LO SCUDO DELLA FEDE (192)

A. D. SERTILLANGES, O. P.

CATECHISMO DEGLI INCREDULI (XXVIII)

[Versione autoriz. Dal francese del P. S. G. Nivoli, O. P. – III ristampa. S. E. I. – Torino 1944]

LIBRO QUINTO

I NOVISSIMI

III. — L’Inferno.

D. L’inferno è lo scandalo.

R. Io non ti nasconderò la mia emozione, nel momento di parlartene con una sincerità completa. Vi son qui dei profondi misteri. Ma oso domandarti di non fissare il tuo giudizio sulle mie parole prima d’aver letto tutto quello che segue.

D. L’inferno non sarebbe uno spauracchio leggendario, un mito?

R. L’inferno non è un mito; esso figura nel Vangelo in termini formali, e la sua affermazione fa parte integrante del deposito della fede. Ciò che è esatto si è che talvolta le nostre immaginazioni se lo figurano, è vero, sotto forme inevitabilmente mitiche, più che di ragione, come ne fanno testimonianza tanti quadri dei quali il poema di Dante fu il principio.

D. Tu ripudi le immagini del Fiorentino, quelle delle cattedrali gotiche, quelle dell’Angelico, di Michelangelo, del Tiepolo, di Giovanni Goujon, e di tanti altri?

R. Io le ammetto per quello che sono: immagini, vale a dire figurazioni simboliche, che bisogna guardarsi dal prendere alla lettera, e che converrebbe oggi sostituire, perché esse si allontanano troppo dalla realtà supponibile, e traviano la mente.

D. Ad ogni modo tu mantieni la realtà dell’inferno?

E. Io la mantengo con la fede cattolica, e aggiungo che essa risponde a una necessità del piano universale così come ne abbiamo tracciato il disegno. L’inferno è una conseguenza terribilmente logica di ciò stesso che esalta le nostre speranze, se la speranza sbaglia la sua strada.

D. In che consiste questa necessità di piano?

R. Non vi è che un Dio, non vi è che un Salvatore; non vi è che una sorgente di vita e di salute; e noi abbiamo veduto che è possibile attaccarvisi in più modi; ma evidentemente chi se ne distacca si perde.

D. Perdersi, cioè non fare capo là dove uno si spinge, è andare all’inferno?

E. Sì; perché riguardo all’essenziale non vi è stato neutro. Chi non entra nell’ordine offende l’ordine. Chi non vuole Dio offende Dio di un’offesa infinita per il suo oggetto, per l’infinita bontà che lo propone, per le tenere industrie e la pazienza che lo mettono e lo mantengono a disposizione della nostra libertà. Onde Gesù disse: « Chi non è con me è contro di me», e nei due casi la situazione sviluppa tutte le sue conseguenze,

D. Quali conseguenze?

R. Colui che offende l’ordine col peccato dev’essere ricondotto all’ordine con la pena. Colui che respinge Dio deve sentire l’abbandono di Dio. Avendo sdegnato l’amore, il peccatore deve vedere la giustizia adoperarsi a vendicare l’amore.

D. Quale ordine può turbare un piccolo peccatore?

R. Fortunatamente nessuno, alla fine dei conti; ma quello che il peccatore non può effettuare, in realtà lo tenta; non potendo turbare l’ordine eterno, egli lo offende, e se l’ordine non è turbato, ciò avviene a questa condizione che vi sia contro di lui una reazione compensatrice. « La pena è l’ordine del delitto » (S. AGOSTINO).

D. Il peccatore non è libero, nell’universo?

R. Il peccatore è libero d’impegnare la lotta contro l’ordine, ma non di vincerlo. Nella sua totalità eterna, l’ordine è divino; esso resiste, e contro di esso è solo possibile stritolarsi. Non abbiamo detto e non sostieni tu stesso che Dio è tutto essere, tutto potenza, tutto azione? Che se, per un miracolo, Egli poté fare degli esseri capaci tuttavia di fare qualche cosa che loro appartenesse, perciò di ubbidirgli o di urtare i suoi voleri, è giocoforza — sotto pena che qualche azione sfugga all’Azione e qualche essere all’Essere — che al di là di questa azione creata, si ritrovi l’azione di Dio, per ricondurre al suo proprio ordine, per approvazione o per costringimento, quello che lui stesso non ha fatto.

D. Se l’ordine è divino, esso ha dell’indulgenza.

R. L’indulgenza ci attende, e, appena vi acconsentiamo, essa ci ripara; ma, in difetto del peccatore impenitente, non deve essa riparare anche l’ordine eterno che egli ha compromesso?

D. Non capisco bene questa bilancia compensatoria, che pare volere equilibrare un male con un altro.

R. Il peccato è un male; la pena è un altro male; ma che il peccato sia riparato dalla pena, è un bene; come se dicessi: la cancrena è un male; l’amputazione d’un membro è un altro male; ma l’asportazione d’un membro incancrenito è un bene.

D. Dio non è forse tanto grande da lasciar correre, per sorridere, come fa nella Bibbia: « Ecco Adamo diventato come uno di noi! ».

R. L’ironia biblica è qui talmente spaventosa che non vi è luogo d’invocarla contro le retribuzioni. E che cosa sarebbe la grandezza di Dio, se essa non fosse la grandezza de’ suoi attributi: bontà, misericordia, pazienza in tutta la misura del possibile; ma, dopo questo, giustizia vendicatrice procedente dallo stesso fondo, che è l’amore del bene?

D. L’amore del bene è una cosa, la vendetta rispetto al male è un’altra.

R. È esattissimamente la stessa cosa. Che sarebbe un amore della salute il quale non fosse un odio della malattia? Amore del bene, odio del male, sono due nozioni solidali. L’orrore del male non può mancare di essere in Dio nella misura della sua percezione. Egli permette il male in vista del bene; ma alla fine, bisogna che questa « quantità ausiliare » si elimini, e se la libertà mantiene il male in se stesso, bisogna che l’ordine del bene esploda nella repressione.

D. Tutta l’opera di Dio non è che un’emanazione di bontà.

R. «Tutta l’opera della giustizia divina (alla sua volta) non è che una procurazione di bontà» (TERTULLIANO). Ma quando la giustizia non può più adoperarsi a ordinare il bene che la bontà divina comunica, è necessario che essa si adoperi a riparare il male che essa condanna.

D. Ogni male è un oggetto di pietà, e la pietà è divina.

R. Il male è un oggetto di pietà quando è involontario, nella misura che è involontario. Si compatisce l’uomo che soffre senza averlo meritato; si compatisce il reo che si pente; si compatisce, anche ribelle, se si crede capace di pentimento; ma l’indurito — solo questi può essere condannato — non presta più alla pietà nessuna materia che la muova. La pietà è divina; ma, dice Carlyle, « un essere che non conosce il rigore, non conosce neppure la pietà », perché la sua pretesa pietà non potrebbe essere che dabbenaggine o codardia. Al Dio amico del bene e nemico del male, preferisci tu l’impassibile testimonio dei razionalisti, o lo sciocco « Dio della buona gente »? Dio non può essere immensamente buono se non a patto che sia anche formidabile. Se si ammette un attributo senza l’altro, una bontà senza giustizia, non si ha più Dio.

D. Se Dio è Dio, Egli è un operatore di felicità.

R. Perciò organizza ogni cosa in vista della felicità. Ma l’ordine ch’Egli stabilisce non sarebbe un ordine morale, se fosse possibile essere felici allontanandosi dal bene. Quale coscienza si potrebbe credere onesta, se si offendesse della giustizia di Dio? È possibile vedere un Dio sotto il regno del quale il male potrebbe spassarsela e sfidare la vendetta? Questo Dio non deve forse proteggere la bontà, perché non sia volta in derisione dal vizio? « Dio non si lascia deridere » (S. PAOLO).

D. Per poco, tu faresti dell’inferno un’opera d’amore.

R. È quello che fa Dante, il quale attribuisce al « Primo Amore » la costruzione della città infernale.

D. È un lugubre paradosso.

R. È una penosa verità, che tu trovi alla lettera nel Vangelo, poiché appunto per illustrare il suo comandamento dell’amore, e come una conseguenza del suo proprio amore unito a quello di suo Padre, Gesù erge solennemente agli occhi de’ suoi il tribunale supremo: Allora il re dirà a quelli che sono alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio… perché io ebbi fame e voi mi avete dato da mangiare, ecc. E a coloro che saranno alla sua sinistra: Andate, maledetti, nel fuoco eterno… Il dittico tenero e terrificante: « Venite, benedetti », « Andate, maledetti », è chiarissimamente presentato come una sanzione del doppio precetto: Amatevi gli uni gli altri come Io ho amato voi. Se voi mi amate, osservate i miei comandamenti.

D. Nel nome di che cosa l’amore divino esige l’inferno?

R. Nel nome di una reciprocanza la cui assenza è un orribile scandalo ben più grave che quello dell’inferno. Ci scandalizziamo dell’inferno mentre non diamo nessuna importanza al peccato, mentre disprezziamo praticamente la grandezza di Dio, ma in special modo mentre sdegniamo di pensare a tante misteriose prevenienze, a tanti benefizi, a tanti perdoni, a tante misericordie, mentre ci dimentichiamo di apprezzare la croce, il tabernacolo e il cielo.

D. Certi santi ebbero spavento dell’inferno.

R. Tutti i santi ebbero spavento dell’inferno; ma non si scandalizzarono se non della nostra incoscienza. Lì stava per essi il «mostro », come direbbe Pascal. Ferventi nell’amore, capirono che l’amore è altrimenti esigente che la giustizia, e che, beffandosi dell’amore divino, si deve correre un rischio in proporzione con la mercede, che qui è infinita, poiché la ricompensa è Dio stesso.

D. L’amore si vendica?

R. All’amore divino, per vendicarsi, basta ritirarsi in se stesso; in questo ritiro, per noi che dobbiamo attendere tutto da Dio, giace una spaventosa sventura, e ne segue per giunta il ritorno contro di noi di tutto ciò che l’Amore regola, di modo che noi ci troviamo al bando dell’universo. È quello che Bossuet chiama « la collera della colomba », certo per metafora e non prendendolo se non dal lato degli effetti. Nello stesso senso il P. Lacordaire dice: « Non è la giustizia, che sia senza misericordia, ma l’amore ». « L’amore è la vita o la morte, e quando si tratta dell’amore di un Dio, è l’eterna vita o l’eterna morte ».

D. Un amore che si muta in tal modo dimostra i suoi limiti.

R. L’amore divino non ha altri limiti fuorché i rifiuti opposti dalla nostra libertà. Di più, esso non tiene nessun conto dei nostri rifiuti parziali e provvisori, per quanto gravi e ripetuti siano essi. Una sola cosa lo disarma: un rifiuto decisivo e irremissibile. Allora siccome la sorgente delle grazie è esaurita da un’inespiabile infedeltà, come si arresterebbe il torrente della giustizia? Per essa, lo stesso amore si deve adoperare e punire.

D. Ecché! Dio riporrebbe la sua gioia nella sofferenza della sua creatura?

R. Dio ripone la sua gioia nella gioia della sua creatura, entro l’ordine nel quale riposa tutta quanta la creazione. Fuori di lì, Dio ripone la sua gioia non nella sofferenza della sua creatura, ma nell’ordine della giustizia. Non bisogna forse che, dopo avere esaurite tutte le sue prevenienze, l’amore di Dio « si giustifichi di fronte alla sua giustizia? » (Bossuet). Esso ciò fa abbandonando il peccatore nelle sue mani.

D. Passiamo sopra il principio dell’inferno; ma come lo concepisci tu e quali sono le sue pene? L’inferno è un luogo?

R. Ho detto che la vita eterna, felice o infelice, è essenzialmente uno stato, e non un luogo. Tuttavia un luogo non le può essere estraneo, poiché noi crediamo a un aspetto fisico di questa vita, specialmente dopo l’ultima risurrezione.

D. Ritorni dunque al « fuoco », che sembravi scartare or ora?

R. Io scartavo le caldaie bollenti, le fiamme lambenti i corpi, o satana con la bocca piena. Ma devo mantenere — del resto vi si rivela una grande logica — una pena veniente dalla creazione corporea e che il Vangelo figura col fuoco, come figura col verme roditore il rimorso che tortura le anime.

D. In che consiste questa pena?

R. Noi non lo sappiamo. Figurati che per saperlo ci occorrerebbe una scienza universale circa la materia del mondo, i suoi poteri, le sue relazioni con la carne e con lo spirito.

D. Perché sarebbe necessaria questa scienza totale?

R. Perché si tratta qui di rapporti fondamentali, impegnanti l’essenza ultima delle cose, giacché si tratta dei rapporti eterni. Si può sapere come una fiamma disgreghi un corpo mortale; ma quale contatto si possa stabilire tra una sostanza ostile e un corpo immortale, anzi con un’anima, chi ce lo dirà? S. Tommaso è di opinione che si tratti di uno spaventoso costringimento, risultante dal fatto che il peccatore, rigettato fuori dell’ordine, è oppresso da questo fino a un’angoscia senza nome.

D. L’ordine può forse opprimere?

R. Nulla vi è così oppressivo come l’ordine, per colui che vi penetri e non vi si acconci punto. Rappresentati un folle smarrito in mezzo a un esercito in marcia: senza che nulla gli sia ostile, egli è molestato da ogni parte. Porta ciò fino all’intimo degli esseri e dei loro più segreti poteri, e tu congetturerai forse un supplizio tanto inenarrabile quanto sono grossolani quelli che la nostra barbarie organizza. Ecco indubbiamente quello che faceva dire a S. Tommaso che i supplizi dell’inferno, attinti dalla verità essenziale delle cose, sono in confronto di quelli di quaggiù quello che è un fuoco reale in confronto della fiamma in pittura.

D. Ciononostante, io non capisco come un’anima separata dal suo corpo (fino al giorno del Giudizio) possa soffrire un dolore fisico.

R. Il corpo di un mutilato soffre del membro asportato: così in qualche maniera l’anima amputata del suo corpo. Nel primo caso, si tratta di terminazioni nervose e di una falsa localizzazione; nel secondo, dei poteri fisici di cui l’anima è dotata in se stessa, benché essa quaggiù li eserciti mediante il corpo.

D. Ma perché l’universo opprimerebbe il peccatore?

R. Perché l’universo è di Dio e opera ai fini di Dio. Finché noi siamo legati a Dio, fosse pure con un vincolo provvisorio, l’universo — sia pure provvisoriamente — lavora altresì per noi. Ma nel caso definitivo, il peccatore, reso ostile a Dio, vede l’universo diventargli ostile, e ostile sino a’ suoi ultimi confini. L’ondata degli esseri l’assedia, perché questo mare ubbidisce a un ritmo che a lui è diventato estraneo, che a lui è dunque contrario. « La natura è essenzialmente soprannaturale; se essa non è divina, è diabolica. Se l’uomo è vero, retto e fedele, la grande Realtà lo porta; se non è tale, il mondo prende fuoco sotto di lui » (CARLYLE).

D. È il rovesciamento delle parti.

R. Di fatto tutto il piano della nostra vita è sconvolto: l’ordine divino del quale noi dovevamo essere beneficiari fino alla suprema felicità, si precipita contro il suo violatore diventato nemico di Dio, e per conseguenza nemico dell’uomo unito a Dio, nemico di se stesso, abbandonato all’anarchia interiore, e nemico dell’universo.

D. Sconfitta!

R. Sconfitta totale, anarchia morale decisiva, che equivale a un’anarchia vitale eterna e universale, a un vivente morto, come di un cadavere che sentisse la sua dissoluzione.

D. Almeno è questa la più grande pena dell’inferno?

R. È di gran lunga la minore. La più grave è quella che dà il suo nome alla dannazione, la pena del danno.

D. In che consiste?

R. Consiste nella privazione di Dio ed essa è « tanto grande quanto Dio » (S. AGOSTINO).

D. La privazione di Dio può essere una così gran pena? Non vedi che il peccatore vi si adatta?

R. Il peccatore si adatta alla privazione di Dio perché non conosce né Dio né se stesso, e quindi non si può rendere conto della suprema convenienza dell’Essere primo con ciascun essere, ma principalmente con l’essere ragionevole, in stato di tuffarsi in Dio, per l’intuizione del cielo, fino a intime profondità. Ma noi crediamo che nell’ora del giudizio, una subitanea rivelazione di questo rapporto venga fatta ad ogni anima. È il lume del giudizio stesso. In seguito, per il miserabile dannato, questo lume diventa una coscienza inestinguibile della sua sventura.

D. Si ha difficoltà a rappresentarsi questa angoscia.

R. Rappresentarsela è impossibile; ma riflettendo a quello che è Dio e a quello che Egli è per noi, Tesoro dell’essere in cui si trovano contenuti sovreminentemente tutti gli oggetti della nostra ricerca, vi è già qualcosa di spaventoso nel supporre tra Dio e un infelice bandito l’eterno addio. « Addio, Padre mio; addio, Fratello mio; addio, Amico mio; addio, mio Dio; addio, mio Signore; addio, mio Maestro; addio, mio Re; addio, mio Tutto! » (Bossuet). Che Dio concepisca una specie di odio per la sua creatura, vale a dire — poiché Dio in se stesso non è punto soggetto all’odio — che egli la lasci in un abbandono assoluto, non lasciando sussistere in lei se non la capacità della infelicità, invece di tanti poteri che per mezzo suo sarebbero beatificanti, è spaventoso, terrificante!

D. Dunque, in quell’antro, orrendo, non perviene la luce di Dio?

Sempre essa perviene ai dannati, ed è la loro disgrazia.

D. Essa non li rischiara?

R. Li abbaglia.

D. Non li rallegra?

R. Li brucia.

D. Non li attrae?

R. Li attrae infinitamente e nello stesso li respinge. Da ciò proviene il loro strazio e la loro tortura.

D. La loro infelicità dunque è senza misura?

R. Tal è nel suo oggetto; ma nondimeno comporta dei gradi, forse delle attenuazioni, delle riduzioni di pena, e se la infelicità suprema di certi dannati sta in ciò che essi non hanno la speranza di morire, si può credere che altri, meno completamente diseredati, tengano tuttavia all’esistenza. È il sottile filo che allaccia ancora quegli spatriati eterni a quello che noi amiamo.

D. Eterni! ecco la cosa terrificante e inaccettabile. A questo prezzo, mi sembra che preferirei non credere in Dio piuttosto che credere all’inferno?

R. Allora tu avresti fatto di questo mondo un inferno! Inferno per tutti, e specialmente per i buoni, che, come dice S. Paolo, « sarebbero i più miserabili di tutti gli uomini ». Infatti avresti scritto alle porte della vita e della morte, così vicine l’una all’altra: « Lasciate ogni speranza, voi che entrate » (DANTE).

D. Ma finalmente, con quale principio sufficientemente saldo pretendi tu di giustificare una tale sfida?

R. Mi rifaccio al punto di partenza della mia spiegazione. Non vi è che un Dio; non vi è che un Salvatore; non vi è che una fonte di salute: chi se ne distacca si perde, e ciò, per sé, è irrimediabile.

D. Perché irrimediabile?

R. Perché non è possibile attaccarsi a Dio senza Dio, e perché in un ordine soprannaturale, un soccorso soprannaturale è indispensabile.

D. Questo soccorso è forse rifiutato?

R. Questo soccorso non è mai rifiutato se non a colui che lo rifiuta; ma è proprio il dannato colui che ha opposto alla misericordia divina un definitivo rifiuto.

D. Quale rifiuto può essere definitivo? Non vi è la penitenza?

R. Vi è la penitenza qui; ma al di là, non vi è più penitenza.

D. Perché al di là non vi è più penitenza?

R. Ti rispondo con precauzione, perché vi è qui molto mistero. Come farne le meraviglie? Che cosa sappiamo noi di ciò che diventa, in quest’altro stato dell’essere, la nostra categoria del tempo? Che sappiamo noi dell’anima separata e del regime psicologico in cui essa si stabilisce? Quali siamo morendo, forse tali rimaniamo per un necessità di costituzione spirituale, per un arresto dell’evoluzione psichica in materia di scelta. Ad ogni modo, noi sappiamo che allora non è più il tempo della grazia.

D. Vi è un tempo per la bontà?

R. Non vi è tempo per la bontà in se stessa; ma vi è un tempo per le sue manifestazioni, che esigono un certo ordine. Se un buon capo è sempre buono, ciò non gl’impedisce di segnare un tempo oltre il quale non si dovrà più fare assegnamento che sopra la sua giustizia.

D. Dio è capo in tal modo, e non è più padre?

R. Dio è padre, ma è un padre giusto. Anche un padre può essere costretto al ripudio.

D. Che cosa è che può « costringere » Dio. Non è forse supremamente libero de’ suoi doni?

R. Dio è supremamente libero; ma le opere della sua libertà comportano un ordine intimo, in cui la giustizia ha un giorno la sua necessaria parte.

D. Che cosa può determinare questa parte?

R. È quello che noi non sappiamo, ed è la nostra terza ignoranza. Per saperlo, bisognerebbe esplorare a fondo l’ordine morale in ciò che ha di eterno, come per sapere quello che è il « fuoco » dell’inferno, bisognerebbe conoscere a fondo l’ordine fisico in ciò che ha di eterno. « Le idee che abbiamo di ciò che è giusto e ingiusto sono stranamente limitate, osserva Pascal, poiché insomma non si tratta fra noi se non di una giustizia da uomo a uomo, cioè tra fratelli dei quali tutti i diritti sono uguali e reciproci, e qui si tratta di una giustizia da Creatore a creatura, in cui i diritti sono in una sproporzione infinita ». La giustizia dell’inferno dipende dall’ingiustizia del peccato. E chi può valutare il peccato senza sapere che cosa è Dio, che cosa è l’uomo nel suo rapporto naturale e soprannaturale con Dio? Dio è talmente superiore al pensiero che noi ne abbiamo; il Dio intimo, il Dio Trinità, ci sfugge a tal segno che anche il peccato deve oltrepassare infinitamente le nostre misure, e la giustizia dell’inferno la nostra giustizia.

D. Ma la natura del peccato per noi e il peso delle nostre responsabilità peccaminose non dipendono forse dalla cognizione che ne abbiamo noi?

R. Certamente; ma vi è cognizione e cognizione. L’uomo che arguisce nel padre suo qualche grandezza misteriosa a lui sconosciuta e qualche sacrifizio segreto, ma incomparabile, compiuto in suo favore da questo padre, se egli offende questo padre, non è forse responsabile anche di ciò che egli non conosce punto? Noi che sappiamo la grandezza incommensurabile del nostro Dio, l’infinita sua tenerezza, l’ampiezza del sacrifizio della croce, possiamo forse dire veramente con fondamento: Io non sono responsabile riguardo al mistero delle giustizie celesti, sotto pretesto che nel momento della colpa le nostre immagini mentali non le rappresentano punto?

D. La tua soluzione circa la possibilità o l’impossibilità della penitenza è dunque

R. La penitenza è possibile quaggiù, perché noi siamo in tempo di sperimento, di « prova », sotto un regime di grazia, e perché la natura fluttuante delle nostre menti, suddite dell’immaginazione, ora ci fa uscire dalla strada e ora ci fa rientrare. Ma strappati dalla morte a questa doppia condizione; avendo da rendere conto, e non più da sperimentare; non avendo più grazie di conversione, perché non siamo più sulla strada (in via); non essendo più in balia di quelle fluttuazioni che non dipendono se non dalle immagini mentali, creazione del cervello animato, noi entriamo nel dominio del definitivo, del fisso, e « dove l’albero cade, ivi rimane ».

D. La dannazione sarebbe dunque l’effetto d’un volere definitivo e che non potrebbe mutare?

R. Quello che noi vogliamo definitivamente, nel pieno senso della parola, è di fatto quello che fissa i nostri destini, che sono destini morali. C’è lì dell’assoluto, alcun che di estraneo al tempo, qualunque sia il tempo che mettiamo a costituirlo. Il determinare per saggi a tastoni quello che noi veramente vogliamo, esige del tempo, e il tempo può servire a riconoscerlo; ma quel voler decisivo che è come l’edizione ne varietur delle

nostre opere morali, il tempo non lo può diminuire, non lo può modificare, non lo può consumare; l’anima lo contempla sub specie aeterni, direbbe Spinoza, in forma eterna; e volere così Dio è dunque essere un eletto eterno; e rifiutare così Dio è essere un dannato eterno. A ciò non vi è rimedio.

D. Ma che cosa è questo volere assoluto del quale tu ragioni? Vi è qualcosa di assoluto în noi? La libertà può forse incatenare se stessa a qualcosa di definitivo, e disporre per sé o contro di sé dell’avvenire?

R. Nessuno dei nostri voleri particolari è un volere assoluto in questo senso che noi lo vogliamo, nel fatto, definitivo: il peccatore indubbiamente si riserva di cambiare più tardi; ad ogni modo potrebbe ciò fare, sotto un regime di grazia, quand’anche non l’avesse voluto prima. Tuttavia, in ogni atto pienamente deliberato vi è una specie di volontà incondizionata della quale bisogna tener conto, una scelta senza condizione di tempo, una scelta fuori del tempo, una scelta che, se l’avvenire non dipendesse che dal volere attuale nella sua stessa essenza, varrebbe per tutto il tempo, e perciò include ciò che si potrebbe chiamare una eternità soggettiva, in via di decidere per l’altra, a meno che nel tempo che gli è lasciato il peccatore non cambi,

D. Perché non cambierebbe?

R. Egli cambia finché vuole quaggiù. Ma siccome al di là non vi è più cambiamento, è di diritto, rigorosamente parlando, che, avendo il peccatore peccato « nella sua eternità propria », come dice S. Agostino, « Dio lo punisca nella sua. »

D. Non intendo bene questa psicologia della colpa.

R. «Tutti i nostri desideri determinati racchiudono qualcosa che non ha limiti, e una segreta avidità di un godimento eterno… È dunque un giusto giudizio di Dio che i peccatori, avendo nutrito nel loro cuore une segreta avidità di peccare senza fine, siano rigorosamente puniti con pene che non avranno fine » (Bossuet). In altre parole, vi è qualcosa di definitivo in fondo a ogni volontà formale, benché questa volontà possa esser ritrattata in seguito, nello stesso modo che in fondo a ogni amore, finché dura, vi è qualcosa di eterno. Ogni peccato mortale implica come una profondità infinita di abbandono. L’inferno ne è la reciprocanza. Che dico? l’inferno vi è già contenuto, come notavamo a proposito del giudizio. Per questo dicevamo che per diritto stretto, in sé, nel modo assoluto, ogni peccato mortale vale l’inferno quanto alla sua durata, nello stesso modo che esso l’uguaglia e lo supera in gravità, comportando obiettivamente,

poiché è diretto contro Dio, un’infinità di offesa.

D. Che cosa è questa infinità di offesa, in un essere finito?

R. L’offesa non è infinita in noi; ma è infinita in se stessa, per definizione — la definizione dell’atto e la definizione di Dio — e noi lo dobbiamo sapere. Il bene e il male differiscono infinitamente: così lo sente ogni coscienza profonda. Non può recare nessuna meraviglia che la sorte definitiva di quelli che scelgono l’uno o l’altro sia per così dire infinitamente distante. In realtà, essa non lo sarà, ed è per questo che i santi dicono che anche nell’inferno vi sarà misericordia.

D. Resta sempre quel volere « definitivo » del peccatore, che tu fondi sopra un’esegesi psicologica un po’ troppo sottile.

R. Ma io non ho detto tutto. Ho parlato solo del diritto stretto, giudicando del peccato in sé e dell’ordine morale soprannaturale in tutto il suo rigore.

D. Che cosa aggiungi ancora?

R. Aggiungo questo. È possibile che uno dei nostri voleri, preso in particolare, per quanto sia fermo, decisivo e pieno di responsabilità in se stesso, non basti qualificarci, riguardo al giudizio eterno. Ma dall’insieme dei nostri voleri particolari, se ne fai la somma, apparisce un carattere morale che veramente ci giudica.

D. In quale momento questo carattere si determina?

R. Ciò dipende dagli individui; ma è determinato alla morte, poiché è in tale momento che termina la prova. Avviene come di una sala di votazione in cui l’urna sarebbe a tua disposizione per un certo tempo. Qualunque sia la scheda che tu deponi in buona e dovuta forma, essa decide in sé del risultato; ma tu puoi esitare, essere combattuto, ritirarti, rimettere e ritirare ancora. Ma quando è scoccata l’ora finale tutt’a un tratto la

è finita, e l’ultima scheda conta come se fosse stata sola.

D. È dunque il caso che decide.

R. Non è il caso, poiché sei tu ogni volta, e qui potrebbe far ritorno quello che dicevamo or ora del diritto stretto. Ma adesso dico: Il tempo che ti è lasciato non è fissato da qualcuno estraneo al tuo stato di spirito e a’ tuoi gesti, da qualcuno che ignori le tue esitazioni, le tue riprese, i tuoi buoni voleri attraversati, e del quale tutto il compito consista nel venire a vedere, alla fine, quello che vi è nell’urna. Dio è il padrone della vita e della morte; ogni decisione che Egli prende ha un carattere morale in armonia col carattere della nostra propria esistenza. Si deve dunque credere che l’ultima scheda è quella delle schede che conta per tutte, agli occhi di chi scruta i reni e i cuori. Di modo che un destino stabilito su quest’ultima scheda è un destino giusto, o per dire meglio misericordiosissimo. Ecco quello che s’intende quando si dice: « Di solito si muore come si è vissuto ».

D. Perché di solito?

R. Perché il problema morale non è posto e risoluto per tutti nello stesso modo, né nella stessa relazione col tempo. Certi destini si decidono prestissimo e non si decidono per

questo meno profondamente, in una maniera meno significativa in quanto al valore totale e decisivo della coscienza considerata. Altri destini più regolari nel loro corso, sono da un capo all’altro quasi identici a se stessi… Nel primo caso, si potrà cominciare male e finire bene, o viceversa, senza che c’entri il caso più che nell’altra ipotesi. Ma in quest’altra ipotesi, si verificherà il proverbio: si muore come si è vissuto, perché si viveva così come si era proprio in fondo, agli occhi del Padre celeste.

D. È possibile, sì o no, essere dannati per un solo peccato mortale?

R. È possibile.

D. Ecco dunque un povero uomo che ha condotto una vita onorata e meritoria; alla fine commette un peccato mortale, ed eccolo dannato!

R. Prendendo l’ipotesi tal quale è, bisogna dire sì, ma è la stessa ipotesi che è assurda. Tu ragioni come se vi fosse un Dio vendicatore, ma non una Provvidenza vigilante e buona, e come se fosse sempre Atropo che tagliasse il filo dei giorni. Quando diciamo che un solo peccato mortale merita l’inferno a cagione della sua natura, non considerando che la sua natura, non per questo diciamo che esso l’ottenga. Se uno può essere dannato — come anche salvato — per un solo atto, è perché questo atto esprime, allo sguardo infallibile di Dio, la nostra personalità profonda tale e quale noi stessi ce la siamo data, la nostra libertà nel suo slancio totale, il nostro atteggiamento decisivo di fronte alla vita.

D. Abbiamo conoscenza noi stessi di questo fatto?

R. Non mai con certezza, e per lo più in nessun modo. Nulla è per noi più misterioso che noi stessi. Ma quello che noi non sappiamo, benché sia opera nostra, lo sa Dio.

D. E tu dici che Egli ne tiene conto?

R. Non si vede che Dio tenda un’insidia alla sua creatura sorprendendola, dopo una vita di merito, nel momento di una noncuranza, fosse pure, per sé, mortale. I giudizi di Dio fanno la somma totale; pesano l’anima più che il fatto. L’anima, nella tua ipotesi, è onesta: dunque il tuo onest’uomo, in stato di peccato mortale come accidentalmente, o non morrà, lasciandogli Iddio il tempo di ravvedersi e di rialzarsi egli stesso, oppure morrà, ma prevenuto da grazie estreme che lo metteranno in stato di operare in extremis questa stessa conversione.

D. Tu credi a grazie dell’ultima ora a titolo corrente?

R. Ogni Cristiano pensa che nell’ora decisiva, sia l’ultima o un’altra, Dio è lì. Dunque soltanto sotto il suo controllo, e non altrimenti, l’urto della morte spezza in noi la potenza di metamorfosi, e il nostro essere morale si fissa, si cristallizza, e le nostre accettazioni e i nostri rifiuti della legge morale si sintetizzano in un sì o in un no eterno.

D. Su che cosa appoggi tu questa soluzione?

R. Sulle molteplici dichiarazioni di Dio stesso, nelle Scritture. Da per tutto sta scritto in queste o in altre parole: Io non voglio la morte del peccatore, ma che egli si converta e viva. Dunque lo stato di peccato non crea in Dio una volontà di dannazione finché la conversione non è stata rifiutata in modo decisivo, finché la persona morale non è stata espressa integralmente, di modo che la sua qualificazione decide della sua sorte. L’inferno è un’ultima morte per coloro che assolutamente non avranno saputo vivere.

D. A questo titolo chi metteresti tu nell’inferno con certezza?

R. Nessuno! Sarebbe un’atroce presunzione il dire: un tale si è dannato, fosse pure ai nostri occhi il peggiore delinquente. I miei pensieri non sono i vostri pensieri; le mie vie non sono le vostre vie, dice il Signore.

D. La tua Chiesa non pretende di avere su ciò dei lumi?

R. Nessuno. Per l’atto di canonizzazione essa dichiara essere certo che il tale o il tal altro sono nel numero dei santi; ma non dichiara mai che questo o quello sia dannato.

D. Almeno gli eletti sono per te in piccolo numero?

R. Coloro che lo pretendono non ne sanno niente. Si può sperare che all’opposto l’Amen terminale dell’opera divina sarà un’immensa e innumerabile acclamazione.

D. Quest’acclamazione finale degli esseri non dovrebbe forse riunirli tutti, e Hugo non ha forse ragione di vedere alla fine amnistiato anche satana?

R. Ancora una volta, noi non sappiamo chi è salvo e chi è dannato; ma ciò che è certo si è che l’ipotesi di cui tu parli, presentata specialmente come un’esigenza dell’ordine divino, è pienamente immorale.

D. Come ciò?

R. Perché suppone che dal principio del mondo sino alla fine, qualunque cosa facciano e vogliano gli esseri, con qualsiasi ostinazione pretendano di restare nelle loro vie, vi è una china necessaria che conduce a Dio. E ciò vuol dire che la volontà non è punto libera, o che ad essa si dà la facoltà d’infischiarsene.

D. L’ipotesi immorale non sarebbe piuttosto l’eternità delle pene, se per colpe finite da parte dell’uomo, come hai ammesso, s’infligge all’uomo una punizione infinita?

R. L’inferno è eterno non perchè il peccato è infinito, ma perché è senza rimedio, come una piaga più o meno grave in se stessa, ma che non possa guarire, poiché il tessuto mortificato non è più atto alle riparazioni della vita. Il peccatore non esce dall’inferno perché non si pente; non si pente perché è fuori della zona del cambiamento possibile, fuori del flusso e del riflusso dell’anima; fuori del tempo della grazia. È sempre punito perché è sempre peccatore, eternamente ostinato nel suo male.

D. Eppure tu lo abbandoni ai rimorsi.

R. Il rimorso non è il pentimento; tra i due la differenza è immensa, a tal segno che è quasi un’opposizione radicale. Infatti colui che si abbandona ai rimorsi decide di restare solo; si ripiega sopra di se stesso e non si occupa che di rodere se stesso, di « mordersi le dita », come si dice volgarmente. Ed è quanto dire che egli rinunzia ad amare. Ora il perdono è una risposta dell’amore all’amore, dell’amore misericordioso all’amore in lacrime.

D. Vi è altro ancora. Perché creare per dannare? La verità non è forse col trovatore che diceva: « Bel Signore Iddio, io vi farò una bella proposta: rimandatemi dov’ero prima di nascere, oppure perdonatemi tutti i miei peccati; perché io non li avrei commessi se non fossi esistito » (PEIRE CARDENAL).

R. Un tal parlare è legittimo sulle labbra di colui che si pente; se no, è un’insopportabile insolenza. Dio non crea per dannare; Egli non ci colloca sulla strada dell’inferno, ma su quella del cielo; la sua volontà è quella di associare eternamente gli esseri alla sua felicità. Se questa meta si fallisce per colpa nostra, non è forse normale che la sconfitta abbia la stessa ampiezza?

D. Il bene dovrebbe essere più potente del male.

R. Così è; infatti, gli eletti godono una felicità fuori di ogni proporzione coi loro meriti, e a rovescio avviene delle pene dell’inferno. Ma ciononostante vi dev’essere una proporzione trai due termini. Il sì e il no si rispondono. «La nostra caduta ha la forma rovesciata della nostra grandezza possibile » (ERNESTO HELLO). Là dove la vittoria offre più che la vita, è naturale che la disfatta porti seco più che la morte.

D. Si preferirebbe una vittoria del tutto pura.

R. Essa allora sarebbe gratuita e volgare. La meta non può essere meravigliosa com’è, senza presentare un rischio terribile. L’estremo bene trae sempre seco la possibilità dell’estremo male. L’universo ha troppe vette perché non abbia abissi, e, come osservava Carlyle, l’essere divini obbliga eventualmente ad essere eventualmente infernali. Non basta forse che dipenda assolutamente da ciascuno di decidere da parte sua intorno ciò che egli dovrà essere?

D. Siamo troppo fragili, perché c’incarichiamo di una simile opzione.

R. Noi siamo la fragilità stessa; ma non siamo soli, e non ci si giudica secondo le nostre forze. « Si esigerà molto da colui al quale si sarà dato molto » (S. Luca). La salute non dipende da questa o da quell’opera determinata che potrebbe superare le nostre forze, ma dallo stato del nostro cuore di fronte a Colui che lo giudica infallibilmente.

D. Perché lanciarci a nostro malgrado in una simile avventura?

R. Si rimprovera forse a un padre di aver messo nelle mani di suo figlio una magnifica eredità con tutto quello che occorre per trarne felicità, a cagione di questo che in caso di abuso qualificato e pertinace la caduta sarà più triste e più deplorevole? Sublime è la nostra vocazione, sublimi i nostri soccorsi, sublimi i nostri rimedi, sublimi anche i nostri rischi.

D. Si annientino piuttosto gl’incorreggibili, se turbano il piano divino.

R. Il niente non è una soluzione; esso non ha nessun significato razionale; dunque non può compensare niente, riparare niente.

D. Non sarebbe ciò una sanzione?

R. Di’ piuttosto il contrario di una sanzione. Annientare è rinunziare a sanzionare e per conseguenza a fare giustizia. Eliminare il colpevole è sottrarlo al giudizio e alle sue conseguenze. Ciò somiglia a un verdetto di giudice così concepito: Quest’uomo è talmente colpevole che non si ha più da occuparsi di lui.

D. Sarebbe ad ogni modo una fine.

R. Sarebbe l’assenza di fine. Una fine è un’ultima maniera di essere e qui vi sarebbe assenza di essere. Bisogna che il dannato sia lì, per proclamare, pure odiandola, la giustizia di Dio.

D. Io mi domando come questa presenza negli abissi di sventurate creature che gli eletti forse avranno amate potrà ad essi essere tollerabile. Come potranno stare in pace?

R. Riconosciamo la nostra impotenza a immaginare queste cose, e lo scandalo della nostra sensibilità terrena di fronte a tali pensieri. Ma la nostra sensibilità, la nostra immaginazione non sono la regola eterna.

D. Anche secondo la ragione, che diresti?

R. Direi: La pace è la tranquillità dell’ordine; la gioia è nella vittoria dell’ordine. Se il disordine del male persistesse, allora la pace degli eletti non sarebbe possibile. Il bene trionfante da una parte, dall’altra il male vinto e che non può più rialzare la testa, ecco la pace del cielo.

D. Non vi è finalmente, nelle vostre storie, qualche caso di remissione concessa a dannati?

E. Ce ne sono; ma checchessia della loro autenticità, che non ha alcuna garanzia certa, s’interpretano conforme alla dottrina. S. Tommaso dice: Costoro uscirono dall’inferno perché la loro sentenza non era decisiva.

D. Come ciò è possibile?

R. Nulla incatena il volere di Dio in ciò che riguarda l’applicazione delle sue regole. La regola è: ogni esistenza al suo termine è fissata per sempre. Ma quando sia al suo termine dipende dalla Provvidenza. Regolarmente è il tempo della vita; ma al di là, se piace a Dio, la prova può proseguire; si può essere « viatori » altrove che sopra il nostro suolo; si può essere viatori sopra questo suolo una seconda volta, come fu il caso di Lazzaro risuscitato. Ciò non fa torto alcuno ai principii e può rispondere a certe situazioni morali.

D. Ma chi può dire che la sentenza di un dannato sia o no definitiva?

R. Dio solo.

D. Chi può dire di quanti dannati la sentenza è definitiva o no?

R. Dio. solo.

D. Allora non si potrebbe dire: L’inferno eterno è un principio; ma riguardo a qualche essere in particolare, non è necessariamente un fatto?

R. Ciò si può dire col benefizio delle spiegazioni precedenti, nel senso di queste spiegazioni. Ma quale formidabile imprudenza commetterebbe chi riposasse su una possibilità così astratta! Mi pare di vedere un uomo che si precipita dalla Torre Eiffel dicendo: Forse non mi ucciderò!

D. Ebbene teoricamente, non fosse che per una scappatoia,

una porta resta aperta a indicibili misericordie.

R. Nessuno può imporre limiti alla misericordia di Dio. Quello che bisogna ritenere di questa discussione penosa, è che -1° Dio è giusto; – 2° la sua misericordia oltrepassa di molto la sua giustizia; – 3° noi siamo responsabili dei nostri atti nella misura precisa dei nostri lumi e dei nostri poteri. Ecco quello che è certo. Tutto il resto è mistero. Ma ciò basta perché possiamo dire: Se qualcuno va all’inferno, è perché lo ha largamente meritato. Che altro possiamo noi chiedere?

D. Di vederci un po’ più chiaro, forse.

R. A una santa che gli chiedeva questo in un’estasi, Gesù rispose: « Sta tranquilla, Io ti farò vedere che tutto è bene ».

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.