LE VIRTÙ CRISTIANE (7)
S. E. ALFONSO CAPECELATRO Card. Arcivescovo di Capua
Tipografia liturgica di S. Giovanni Desclée e Lefebre e. C.; Roma – Tournay
MDCCCXCVIII
PARTE Ia
LE VIRTÙ TEOLOGALI E LA VIRTÙ DELLA RELIGIONE
CAPO VI.
LA VIRTÙ DELLA RELIGIONE
Fede, speranza e carità, essendo quasi ali che librano l’anima nostra in alto, per diversi modi ci elevano a Dio, e a lui dolcemente ci uniscono. Con la fede il nostro intelletto aderisce a Dio, in quanto è eterna e infinita Verità, di essa Verità si nutre, e quasi in essa si trasforma. Con la speranza noi corroboriamo la nostra debolezza, mercè l’infinita fortezza di Dio, ci rendiamo capaci di sperare e di raggiungere gli eterni e inenarrabili beni della vita avvenire. Massimamente poi con la carità, la nostra volontà libera, e di per sé tendente al bene, aderisce intimissimamente a Dio, Bene immutabile ed eterno, a Dio Bene sommo che è pur Bellezza infinita, lo ama, e se ne sente riamato; onde quasi in Lui si trasfigura e con Lui s’immedesima. – Ma Iddio la mente umana lo considera anche in un altro modo, cioè come Creatore e Signore nostro, come infinitamente più alto, più possente, più sapiente, e più perfetto, che noi non siamo. Laonde l’uomo vede tra sé e Dio un’inferiorità e dipendenza infinita; e l’inferiorità e la dipendenza, non che scemino, s’accrescono nel nostro intelletto, mercé lo sviluppo dell’ingegno, la coltura, la scienza di ciascuno. Perciocchè nell’atto, che la mente nostra si fa ricca di nuove cognizioni, gli s’ingrandisce pure l’idea di Dio, e gli si rivela meglio la smisurata serie delle cose, che essa non conosce, e che Iddio conosce e produce. Ora il frutto spontaneo della cognizione, che noi abbiamo dell’infinita inferiorità e dipendenza nostra da Dio, eccita di per sé un simile e riverente moto dell’anima verso di Lui; un moto che diciamo religione. La virtù della religione, volerla definire esattamente, è dunque quella virtù, per la quale ci facciamo atti, e c’ inchiniamo a rendere a Dio, supremo Principio e Signore di tutti e di tutto, ciò che dobbiamo a Lui, per effetto della sua somma eccellenza, e della nostra infinita inferiorità e dipendenza da Lui. – Ora questa virtù della religione, secondo la dottrina del Cristianesimo, è duplice. Altra è la virtù della religione naturale, la quale deriva in noi dai primi principj impressi da Dio nelle anime nostre; altra è la virtù della religione soprannaturale, la quale procede dalla fede. Nel Cristiano però vivono ambedue le virtù, e vivono siffattamente unite, che diventano come una sola. In vero la fede fa nel nostro intelletto l’ufficio d’un lume nuovo e splendentissimo, che accresce e nobilita il lume della ragione; sicché l’occhio delle mente nostra, sgombro da ogni nebbia di dubbiezza o di errore, mercé la fede nelle cose che han relazione a Dio, vede meglio e più lontano. Per questa teorica si comprende quel che sia la religiosità nell’uomo, e come essa esista anche negli infedeli o negli erranti nella fede; perciocché la religiosità e un tesoro inerente alla natura umana; la quale, anche per essa religiosità e, come credono alcuni per essa principalmente, si distingue dalla natura animale. – E si comprende ancora, come il pagano, il musulmano, l’eretico e anche il barbaro abbiano un naturale inchinamento alla virtù della religione, e talvolta, anche tra gli errori loro, ne compiano in modo naturale e imperfetto gli atti. Tutti costoro adorano e onorano con pensieri e affetti erronei la suprema Deità; ma pure l’intendimento di adorarla e di onorarla, sempre lo hanno. Gli stessi miscredenti, i quali vorrebbero spegnere in sé medesimi il sacro fuoco della religiosità, impressovi da Dio, io credo che o rarissimamente o non mai ci arrivino del tutto. Il far forza alla natura è impossibile, e il pensare di esservi riuscito non è altro che una delle svariatissime forme dell’orgoglio umano. E, quanto ai miscredenti, è pure da considerare che taluni di essi confondono la religiosità con la religione; onde solo perché non hanno potuto o voluto distruggere quel sentimento vago e indeterminato, che spinge l’uomo alla vita e agli atti religiosi, stimano di essere essi stessi religiosi. Ma la verità è che la religiosità è solo un seme, posto da Dio nell’anima dell’uomo, e che questo seme sboccia, fiorisce e fruttifica in noi soprattutto per effetto della fede e della nostra buona volontà, che traggono dalla religiosità i molteplici atti della religione. – Ma consideriamo la virtù della religione, in quella maniera in cui fiorisce e vive nelle anime dei buoni Cristiani, cioè arricchita dal lume della fede soprannaturale, e alimentata da quel soffio vitale della grazia, che ce la rende meritoria della beata vita eternale. Allorché ci sentiamo dipendenti da taluno, e ad esso inferiore; la tendenza nostra naturale al bene, che in sostanza è amore, prende la forma di affettuosa venerazione; e ne abbiamo prove parlanti in tutte le attinenze delle buone famiglie cristiane, e in moltissime altre relazioni della vita quotidiana. Ora allorché la dipendenza e l’inferiorità sono non solo grandissime, ma infinite; allora questo sentimento di affettuosa venerazione s’accresce sopra ogni misura, e prende il nome particolare di adorazione. L’adorazione invero è l’atto supremo della religione, ma non è esso solo, che la costituisce. Vi ha ancora altri atti di religione, i quali però sono così intimamente uniti all’adorazione, che la mente umana appena li distingue. L’uomo, che sente l’infinita dipendenza sua da Dio, riconosce naturalmente da Lui, Bene infinito ed eterno, ogni bene, che abbia: ed ecco. che nell’amore suo, insieme con l’adorazione, sorge spontaneo il rendimento di grazie. Ancora, poiché alcuni beni mancano all’uomo, e altri beni ei teme di perderli, altri ei li desidera e spera; ecco, che sorge nell’animo nostro altresì quella pia e amorosa elevazione a Dio della mente e del cuore, la quale diciamo preghiera. Infine dov’è mai l’uomo, che non abbia peccato, e anzi che non senta di aver molto peccato, almeno per effetto delle sue colpe veniali? Ora l’idea del peccato, il quale in sustanza è un deviare dal Creatore, e un piegare intemperante verso le creature, fa nascere tosto in noi il desiderio del perdono. Il desiderio del perdono ci spinge a chiederlo a Colui, di cui violammo la legge, e che solo può darcelo. Dalle cose dette si conchiude dunque che la virtù della religione sta tutta in una elevazione dell’animo nostro a Dio; nella quale si intrecciano e s’armonizzano l’adorazione, il rendimento di grazie, la preghiera e l’invocato perdono dei nostri peccati. Quattro nobili e dolci sentimenti son questi che si assommano nel divin Sacrificio eucaristico, il quale, come mi accadde di dire nella Dottrina Cattolica, è perciò la sustanza della virtù della religione nel Cattolicismo, e il centro luminoso e fiammeggiante di tutt’i nostri atti di religione. – Questi varj atti di religione, dei quali è come centro l’adorazione, si chiamano con un sol nome: culto. Or dalle dichiarazioni fatte sin qui risulta chiaro, che il culto di Dio è prima d’ogni altro interiore e dell’anima; perciocchè l’adorare, il render grazie, il pregare e l’impetrare nascono, come ogni pensiero, ogni affetto e ogni moto somigliante, dall’intimo dell’anima umana. Ma poiché i pensieri, gli affetti e i moti dell’anima non solo si specchiano esteriormente per segni visibili; ma per essi si completano e si perfezionano; così avviene nel culto di Dio. Il culto esterno è specchiamento e completamento dell’interno; per modo che, se in taluno ci fosse questo secondo, senza il primo, esso risulterebbe come un’ombra o piuttosto come un fantasma vano, a cui manca ogni sustanza. – I principali segni estrinseci d’ogni pensiero o affetto o movimento qualsiasi dell’anima, sono due, cioè la parola e l’arte; due segni tanto ammirabili, che la mente umana, al pensarli, si sente irresistibilmente spinta a benedire il Signore, il quale è stato tanto buono, che ce ne ha fatto dono. Mercé la parola, i pensieri, gli affetti, i desiderj, le speranze e qualunque moto dell’anima nostra si riflettono nelle anime dei nostri fratelli: mercè le parole di essi, pensieri, affetti, desiderj, speranze e altri moti dell’anima loro si comunicano a noi. Ma non questo solo. Il seno ammirabile della parola umana rischiara, perfeziona, abbellisce e completa tutto ciò, che l’anima ha dentro di sé, e vuole trasfondere fuori. Or di questo segno tanto efficace della parola si giova il culto per tutte due le ragioni che si sono dette. Se ne giova per chiarire, perfezionare, abbellire e completare i pensieri e affetti suoi verso Iddio; e se ne giova altresì, per comunicare questi suoi nobili pensieri e affetti ai propri fratelli. Per siffatta guisa, allorché abbiam viva nell’animo la virtù della religione, ci torna caro di far bene al prossimo con l’esempio del nostro culto, e di riceverne parimente da essi con l’esempio del culto loro. Quante e quante volte l’animo nostro, distratto dalle passioni e dalle mondanità, si commuove e si eleva a Dio nell’entrare in un tempio, dove echeggia per le volte il suono misterioso e grave dell’organo, sposato con cento e cento voci di fedeli, che cantano i cantici della Chiesa nel semplice e soave ritmo delle melodie ecclesiastiche! Tra tutte le comunanze di pensieri e di affetti, che si manifestano tra gli uomini, non ve ne ha alcuna, che sia più bella, più nobile e più fruttuosa di questa che nasce dal culto esteriore. Perché dunque gli avversarj della fede nostra ci oppongono che il volgersi con la parola parlata a Dio è inutile; perciocché basterebbe la parola pensata, la quale Iddio onnipresente a tutti ascolta egualmente? Certo, è pur verissimo che Iddio ascolta egualmente chi parla solo col pensiero e con l’affetto a Lui, e chi gli parla servendosi del dono della parola da lui ricevuto. Ma quando parliamo solo interiormente (e il farlo non ci è punto vietato) chi ci può dar mai quella vena abbondante e inesauribile di pensieri e sentimenti santi, calorosi e poetici, che hanno le nostre preghiere interiori allorché siano avvalorate dalla parola parlata non solo nostra, ma anche dei nostri fratelli? Se dunque noi aggiungiamo al culto interno di Dio, anche il culto esterno; ciò giustamente deriva da un moto spontaneo dell’animo, e riesce all’accrescimento e al perfezionamento del culto medesimo. – L’altro segno esteriore dei nostri pensieri e affetti religiosi, ovveramente del nostro culto a Dio è l’arte religiosa; un segno che il Protestantesimo ha quasi interamente ripudiato, ma che è caro al Cattolicismo, come la pupilla degli occhi. L’Alighieri, parlando dell’arte in generale, dice in prima:
Che la natura lo suo corso prende
Dal divino intelletto e da sua arte.
Riconosce dunque un’arte eterna e infinitamente bella, anche in Dio. Poi aggiunge, che l’arte umana, imita, quanto può, la natura creata dal Signore; quasi come scolaro imita il maestro suo. Di che conchiude che la natura, essendo figliuola di Dio, e l’arte figliuola della natura; l’arte dunque si ha da considerare quasi nipote di Dio. Le quali idee Dante le scolpisce mirabilmente così:
Che l’arte vostra quella, quanto puote,
Segue, come il maestro fa il discente,
Sì che vostr’arte a Dio quasi è nipote.
Ora, per queste sottili e verissime considerazioni, ogni arte bella ha un certo parentado con Dio stesso. Ebbene quanto più non l’ha da avere l’arte religiosa? Però cotesta arte religiosa, giustamente si considera come una nuova forma della parola nostra, volta a Dio. È una parola questa dell’arte religiosa, meno precisa, determinata e chiara, che non sia quella, della parola parlata; ma è una parola anch’essa, che si volge particolarmente alla nostra fantasia, affinché ajuti l’anima ad elevarsi a Dio e ai divini misteri. – Tutte le arti belle possono diventare e diventano in effetti parola di religione, e costituiscono una parte rilevante del nostro culto esterno. La pittura e la scultura, rappresentandoci in diversa forma i fatti più nobili e misteriosi della religione, ci rappresentano altresì lo stesso Iddio, Gesù Cristo, la benedetta sua Madre e gli Angioli e i Santi: oltre a ciò assommano leggiadramente ed eloquentemente tutt’i principali concetti della nostra fede e della nostra morale cristiana. L’architettura sacra dei templj parla a noi, secondo i diversi stili, talvolta più particolarmente la sublimità infinita di Dio, talvolta più propriamente l’infinita sua ricchezza. E sarebbe forse meglio il dire che i templj architettonicamente costruiti e ornati essendo opera umana, effigiano come in ispecchio gli alti e nobili concetti, che noi abbiamo di Dio, per virtù della divina rivelazione. Però allorché, tra le varie e armoniche bellezze dei nostri templj cristiani, ornati dalle pitture e dalle sculture sacre dei più grandi maestri, echeggia il suono dell’organo, or come tempesta dell’anima turbata nel mare burrascoso della vita, or come gemito di chi soffre e spera, or come preghiera, or come rendimento di grazie a Dio; allora nello stesso luogo la musica si disposa alle altre arti belle, e ce ne accresce gli splendori. Che dire poi quando a questo mirabile concerto di arti belle, si uniscono nello stesso luogo, per mezzo della parola parlata, i cantici soavi e nobilissimi della nostra poesia religiosa? Allora accade nel tempio cristiano ciò, che non si vede in nessun altro luogo. Tutte le arti belle si dànno ivi amorevolmente convegno, ed esprimono un sol pensiero e un solo amore nobilissimo; il pensiero, dico, dell’anima umana, che liberamente spicca il suo volo sino a Dio, e lo benedice; lo adora, lo ringrazia, lo prega con il culto cattolico. – Un antico scrittore afferma che l’arte religiosa è principalmente ordinata a parlare le verità della religione agli animi grossi. Ed è vero, però in questo modo. Sopra gli animi grossi, che sono più involti nei sensi, l’arte ha una particolare efficacia. Ma anche gli animi nobili, elevati in alto per cultura e per scienza, si giovano del linguaggio dell’arte religiosa, come ciascuno può intendere facilmente. È basti qui dell’arte religiosa, considerata come possente ed efficace mezzo di culto esterno; e volgiamoci un tratto ad un’altra considerazione. – Tutto il culto religioso, che costituisce la virtù della religione, si assomma principalmente in una sola nobilissima e dolcissima parola: orazione. Questa parola però è così ricca di significati, che compendia tutte le principali relazioni dell’anima con Dio. In vero l’orazione abbraccia il culto interno ed esterno; perciocché l’anima cristiana, talora prega raccolta in sé stessa, senza movimenti di labbra, e talora prega anche esternamente, profferendo l’orazione insegnatale da Cristo; o le altri orazioni della Chiesa, dei Santi, o infine quelle che la pietà e il fervore mettono improvvisamente su le labbra di ciascuno. Altre volte l’orazione prende anche una forma più artistica, ed entusiastica; ed è quando si sposa al canto. Così avviene per esempio in quelle ore solenni, in cui un’onda di popolo commosso canta i Salmi, il Page lingua, o il Te Deum o altro. Ancora, chi dice orazione, dice tutti quei vari moti dell’animo verso Dio, dei quali si è discorso più avanti. L’anima infatti, che prega, intreccia in una sola armonia celeste, quasi diverse note d’un sol canto, l’adorazione, il rendimento di grazie, l’invocazione del perdono, e la domanda di tutto ciò, che rettamente desidera o spera, sia nel mondo della vita presente, sia in quello della vita avvenire. Chi prega bene, lo muove amore; un amore santo che s’apre con Dio, e diffonde l’anima in Dio, come usa amico con amico. Però il suo linguaggio è vario, come è varia la parola dell’amore; ma in ogni sua parola vi ha sempre una scintilla d’amore. – Questo soave e nobile linguaggio dell’orazione è così inerente alla natura umana, che lo adoperano anche le false religioni; e in certi momenti spunta altresì su le labbra degli increduli più induriti. Non pertanto intelletto umano, allorché è gonfio d’orgoglio o per falso sapere o per abuso di scienza, vi sofistica sopra vanamente. Infatti, ci ha filosofi, che, silloggizzando poveramente e superbamente, tentano di disseccare questa cristallina e ubertosa fontana di grazia e di consolazione, che Iddio ci ha dato nell’orazione. Ce ne ha poi altri, i quali concedono all’uomo di adorare e di ringraziare Iddio di tanti benefizj; ma, quasi come fanciulli, a cui pare di vedere un fantasma, si adombrano, e si ribellano appena si tratti di chiedere a Dio un qualche benefizio spirituale o temporale che sia. Non dubitano di opporsi audacemente a questa nobilissima e comunissima inclinazione di tutto il genere umano, che pregando chiede dal Signore beni spirituali e temporali, e affermano che Iddio non può né deve esaudirci mai. Si arrogano il diritto di far da maestri a tutti gli uomini, ai passati e ai presenti, alle genti più civili e alle più barbare, e dicono: non egli forse immutabile l’Iddio vero ed eterno; che, mentre tutto muta intorno a Lui, sta fermo nella sua immutabilità? E se Egli è sempre e sustanzialmente immutabile, perché gli chiedete voi di mutare, dandovi questo o quel benefizio che non avete? Ancora, se Dio vi concedesse ciò che gli chiedete, non sarebbe la volontà sua in qualche modo sottoposta alla vostra? Infine quel che noi chiediamo, dipende forse dal nostro libero arbitrio? E allora, perché preghiamo? Non dipende da esso? E allora perché domandare che Iddio muti le sue leggi eterne? A queste difficoltà, le quali derivano unicamente dal non saper noi a prima giunta accordare il domma dell’immutabilità di Dio con quello dell’efficacia della preghiera; l’Angelico Dottor san Tommaso risponde così: “Bisogna che si ammetta l’utilità dell’orazione; ma che ciò sia fatto in guisa, che né noi imponiamo la necessità alle cose umane soggette alla divina Provvidenza, né stimiamo mutabili i divini ordinamenti. Per render ciò chiaro, s’ha da considerare che non solo la divina Provvidenza anticipatamente ha determinato gli effetti che debbono avvenire, ma ancora ha determinato da quali cause e in quale ordine debbano avvenire. Or tra le cause della divina Provvidenza, si hanno da noverare le cause di alcuni nostri atti umani. Però è necessario che gli uomini facciano alcune cose, non perché con i loro atti mutino i divini ordinamenti: ma affinché, per i loro atti, si adempiano certi effetti, secondo l’ordine disposto da Dio. Ciò avviene nell’ordine naturale: e ciò avviene egualmente nell’orazione. Infatti noi non preghiamo per mutar il divino ordinamento, ma per impetrare quelle cose, che, per mezzo delle orazioni dei giusti, Iddio vuole che si compiano. Così Iddio vuole che gli uomini preghino. Gli uomini dunque preghino, affinché meritino di ricevere ciò, che l’Onnipotente ha decretato di dar loro prima dei secoli; e così è insegnato da san Gregorio nel Libro dei Dialoghi. (Summa Theolog – II, II. quaest. 83, artic. 2.). Per viemeglio chiarire la nobile e profonda dottrina del Cristianesimo, qui avanti dichiarata tanto sottilmente da san Tommaso, è bene di por mente che la divina Provvidenza governa il mondo non solo con leggi fisiche, ma altresì con una sapientissima e ammirabile legge morale. Anzi le leggi fisiche Iddio le soggetta a quella morale. Il non volere, per accecamento o per orgoglio intellettuale, riconoscere nell’universo altra legge che la fisica, ciò è sorgente di moltissimi errori dei miscredenti, e in modo particolare dell’errore che si riferisce all’orazione. E intanto, anche a voler guardare attentamente le sole leggi fisiche, che governano il mondo materiale, esse stesse, con la sapienza e l’armonia del creato, rivelano l’esistenza di un’altra legge sapientissima e morale nell’universo. Però la verità è, che, come la legge fisica, la quale governa in modo supremo e con ineffabile armonia l’universo materiale, si dirama in molte leggi fisiche particolari, quali sono, per esempio le leggi del moto, dell’attrazione, dell’elettricità, della gravità dei corpi ecc.; così parimenti avviene nella suprema legge morale dell’universo. Anche questa deriva dall’armonia di varie leggi, alle quali presiede sempre la perfettissima, sapientissima e provvidissima volontà di Dio. Le varie leggi, che, sottoposte a Dio, o provenienti da Dio, costituiscono l’universo morale, sono gli atti del nostro libero arbitrio, la grazia divina illuminatrice e infiammatrice dell’animo umano, il miracolo e l’orazione. Ciascuna di queste leggi particolari si accorda mirabilmente con ciascun’altra, quasi sorella con buona sorella, ché provennero tutte nel mondo, come gemelle, dal supremo Intelletto e Volere di Dio. La divina Provvidenza poi le governa tutte, e le costituisce come unica e suprema legge morale dell’universo. Molte cose dunque avvengono nel mondo, per effetto delle leggi fisiche, e molte per effetto delle leggi morali; ma la Provvidenza con la sua prescienza, con la sua sapienza, con la sua bontà e con la sua onnipotenza ordina l’una e l’altra legge, la fisica intendo e la morale, agli altissimi suoi fini, e principalmente alla propria glorificazione e alla nostra eterna beatitudine. – Volendo poi applicare questi principj in modo particolare all’orazione, io conchiudo questo Capo del mio libro, togliendo dalle Conferenze dell’illustre Domenicano Monsabré un brano assai bello e opportuno al mio argomento. Egli dunque dice così: “Iddio legislatore universale conosce le opere sue dal principio alla fine, e dal principio alla fine le governa con forza e soavità. Per effetto di questo conoscimento e del suo potere, egli ha regolato ab æterno gli effetti e le cause, come ab æterno ha ordinato che di molte cose umane sia causa la preghiera. ab æterno Iddio ha detto nel cuor suo di Padre: alla tale ora dei secoli feconderò le terre sterili; alla tal’ora dei secoli guarirò gli ammalati e consolerò gli afflitti; alla tale ora dei secoli illuminerò le intelligenze e rassoderò la virtù nei cuori; alla tale ora dei secoli salverò i popoli dalla morte; alla tal’ora dei secoli io farò prodigi, e, se sarà necessario, metterò sossopra la natura e scuoterò le anime; perché alla tale ora dei secoli i mici figli ginocchioni, stenderanno verso di me supplichevoli le mani, e con le orazioni si getteranno negli abissi della mia bontà infinita. Dio ab eterno disse ciò; ed è forse perché questa parola eterna, si compie tutt’i giorni, che voi osate accusare Iddio d’inconstanza?” (Monsambré, Conf. XXI. L’immutabilità delle Leggi del Governo divino, e la preghiera.).