LE VIRTÙ CRISTIANE (10)

LE VIRTÙ CRISTIANE (10)

S. E. ALFONSO CAPECELATRO, Card. Arcivescovo di Capua

Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C., Roma – Tournay

MDCCCXCVIII

PARTE IIa

LE VIRTÙ CARDINALI

CAPO IV

LA TEMPERANZA

La temperanza, che nell’ordine da me seguìto, è la terza delle virtù cardinali, si può considerare in due modi, come già mi accadde di dire della fortezza. Il nome di temperanza, preso nella sua significazione più larga e generica, lo si dà a qualsiasi virtù, che temperi l’affetto, allontanandolo da ciò, che lo alletta contro le norme della ragione. Intesa così, la temperanza abbraccia direi quasi tutto l’uomo morale; onde si estende anche ai quei beni spirituali, i quali han ragione di mezzi, conducenti al Bene eterno e supremo. In modo più stretto poi è la temperanza quella virtù particolare, che tempera e infrena l’appetito, nelle cose, che massimamente ci dilettano, cioè nei piaceri del gusto e del senso. Di qui si vede la somiglianza, e pur la differenza, che corre tra la fortezza e la temperanza. Mentre che la fortezza ci fa vincere le cose, le quali specialmente ci ritraggono dall’operare il bene; la temperanza ci fa vincere quelle cose, che massimamente ci allettano, e con i loro attraimenti ci tirano in basso ad operare il male. Sono dunque due virtù sorelle, le quali si dànno la mano, e tanto più facilmente, in quanto che le due battaglie, che l’uomo combatte contro gli ostacoli, e contro gli allettamenti, il più delle volte, sono così unite tra loro, che appena si distinguono. Come quando in un incendio soffia forte il vento, una fiamma ne eccita un’altra, e questa rinfiamma la prima; così l’esser noi fiacchi contro certi ostacoli del bene, c’infiamma ad ogni sorta d’intemperanza nelle tentatrici dilettazioni del gusto e del senso; e così pure viceversa. – Le sacre Scritture, che ci commendano tanto di frequente le altre tre virtù cardinali, di questa della temperanza non hanno il nome; ma, se manca il nome, non manca certo la cosa. Anzi, il pensiero in essa contenuto, un pensiero pieno di luce e di bellezza, il quale si armonizza mirabilmente con tutta l’etica cristiana, si trova espresso e lodato in molti luoghi della Bibbia, e particolarmente in quelli, nei quali si comandano o l’astinenza o la mortificazione o la castità. Il nome di temperanza, come fu detto avanti, ci viene dalla filosofia pagana, la quale, quando seguì la buona via, fu anch’essa amore di sapienza, e però amore di Dio che è sapienza sustanziale. La Chiesa poi e i Padri accettarono di buon grado questo nome, poiché esso esprime un concetto buono in sé e cristiano. E non solo accettarono il nome, ma, come fecero delle altre virtù cardinali, nobilitarono e elevarono la temperanza alle regioni soprannaturali e celesti. Laonde, in quella guisa che il Cristiano non si tien pago di esser prudente e forte nell’operare secondo ragione, ma adopera la prudenza e la fortezza dell’animo soprattutto per glorificare Iddio, obbedendogli, e per conseguire il possesso dell’Infinito ed eterno Bene; così per questi medesimi fini egli vuol essere ed è temperante. Appena io valgo a dire quanto grande sia il bisogno, che il Cristiano ha di questa virtù; seme fecondo di tante e tante altre. Basta del rimanente che l’uomo miri un po’ attentamente se stesso per persuadersene. – La temperanza, essendo ordinata a infrenare gli appetiti inferiori, i quali con le possenti dilettazioni loro ci tirano in fondo e ci spingono al male; ciascuno interroghi sé medesimo e dica a sé : sento io o no cotesti appetiti? e sono o no in me disgraziatamente vivi, petulanti e talvolta tiranni? I diletti loro mi commuovono, mi trascinano e mi pajono molto desiderabili, o è forse vero il contrario? L’Apostolo san Paolo, parlando di sé medesimo, ci scolpisce così bene lo stato battagliero della nostra natura, per effetto dei disordinati e dilettosi appetiti suoi, che meglio non si potrebbe fare. Ciascuno in vero trova se stesso nelle parole dell’Apostolo; e, se taluno, per grande perfezione di virtù, arrivasse a non trovarcisi, beato lui! “Io dunque, dice san Paolo, mi trovo sotto questa legge, che, volendo fare il bene, il male mi sta dappresso. Perciocché io mi diletto nella legge di Dio, secondo l’uomo interiore; ma veggo un’altra legge nelle mie membra, la quale combatte contro alla legge della mente, e mi fa schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Misero me uomo! Chi mi libererà da questo corpo di morte? La grazia di Dio per Gesù Cristo Signor Nostro.” Così scriveva di sé medesimo un grandissimo Santo, il Vaso d’elezione, destinato a portare il nome di Cristo a tutte le genti. Che si dovrà poi dire di coloro, che nudi di ogni temperanza, si lasciano andare a tutti gli appetiti e a tutt’i moti delle passioni? Al di fuora talvolta appariscono gai, sorridenti e contenti di sé stessi; ma dentro, l’animo loro agitato da mille venti, freme come un mare in burrasca. Mi par proprio che in quella guisa che vediamo talvolta sul mare già grosso soffiare un vento impetuoso, e le ondate accavallarsi le une sulle altre, e le acque frangersi su gli scogli e spumare e rovesciare le barche; così accade nell’animo allorché forti passioni lo levano in tempesta. Che se grande è il bisogno di questa virtù della temperanza, grandissima poi è la difficoltà nel conseguirla: di che è avvenuto, che i filosofi pagani l’hanno sì conosciuta con la mente, e magnificata con le parole, ma assai di rado messa ad effetto con le opere. Il Cristiano, per lo contrario, quando non sia soltanto tale di nome, è temperante, per effetto della grazia divina, pel continuo fervore, onde prega da Dio gli ajuti celestiali, per lo studio che mette nel tenersi lontano da tutte quelle cose che, eccitando vivamente gli appetiti interiori del senso, li rendono poi ribelli e tiranni. E nondimeno, anche quando ei, per lungo uso di temperanza, pare al tutto signore di sé medesimo, non cessa però di sentire dentro di sé quella legge del male che è frutto di peccato, ma che Iddio ci ha lasciata, anche dopo la redenzione, come strumento di virtù e cagione di aumento di meriti. Sino gli stessi Santi, d’ordinario, non furono liberati dagli appetiti ribelli e dilettevoli della natura corrotta. Infatti chi potrebbe leggere senza grande stupore ciò, che san Paolo scrive di sé medesimo in questo proposito? “Affinché, egli dice, l’eccellenza delle mie rivelazioni non mi levi in altura (di compiacenza e di vanità) m’è stato dato uno stimolo nella carne, un angelo di satana, che mi schiaffeggi. Sopra di che tre volte pregai il Signore che mi fosse tolto: ed ei dissemi, basti a te la mia grazia; imperocché la potenza mia arriva al suo fine, per mezzo della debolezza. Volentieri adunque mi glorierò nella infermità, affinché aliti in me la potenza di Cristo.” (2 Cor. XII, 7 e segg.). Quanta luce di misteriosa verità è in queste parole! Quanto mai è diventata nobile e grande in Cristo la stessa nostra debolezza! Tutte le virtù, come m’accadde di dire altra volta, splendono di una smagliante luce di bellezza. Nonpertanto è degno di nota che l’Angelico san Tommaso attribuisce alla temperanza il pregio d’una beltà tutta sua propria e particolare. Il fatto proviene da buone ragioni. Primamente, secondo il comune giudizio, dalla temperanza deriva in noi una certa moderata e conveniente armonia tra tutte le parti, che costituiscono l’uomo morale. Chi è temperante, non si lascia mai sopraffare dal diletto degli appetiti sensuali: di che egli non pencola di qua e di là, ma si tiene in equilibrio, come quei corpi che, sebbene siano sollecitati al moto da più forze contrarie, durano in riposo. Ora, in quel modo che la bellezza fisica si ha per l’armonia delle parti diverse, e per lo splendore che ne deriva; così la bellezza morale è l’armonia di tutte le parti, onde si compone l’uomo morale e lo splendore che ne proviene. L’altra ragione, onde la temperanza ha dote particolare di bellezza, deriva da che gli appetiti, i quali vengono tenuti in freno dalla temperanza, sono gl’infimi appetiti dell’uomo, e comuni anche agli animali. Però giustamente si attribuisce una grandissima bellezza alla temperanza, che modera e governa questi appetiti, elevando così tutto l’uomo, quasi direi anche il corpo, alla nobile bellezza delle cose spirituali e delle creature angeliche. Intanto qual è mai la regola suprema di questa virtù della temperanza? In quali cose mai la temperanza giustamente infrena gli appetiti del senso; i quali ancorché siano dilettevoli, debbono nondimeno essere contenuti nei giusti limiti? L’unica regola, che mentre governa le cose dilettevoli del senso, ci è comandata dalla temperanza è la necessità. Necessità dica di ciò, che serve all’essere, e necessità altresì di ciò, che serve all’essere, secondo la convenienza sua. Per siffatta guida l’uomo temperante si serve moderatamente del diletto del cibo per mantenere la vita e la sanità, e se ne serve altresì, senza colpa, quando moderatamente usa del cibo, secondo le abitudini oneste, e, secondo le convenienze del luogo, del tempo e delle persone, con le quali vive. La temperanza dunque come insegna san Tommaso, allorché si riferisce alle necessità di convenienza, mira non solo alle convenienze del proprio corpo, ma anche alle convenienze delle cose esteriori, come sono le ricchezze o lo stato di ciascuno. Sempre però la temperanza bene intesa mette innanzitutto il debito di seguire ciò che è onesto e secondo ragione. Di che sant’Agostino racchiude tutta la regola della temperanza cristiana in queste parole: “L’uomo temperante guarda alla necessità della propria vita, e altresì alla necessità del proprio stato.!” (De Moribus Ecclesiae, citato da san Tommaso, 2, 2; q. 141, artic. 6). – E ora diamo un’occhiata a una di quelle virtù, che sono seme e frutto di temperanza, e che, nel comune uso di parlare talvolta è detta essa stessa temperanza. Intendo accennare a quella mortificazione, che il Cristiano usa nei cibi o col digiuno o con astenersi da alcuni cibi particolari, sia per libero volere di mortificarsi, sia per comandamento della Chiesa. – Dalle cose dette sin qui si potrebbe vedere di leggieri con quanta nobile e alta sapienza nel Cristianesimo sieno o comandati o pur consigliati i digiuni e le astinenze. Ma non sarà forse inutile di approfondire alquanto l’argomento; perciocché ai nostri dì è tanto grande il dispregio e la disistima di questi precetti ecclesiastici, frutti di temperanza, che taluni arrossiscono dal praticarli, e altri li tengono per piccinerie e grettezze da pinzocchere e da fanciulli. E pure, incredibile a dire, i digiuni e le astinenze furono virtù non ignote ai pagani. Come poi noi porteremo mai degnamente il nome di Cristiani, se non terremo in istima e non ameremo le virtù lodate e praticate da Cristo per darci esempio? La qualità e la quantità dei cibi, come insegna san Tommaso, appartiene principalmente all’arte, e ora si direbbe, alla scienza della medicina. Ma, anche che il cibo lo si consideri secondo questo rispetto, mi pare utile ricordare alcune belle parole di san Giovanni Crisostomo. “Nessuna cosa, egli dice, riesce così gioconda, come un cibo ben digerito e ben assimilato; e nessuna cosa, poi conferisce quanto un cibo moderato, alla salute del corpo, all’acume dei sensi, e a rimuovere da noi le malattie. La sufficienza del cibo, insieme col nutrimento e con la sanità, procura onesto diletto. Per lo contrario la sovrabbondanza del mangiare genera morbi, malattie e infiacchimento di salute. Quel medesimo, che fa la fame, fa la soverchia pienezza del cibo; anzi qui il troppo fa peggio del poco. La fame in vero in pochi dì uccide l’uomo, e lo libera da questa vita di pene; ma l’eccesso del cibo consuma e putrefà il corpo umano, e lo macera con lunghe malattie, insino a che esso non resti disfatto da morte crudele.” (Chrys. Sup. Ep. ad Heb. Sermo 29). – Dall astinenza dunque moderata provengono molti beni naturali all’uomo; e i Maestri e Pastori della Chiesa, come san Giovanni Crisostomo, i quali sono veramente padri dei fedeli, anche di questi beni naturali dei loro figliuoli, di quando in quando, si mostrano amorevolmente solleciti. – Nondimeno importa assai più il considerare come una temperata astinenza nel cibo, sia germe di morali virtù: dico temperata astinenza; perché, anche nella materia del cibo, vi può essere il troppo, o il troppo poco: l’uno e l’altro peccaminoso, in quanto che si oppongono egualmente alla finalità del mangiare che è il sostentamento della vita e della sanità. Sant’Agostino in vari luoghi ha insegnamenti assai istruttivi e direi anche blandi intorno a questa virtù. “È bene, egli dice, cibarsi, rendendo grazie a Dio, di tutto ciò che Dio ci ha largito per uso di cibo. L’astenersi poi da alcuni cibi, non quasi sieno di per sé cosa mala, ma come non necessari, è anche bene….. Non importa punto alla verità e alla virtù il vedere quale o quanto cibo ciascuno prenda per sé; purché ciò sia fatto, secondo la convenienza della propria persona e delle persone con cui si vive, e pur secondo il bisogno della propria sanità. Ciò, che importa veramente in questa materia del cibo, è il vedere con quanta facilità e serenità di animo ciascuno si conduca quando sia necessario o utile che alcuni cibi gli manchino…. Usino.i ricchi di cibi eletti, secondo la consuetudine della loro debolezza, ma non se ne compiacciano: si dolgano anzi di non poter fare altrimenti: e oh quanto e oh sarebbe meglio se potessero fare altrimenti. Pertanto, se non è giusto, che il povero si levi in superbia per la sua povertà; perché. mai tuti vorresti insuperbire per effetto di questa che è una tua debolezza? Usa pure dei cibi eletti e di pregio; perché tale è la tua consuetudine, e non sapresti fare altrimenti. Se il mutare la consuetudine ti potrebbe nuocere alla salute, ti sia concesso di fare come ti aggrada. Ma se tu dunque usi le cose superflue, dà almeno anche ai poveri il superfluo: nutrisciti pure dei cibi di pregio; ma almeno dà ai poveri il cibo comune. — Quanto alla mia persona, oh come mai mi è riuscito d’un tratto soave l’astenermi dai cibi soavi! Oh di quanto gaudio mi torna l’avere abbandonato quelle cose, che un tempo tanto temevo di perdere! (Agos.: De definit. rette fidei: De quæst. Evangel.: de verbo Domini). Ma quali mai sono le finalità, a cui volge il Cristiano la sua temperanza nei cibi, e anche l’astinenza di essi? — Sono ben molte; ed eccone qui dette alcune che di leggieri ci faranno comprendere anche le altre. A noi l’astinenza ci è cara, perché conferisce molto a renderci al tutto signori del corpo nostro, e però ad elevarlo sempre più ai beni spirituali. Quel poter dire a se stesso: io sono sempre e in ogni modo assolutamente padrone di rinunziare, secondo il mio volere, alle dilettazioni degli appetiti sensuali, è la forza e la gloria del Cristiano. Misero colui che non lo intende, e che preferisce di servire ai propri appetiti anzi che di comandare ad essi! – Ma per evitare in ciò gli eccessi, s’ha da attendere a questa dottrina, che tolgo principalmente da san Tommaso. Nella vita umana diversamente s’ha da giudicare del fine e dei mezzi che conducono al fine. Nei beni, che noi rettamente cerchiamo come fine ultimo, non ci ha misura alcuna; nei beni che adoperiamo come mezzi, abbiam debito di adoperare la misura in proporzione del fine. A quel modo, che il medico per raggiungere la propria finalità, cioè la guarigione dell’infermo, fa quanto è in poter suo; e d’altra parte nell’adoperare le medele, tanta quantità ne adopera, quanto giova alla guarigione; così ha da far l’uomo nella sua vita morale. Nella vita morale l’amore di Dio è il fine, la temperanza nei cibi, e le astinenze non sono fini, perciocché san Paolo insegna ai Romani : “Né il cibare, né il bere costituiscono il regno di Dio.” Sono invece mezzi per domare i sensi, secondo ciò che dice di sé il medesimo Apostolo ai Corinti: “Castigo il mio corpo, e lo riduco in servitù.” Però questi mezzi si vogliono adoperare con una sapiente e prudente misura. Per un verso debbono reprimere i nostri appetiti disordinati; ma per un altro verso non debbono né distruggere né troppo notevolmente infiacchire la natura. Infatti l’Apostolo medesimo vuole che “il nostro ossequio a Dio sia ragionevole, e che noi offriamo a Lui i nostri corpi, come ostia santa, cose ostia vivente.” (Rationabile obsequium vestrum Exhibeatis corpora vestra hostiam viventem. Ad Rom. XII). E ora in conclusione volgiamo un ultimo sguardo alla virtù della temperanza, che è quella che ci condusse a parlare alquanto dell’astinenza. Alla temperanza fanno corteggio parecchie altre virtù, che le stanno vicino e le fanno corona, come belle e buone figliuole, anzi fanciulle che si nutriscono del latte materno. La temperanza, come è detto, c’infrena i moti del senso: ed ecco che nasce da lei quasi buona figliuola la virtù della modestia, la qual è la grazia e la bellezza del portamento esteriore delle donne e degli uomini casti. La temperanza quieta i moti dell’ira: ed ecco che da lei derivano, e prendono alimento la mansuetudine e la clemenza; quella, che, secondo il bisogno, o modera o annienta l’ira eccitata da possenti cagioni, questa, che mitiga e diminuisce le giuste punizioni dovute ai malvagi. Infine la temperanza, largamente presa, infrena anche quanto talora ci ha di soverchio nei nobili sentimenti dell’animo; di che talvolta mitiga la stima che abbiamo di noi stessi, e però genera l’umiltà: tal’altra ordina e mitiga il troppo desiderio che abbiamo del conoscere o del sapere o dell’amare o del desiderare; e in tutti questi casi, anche senza darle un nome particolare, s’ha a dire che essa sia la temperanza dell’uomo spirituale. Il quale, dopo il peccato, anch’egli ha bisogno a volte di essere infrenato, e a volte di essere eccitato.