti sviluppa più o meno prontamente nelle anime più di quanto la grazia non distrugga la natura stessa. Ma queste virtù umane non sono più, nel figlio di Dio, che le umili ausiliarie delle virtù superiori, e il loro ruolo è tanto più efficace quanto sempre più profonde esse gettano radici nelle profondità delle anime. – Ricordiamoci anche, perché lo si dimentica sì facilmente, che le virtù soprannaturali prevalgono su quelle della natura, non solo dal punto di vista dell’eccellenza, ma soprattutto dal punto di vista dell’attività, direi della virtualità, se fosse permesso usare questa parola. Infatti, esse non hanno solo lo scopo di facilitare il libero gioco delle nostre forze, o al massimo di perfezionare la loro stessa energia; ma danno loro anche una forza supplementare che non è nel loro dominio. Con esse, l’intelligenza alza le sue vedute ad altezze che nessuna mente creata potrebbe raggiungere, e la volontà conosce impulsi che la natura da sola non è in grado di produrre. Sebbene le virtù infuse diano all’anima una nuova potenza, non crediamo tuttavia che esse siano da sé stesse come le potenze naturali, un principio completo di operazioni. Per agire, esse hanno bisogno del concorso delle facoltà che suscitano e che servono loro da supporto. Non è che ci siano negli atti come due parti distinte, una delle quali una abbia la facoltà naturale e l’altra la virtù come causa: No: l’atto è tutto intero della virtù, come è tutto intero della potenza; infatti, la potenza e la virtù non formano che un principio prossimo che non è né la sola virtù, né la sola potenza, ma la potenza elevata, rafforzata, divinizzata dalla virtù. Non c’è nulla di identicamente simile nell’ordine degli agenti naturali, ma se ne possono trovare alcune lontane analogie. Vedete questa opera d’arte, un dipinto, per esempio: essa è del pittore e del pennello: tutto del secondo, tutto intero del primo. Ma il pennello, questa, non l’avrebbe mai fatta, se il genio dell’artista non l’avesse diretto, né vivificata con la sua azione. E, in un altro ordine, la sensazione, non è tutta del corpo e dell’anima, cioè dell’organo animato? – Se mi chiedete cosa ci sia nell’atto soprannaturale che richieda l’influenza della facoltà naturale, vi risponderò: È che esso è un atto di intelligenza o di volontà. Chiedetemi cosa sia la virtù infusa, e vi risponderò di nuovo: che essa è superiore ad ogni conoscenza, ad ogni volontà puramente umana. Certamente non che questi due elementi siano separati, né separabili nell’atto soprannaturale; ma comunque sono uniti in un’unità molto semplice, l’atto così com’è, o non sarebbe, o non sarebbe quello che è senza la doppia influenza che lo rende tale. Dire, come alcuni sembrano aver fatto, che la facoltà naturale non abbia nulla a che fare con l’operazione soprannaturale, e che tutto il suo ruolo si limiti a servire da supporto alla virtù, è dimenticare che la facoltà dell’anima è solo elevata nella sua attività per essere elevata nel suo atto. In verità, non so più perché la carità non debba essere nell’intelligenza e la fede nella volontà, se l’intelletto e la volontà non abbiano alcuna partecipazione attiva nella produzione degli atti che emanano dall’una e dall’altra virtù.
3. C’è una conclusione molto pratica da trarre da queste considerazioni sulle virtù infuse. Abbiamo ammirato in loro tutto un sistema di forze il cui possesso arma l’uomo, in vista dei combattimenti della vita cristiana, un’organizzazione completa per questo nuovo essere che è il figlio adottivo di Dio. Non lasciamo che la nostra armatura arrugginisca in un vergognoso riposo; usiamo questi meravigliosi organi, e non lasciamo che ciò che ci è stato dato per agire rimanga in una vile inerzia. È un gran peccato vedere un uomo di bei talenti e di grande intelligenza languire nell’ignoranza e nella pigrizia. Sarebbe un peccato minore se i Cristiani, portando nelle loro anime così tanti e così alti principi di attività soprannaturale, li annullassero con la loro indolenza, a rischio di perderli presto insieme alla vita divina che li sostiene? – Voi avete in voi la fede, la speranza e la carità; quelle abitudini di virtù che sono la pazienza, la dolcezza, la longanimità, la modestia, la continenza, la castità (Gal. V, 22), lo Spirito Santo li avrebbe seminati nelle vostre anime venendo Lui stesso a fissarvi la sua dimora, ed esse sarebbero lenti a rivelarsi con i loro atti? Sarebbe una pianta su cui pochi fiori sboccerebbero a malapena e che al massimo darebbe dei magri frutti? Ascoltiamo l’Apostolo e prendiamo per noi l’esortazione che ha fatto agli Ebrei, dopo aver raccontato lo stato disastroso di una terra che, spesso irrigata dalla pioggia, non produce altro che rovi e spine: « Miei diletti, benché parliamo in tale modo, noi ci aspettiamo cose migliori da voi e più vicine alla salvezza… noi desideriamo che non diventiate indolenti, ma imitatori di coloro che per fede e pazienza erediteranno le promesse » (Ebr., VI, 9-13 ).