LA GRAZIA E LA GLORIA (4)

LA GRAZIA E LA GLORIA (4)

Del R. P. J-B TERRIEN S.J.

I.

Nihil obstat, M-G. LABROSSE, S. J. Biturici, 17 feb. 1901

Imprimatur: Parisiis, die 20 feb. 1901 Ed. Thomas, v. g.

TOMO PRIMO

LIBRO PRIMO

IL FATTO E LA REALTÀ DELL’ADOZIONE DIVINA

CAPITOLO III.

Preminenza molteplice dell’adozione divina rispetto alle adozioni umane.

È il momento di gettare uno sguardo all’indietro per mostrare con ciò che abbiamo visto come l’adozione divina differisca dalle adozioni umane. Adottare è concedere spontaneamente ad una persona estranea per origine, il titolo di figlio ed i diritti di erede. Con l’adozione perfetta il soggetto di questo favore entra così bene nella famiglia del padre adottivo che gode delle stesse prerogative come se gli appartenesse, non per privilegio, ma in virtù della sua nascita. Questo è ciò che Dio fa per amore, ed è così che ci adotta. Sì, entriamo nella sua famiglia benedetta, e per la sua grazia apparteniamo alla società del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Questa è la dottrina dei nostri Libri Sacri, e la nostra infinita consolazione e gloria è che non possiamo dubitarne, dopo tante solenni affermazioni. « Fedeli a Dio, per mezzo del quale siete stati chiamati alla Società con Gesù Cristo nostro Signore », scrive San Paolo ai fedeli di Corinto (1 Cor. I, 9). E S. Giovanni, l’Apostolo dell’amore: « Quello che abbiamo visto e udito ve lo annunciamo, perché entriate voi stessi in società con noi, e perché la nostra società sia con il Padre e con suo Figlio Gesù Cristo » (1 Gv. I, 3). Ma ammiriamo le differenze tra l’adozione umana e l’adozione divina, e vediamo come la seconda sotto ogni aspetto e da ogni punto di vista superi incomparabilmente la prima.

1. – In primo luogo, trovo che da parte di Dio l’adozione è infinitamente più spontanea, più un’opera d’amore, che da parte degli uomini. S. Agostino ci ha detto che ciò che ha introdotto l’adozione tra gli uomini sia stata o l’intimità naturale dei genitori, o la perdita e talvolta l’indegnità dei figli che Dio aveva dato loro. La natura rifiuta che i bambini, desiderati in casa, siano da lì portati via; lo si fa per scelta e per amore. Ci può essere qualche figlio, indegno del nome che porta, i cui crimini lo hanno estromesso dalla famiglia, come avviene ancora in Estremo Oriente: lo si rimpiazza con uno più degno, talmente che l’interesse proprio non abbia meno parte all’adozione che la benevolenza e l’amore. – Certamente, questo non è il caso del nostro grande Dio, quando vuole scegliere dei figli adottivi tra le sue creature. Da tutta l’eternità Egli ha generato un Figlio uguale a se stesso; un Figlio che delizia il suo cuore e riempie tutta la sua capacità di amare, così come esaurisce, per così dire, la fecondità del Padre; un Figlio, in una parola, che Egli ama e che lo ama di un amore tale che, amandosi, producono lo Spirito Santo, pegno e vincolo infinito del loro amore infinito. Qual dispiacere ha mai causato quest’Unico a suo Padre, e che bisogno Egli potrebbe avere di un altro figlio per essere eternamente felice, eternamente perfetto? Da dove viene, quindi, che avendo un Figlio, nato dalle sue viscere, un Figlio, l’oggetto più degno della sua indulgenza, Egli voglia tuttavia adottarci? Se non è ovviamente né l’indigenza né la necessità che vi obblighi, quale altra ragione può avere se non la sovrabbondanza infinita del suo amore? Certamente, l’Apostolo S. Giacomo ha detto con verità: “Voluntarie genuit nos“; Egli ci ha generati con la sua Volontà; una volontà libera, una volontà spontanea, una volontà gratuita ed amorosa, che lo ha portato a dare fratelli al suo Unico, e coeredi al diletto del suo cuore. (Bossuet, sermone per la festa del Rosario, 1° punto). – L’effusione della sua bontà non si ferma però qui. Non contento di unire al proprio Figlio i figli che adotta per misericordia, Dio consegna questo Figlio alla morte per dare alla luce gli adottivi. E non sono io a dire questo: è Gesù Cristo stesso che ce lo insegna nel Vangelo. « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, affinché quelli che credono non periscano, ma abbiano la vita eterna » (Joan. III, 15). Vedete: offre il Figlio proprio per far vivere i figli d’adozione, e la stessa carità che lo abbandona e lo sacrifica, ci adotta, ci rigenera e ci vivifica. Ecco, dunque, di nuovo la nostra adozione alla sua fonte: l’amore infinitamente disinteressato del Padre. – A questo si aggiunga l’amore non meno disinteressato del Figlio. Se è stato offerto dal Padre suo, Egli stesso si è offerto; e ognuno dei figli dell’adozione può e deve ripetere appresso a S. Paolo: « Se io vivo, anzi se Gesù Cristo vive in me… è perché Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me » (Gal. II, 20). Quanto è vero, quanto è urgente l’invito dello stesso Apostolo ai Cristiani di Efeso: « Siate imitatori di Dio, come figli amati, e camminate nell’amore, come Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi come offerta a Dio e come Ostia di odore soave » (Efesini V, 1-2). « Egli ci ha volontariamente generati con il Verbo di verità », cioè, secondo un’interpretazione molto plausibile del testo, da suo Figlio. Se fossimo stati solo servi, sarebbe stata già una grazia incomparabile; ma schiavi per natura, eravamo ancor più una razza decaduta, ribelle, decisamente indegna dei favori divini. E di quanti oltraggi personali abbiamo aggravato l’ingiuria fatta a Dio per mezzo del capo e rappresentante della famiglia umana. Ed ecco su quale letamaio Dio stesso è venuto a prenderci, per elevarci al rango di principi del suo popolo (Sal. CXII, 7), cioè, tra i suoi figli adottivi che sono rimasti immutabilmente fedeli a Lui che li aveva creati nella giustizia.

2. – Più gratuita, più opera d’amore delle adozioni umane, l’adozione divina le sopravanza ancora in efficacia (S. Th., III p. q. 23, a, 1). Così è delle opere di Dio come della sue perfezioni. Quand’anche le une e le altre abbiano qualche rapporto con le nostre perfezioni e le opere delle nostre mani, esse sono sempre infinitamente superiori per la loro singolare eccellenza. Non devo mostrare qui quanto le perfezioni di Dio sorpassino le nostre: la Sapienza di Dio, la nostra sapienza; la sua giustizia, la nostra giustizia; la sua bontà, la bontà della creatura, per quanto grande noi supponiamo che sia. Ma per comprendere l’argomento che ci occupa, dobbiamo insistere sul confronto delle opere, o meglio ancora sui loro contrasti. Accanto alle creazioni di Dio, ci sono quelle che si chiamano le creazioni dell’uomo. I nomi sono comuni, ma nelle cose che differenza! L’atto creativo di Dio cerca il fine della sua attività fin dal nulla, mentre tutto il genio dell’uomo è impotente a fare dal nulla il più piccolo granello di polvere. – Dio e l’uomo possono affidare ad altri una parte della loro autorità, da esercitare sotto la loro dipendenza. Ma, se il Superiore è un uomo, l’azione con cui comunica il suo potere non penetra nelle profondità dell’essere per cambiarlo internamente; nessun perfezionamento fisico né nel corpo né nell’anima, risponde a questa comunicazione di autorità.  Tali non sono le attribuzioni di poteri fatte dalla munificenza del nostro Dio. Se dice all’uomo: «Tu dominerai sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su tutte le bestie che si muovono sulla faccia della terra », gli dà la ragione del governarli, del dirigerli ed usarli (Gen. I, 28). Se, in un ordine superiore, Egli vuole che gli uomini ricevano e conferiscano i sacramenti della Chiesa per la loro propria santificazione e per la salvezza dei loro fratelli, questo potere di riceverli e questo potere di conferirli comporta per i battezzati che ricevono e per i ministri del santuario che conferiscono, una perfezione altrettanto reale e altrettanto vera del nostro potere di conoscere e di volere, il carattere sacramentale. – L’uomo può insegnare all’uomo. Ma come insegna? Tutta la sua azione si riduce immediatamente a segni esterni. È una direzione per l’intelligenza del discepolo; ma la parola del maestro non arriva direttamente all’intelligenza per risvegliarla, rafforzarla, crearla. L’insegnamento che Dio dà alla sua creatura è diverso. Egli è il Maestro che illumina producendo in essa il potere stesso di conoscere e di sentire (Giovanni I, 9); il Maestro che penetra quanto vuole anche nelle ultime pieghe dell’intelligenza per far nascere nuove idee, le più alte, le più luminose, in assenza di qualsiasi segno, indipendentemente da qualsiasi concorso preventivo degli Organi, nel silenzio di tutto ciò che non è Lui. Nostro Signore ci dice dunque che Lui è il Maestro davanti al quale tutti gli altri maestri sono come se non lo fossero, Egli il grande, l’Unico Maestro della creatura ragionevole. « Non lasciatevi chiamare maestri, perché non avete che un solo Maestro, il Cristo » (Matt. XVIII, 10). – Dove ci conducono queste considerazioni, se non a concludere che la paternità, quando è Dio che si fa dei figli, debba prevalere in efficacia su ogni altra paternità di adozione. Perché l’uomo che adotta il suo simile non comunica nulla di intrinseco al bambino che fa suo, né la sua natura, poiché questo bambino è un uomo come lui; né le qualità che possono determinare la sua scelta, poiché questa scelta le suppone e le motiva. Impotente nel dargli una salute più fiorente, un Sangue più generoso e più puro, una mente più viva, non gli da altro con il suo amore che un titolo e dei diritti: il titolo di figlio, i diritti di erede. Ben diversa è la condotta e l’amore del nostro Dio, quando per la sua grazia si degna di allargare il cerchio della sua famiglia e di scegliere per sé dei figli di predilezione. Ed è questo che dobbiamo studiare più particolarmente, alla scuola del Dottore Angelico. San Tommaso fa notare che c’è una differenza essenziale tra l’amore del Creatore e quello della creatura. Ciò che muove la volontà dell’uomo è il bene che preesiste nelle persone o nelle cose; ne consegue che l’amore umano non causa la bontà di ciò che ama, ma la presuppone in parte o addirittura in tutto. Al contrario, l’amore di Dio produce il bene nel suo termine per renderlo degno della sua compiacenza. Ciò che ama in se stesso non è ciò che trova, ma ciò che porta. Amare, per Dio, è volere e fare il bene. Quando diciamo che Dio ha più o meno amore, il più o il meno non deve essere inteso nel senso di una maggiore o minore intensità nell’atto con cui ama: poiché Egli ama tutte le cose e se stesso con un solo e medesimo atto, sempre semplice e sempre immutabile, che non è altro che la sua stessa essenza. Ma questo più e questo meno si riferiscono ai beni che Egli conferisce a coloro che ama (S. Thom.1 p, q. 20 a. 2 e 3). – Perciò, per amare gli uomini con questo amore speciale che li rende figli di adozione, è necessario che Egli li trasformi arricchendoli di perfezioni interiori e molto reali, in relazione all’amore che porta loro e alla dignità che conferisce loro (S. Th. C. Gent. L. III, c. 150, n. 2; de Verit. Q. 27, a, 1). – E questo è chiaramente ciò che ci dicono sia la Sacra Scrittura che i nostri Dottori nei testi già citati. Come capire una nuova nascita, una rigenerazione, una creazione, un rinnovamento di tutti noi stessi senza un cambiamento interiore? È possibile riparare nell’uomo l’immagine di Dio, renderlo parte della natura divina, rifarlo, ricrearlo, rifondarlo (tutte espressioni usate dagli Scrittori Sacri e dai Padri), e non aggiungere nulla di reale al suo essere? No, senza dubbio (Sup. I, 1, c. 2, p. 18-31). Si può discutere sulla natura di questa sublime metamorfosi, e avremo occasione di scartare le opinioni meno sicure per sostituirle con la vera dottrina. Ma da questo momento si impone una Conclusione: l’adozione divina è eccellentemente più efficace di tutte le adozioni umane.

3. – In terzo luogo, aggiungiamo che è infinitamente fruttuoso. « Se siete figli, siete eredi: eredi di Dio, coeredi di Gesù Cristo » (Rom. VIII, 18). Qual è il bene di Dio? Dio stesso! Sarebbe Egli Dio se dovesse cercare fuori di sé la sua ricchezza e il suo tesoro? Conoscersi infinitamente, amarsi infinitamente, è per lui possedere il bene sovrano, la sua infinita ricchezza e il suo tesoro; possederlo, dico, nella sua pienezza. E poiché questa contemplazione e questo amore di se stesso sono Se stesso, da ciò deriva che Dio non solo è felice e ricco, ma è la sua stessa ricchezza, e la sua stessa beatitudine (S. Thom. C. Gent. L. I, C. 41 e 101). In virtù dell’ineffabile trasformazione che ci fa entrare come figli nella famiglia di Dio, noi poveri e miserabili come siamo, noi abbiamo in noi il diritto di partecipare un giorno alla beatitudine di Dio, a quel godimento che Egli ha di se stesso attraverso la visione e l’amore. Così, facendoci suoi figli, ci consacra suoi eredi, poiché ci chiama a possedere con Lui il Bene supremo. Una ricca, una splendida eredità (Sal. XV, 6): cosa sono, se comparate a Lui, le eredità terrestri? – Eredi di Dio; coeredi di Gesù Cristo; poiché questa è anche l’eredità che l’Unico ricevette come uomo, quando divenne nella sua umanità « plenus gratiæ et veritatis, pieno di grazia e di verità » (Joan, I, 14). Più tardi cercheremo di formarci un’idea meno confusa delle ricchezze indicibili che Dio riserva ai suoi figli adottivi; ma è già una conoscenza molto alta di esse sapere che sono al di sopra di tutto ciò che la mente dell’uomo possa immaginare e il suo cuore desiderare. – Qui, qualche lettore potrebbe fermarsi a considerare questa speciosa obiezione. Se sono solo un figlio per adozione, e, quindi, se non ho in me la natura stessa di mio padre, né la bontà né la bellezza divina sono mie. Non è infatti la mia ricchezza, ma solo quella di Dio. Senza dubbio, risponderei, queste perfezioni non saranno mai le nostre: né la saggezza, né la giustizia, né la grandezza, né l’onnipotenza, né, per dirla in una parola, l’essere sussistente, l’essere che non essendo che essere è tutto l’essere, può diventare la mia saggezza, la mia giustizia, la mia grandezza, la mia potenza, il mio essere. Ma non è meno vero che questa bontà suprema può essere il mio possesso, e di conseguenza la mia eredità. Perché cos’è possedere pienamente una cosa, se non goderne secondo la propria volontà; goderne immutabilmente, senza che nulla ci separi mai da essa? Cosa importa che questo campo non sia di mia proprietà, se sono assolutamente sicuro di conservarne sempre l’usufrutto ed il godimento? Ora, il godimento e il possesso della Verità Suprema e della Bellezza Sovrana consistono nel conoscerle ed amarle. Perciò, possedendo Dio attraverso la conoscenza e l’amore, entro veramente nel godimento; e sono un erede: un erede di diritto, se porto la grazia di Dio nel mio cuore; un erede di diritto e di fatto, se porto la grazia di Dio nel mio cuore; erede di diritto e di fatto, se muoio con la stessa grazia. « Ma, amati, ora siamo figli di Dio; ma ciò che saremo non appare ancora. Sappiamo che quando apparirà, saremo simili a Lui, perché lo vedremo come Egli è » (I Joan. III, 2).

4. – È qui che dobbiamo ancora ammirare un’ultima prerogativa che chiamerò, in mancanza di un altro nome, la singolarità dell’adozione divina. Tra gli uomini, l’adozione, quando suppone qualche bambino nella famiglia, non può avvenire senza portargli pregiudizio o causargli dispiacere. A volte soffrirà nel suo onore, e, se l’onore è salvo, almeno soffrirà una divisione con un altro nell’eredità paterna e nell’amore. Non c’è niente del genere da temere invece, quando si tratta di adozioni divine. Mi chiedo: quale danno e quale dispiacere può ricevere il Figlio secondo la natura, Gesù Cristo Nostro Signore, dai fratelli che suo Padre si degnerà di dargli? Un pregiudizio: ma non resta ancora l’unico Figlio di Dio? È Lui stesso meno perfetto, meno santo, meno potente, meno Dio? Ditemi, quale prerogativa perde, e se cessa di essere infinitamente amato da un amore infinito? Un dispiacere; ma questa adozione, chi l’ha voluta, chi l’ha fatta, chi ha pagato con il Suo Sangue, volontariamente, liberamente, se non Lui? – La gloria di Dio è che Egli è così grande, così buono, talmente bello, così ricco, che senza esaurirsi, né perdere la minima parte delle sue infinite perfezioni, può riversare a torrenti sulle sue creature bontà, bellezza, grandezza e ricchezza. La gloria del Figlio Unigenito è che Egli può, rimanendo l’Unico nella sublimità incomunicabile della sua sfera, diventare, nella sua qualità di uomo, lo strumento ineffabile delle adozioni paterne. Pretendere di escluderle per l’onore del Figlio Unigenito, significa dire o che la perfezione di questo Unigenito sia troppo limitata per essere comunicata senza essere diminuita, o che il sangue versato da Lui sul Calvario non sia stato un prezzo pagato sovrabbondante alla dignità dei figli adottati. Per me, Gesù, mio Salvatore, mio fratello e mio Dio, Voi mi apparite tanto più bello, tanto più ricco e più amato, tanto più l’Unico del Padre, che vi dà più fratelli ed eredi. Il loro splendore accresce la vostra grandezza; e più numerosi li vedo affollarsi intorno a Voi, più vi ammiro e vi amo. – Dopo questo, che bisogno c’è di mostrare che la crescente moltitudine dei figli adottivi, lungi dall’essere una diminuzione dei privilegi per ciascuno di essi, non divenga piuttosto un meraviglioso accrescimento in loro? Nel cuore del Padre comune c’è posto per tutti, poiché questo cuore è infinito come Dio stesso. Non mi stupisce che tutte le eredità umane siano frammentate quanto più numerosi diventano gli eredi: sono beni materiali il cui possesso, per essere perfetto, deve essere esclusivo. Ma l’eredità spirituale, Dio, la verità posseduta dall’intelligenza, Dio, la bontà posseduta dall’amore, può essere tutta mia benché sia tutta vostra. Le due braccia con cui Lo stringo nel mio spirito e nel mio cuore non possono diventare un ostacolo al vostro abbraccio. Colui che è più vicino a questo grande e sublime spettacolo, non impedisce a nessuno di contemplarlo ed ammirarlo. Dall’alto del cielo il sole non mi illumina di meno, perché ci sono milioni di altri uomini a ricevere la sua luce con me (S. Agost. de Lib. L. Il, c. 14, Ricard. Victor. in Cact. c. 10). – Così la felicità del possesso in un figlio adottivo non esclude la felicità dell’altro; ne è piuttosto il complemento. Possedere Dio è la mia ricchezza e la mia felicità. Lo possiedo mille volte di più, se i fratelli che amo e che considero nella carità come altri me stesso, sono mille a possederlo con me. E non è tutto; contemplando Dio faccia a faccia ed investiti della sua luce, diventano tanti specchi splendenti in cui vedo con piacere ripetersi la bellezza che ammiro e che amo. A maggior ragione l’eredità del primogenito non può diminuire quella dei figli adottivi, così come l’eredità di questi ultimi non può diminuire quella del primogenito. né l’eredità di quest’ultimo può essere diminuita dalla loro. Né la sorgente sempre piena è in pericolo di inaridirsi per il defluire nei ruscelli; né i ruscelli sono impoveriti per fluire da una fonte inesauribile. – Aggiungiamo, prima di concludere, che questa eredità comune dei figli di Dio non conosce duolo. Sulla terra, perché i figli entrino nel godimento dei beni del padre, la morte deve colpire il padre e far posto agli eredi una volta eliminato. Ma l’eredità che i figli adottivi di Dio attendono è Dio stesso; e per loro sapere che Dio è il Re immortale dei secoli è essere sicuri che la loro eredità sia immutabile e che niente potrà mai rapirgliela: niente, dico, né la caducità del bene che sperano, né la morte dell’erede, poiché Dio, questo sommo Bene, eterno in sé, dà la vita eterna a chi lo possiede. – Dopo questa meditazione, chi non vorrebbe sottoscrivere le parole del santo Papa, Leone Magno: « Omnia dona excedit hoc donum ut Deus hominem vocet filium, et homo Deum nominet patrem (S. Leo. serm. 26 al. 25, in. Nativ., 6, c. 4). Il dono per eccellenza, quello che supera incomparabilmente tutti gli altri, è quello per cui Dio dica all’uomo: “Figlio mio!”, e l’uomo chiami Dio: “Mio padre”. Che gli altri si glorino delle loro ricchezze, delle loro dignità, delle loro alte alleanze; il Cristiano ha ben altra gloria: Io sono della famiglia di Dio, il figlio di Dio, l’erede di Dio. « Filius Dei sum ego ». Capirà quale eccesso di onore comporti questo titolo, colui che può capire cos’è Dio e il suo Figlio primogenito, Gesù Cristo nostro Signore. – Ma una parentela così alta, una filiazione così ammirevole, quanta santità di vita richiede! Pertanto, « che la razza eletta, la nazione reale, risponda alla dignità della sua rigenerazione; ami ciò che è amato dal Padre suo, e non sia mai in disaccordo con il suo autore, temendo di meritare quel reclamo che già fece una volta per bocca d’lsaia; ho nutrito ed esaltato dei figli, che mi hanno ricoperto di disprezzo » (S. Leo, Serm. loc. cit., c. 3). « Sì, poiché ci è dato di chiamare Dio nostro Padre, comportiamoci da figli; se ci compiacciamo per avere Dio come nostro Padre, facciamo che Egli si compiaccia per averci come figli, siamo in verità i templi di Dio, e sia manifesto che Egli abiti in noi: divenuti celesti e spirituali, non pensiamo, non amiamo se non ciò che sia del cielo e dello spirito » (S. Cipr., de Orat. Dom. n. 11). Ed è così che i Santi Dottori fanno emergere la lezione della nostra grandezza. Gesù Cristo l’aveva insegnato prima di loro: « Io vi dico: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano; pregate per i vostri persecutori e i vostri calunniatori. » E perché questi atti eroici della carità Cristiana? « Affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli » (Matt. V, 44-45); esserlo per la somiglianza delle opere, « poiché Egli fa risplendere il suo sole sui buoni e sui cattivi »; diventarlo con l’imitazione sempre più perfetta, « affinché gli uomini, testimoni delle nostre virtù, glorifichino il Padre che è nei cieli » (Matt. V, 16; col. I Pet. II, 12). Allora potremo dire di ognuno di noi, in tutta proporzione, ciò che il centurione professò di Gesù Cristo, nostro fratello maggiore, sul Calvario: « Vere filius Dei erat iste » (Matt. XXVII, 54): Sì, costui è veramente un figlio di Dio!

LA GRAZIA E LA GLORIA (5)