LO SCUDO DELLA FEDE (194)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXIX)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUINTO

I NOVISSIMI

V. — Il Cielo.

D. Come comprendi tu il cielo?

R. «L’occhio dell’uomo non vide, né l’orecchio udì, né il cuore ha compreso quello che Dio riserva a quelli che lo amano » (S. PAOLO).

D. Tuttavia?…

R. Tu conoscerai un giorno il cielo, come spero, possedendolo.

D. Ma in attesa del compimento di questo voto benevolo

R. Il cielo, come S. Paolo c’insegna, non ci vien descritto se non per mezzo di misteri; quello che se ne attesta, è la sua incomprensibilità. Ad ogni modo, noi vi dobbiamo vedere un tesoro di gioia.

D. È questo un dato di moralità veramente pura? Dobbiamo guardare alla gioia, e soprattutto collocare in essa il nostro ultimo fine?

R. Ascolta la risposta di Bergson: «I filosofi, che hanno speculato sopra il significato della vita e sopra l’ultimo fine dell’uomo, non han notato abbastanza che la natura si è data la pena d’informarci appunto intorno a se stessa. Essa ci avverte con un segno preciso che la nostra destinazione è raggiunta, e questo segno è la gioia ».

D. Come giustificheresti questa dottrina?

R. Si giustifica appena si pensa a quello che sono a nostro riguardo le intenzioni della Provvidenza, così come la natura delle cose, la ragione e la fede ce le manifestano. Noi non siamo sopra la terra se non per spiegarvi la nostra vita, finirla in perfezione umana e  soprannaturale, e ciò mediante un’attività retta, felice, feconda per noi e per tutti. Coloro che, secondo Kant, vollero stabilire la moralità sopra altre basi in realtà la camparono in aria, senza darle nessuna radice nella realtà naturale e umana.

D. Ma ciò non è propriamente la gioia.

R. Ne è la condizione, e la gioia ne è la testimonianza. Secondo Spinoza, Leibniz, Aristotile, ai quali aderisce San Tommaso d’Aquino, la gioia è l’espressione di un’espansione, come la tristezza è un restringimento e un regresso della vita.

D. Che cosa ne concludi?

Che lo scopo di tutta la vita è di essere in gioia, e che la virtù non è altro che il mezzo autentico di arrivarci.

D. Ciò fa la figura di paradosso epicureo.

R. Quando si comprende male. Ma ricordati di quegli altri paradossi che si chiamano le Beatitudini evangeliche; esse commentano la dottrina confermandola. Beati quelli che… Ecco posta la questione della felicità, la quale dunque è ammessa e anche proposta come fine. Al termine di ogni formula così cominciata, si trova: Perché il regno dei cieli è di loro; perché saranno consolati; perché saranno saziati, ecc., ed ecco il risultato ottenuto. Finalmente fra i due si trova il mezzo virtuoso: l’amore del prossimo, la purezza del cuore, la fame e la sete della giustizia, l’accettazione dei dolori provvisori, ecc.

D. Dunque il cielo non sarebbe altro che un compimento armonico di noi stessi, nella gioia, dopo una vita di virtù?

R. Esattamente, aggiungendo con maggior precisione che il compimento armonico di se stesso, per il Cristiano, importa un innalzamento. Ma questo innalzamento soprannaturale essendo ab æterno nell’intenzione creatrice, è per noi normale. Aristotile non diceva già che l’uomo non può giungere a capo di se stesso che oltrepassandosi?

D. Essere virtuosi non è dunque solamente meritare il cielo, ma salirvi effettivamente.

R. L’uomo che fa il bene si dedica effettivamente, benché misteriosamente, alla vita eterna; entra progressivamente in un mondo di gioia; fa se stesso gioia; diventando perfezione, diventa cielo; difatti «l’uomo nella sua forma perfetta è cielo » (SWENDENBORG).

D. Il cielo sarebbe dunque un effetto, un prodotto autentico della stessa attività virtuosa?

R. Sì. Il prodotto superiore dell’anima è il cielo. Il regno di Dio è dentro di voi, disse il divin Maestro.

D. Tuttavia il cielo significa altro.

R. Quest’altro è accessorio. Il cielo, nella sua sostanza, è uno stato dell’anima, e questo stato ha il carattere di compimento felice, di un’espansione nella pienezza, il cui segno naturale è la gioia. Perciò Gesù nel suo tenero discorso di addio, si esprime così: Io vi ho detto queste cose (i suoi comandamenti, e specialmente la sua legge d’amore), affinché la mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia perfetta.

D. E ciò è fatto per tutti? È alla portata di tutti?

R. Sì, perché Dio è alla portata di tutti; Dio supplisce, là dove l’uomo manca; Dio compie, quando l’uomo ha cominciato. Perciò la beatitudine cristiana non è più la meta del dilettante greco che, lontano dalla folla, si esercita ad effettuare l’uomo « bello e buono » in cui egli vedeva l’immagine di una felicità principalmente astratta; ma è una beatitudine essenzialmente e universalmente umana, proposta a tutti, che tutti possono conseguire appena lo vogliano, quand’anche, come dicevo, a cagione delle circostanze delle quali essi non sono responsabili, non lo sapessero.

D. Dunque, rispetto alle insufficienze di questa vita, il cielo sarebbe un ammirabile compenso?

R. Il più diseredato dei figli di Dio non può disperare della sua fortuna: « gli resta un regno intero » (BOSSUET).

D. E rispetto ai dolori è una piena consolazione?

R. Gli eletti lo proclameranno, « quando riconosceranno i giorni della loro angustia più profondi e più belli che i giorni di felicità » (C. PÉGUY).

D. È anche un progresso? Il cielo comporta una evoluzione di felicità, un accrescimento?

R. Il cielo è il compimento infinito della speranza, con la speranza ancora.

D. Come il « perfetto » può crescere?

R. Per la sua propria espansione. Un grano perfetto genera un albero perfetto; un albero perfetto ne genera un altro. La semenza dei beni eterni è di una virtualità infinita, poiché è Dio stesso.

D. Ma tu rinunzi a descrivere questo cielo?

R. La nostra povera esistenza offre troppo poche gioie per fornirci qui delle immagini efficaci, e il soprannaturale non ha equivalenti umani. Tuttavia, ciò che non si può descrivere, si può tentare di precisare.

D. Che ne dici dunque?

R. Già ho distinto il principale e l’accessorio, che, in teologia, si chiama la gloria essenziale e la gloria accidentale. Di questa parleremo fra poco; ma l’essenziale della « gloria » celeste, quello che effettua questo compimento perfetto e felice di cui parlavamo, è l’entrata dell’anima in Dio, è la sua unione intima con Dio, la sua partecipazione alla vita stessa di Dio, come abbiamo notato quando parlavamo del soprannaturale nella sua essenza e nelle sue mire ultime.

D. Il Cristiano non pretende forse già di essere unito a Dio, di vivere già in Dio?

R. Sì, perciò la vita eterna non consiste nell’incontrare Dio, ma nel « rivederlo », come diceva Leone Bloy, cioè nel contrarre con Lui una società di vita più doviziosa, un’amicizia se non più intima, almeno più « sensibile al cuore », come direbbe Pascal.

D. Come sì stabilisce questo legame?

R. Dio è tutto spirito; noi siamo principalmente spiriti: questo vincolo, nel primo stadio, non può essere che un vincolo di spirito.

D. È uno stato dell’intelletto, oppure del cuore?

R. L’intelletto comincia sempre. È l’intelletto che esercita la presa; il cuore si riposa poi nell’oggetto conquistato.

D. In che consiste questa presa di Dio mediante un umano intelletto?

R. Qui noi non possiamo fare altro che balbettare. In mancanza di spiegazione reale, noi chiamiamo ciò una cognizione intuitiva, una visione, volendo significare che l’intelletto prende coscienza di Dio, a modo suo, con la stessa evidenza che l’occhio di carne prende coscienza dell’oggetto che esso vede.

D. Si può chiarire un po’ meglio questa nozione?

R. Descartes lo tenta. « La conoscenza intuitiva, dice egli, è un’illustrazione dello spirito per la quale esso vede nel lume di Dio le cose che a lui piace scoprirgli (e prima di tutto Dio stesso) mediante un’impressione diretta della chiarezza divina sul nostro intelletto, che in questo non è considerato come agente, ma solo come ricevente i raggi della Divinità ».

D. Questi «raggi » cartesiani non rischiarano gran fatto.

R. Qui nulla ci può illuminare. Ma S. Tommaso d’Aquino fa uno sforzo di spiegazione dicendo che a differenza di ciò che avviene quaggiù, dove la conoscenza delle cose ci è fornita dalla loro rappresentazione in noi, nella visione beatifica, Dio, che nessuna immagine può autenticamente rappresentare, diventa la sua propria immagine nell’eletto, la sua propria rappresentazione. Ed ecco dunque quest’essere che pensa Dio mediante Dio, come noi adesso pensiamo l’uomo mediante l’immagine dell’uomo e vediamo la pianta mediante la sua figurazione nel nostro occhio.

D. Non è un introdurre Dio nella stessa contestura dell’anima, e come un divinizzare questa?

R. Perciò noi abbiamo detto che il soprannaturale è una specie di divinizzazione, un’introduzione oscura quaggiù, chiara lassù, nell’ineffabile.

D. Come è ciò possibile?

È. Non si può esprimere la possibilità come non si può supporre il fatto, fuori di una dichiarazione divina. Ma noi abbiamo udito: « Carissimi, noì siamo ora figliuoli di Dio; e non è ancora manifesto quello che noi saremo; ma sappiamo che quando si manifesterà saremo simili a lui, perché lo vedremo come Egli è» (S. GIOVANNI).

D. Tu mi parli di tempo! Ma è possibile essere uniti all’Eterno altrimenti che per un atto eterno?

R. Tu dici bene. Dio, quando entra nell’anima per esercitarvi la parte di idea immanente, deve portarvi le sue proprie condizioni. L’atto di visione divina si misura dall’eternità, che è una durata non solo continua e senza pausa, non solo infinita, ma tutta simultanea, tutta insieme (tota simul), come dice Boezio. È davvero un nirvana, dove l’individualità, a dire il vero, si esalta in vece di perdersi, ma dove si concentra a tal segno che tutta la sua estensione di conoscenza si assorbisce nell’invisibile essenza divina, e la durata totale di questa conoscenza non è che un punto.

D. Come rappresentarci un tale stato?

R. Non cerchiamo rappresentazione; ma Alberto Magno ne vede una vaga immagine e un’anticipazione nel caso di quei contemplatori, di quegli « uomini divini », i genii, i santi, che anche in questa vita « sfuggono al tempo e non scorgono più cambiamenti che il tempo misura ».

D. Quest’ultimo caso si capisce; se ne vedono î limiti; ma « conoscere Dio come Egli conosce se stesso » è un atto infinito.

R. Si dice: come conosce se stesso, e si tratta del modo, cioè per contatto immediato. Non si tratta della misura, del grado. La prova è che gli stati di beatitudine sono, da un eletto all’altro profondamente differenti. Vi sono molte mansioni nella casa di mio Padre, disse Cristo. In altri termini, si tratta di « toccare Dio con lo spirito » (S. AGOSTINO) e non di « comprenderlo », cioè di esaurirlo.

D. Ne segue che questo è un attribuirci una capacità sovrumana, una capacità di Dio.

R. Bisognerà evidentemente « aprire le entrate » (BOSSUET). Dio non dovrà più guardare a quello che Egli ha fatto dell’anima nostra costituendo la sua natura, ma a quello che ne può fare. Egli « non baderà alla nostra disposizione naturale se non in quanto sarà necessario per non farci violenza » (Idem).

D. Che cosa può significare per noi conoscere Dio?

R. La sola idea che possiamo farci, quando si tratta di Dio, è quella di una fonte dell’essere, ove ogni valore di essere è contenuto nell’unità e secondo un modo ineffabile. Ciò non dice niente all’immaginazione, ma fa supporre all’intelligenza un inesprimibile splendore.

D. In Dio, si vedrà dunque tutto quello che quaggiù è disseminato lontano dalla Fonte dell’essere?

R. Si vedrà tutto nella proporzione che si vedrà Dio, con la stessa estensione o la stessa profondità di visione, che sarà determinata dalla nostra elezione stessa, vale a dire dal nostro merito coronato, dalla nostra grazia sbocciata in gloria. In tale proporzione, Dio farà conoscere all’eletto tutto ciò che il reale offre per lui di arricchimento ideale e di spirituale beatitudine.

D. Questo modo di conoscenza è per la mente un completo capovolgimento.

R. I poli della conoscenza umana si trovano infatti rivoltati. Qui, noi conosciamo il creato per esperienza sensibile e Dio per riflesso. Lassù, conosceremo Dio per esperienza soprasensibile, intuitiva, e il creato per riflesso in Lui. Nell’Assioma eterno si vedono tutte le proposizioni del reale; nel Decreto eterno, tutti gli esseri.

D. E sarà questa una felicità?

R. Se la felicità, come la conoscenza, consistono l’una e l’altra in una estensione e come in una moltiplicazione del nostro essere, tutte due si devono ricongiungere.

D. Una felicità puramente ideale, puramente intellettuale, potrà bastarci? Vorrai tu proporla, con qualche speranza di sedurli, agli uomini assetati di vita?

R. S. Paolo ti risponde con una parola che ha l’aria affatto innocente, che tra i Cristiani è diventata volgare, ma nella quale si rivela alla riflessione un’ammirabile profondità. « Dio sarà tutto in tutti».

D. Che cosa significa questa parola?

R. Dio sarà tutto per gli eletti, perché la diffusione dell’essere e dei beni che Egli operò con la creazione non ha impoverito Iddio di ciò stesso che Egli dona, Dio comunica; dà in partecipazione; non aliena. La Fonte dell’essere ha questo di speciale e d’incomprensibile per noi, che essa getta con un’indicibile abbondanza e non vede ridursi la pienezza delle sue acque. Perciò si trova, in essa, più che in nessuna cosa e più che in se stesso quello che è proprio di questa cosa e proprio di se stesso. Di modo che, possedendo Dio, nella proporzione che lo si possiede, si possiede se stesso nella propria pienezza e si possiede tutto il resto. Ecco quello che si vuol significare dicendo: Dio è tutto In tutti.

D. Ma tu lasci da parte l’ordine di cognizione, del quale avevi detto che impegna tutto, e che appunto per quest’ordine noi aderiamo alla Fonte dei beni.

R. Niente affatto, ed ecco la connessione. Ciò che si chiama una felicità reale, una felicità effettiva, per opposizione a un puro conoscimento, di che cosa è fatto se non ancora di conoscimento, dopo che gli oggetti conoscibili, assimilandosi ai nostri corpi, ci hanno anzitutto aiutato ad essere? Per noi, tutto consiste nel vedere, nel toccare, nel gustare, odorare, nel prendere conoscenza di noi e degli altri, nel reagire di fronte a una verità, a una bellezza, a un’amicizia riconosciuta, a una stima manifestata, ad una sottomissione degli avvenimenti o delle persone che certi fatti di conoscimento ci dànno.

D. Ma questi fatti di conoscimento non sono tutti dell’ordine intellettuale; i più dipendono dai sensi.

R. Pensi tu che ciò sia meglio, in quanto alla loro capacità di felicità?

D. L’immensa maggioranza degli uomini così crederebbe.

R. In un certo modo avrebbero ragione; ma nell’assoluto, dove ci riporta la vita eterna, essi avrebbero torto.

D. Desidererei di comprendere.

R. Tutto dipende dal genere d’intellettualità di cui si parla, quando si oppone la cognizione intellettuale a una cognizione sensibile atta a rallegrare i viventi.

D. Vi sono dunque più specie d’intellettualità?

R. Ve ne sono qui due da prendere in considerazione: l’intellettualità astratta, e quella che noi abbiamo chiamata intuitiva, che ci lega a Dio spirito.

D. Come si nota la differenza?

È. L’intellettualità astratta non ci dà se non dei concetti, cioè dei fantasmi di nostra creazione, che a dire il vero rappresentano il reale, ma non lo fanno entrare in nostro possesso. Questi concetti sono della nostra sostanza; sono noi modificati; non possono dunque procurarci del reale se non una figura e come uno schema vuoto. Al contrario, per l’intuizione di Dio, noi attingiamo in Dio spirito quello che vi si trova, e ciò non è più uno schema delle cose. Dio non è una forma vuota, come quella che noi concepiamo quando pronunziamo questa parola: Dio. Tutta l’idealità che contiene è sostanziale, essendo il suo essere stesso. Creatrice, essa è ricca di tutto il reale. Per conseguenza, tutto quello che, nel reale, è l’oggetto delle nostre intuizioni sensibili e dei nostri « possessi », qualunque ne sia la forma, si deve trovare in questa Sorgente prima allo stato ideale. Perché allora non ve l’attingeremmo?

D. Potrebbe ciò farsi per mezzo del solo spirito?

R. Per mezzo dello spirito — se esso esercita la sua funzione di spirito in luogo di quella funzione d’anima che anima una materia, di cui abbiamo qui l’esperienza, — perché non afferreremo noi quello che, in Dio, è spirito, per quanto sia pieno

di ricchezza di essere?

D. Ecco quello che di fatto sfugge a ogni esperienza!

R. Come Dio stesso; ma questo è tuttavia incluso nella nozione di Dio. « Dio è virtualmente ogni essere », abbiamo detto con S. Tommaso d’Aquino: se noi possiamo afferrare Dio con un’intuizione ricca del suo essere stesso, poiché di questa stessa intuizione Lui stesso è il principio immanente, noi saremo in possesso dell’essere, e non del suo contorno astratto. La nostra intuizione intellettuale, elevata dal lume della gloria al livello del divino in sé, potrebbe essa, in questa presa dell’essere, mostrarsi inferiore ai nostri occhi, alle nostre mani, alle nostre papille boccali, a tutto l’attrezzamento sensoriale? No, certo. Dunque, noi possiamo trovare lì più felicità che in quel supposto reale in cui già Platone non vedeva altro che un’ombra.

D. Come ammettere che per mezzo dello spirito si possa percepire e conquistare, per viverne, quello che dipende dalle qualità della materia, oggetto dei sensi e non dello spirito?

R. Quelli che Bergson ed altri ancora hanno istruito sanno che la materia non è che il limite inferiore dello spirito, un residuo grossolano, una cenere di questo fuoco, un arresto relativo e come una paralisi di questa attività sublime. Vorremmo noi rimpiangere la cenere, abbagliati e riscaldati dal fuoco?

D. Questa dottrina è ammessa in filosofia cristiana?

R. S. Tommaso ne offre l’equivalente quando riunisce materia e spirito in una sintesi ideale della quale la sostanza divina, tutta ideale essa stessa, è il centro di emanazione. Per S. Tommaso, tutto quello che vi è di proprio della materia e dei composti di materia si trova in Dio eminentemente, come nella sua sorgente prima, e quindi si può ivi ritrovare, se per l’intelligenza sopraelevata e come divinizzata nella sua potenza, si afferra Dio in sé.

D. Dunque, secondo te, un eletto non può rimpiangere questo mondo.

R. È possibile il rimpianto del miraggio, quando la sorgente ti abbevera? Una giovane madre rimpiange forse la sua bambola, quando ha il bimbo in braccio?

D. Ma è là tutto il cielo?

R. È l’essenziale, dicevo, a tal segno che, se anche tutto il resto fosse assente, non si potrebbe dire che mancasse. Chiunque ha il sentimento di ciò che è Dio sottoscriverà questa sentenza di S. Agostino: « Assai avara è un’anima a cui Dio non basta ».

D. L’essenziale suppone però l’accessorio.

R. L’eternità di fatto dev’essere presa com’è. Il nostro essere al contatto di Dio, non rinunzia a se stesso, non perde il contatto con le altre creature, e la sua beatitudine si deve allargare, se non elevarsi, con tutto ciò che gli può venire dal suo proprio funzionamento naturale e dalle sue molteplici relazioni.

D. Tutto questo non è forse offuscato dalla chiarezza divina, annegato in quel nirvana cristiano che hai descritto?

R. Noi accettiamo come una legge che Dio, fondatore delle nature, attirando a sé le sue creature, non fa mai altro che darle maggiormente a se stesse. Ne segue che nell’anima separata dal suo corpo, l’attività relativa a se stessa e a tutte le altre creature dev’essere più intensa e più ricca, anziché essere abolita.

D. Tutti i suoi pensieri di questo mondo seguono dunque l’anima nell’altro mondo?

R. Questo si crede generalmente, quantunque non sia un’assoluta certezza. Ciò dipende da una teoria psicologica un tempo contestata.

D. Che cosa intendi con questo?

R. Si può pensare che le nostre idee nascano e rinascano nell’anima all’occasione dell’esperienza sensibile e del ricordo, ma senza imprimervisi in modo durevole. Si può pensare invece che vi persistano tanto più in quanto l’anima è immateriale e non subisce, come la sostanza cerebrale, il consumo del tempo. In quest’ultimo caso, di gran lunga più probabile, le nostre idee acquistate durante la vita ci rimangono; nell’altro caso, no.

D. Le conseguenze di quest’ultima supposizione devono essere molto gravi.

R. Sono anzi insignificanti; perché ciò che non sarebbe ottenuto per questa via sarebbe ottenuto sovrabbondantemente per la precedente. Non è necessario vedere gli astri nel mare, quando si vedono nel cielo.

D. Dunque tu sostieni che Dio solo basta?

R. Dio solo basta; ma Dio ci dà con se stesso tutta l’opera sua. Si potrebbe attribuire questo senso nuovo alla formula evangelica: « Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato per giunta ».

D. In questo soprappiù, comprendi tu una vita comune degli esseri salvati, e specialmente di quei che si conobbero sopra la terra, che furono legati dalle collaborazioni, dai servigi e dai vincoli dell’amore?

R. È naturale, benché, su questo punto, non abbiamo rivelazione precisa. Ammesso che il destino, in Dio, è principalmente individuale, perché, rispetto all’eternità, ogni anima vale una specie, così come un puro spirito, si deve pensare che i nostri legami della terra hanno la loro sanzione in cielo, come ogni fatto provvidenziale avente i suoi fondamenti nella nostra natura.

D. Ma la natura, in questo caso, non è, finalmente, assorbita nel soprannaturale?

È. No; come la visione creata non è assorbita dalla visione divina, come la creatura non è assorbita in Dio, conservatore e cooperatore della sua opera. « La grazia non distrugge la natura, ma la perfeziona », è presso di noi un adagio comune. Poiché la nostra natura è sociale con tutto quello che questa parola astratta comporta di vincoli effettivi, il compimento finale deve importare una società degli spiriti, benché i vincoli spettanti alla carne o nati dagl’interessi materiali non Vi possono manifestamente ritrovare tranne i loro effetti spirituali, ma in nessun modo la loro propria sopravvivenza.

D. Non vi sono dunque famiglie in cielo? Non vi sono patrie?

RF. Nella Risurrezione, disse il Salvatore, gli uomini non hanno mogli, né le donne mariti; essi sono come gli Angeli di Dio nel cielo, ed è lo stesso dei gruppi di famiglie legati dagli avvenimenti del tempo che si chiamano patrie. Ma ciò che non sussiste punto in sé conserva i suoi effetti. Una famiglia, come ce lo ha detto abbastanza il sacramento del matrimonio, è un’organizzazione della salute, un elemento della Chiesa; una patria non è che un gruppo di famiglie: dunque nello stesso modo che rimane la Chiesa, anche la famiglia, in tutto ciò che essa ha di Spirituale, deve rimanere, insieme coi vincoli spirituali nati nelle patrie e che, fin di quaggiù, ne sono la parte eterna.

D. Non vi è qui, tuttavia, un particolarismo nemico della carità universale, e questa grandiosa carità non è forse quella che tu difendevi sotto il nome della comunione dei santi?

R. La comunione dei santi estende un amplesso immenso a tutti gli altri; non li distrugge affatto. La carità ha i suoi oggetti ordinati a scaglione, e perché Dio ne è l’oggetto primo, motivo essenziale d’amore verso tutti gli altri, noi diciamo che l’essenziale della carità in questo mondo è l’amore di Dio, e l’essenziale della beatitudine celeste l’unione con Dio. Ma siccome l’amore di Dio non abolisce l’amore del prossimo, ed anzi lo fonda: così la beatitudine in Dio non assorbe affatto la felicità affettuosa che possiamo trovare nelle creature: « La carità rimane », dice S. Paolo: dunque anche i suoi oggetti, che determinano il suo valore e le sue forme. Del rimanente non acclamiamo noi con gioia e tenerezza l’Incoronamento della Vergine nel cielo? Se Cristo corona sua Madre, non è per toglierci la nostra.

D. Dunque noi, figli di Dio, non ci lasciamo se non per ritrovarci?

R. « La vita non è che un’occasione d’incontro, solo dopo la vita avviene il congiungimento » (Vicror HUGO).

D. Ma la nostra ampia unità, attraverso a ogni frontiera, unità che ha tanta difficoltà a rendersi conscia di se stessa, tu l’aspetti indubbiamente per l’altra vita?

E. Noi attendiamo l’assemblea universale degli uomini, ora dispersi nello spazio e nel tempo, come ciascuno di noi attende la coscienza piena del suo essere, oggi sbriciolato in fenomeni successivi e incoscienti. Ciascuna creatura pensante deve un giorno ritrovarsi in tutti gli altri, in una stretta comunità di gioia. La nostra unità divinizzata sarà il coronamento dell’opera umana nel soprannaturale, come una vera e intima società delle nazioni sarebbe il coronamento della civiltà sopra la terra. Comunicare insieme e nella loro Sorgente è la felicità eterna degli spiriti.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.