LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (5)

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO

GIUSEPPE SIRI

LA RICOSTRUZIONE DELLA VITA SOCIALE (5)

2. EdizioneEDITRICE A. V. E. ROMA – 1943

V. – Lo Stato

Che cosa è lo Stato? Per definire occorre rivolgersi, allorché si tratta di idee complesse, all’uso ed al buon senso comune, ma non sempre si conclude. Qui è il caso: nell’uso comune l’idea di Stato non è troppo definita. Esso è « la nazione organizzata », è « l’elemento reale rappresentativo della nazione », è l’una e l’altra cosa, è « il gestore della pubblica cosa », è « il complesso dell’autorità e dei suoi organi » o « il soggetto giuridico della sovranità » o, addirittura il governo. Evidentemente l’idea è dilatabile a seconda dei postulati filosofici o della superficialità con cui la si considera. Per chi ama il monismo idealistico, nell’idea di Stato entra tutto, nazione non esclusa, e questo tutto non è affatto articolabile in distinzioni precise. Ma non è il caso di arenarsi in questo margine di dilatabilità dell’idea. C’è pur qualcosa di indiscutibile in tutte le accezioni: lo Stato è quello che detiene ed usa dell’autorità, ne è il soggetto giuridico, contiene e rappresenta tutti gli interessi della comunità. Il rimanente non ci interessa, mentre stiamo per discutere quello che lo Stato può fare proprio a proposito dell’autorità. Nessun dubbio lo si debba concepire coma « ente morale o giuridico » ben distinto dalle persone fisiche che ne gestiscono la funzione sotto l’uno a l’altro titolo. governo. Tanto basta per individuare di chi si parli appresso; senza pericolo di equivocare sulle cavillazioni filosofiche e giuridiche. – Ma è perché qui si parla dello Stato? Come c’entra? È  esso che ha i primi doveri verso l’ordine sociale di cui è depositario: il rispetto alla persona, la soluzione dei problemi del lavoro, l’integrità dell’ordine giuridico dipendono dalla fisionomia che esso assume, dalla dottrina cui esso si informa.

1. – Il pensiero del Papa sullo Stato

Il continuo richiamo fatto nel Messaggio papale al diritto di natura è già di per sé una chiara indicazione sul pensiero del Pontefice intorno allo Stato: indica infatti donde si attinge. Ma ecco alcune affermazioni più specifiche e scultoree.

l) « Lo Stato e il suo potere » debbono essere « ricondotti al servizio della società, al pieno rispetto della persona umana e della sua operosità per il conseguimento dei suoi scopi eterni ». Dunque: lo Stato è per servire e completare la persona umana, inoltre la sua concezione ed impostazione è connessa col raggiungimento dell’ultimo fine dell’uomo. Cioè: lo Stato non è un fine, ma un mezzo, uno dei tanti mezzi.

b) Occorre « sperdere gli errori che tendono a deviare dal sentiero morale lo Stato e il suo potere e scioglierli dal vincolo eminentemente etico che li lega alla vita individuale e sociale, e a far loro rinnegare o ignorare praticamente l’essenziale dipendenza, che li unisce alla volontà del Creatore ». Dunque lo ‘Stato non è signore della legge morale obbiettiva, ma ne è suddito; dunque poiché la legge morale è quella del Creatore vale per lo Stato la norma che vale per l’individuo; dunque non ci sono due morali; dunque non esiste lo Stato etico indipendente. Machiavelli è servito.

c) Lo Stato « promuova il riconoscimento e la diffusione della verità che insegna anche nel campo terreno come il senso profondo e l’ultima morale universale legittimità del regnare è il servire ». Dunque lo Stato ha dei doveri anche verso la verità, quel complesso di verità, quell’ordine di verità che gli fa da inquadramento, da base e da titolo di legittimo uso del potere..

d) Finalmente esiste un « potere dello Stato » che impone una « servitù », detta tale e quindi condannata, allorché impone all’operaio « una dipendenza economica » analoga a quella « del prepotere del capitale »; quella « servitù » o « pressione » si ha quando « lo Stato tutto domina e regola l’intera vita pubblica e privata penetrando fin nel campo delle concezioni e persuasioni della coscienza ». Dunque rimane proscritto il socialismo di Stato, cosa del resto che il Papa affermò esplicitamente il 13 giugno 1943 nel celebre discorso tenuto agli operai. Ci accingiamo ora ad esporre quell’organismo logico nel quale diventa pienamente comprensibile il pensiero del Papa, raggiungendone la possibilità di un maggiore sviluppo in dettaglio.

2 – Come sorge lo Stato

Non si tratta qui di una questione storica, bensì filosofica. Vogliamo sapere cioè donde tragga quello per cui lo Stato vale, ossia la sua autorità. Giacché è di quella che ci interessa discorrere. Questa ricerca si impone, poiché tanto vale l’autorità e la legge in ordine a creare l’obbligazione morale, quanto vale la sorgente da cui deriva. Ed è questione di vita, per una società fatta d’uomini intelligenti, che esista l’obbligazione morale. Se non potessi giustificare con un principio valevole il comando di fronte alla mia coscienza, salvo il soggiacere alla violenza, avrei tutto il diritto di disobbedire e fare il comodo mio. Dunque, donde deriva l’autorità dello Stato?

Prima sorgente: la natura

Seguiamo un procedimento obbiettivo e non polemico. Esiste la natura e attraverso essa un diritto naturale. Ciò fu dimostrato (Cfr. cap. I). La natura esprime la volontà divina, contiene quindi una indicazione autorevole di norme, cioè crea un « diritto », quanto essa afferma e postula è tutelato dalla sanzione divina: al suo dettame è unita, proprio per la sua sorgente che è Dio, la piena obbligazione morale. Della natura noi consideriamo l’espressione massima: l’uomo. L’analisi di questo che cosa può rivelare?

L’uomo individuo

Quest’uomo ha un’autonomia, una personalità (Cfr. cap. II), ciò che gli assegna dei diritti. I quali, procedendo dalla natura, ossia da Dio autore di quella, limitano qualsivoglia altra iniziativa e capacità. Sono una legge. L’uomo ha inoltre per natura un complesso di istinti, i quali vanno considerati non in quanto possono farlo prevaricare moralmente, ma in quanto sono elementi perfettivi posti dalla sua stessa costituzione. Questi istinti sono una indicazione della volontà del Creatore.

La famiglia

Di tali istinti consideriamo quelli sociali. Sono diversi ed hanno sfumature svariatissime. Se noi teniamo conto di alcuni di essi, i più forti, li vediamo convergere

ad un punto preciso: la famiglia. L’uomo vi è portato come ad un suo complemento e perfezionamento. Sicché la famiglia è nettamente voluta dalla natura. L’analisi dei lineamenti naturali che vi giocano porta a determinare i rapporti che la legano e i diritti e doveri dei suoi membri. La famiglia dunque, come istituto di diritto naturale, ben definito, limita qualsiasi altra iniziativa: voluta da Dio e voluta così, bisogna rispettarla. Eccoci alla terza tappa.

La società

Ma non tutti gli istinti e le possibilità sociali che la natura ha assegnato all’uomo si esauriscono nella famiglia. Essa pur costituendo il nido più caldo, più sentito e più amato, non dà tutto all’uomo. Egli è spinto dai suoi stessi istinti naturali ad uscirne per incontrarsi cogli altri uomini, far incontrare famiglia con famiglia, iniziare su un piano più grande la dimestichezza ed i rapporti che non lo hanno esaurito e definitivamente completato nella sua famiglia. È ancora la natura, ossia Dio, che vuole quell’incontro e quella vita più ampia: da essa ridondano tutti gli istinti eccitatori della socievolezza nell’umanità. Quell’incontro dà origine alla società, che sorge allora come l’ultimo completamento terreno tanto dell’individuo che della famiglia; sorge per diritto divino: è lo sviluppo di un disegno riposto da Dio in seno alla natura.

L’autorità

Questa società non sorge vaga ed alla rinfusa. Gli elementi contenuti in natura ne determinano i profondi lineamenti fisionomici. Gli uomini sono istintivamente e cioè naturalmente portati ad una vita di relazione complessa di diritti e doveri, di coordinazioni, di complementi quindi di finalità e di subordinazioni. Ne nasce un ordine intero, che, trattandosi di esseri liberi ed intelligenti, legati e distinti ad un tempo da rapporti morali, deve essere moralmente unificato. Nasce da tutto ciò l’organizzazione sociale. Essa ha come fulcro, senza del quale non risponde alle esigenze tra esseri intelligenti e liberi, l’autorità. – Così anche questa sorge dalle esigenze chiaramente poste dalla natura dell’individuo: ossia anche essa è postulata dalla natura, quindi da Dio. È lui che, mediante la fisionomia impressa alle cose, ha notificato volere gli uomini fossero retti dall’autorità. Qui si comprende il valore del famoso effato: « Non est auctoritas nisi a Deo ».

La legge

L’autorità fa precetti, detta leggi. Che valore hanno? Poiché sorgono dall’autorità voluta tale dalla natura, ossia da Dio, il sottrarsi ad essi equivale alla violazione di un istituto divino. Dio autore dell’autorità è quegli che avalla, tutela la legge da essa proveniente in modo legittimo; con questo dà alla legge la sua più necessaria caratteristica: essa obbliga moralmente in coscienza. Ecco come sorge lo Stato, quanto a valore capace di imperare e porre dei diritti. Questa via è obbiettiva: non c’è che da analizzare quanto si vede; è unica poiché ogni altra via che non rimonti a Dio farebbe dello Stato un’istituzione di fatto e non di diritto, una istituzione incapace di obbligare in coscienza quindi moralmente nulla; né lo spiegherebbe, né lo sosterrebbe. Con ciò si ha la grande e vera religiosa concezione dell’autorità e dello Stato: la sola che incuta un sentimento di venerazione cosciente, quella però che porta altresì con sé, e chiaramente designati, i limiti del potere statale. Essa salva dai due spaventosi eccessi: quello dell’anarchia sprezzante e quello della tirannia opprimente, quello dello Stato puro funzionario e quello dello Stato totalitario. – Dona un trono e mette dei limiti: per uomini grandi nella loro natura occorre un’autorità di splendore divino; per gli stessi uomini dotati di libertà occorre che il comando non dilaghi oltre un inderogabile margine. Allora è l’equilibrio. D’ordine sociale non si salva rispettandone un elemento solo (alternativamente autorità e libertà), esso chiede l’integrità di tutti i suoi valori.

3. – I limiti dello Stato

Che lo Stato abbia pur esso dei limiti è stato sopra dimostrato. Continuando la pura deduzione logica dobbiamo ora determinare quali siano i limiti.

Primo limite; la legge divina

Se l’autorità dello Stato deriva da Dio mediante il diritto di natura, pena il non aver alcuna forza moralmente obbligante in coscienza, tanto può quanto Dio gli dà di fare. Ossia: ha un limite nella Volontà Divina, che appunto si esprime mediante la legge tanto naturale che rivelata. È ridicolo pensare che, derivando il suo valore proprio da Dio, possa mettersi contro Dio. Questa conclusione è gravissima per le conseguenze. Infatti non esiste allora per lo stato una amoralità: anch’esso è tenuto dalla legge morale. Neppure ha una legge diversa da quella da cui sono legati i singoli uomini: è innanzi a Dio nella stessa situazione di questi. Neppure ha elementi scusanti o espedienti di evasione dalla legge divina più di quanto ne abbiano gli individui; ciò significa non esistere affatto una cieca ragione di Stato in contrasto con la morale. Un’altra volta: Machiavelli è servito. Al contrario l’azione dello Stato deve essere contenuta ed ispirata dalla legge di Dio. Non è dunque illimitato, né a discrezione il campo della giurisdizione statale; non è ammissibile il « sit pro lege voluntas ». – La legge naturale diventa la cinta delimitante le competenze dello Stato e, siccome proprio essa impone doversi accettare una legge positiva rivelata da Dio, quando questa consti, tiene non meno lo Stato che i privati e diviene pur essa un altro limite alla libertà di iniziativa. – È innegabile che la dottrina dello Stato regge logicamente se connessa con Dio; ma, proprio in Lui, mostra col limite, il vindice, il criterio del dominio umano.

Secondo limite: le istituzioni di diritto naturale

Lo Stato sorge dalla comunità, dalla famiglia, dall’individuo. Questi dunque, famiglia ed individuo, sono anteriori logicamente e cronologicamente allo Stato. Non solo: essi sono posti, indipendentemente da quello, dalla legge di natura (si è visto), ossia dalla Volontà Divina. Da loro esistenza pertanto, la loro fisionomia, il complesso dei loro diritti, non sono più campo di arbitrio per parte dello Stato, che li deve rispettare. Essi costituiscono un limite per lo Stato, il quale non li può abolire, violare, manomettere, ridurre. – Il diritto di associazione fa parte del complesso dell’individuo sociale; lo Stato potrà, sì, moderarlo, ma non sopprimerlo. Tutte le libertà e tutti i diritti della persona e della famiglia potranno esser ulteriormente definiti dalla legge, ma non abrogati da quella. È proprio questo « limite » che assicura al mondo degli esseri razionali la sua bellezza e varietà, impedendo la riduzione di tutto al grigio denominatore comune. In realtà questo sopravvivere della persona e della famiglia nello Stato, impedisce che tutto diventi « numero », mentre mantiene inviolabili i volumi diversi da cui risulta l’architettura sociale. È con senso di liberazione che si pensa come lo Stato non può portar via i figli ai genitori, non metter il naso nelle faccende interne della famiglia, non stornar mariti, mogli e soprattutto la pace e la serenità domestica. Non è meno giocondo il saper che lo Stato non può ridurre il cittadino ad esser per sempre un militare mal riuscito od uno sguattero da coreografie o un eterno numero da comparsa, non gli può impedire di viver come crede, di iniziare ciò che vuole purché non contrario al bene comune, e, finalmente di associarsi, entro gli stessi limiti, con chi gli talenta. È soprattutto questo secondo « limite » che fa dello Stato una cosa umana, non spaventevole.

Il terzo limite: la complementarietà dello Stato

Lo Stato sorge — si è visto anche questo — perché  gli istinti sociali dell’uomo non sono esauriti e pienamente corrisposti nella famiglia. Sorge così per « compiere », ossia ha essenzialmente una funzione complementare\. In ciò sta un nuovo limite, perché il completare, esclude di natura sua il sostituire, lo schiacciare, l’asservire ed il distruggere. Sicché lo Stato non può fare nessuno di queste brutte cose. Ciò dal punto di vista negativo. Inoltre complementare include l’idea di « servizio reso » di « beneficio » di « dono ». Sicché — dal punto di vista positivo — lo Stato deve essere benefico, deve servire, deve esser paterno. E il dovere è sempre un limite alla propria indipendente iniziativa. – L’autorità deve avere il volto del padre. Complementare in che cosa? È facile vederlo: in tutto quello che l’individuo e la famiglia non possono avere da soli nel loro sviluppo, nei loro rapporti vicendevoli e colla società, nei loro doveri, nella necessità di concorrere equamente al bene comune coll’armonia della legge. Il completamento diviene secondo i casi: tutela giuridica, stimolo, iniziativa, assistenza, intervento paciere, moderazione dell’armonia, remora energica, necessario, moderato e ragionevole controllo, uso della potestà coattiva, condanna, amministrazione e cura del patrimonio comune. – Tutte le iniziative dello Stato debbono essere ispirate, giudicate ed, occorrendo, respinte da questo criterio. Lo Stato non può mirare alla guerra per la guerra, che questa, se non è dura necessità imposta, non completa nessuno e rovina tutti. – La complementarità dello Stato, toglie ad esso la fisionomia dell’odioso dominio, dell’asservimento a qualche utile privato, dello sfruttamento personalistico.

I poteri dello Stato

È proprio la complementarità dello Stato quella che ne determina le capacità. I diritti si estendono tanto quanto i doveri; lo Stato « può » dunque, tutto quello che occorre per adempiere quanto « deve ». In altri termini lo Stato ha i diritti che occorrono per provvedere al bene comune. Ciò che è soprattutto notevole, è il fatto per cui il diritto gli discende dalla sua complementarità, questa gli è donata dal diritto di natura, quindi da Dio. È dunque per diritto divino che lo Stato può procedere a quanto richiede il bene comune. In nome di esso, e soltanto quanto e per quanto esso lo richiede, lo Stato può limitare i diritti della persona e della famiglia, p. es. quello di dominio. È solo un diritto divino che può inibire un altro diritto parimenti divino. Qui si ha il principio per risolvere una grave questione. È possibile socializzare determinate industrie aggiudicandone la proprietà allo Stato, dopo averle sottratte ai privati cittadini? Se si tratta di trasferimento di proprietà effettuato nelle solite e legittime forme, niente da dire. Ma se si tratta di forzata sottrazione ed esclusiva gestione il giudizio è ben diverso; non è intatti consentito per sé allo Stato di limitare arbitrariamente diritti e di ridurre la capacità di iniziativa dei cittadini, imponendo settori proibiti ed inibiti a questi. Però tutto diventa lecito nella misura in cui è necessario per il bene comune. Non di più. Il rimedio è però estremamente pericoloso e se si intende combattere efficacemente l’esagerazione capitalistica è più saggio, finché si può, battere altre vie. Di queste si è a suo tempo parlato. Nessuno nega che in tempi ed in circostanze eccezionali occorrano rimedi parimenti eccezionali; ma questi non possono essere suggeriti da manie innovatrici, da sfoghi puramente reazionari o da cerebralità ingenue.

Questi limiti escludono il socialismo di Stato

Il socialismo di Stato può essere anche molto annacquato, ma mantiene più o meno il suggello d’origine. Nella sua applicazione pura lo Stato o chi per esso (con qualunque palliativo nome lo si chiami) viene ad assorbire un complesso di diritti che la legge naturale assegna alle persone individue, alle famiglie ed alle consociazioni minori: proprietà e gestione dei mezzi di produzione, iniziativa. Il tutto magari per sottrarlo a veri e presunti dilapidatori capitalistici. L’assorbimento di quei tre diritti implica l’incameramento logico o di altri diritti connessi, poiché l’uomo è troppo legato con i beni soggetti alla proprietà cui aspira, è troppo necessario ai mezzi della produzione che senza di esso sono inerti, è troppo competitore sul terreno dell’iniziativa. Rimane cioè, sia pure per opposte ragioni, così legato all’esercizio di quei tre diritti che ne è trascinato, sicché incamerati quelli è incamerato pur lui, ossia la sua persona, la sua dignità, la sua libertà. Ineluttabilmente. Con tale prestigiosa ingestione lo Stato diventa pletorico ed onnipotente a danno di coloro cui dovrebbe invece servire e con tutte le conseguenze che già abbiamo studiato nei capitoli sulla personalità e sul lavoro. Ma non meno chiaro è che in tal caso i tre limiti posti dalla natura al suo potere sono perfettamente violati. Il che equivale a dire che quei diritti appunto e la forza a loro derivante dall’altissima ed evidente origine lo condannano e lo escludono. – Tale asserto equivale ancora ad un altro: il socialismo di Stato è innaturale; innestato sull’uomo, che non cambia, entra in contrasto con lui e prima fa di questo una vittima; poi il logorio sotterraneo svuota lo Stato. La nostra età ha ormai assistito ad esuberanza al progressivo e già totale svuotarsi di regimi innaturali. Che in questa rispondenza alla natura sta il segreto di ogni solidità politica e sociale. – Ciò vale per il socialismo di Stato assoluto, ma non si creda di poter avallare gli annacquamenti, ossia le forme di socialismo moderato.

Le facili illusioni

Infatti i contemperamenti sono sempre più o meno dettati da ragioni estrinseche, mentre rimane il fondamentale motivo ispiratore. Il quale è il materialismo, negazione dell’anima umana e di quanto le è connesso: spiritualità, moralità, libertà. Per il materialismo l’uomo non è spirito, quindi non è persona, dato che la persona è l’autonomia razionale; non ha libertà perché la libertà è solo in una potenza spirituale. – L’uomo è sostanzialmente e semplicemente un tubo digerente. Nel socialismo temperato queste cose forse neppure si dicono, ma rimangono contenute sempre nel principio ispiratore. Di là possono sempre svolgersi, intese alle ultime e logiche conseguenze. Si parlerà di libertà e di proprietà, magari d’altre cose: il tutto si tollererà e concederà non per una ragione intrinseca, bensì in contraddizione colla logica dei principi e per un opportunismo politico o tattico. In realtà il socialismo tollerante è illogico. La facile illusione sta nel non vedere che cosa si nasconde sotto opportune ed abili manovre di adattamento, nelle quali si troverà modo di assicurare ai pavidi borghesi che la proprietà privata resta, agli uomini dabbene che la libertà è salva, ai creduli cattolici che la religione continua ad accogliere rispetto. Ma con tutto questo, si dica o non si dica in buona fede, lo Stato rimane un perenne attentato al diritto di natura ed alle sue istituzioni fondamentali.

4 – Giudizio sul comunismo

Il comunismo è l’estrema logica espressione del socialismo. Esso posto il suo principio materialistico deve negare coll’anima la persona, la sua autonomia la proprietà, la libertà, ogni elemento della vita spirituale, quindi la morale e la religione. Se su uno di questi punti finge di ritirarsi, mente a se stesso ed a più forte ragione mente agli altri. Che cosa se ne debba pensare di fronte alla coscienza umana e cristiana si è visto nei capitoli precedenti, in cui appunto furono dimostrati i valori che esso impugna. Si tratta di una dottrina filosofica negatrice dell’umanità, che per farsi accogliere si ammanta di umanità, coscrivendo sotto questa insegna la fede e l’entusiasmo di molti uomini onesti. Il comunismo ha una zona reale e profonda: è quella che abbiamo descritta or ora; un’altra superficiale ed è la volontà di stabilire la supremazia ed il benessere del proletariato. La povera gente crede a questa volontà di giustizia sociale e vi si affida, non avvertendo come invece si fa toglier la dignità e molto della possibilità di salire a situazioni migliori, succuba di uno Stato innaturale e poliziesco. Di questo e della logicità con cui s’arriva a questo si è detto nei capitoli sulla personalità, sul lavoro e sull’ordine giuridico. Qui dobbiamo fermarci su alcune gravi considerazioni.

L’applicazione storica del comunismo

Anzitutto il comunismo nel senso pieno non si è avverato mai, il che dimostra la sua natura utopistica ed irreale, poiché, dove il tentativo fu fatto, nulla mancò alla sua totale attuazione. Dove in qualche modo fu dichiaratamente assunto per norma di regime è già andato incontro a mutazioni e svuotamenti progressivi. Il cammino fu compiuto, da un certo punto in poi in senso abbastanza contrario alla sua totale realizzazione. Il che conferma il suo carattere di innaturalità. La proprietà è parzialmente rientrata, la politica religiosa e nazionalista ha subito variazioni, alcuni difetti dell’aborrito capitalismo (sperequazioni, favoritismi, ghenghe, accentramenti personalistici soprattutto) hanno fatto la ricomparsa; la guerra è divenuta una meta principale, il popolo, escluso in gran parte dal partito unico e dominante, è libero a parole, in realtà serve, senza alcun decoro della sua pretesa sovranità. I poveri con poche variazioni son rimasti poveri, i deboli vigliacchi, gli arruffoni e gli arrivisti si sono fatti strada, gli ossequi aulici a qualche gran personaggio hanno di gran lunga sorpassato le smancerie solite in tempi monarchici, le congiure di palazzo e le repressioni feroci hanno drammatizzato la stanchezza di situazioni false. Lo Stato comunista è diventato per necessità totalitario e poliziesco. Quelli che sotto etichette inverse hanno già fatto esperienza di totalitarismo e di polizia dovrebbero essere ormai ben edotti. La innaturalità o non consonanza colla obbiettiva natura è di per se legata (fu già dimostrato) con quei due effetti, avvenga essa sotto l’una o l’altra etichetta.

L’inganno del comunismo economico

Oggi si parla molto di puro comunismo economico. Attenzione: questo è il cavallo di Troia! Infatti: vorrebbe applicare i suoi sistemi unicamente nel settore economico, collettivizzando per regolare il flusso della ricchezza, inibire il capitalismo, assicurare una giustizia e soprattutto potenziare al massimo lo sviluppo dell’industria. Non si occuperebbe di vita privata, di coscienza, di famiglia e di religione. Ciò è vero a parole. Il fatto solo di accentrare mezzi di produzione e capacità finanziarie nelle mani dello Stato, strapperebbe alla persona umana una gran parte della sua iniziativa. L’operaio più che del salario ha bisogno di pensare che forse lui o i suoi figli potranno un giorno salire ad una condizione superiore. Sopprimere queste « superiori posizioni » è togliergli il respiro più necessario alla sua speranza ed alla sua gioia. Ma c’è ben altro. L’uomo è talmente legato e talmente necessario alla macchina economica, che quando questa è organizzata sia pur solo nel settore produttivo secondo i princìpi del puro socialismo, egli ne è travolto. Lo abbiamo già visto. Sicché il comunismo che con l’appellativo di « economico » sembrerebbe aver l’aria di non voler violare la persona, di fatto se la asserve e la asserve alla macchina, l’asserve al rigido principio della immutabilità del suo sistema sul quale veglia il plotone di esecuzione; finisce allora col combattere anche la Religione, che gliene contesta il dominio dell’anima e dell’intelligenza. – Gli elementi della vita sociale sono così connessi che, lasciandone uno solo nell’alone di una ideologia mala, trascina a poco a poco il rimanente nella sua stessa direzione. Quelli che pensano facile ed onesto compromesso l’accedere al puro comunismo economico nella speranza di salvare il rimanente, sbagliano. Dietro al comunismo economico verrà il totalitarismo. Ciò, lo ripetiamo, è logico. Questi sistemi sorgono sempre da un partito, mai dalla massa per generazione spontanea. Per riuscire hanno bisogno di un « conformismo » che è difficile. Ciò induce un sistema di rigidità esterna, magari di violenza e di terrore. Tutto deve essere cintato perché nessuno fugga. Ecco l’assorbimento totalitario. Quando decade, la linea della natura, non c’è che da sostituire la forza. È essenziale che tutti s’accorgano di questo sviluppo fatale. Col comunismo economico entra nelle città del mondo il comunismo più o meno integrale. Alla chetichella; come nel cavallo di Troia! De presentazioni raddolcite che fanno molti moderni comunisti devono essere riguardate o come una senilità del sistema che risente degli svuotamenti subiti in qualche esperienza, oppure vanno ritenuti una manovra preparatoria e subdola. Quali delle due interpretazioni sarà prevalentemente vera? Ci riesce molto difficile il dirlo. Con ciò abbiamo coscienza di aver valutato il comunismo economico sotto un aspetto solo. Certo si tratta dell’aspetto principale, di quello « umano » e « morale ». Una condanna in questa sede non ammette appello anche se vi fossero dei vantaggi dal punto di vista strettamente economico, poiché tra l’uomo-persona e le cose noi dobbiamo decisamente stare per l’uomo (vedi cap. II). Meglio questo salvo, che un accresciuto potenziale di industria. Ma è poi vero che il comunismo economico dà in questo settore economico un vantaggio? Nessuno vorrà negare che l’esperienza comunista abbia insegnato qualcosa di cui occorre tener conto. Ciò però non basta a far dare in sede economica un giudizio complessivamente buono sull’intero sistema. – Ammettiamo pure di non possedere, ora soprattutto nell’arrossata psicologia di guerra, tutti gli elementi statistici assoluti e soprattutto comparativi (è proprio il dato relativo che qui da troppi si dimentica) per emettere in merito dei giudizi dettagliati e perentori. È tuttora lecito dubitare del valore economico di questo sistema, pur riconoscendo qualche filone puro nella ghenga, e la possibilità di qualche maggiore immediato risultato in certe circostanze. Infatti la più che relativa riuscita del comunismo in economia è legata alla rigidità sociale per cui viene eliminato ogni attrito disturbatore, e per cui senza la iniziativa privata, si realizza la colossalità dell’impresa. Finalmente l’abolizione della concorrenza e, della « resistenza » privata nella stessa rigida disciplina rappresentano un minimizzare le dispersioni ed un accelerare l’organizzazione. – Riteniamo bene: eliminazioni di attriti, colossalità nell’impresa, abolizione di concorrenza e di resistenza privata, diminuzione delle dispersioni e celerità di organismo dipendono da un punto solo di cui bisogna valutare il prezzo di fronte alla resa: rigida, macchinosa ed assolutistica disciplina sociale. Prima di valutare il prezzo riconosciamo che qualunque economia non comunista potrà utilmente riflettere su tali elementi per cavarne utili ritocchi a se. – Ora valutiamo bene il prezzo con cui tutto questo si compera nel sistema comunista. La rigida disciplina, causa ultima e vera, significa la caserma imposta a tutto un popolo; forse la bella, ma ignobile caserma, la prigione,. Nessun uomo normale, nessun popolo, nella sua ordinaria vita e fuori del momento d’eccitazione misticoide, desidera o può desiderare una gabbia d’oro. Neppure gli uccelli la amano. Siamo al punto: si tratta di scegliere tra l’uomo e qualche ipotetico guadagno materiale. Il prezzo è troppo alto. E tuttavia è illusorio quello che si compera. Infatti: caserma, prigione, poiché l’uomo non muore mai definitivamente nel senso della sua dignità, libertà e felicità, significano in un secondo momento al più tardi la rivolta psicologica. La rivolta psicologica contrae la capacità, intossica, sclerotizza, avvelena proprio l’elemento dal quale, ad onta della colossalità della macchina, la macchina stessa trae il suo primo necessario potenziale: uomo. Allora la meravigliosa organizzazione, la sesquipedale struttura è colpita nei suoi organi e nei suoi tessuti costitutivi; il gigante possente dà segni di malessere, i suoi sbandamenti suscitano e subiscono reazioni politiche, rotazioni di mentalità, tremendi disagi ed infine arresti mortali o marasmi non meno fatali. – Se l’uomo d’addormentasse, quella macchina progredirebbe forse indisturbata; ma l’uomo non s’addormenta. Quando la grande macchina dai mirabili ingranaggi diventa sua nemica egli diventa il nemico della macchina. Nella lotta l’uomo è il più forte. In altri termini, se pur c’è qualche vantaggio economico nel comunismo, questo vantaggio è effimero, chimerico e fatalmente cozza contro una resistenza di natura che finisce col neutralizzarlo e trascinarlo in perdita. Il comunismo economico e tutti coloro che ne sono invasati fanno i conti senza l’oste. – Non basta ancora, sebbene gli elementi per la scelta risultino ormai evidenti. Fin qui abbiamo pur dato e non del tutto concesso, il qualche temporaneo valore della colossale macchina comunista, negli elementi cioè sopra enumerati. Ma è poi reale questo, anche ridotto valore, o non è piuttosto frutto di considerazioni unilaterali? Osserviamo: quei tali elementi rappresentano proprio un bene assoluto nel quadro complessivo del benessere umano e della civiltà? Non lo parrebbe. La eliminazione degli attriti non rappresenta forse anche la morte dell’iniziativa, della volontà costruttiva? Il mondo ha certo più bisogno di questa che di qualche fabbrica e di qualche magazzeno di più. La colossalità dell’impresa non può forse essere ottenuta diversamente (vedi ad esempio l’economia americana) senza schiacciare nessuno e, d’altra parte, è proprio desiderabile che in un mondo fatto di cose grandi e piccole, dove talvolta le piccole hanno più forza delle grandi, sia proprio tutto colossale? La natura sempre e solo colossale sarebbe estremamente brutta. Forse che l’uomo può sottrarsi a quella indicazione che lo incontrerà sempre fintantoché è uomo? Del resto la colossalità non è pane pei piccoli denti: è inutile parlarne come di cosa ordinaria pei paesi poveri, ai quali sarà sempre impossibile concorrere con la grande industria straniera. – La concorrenza può senza dubbio esagerare, ma non è forse uno dei più potenti stimoli umani alla azione, una dei più sicuri motivi dell’ingegno, una fatela, una legge di equilibrio? La concorrenza è in se stessa una, fremito di vita e, se val la pena dedicare una grande parte dell’industria per apportare un nuovo comodo alla vita, varrà anche più la pena sacrificarne qualche piccolo incremento per non strapparle il fremito della stessa vita. È questione di aver del mondo un’idea umana. Le « resistenze » private, se possono esser da una parte un peso, dall’altra significano il gioco di molte responsabilità, di molti ingegni, di molti interessi stimolanti l’azione. Se hanno come tutte le cose umane il loro lato meno brillante, sono esattamente l’opposto, di quella facile morta gora in cui agisce l’anonimo senza controllo, trionfa la burocrazia e può allignare l’incoscienza: cose tutte facili dove è responsabile soltanto lo Stato o qualcosa di simile. Ciò fa vedere essere ben problematico il parlar con serietà assoluta di diminuzione delle dispersioni e di celerità di organismo in un’economia comunista. È certo questo: che il polmone libero e senza pesi respira meglio e permette il fluire d’una vita più sana e più intensa. Le lodi che non possono essere tributate al comunismo economico per il suo fondamentale antagonismo al diritto di natura e per le fatalità sociali che seco porta, non pare gli possano essere rivolte seriamente neppure sul pretto terreno economico: appare esattamente il contrario. Quando la revisione di una tale esperienza storica potrà farsi con più serena informazione, tutto ciò — crediamo — apparirà in maggior luce. In fondo, a guardarci bene, l’economia comunista è uno sforzo da barbari, non una nobile equilibrata fatica da uomini, è un parossismo, non una civiltà. E questo basterebbe: l’interesse materiale vi è criterio e meta per tutto, sostituisce delittuosamente tutto: lo spirito vi muore. Le cose materiali non sorridono più. Ciò è tetro, è spaventevole!

Stato comunista e Cristianesimo

Questi due estremi sono inconciliabili. Nell’ordine dei princìpi il materialismo dell’uno, lo spiritualismo dell’altro scavano un abisso incolmabile. Nel campo delle applicazioni, magari più temperate, il riverbero dei princìpi mantiene non solo la diffidenza, ma pone ancora un antagonismo irriducibile. Il comunismo economico, a meno non sia talmente epurato da non rimaner più tale, sia a guardarlo come manovra preparatoria, sia a rilevarne i contrasti col diritto di natura, non può venire accettato dalla coscienza cattolica. Sappiamo che taluni suoi lati danno a qualcuno le vertigini; ma sappiamo altresì che in stato di vertigini si stravede e si sragiona. La utilizzazione dei buoni elementi messi in rilievo dall’esperienza comunista è altra questione, sulla quale ogni mente equilibrata mai avrà dubbi: il bene lo si prende dovunque lo si trova. – Non c’è dubbio che il sistema sociale economico del mondo e in modo speciale di talune nazioni subirà dopo l’immane conflitto rotazioni profonde. Ma è troppo corrivo il credere alla ineluttabilità del comunismo. Questa sarebbe una fuga precoce né seria, né onorevole. Ragioniamo. Il comunismo ha torto ed ha delle gravi crepe. Tutto sta che l’opinione pubblica, fuori di ogni incantesimo misticoide e d’ogni reazione forsennata, ne prenda cognizione, se ne investa in funzione critica. Osserviamo panoramicamente questo bilancio conclusivo.

Le grandi crepe dello Stato comunista

Non parliamo più delle grandi dottrine cattoliche sulla spiritualità, sulla personalità, sul diritto di natura, sulla proprietà, sulla società, dottrine che evidentemente condannano il comunismo. Ecco quello che ora ognun può vedere.

a) Il comunismo è innaturale. Ciò significa la posizione prima e poi disagiata con tutte le conseguenze di Stato poliziesco, repressione, ecc.

b) Il comunismo è tetro. Toglie la varietà al mondo, distrugge i piani cui può puntare l’ascesa ed i suoi sogni; per mantenere il suo apparato industriale deve sacrificare l’uomo e condannarlo a fare il collegiale per tutta la vita. Iniziativa, emulazione, audacia, come patrimonio di tutti, sono votati al decadimento ed alla morte. Il mondo dello spirito e le sue consolazioni sono chiusi al pari del cielo. La libertà deve sacrificarsi alla gran macchina.

c) Il comunismo essendo innaturale non può contare (come già fu detto) sulla cospirazione costante e libera delle volontà: diventa dunque di necessità totalitario, al fine di presidiare e inibire tutto, e poi assolutistico.

d) Il comunismo se lo si osserva bene è piuttosto una, e non felice, soluzione industriale che non una soluzione sociale, poiché l’uomo vi fa tutte le spese a vantaggio della gran macchina e non vi ha nessun guadagno. Ciò è evidente nella comparazione tra quello che al lavoratore dà Marx e quello che dà Cristo. Per Cristo il lavoratore ha tutto: giustizia, salario, personalità, amore, possibilità anche materialmente di ascendere a situazioni economiche e sociali migliori, tutela contro l’assolutismo e lo Stato anonimo; Marx al lavoratore in realtà toglie tutto, togliendogli l’anima e di conseguenza la libertà vera e la personalità, trasferendo il primato ad un ordinamento esteriore all’uomo, anche se è animato da pietà per il proletario. Per Cristo l’uomo è uomo; per Marx è semplicemente un tubo digerente, cui si deve dare del pane e verso il quale non si hanno obblighi di doni spirituali. In Cristo il lavoratore può avere una vita indipendente e può variarla; in Marx il lavoratore viene cristallizzato al servizio del proletariato e della sua macchina nell’obbedienza all’interesse di un tutto anonimo e panteistico. Per Cristo non è solo il lavoratore, c’è tutto il vario e fecondo respiro della civiltà; per Marx la società si riduce a questa monotonia esasperante, la monotonia della materia senza sorriso e senza vita. Cristo fa un mondo di cose profonde e di rispondenza profonda alle vibrazioni dell’anima umana; Marx fa un mondo superficiale dove l’anima neppure ha la cittadinanza. La bontà e l’amore esulano dalla macchina tetra e spaventevole mentre l’uomo li invoca soprattutto. Senza Dio, chi proteggerà il lavoratore contro lo Stato, contro la piovra di un’organizzazione che lo avvinghia, contro l’ideologia che lo riguarda un semplice pezzo di macchina? Il comunismo ha un dramma intimo e terribile. La sua idea è così quale l’abbiamo descritta, fredda, calcolatrice, atea, senza cuore, con una logica spaventosa; i suoi uomini, che rimangono tali, sono mossi spesso, forse nella maggior parte dei casi, da un sentimento umano ed onesto, buono e benefico in pieno contrasto con l’idea, illogico di fronte all’idea. Allorché questo prevale, si hanno le mostruosità fatte magari col cuore a pezzi e chiusi a forza in una ingessatura misticoide a difesa contro gli stessi umani sentimenti erompenti dall’anima; quando prevale l’umanità, in verità non è più il comunismo che agisce, ma un’altra cosa, rimane però l’inganno per cui ad esso si attribuisce il merito indebito. Questo dramma diventa così equivoco, che l’ignoranza e il pregiudizio spingono all’errore fatale. Il comunismo comunque lo si annacqui, riduce l’uomo a meno della metà e il mondo ad una questione di stomaco. Dio ha creato il mondo giardino, il comunismo lo fa deserto. Non è per questa via che si risolvono le ingiustizie; non è per questa via che il lavoratore avrà il suo bene.

Conclusione

Lo Stato ha pur esso una legge da Dio: essa sola lo preserva dall’ingiustizia; ha da Dio dei limiti, questi soli lo preservano dalla tirannia; ha nella verità sull’uomo e sulla vita illuminata in Cristo il senso giusto della sua finalità, quindi dei suoi doveri e dei suoi criteri. Lo Stato non è un automa, si concreta in uomini; come questi che lo gestiscono non può essere né agnostico, né scettico, né ladro, né peccatore. Come questi è debole ed ha bisogno della luce, del consiglio e, soprattutto, della grazia di Dio. Non è divino, non è infallibile, non è supremo, non è impassibile, non è immobile, è come tutte le cose umane una grandezza ed una miseria a seconda dei casi. La via della sua grandezza è quella per cui passò l’Unico che fu Grande: servire!

VI. – Rilievi e conclusioni

Ci siamo fin qui accompagnati meditando, coll’augusta parola del Messaggio papale 1942. A questo punto occorre rilevare, sottolineare, applicare, giacché la trattazione dei puri princìpi può talvolta far supporre si rimanga lontani dalla realtà. Ormai ci appare chiaro: il punto a cui bisogna rifarsi per giudicare, assumere, rigettare e costruire è la natura obbiettiva, il diritto naturale. Esso non è una opinione. Qualunque idea e sistemazione che urti contro questo criterio sarà sempre falsa, dannosa, effimera. È necessario volgersi all’uomo come è, al mondo come è, al flusso delle cose e dei rapporti come sono, senza pregiudizi, senza unilateralità, senza miopie e senza interessi particolaristici. Non è e non sarà mai questione di guardare al cielo se mai ne scenda qualche prodigioso segnale o a qualche grande uomo perché distilli i suoi personali elucubrati, ma semplicemente, piamente, umilmente ricercare l’indicazione che le cose, tutte le cose, in tutti gli aspetti danno. In questo occorre evitare soprattutto l’unilateralità; se io vedo un elemento e annullo gli altri la mia conclusione è falsa. Noi abbiamo visti parecchi dettami di questo diritto naturale, li abbiamo anche applicati. Naturalmente molti sono spinti a guardare ed a scegliere tra i diversi orientamenti politici e sociali che hanno avuto od hanno un’importanza storica. Il criterio per giudicarne è quello esposto sopra: sono accettabili in quanto hanno coerenza col diritto naturale obbiettivo; sono da condannarsi in quanto se ne allontanano. Misuriamo dunque su questo criterio. Le correnti liberali hanno eccellenti punti di vista, ma sono affette da manchevolezze gravi. Esse curano qualcosa e trascurano troppo. Dell’uomo e sue questioni l’interessano solo certi aspetti; per il rimanente, pur necessario e compromettente, pur salutare o fatale nel gioco dei fatti, non hanno sollecitudini e soluzioni. Di più peccano di eccessivo ottimismo: credono che le forze immanenti nell’economia, nelle masse agiscano da sé equilibrandosi ad un certo punto automaticamente (lasciar fare). Ora ciò è falso perché quelle forze non sono puramente tali per avere un percorso prestabilito e ragionevolmente finalistico; sono in gran parte libere e per questa libertà non possono dare mai un vero e serio affidamento di automatico equilibrio. In verità nulla va bene tra gli uomini lasciando vada da sé. Il peccato del liberalismo è di credere ad un uomo ed ad un mondo o ad una specie di ordine prestabilito che di fatto non esiste. Non è in regola, per questa parte, colla natura. Di qui i suoi numerosi guai e le sue fatali reazioni. Le correnti socialiste dalle più temperate alle più estreme sono già state lumeggiate: esse più o meno peccano contro la natura e contro il suo diritto, pur mescolando ai princìpi materialistici molti e degni propositi umanitari e pur convogliando spesso nei loro uomini eccellenti e rettissime energie morali. I termini « radicale » e « democratico » possono non avere alcun significato e possono essere sposati con tutti i significati accompagnandosi a tutta la gamma liberale e socialista. Non si giudicano quindi per sé, ma dall’epesegetico che vi è aggiunto, il quale li fa ricadere nel raggio delle tendenze suddette. Le tendenze nazionaliste esagerate, peccano contro il naturale senso di solidarietà che è in tutto il genere umano ed in genere poggiano sulla aggressività, sui sogni troppo grandiosi e sul fanatismo. Più che correnti sociali, sono politiche; anzi sono talmente tali, da dimenticare per lo più le questioni sociali e da pascersi più delle faccende esterne che non occuparsi delle esigenze intime. Sono più movimenti, che non correnti ideologiche. Per il loro tono prevalentemente agonistico, polemico e sognatore sono da guardarsi con diffidenza. Il nazionalismo giusto non è un partito, è una dote che ogni partito può avere e forse deve avere. Le correnti razziste partono talmente da un presupposto falso sulla pretesa diversità tra i popoli, hanno un principio così materialista, vantano una morale così invertita, da essere non per un solo motivo perfettamente innaturali. – Tutte queste correnti sono delle filosofie applicate alla vita, ossia sono delle interpretazioni soggettive applicate alla realtà. Ciò non ha senso come abbiamo già avvertito. In fondo tutti questi sistemi procedono così: io penso l’uomo e il mondo a questo modo e o agisco o organizzo di conseguenza o cambio l’uno e l’altro per ridurli secondo la mia idea. La prima conclusione è stolta perché se il mio modo di concepire le cose non combacia colla obbiettiva realtà io non faccio che un contrasto per lo meno inutile e forse rovinoso con quella. La seconda conclusione è anche più stolta: né l’uomo né il mondo si cambiano con l’artificio. Di filosofia applicata alla politica ed alla sociologia non ve ne può essere che una: quella del buon senso umano, quella intonata alla natura delle cose e a tutte le sue vere esigenze. La politica non deve creare il mondo lo deve semplicemente governare ed amministrare. Per questo solo logici dei partiti amministrativi, non sono affatto logici dei partiti a sfondo filosofico e con peregrine concezioni della vita. Per un popolo è sempre segno della più alta maturità il passare da questi a quelli. – Le vere soluzioni politiche e sociali si trovano — ormai lo sappiamo — nel solco del diritto di natura. Questo diritto di natura puro ed inviolato ha avuto un patrono ed un difensore integerrimo nel Cristianesimo, che l’ha assunto completamente, innalzandolo e completandolo con le massime della morale evangelica. Sicché, se le buone soluzioni possono essere, per sé, trovate anche fuori del Cristianesimo su una base naturale che è patrimonio comune, in pratica ciò è ben difficile oltre la dottrina sociale garantita dalla Tradizione cristiana. La soluzione va cercata qui. Il Papa nel suo Messaggio ce ne ha dato gli elementi. La eliminazione che di sua forza ci ha portato a questa conclusione va accettata e difesa con coraggio e con fiducia, integralmente. Non è detto che tutti i cattolici possano dirsi nella loro attività politica, interpreti sicuri e perfetti della tradizione sociale cristiana: lo saranno quanto più la loro azione sarà illuminata dal Magistero della Chiesa, dal pensiero teologico, filosofico e giuridico del Cristianesimo. La soluzione cristiana di cui sulla scorta del Messaggio papale, sono stati qui abbozzati gli elementi, è coerente alla natura, evita gli estremi unilaterali, salva l’uomo senza sacrificare alla sua dignità, né la società, né il progresso, né le giuste evoluzioni reclamate dai tempi. Per l’avvenire molti si affannano a stilare programmi. Non sarà inutile ricordare qui alcuni criteri. I programmi deducono i princìpi alle applicazioni ed ai dettagli, organizzando quelle e questi secondo una accorta rispondenza alle esigenze dei tempi.

a) Nessun dubbio quindi che vadano redatti con assoluta fedeltà ai princìpi. Ciò esclude nel modo più categorico che abbiano ad accogliere elementi dubbi e forse inconsiderati, unicamente per entrare in concorrenza con estremisti o per presentare offe simpatiche alle masse. No, i programmi debbono avere tanta sincerità quanta ne debbono avere gli uomini.

b) Per quello che toccano del campo tecnico, devono emergere dalle considerazioni condotte con metodo rigorosamente scientifico. Nella tecnica della finanza, dell’economia, della stessa questione sociale, nessuno si improvvisa e nulla è pili deleterio di chi dalla sua incompetenza stila direttive in merito. Bisogna anche avvertire che il dato puramente ed obbiettivamente tecnico è frutto, anche se è coscienzioso, di una considerazione particolare e va pertanto sempre illuminato ed eventualmente completato dall’universale prestanza dei grandi princìpi. Come non basta il puro teorico, neppur è sufficiente il puro tecnico: l’uno e l’altro possono essere per opposti motivi fuori della verità.

c) Quelli che studiano a comporre programmi devono ricordare che i tempi si legano e non si oppongono. È falso credere che o tutto il nuovo o tutto il vecchio sia perfettamente buono. Chi oggi credesse di non dover tener alcun conto né della esperienza comunista, né di quella opposta sarebbe lontano dal vero. Un quarto o un quinto di secolo non passano mai indarno ed anche i tentativi falliti contengono elementi preziosi ed utili. Un ritorno puro e semplice al passato costituirebbe un regresso. Le diverse esperienze sociali e politiche deh nostro secolo hanno sottolineato qualcosa, hanno messo in evidenza aspetti quasi ignorati, hanno prospettato metodi, espedienti e risorse che non possono venir senz’altro gettati via. Anche se non è giunta l’ora della serenità e quindi della visibilità perfetta per estrarre il filone d’oro dalla ghenga, è d’uopo mettersi onestamente al lavoro in questo senso, senza rispetti umani e con coraggio.

d) Il valore utile dei programmi è dato dalla intuizione con cui, degli elementi compatibili coi princìpi, sanno presentare chiaramente, brevemente e plasticamente quello che è insieme più importante, più rispondente alle condizioni psicologiche, più dettagliato, concreto, immediato ed attuabile. La rispondenza alla psicologia, ai bisogni; la semplicità intuitiva del mezzo per raggiungere un fine voluto, dà ragione del trionfo. Astruserie, lungaggini, elementi vaghi e generici sono la rovina dei programmi anche semplici per contenuto e per sante intenzioni. Un programma serio non può esimersi dal presentare i più gravi e semplici provvedimenti legislativi ed amministrativi che ha in postulato. Le grandi guerre lasciano tracce tremende. Quella che grava su di noi è frutto di una situazione immorale. È ingiusto si incolpino esclusivamente uomini e regimi: tutti gli uomini sono peccatori e colpevoli. Al fondo di ogni questione esaminata appare il suo nucleo morale. – La vera soluzione è la restaurazione di tutto in Cristo. È terribile la responsabilità di quelli che o lo portano agli uomini o sono un velo sulla Sua faccia sicché non sia visto! Un’altra volta la Chiesa deve curvarsi sulla civiltà nell’atteggiamento del buon Samaritano!

F I N E

IL SACRO CUORE DI GESÙ (39)

IL SACRO CUORE (39)

J. V. BAINVEL – prof. teologia Ist. Catt. Di Parigi;

LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ-

[Milano Soc. Ed. “Vita e Pensiero, 1919]

PARTE SECONDA.

Spiegazioni dottrinali. (3)

CAPITOLO VII.

OGGETTO PER ESTENSIONE: L’INTERIORE DI GESÙ

Il cuore di Gesù, emblema del suo amore, ci ricorda, nello stesso tempo, tutto l’essere intimo di Gesù: la vita del suo cuore, le sue virtù, ecc. — Da qui viene una prima estensione della divozione.

Una prima serie di divergenze, nelle spiegazioni di alcuni autori, ci hanno permesso di meglio spiegarci i due elementi essenziali della divozione al sacro Cuore, l’amore e il cuore, il cuore amante e l’amore del cuore. Ma la questione si presenta ora sotto un altro aspetto. È l’amore o, almeno, è unicamente l’amore che pretendiamo onorare? – La questione è risolta, almeno in parte. Infatti, i documenti ci dimostrano chiara una cosa; che la divozione al sacro Cuore, cioè, si presenta, prima di tutto, come la divozione al cuore amante di Gesù, all’amore del sacro Cuore. I testi che abbiamo citato, lo dicono il più chiaramente possibile; e se ne potrebbero accumulare all’infinito, che ci ridirebbero sempre la stessa cosa. Ma ce sono altri — e spesso sono i documenti medesimi — che indicano pure altra cosa, come oggetto della divozione, che la estendono a tutta la vita intima di Gesù, qualche volta a tutta la sua persona, ai suoi lavori, alle sue sofferenze, alle sue virtù, ai suoi sentimenti, alla sua presenza eucaristica, a Gesù tutto intero, designato sotto il nome di sacro Cuore. Per rendersene conto, basta leggere un trattato sul sacro Cuore ed esaminare qualcuna delle pratiche in onor suo. – Nessuno, meglio del P. Galliffet, ha dato l’idea vera e precisa della divozione. Esaminiamo ciò che egli dice sull’eccellenza della divozione al sacro Cuore di Gesù. « Se ne deve giudicare, dic’egli, dal suo oggetto, dal suo fine, dagli atti e pratiche di virtù che contiene, dal frutto che produce ». E sviluppa questi quattro punti. Che cosa dice dell’oggetto? « È precisamente dall’oggetto che una divozione ritrae la sua eccellenza, come ne ritrae il vero carattere. L’oggetto di questa, è il Cuore di Gesù». Il P. Galliffet continua col considerare questo cuore in sé stesso (L, II, c. I, art. 2, p. 72), e constata l’eccellenza:

a) « delle proprietà naturali del cuore », b) della sua unione con l’anima più perfetta e eccellente che sia mai stata, c) della sua unione col Verbo eterno, d) della funzione divina per cui fu formato e che non è altro che ardere incessantemente delle fiamme più pure e più ardenti dell’amor divino, e) della santità che gli è propria, f) « delle virtù di cui è sorgente ». Tutte cose, si vede bene, che sono indubitatamente in rapporto col cuore. E s’intravvede che il P. Galliffet forza un poco questo rapporto, presentando il cuore come « la sorgente » delle virtù e dei sentimenti. L’autore studia, in seguito, il cuore di Gesù, in rapporto agli uomini. « Considerate, dice egli, che questo Cuore divino vi si presenta tutto infiammato dell’amore che vi porta e tutto pieno di quei generosi sentimenti di bontà a di misericordia, ai quali siete debitori della vostra redenzione, e ricordatevi che è questo medesimo Cuore che ha risentito, così vivamente, tutte le vostre miserie, che è stato così crudelmente afflitto dai vostri peccati, e nel quale si sono formati tanti desideri ardenti della vostra felicità. Ma consideratelo, soprattutto nei dolori sofferti, per amor vostro nella sua passione ». – Qui, senza dubbio, l’amore è messo in prima linea, ma per quanto l’autore s’inganni vedendo meno il simbolo che il principio, l’amore non è solo, in vista. Vi è, pertanto, qualche considerazione ancora più chiara. Riassumendo, alla fine del cap. IV, libro I, la sua dottrina, sull’oggetto della divozione al sacro Cuore per darne un’idea « netta e perfetta », il padre Galliffet dice: « Molti vi prendono inganno. Sentendo pronunziare questo sacro nome: Cuore di Gesù, limitano i loro pensieri al cuore materiale di Gesù Cristo; non riguardano questo Cuore divino che come un pezzo di carne, senza vita e senza sentimento, come farebbero, presso a poco, di una reliquia santa, ma tutta materiale. Ah! come l’idea che si deve avere di questo sacro Cuore, è differente, è ben altrimenti magnifica! ». – Egli vuol dunque che si consideri, da prima, « come cuore unito intimamente e indissolubilmente all’anima e alla persona adorabile di Gesù Cristo…, cuore pieno di vita, di sentimento e d’intelligenza ». In secondo luogo, « come l’organo principale e più nobile delle affezioni sensibili di Gesù Cristo, del suo amore, del suo zelo, della sua obbedienza, dei suoi desideri, dei suoi dolori, delle, sue gioie, delle sue tristezze; come il principio e la sede di queste medesime affezioni e di tutte le virtù dell’Uomo-Dio ». In terzo luogo, « come il centro di tutti i dolori interni che ha sofferto per la nostra salute, e di più come cuore ferito crudelmente dal colpo di lancia, che ricevé sulla croce; infine come santificato dai doni più preziosi dello Spirito Santo e per l’infusione di tutti i tesori di grazia di cui è capace ». – « Tutto questo, continua l’autore, appartiene realmente a questo Cuore divino; tutto questo forma parte dell’oggetto della divozione al Cuore di Gesù ». E, come se questo non fosse abbastanza chiaro, conclude: « Si consideri dunque questo composto mirabile che risulta del cuore di Gesù, dell’anima e della divinità che gli sono unite, dei doni e delle grazie che racchiude, delle virtù e degli affetti di cui è il principio e la sede, dei dolori interni di cui è il centro, della ferita che ricevé sulla croce; ecco l’oggetto completo, per così esprimermi, che si propone all’amore e all’adorazione dei fedeli » (loc. cit. pag. 53, 54). Si faccia pur grande quanto si vuole la parte ad una fisiologia inesatta, ciò non potrà mai niente, lo vedremo, contro la divozione. Non è forse vero che onesto oggetto, sì ampio e sì esteso, scaturisce naturalmente dalla definizione ricevuta: « il culto del cuore di carne come emblema dell’amore di Gesù per noi » ? E quello che dice il P. Galliffet vien ripetuto, quasi parola per parola, dai postulatori del 1765, in un passo da cui abbiamo già estratto un brano ripetuto da molti altri in termini equivalenti. Gli autori moderni sono più circospetti nella scelta delle loro espressioni, nel definire l’oggetto proprio della divozione. Ma quando, nei loro svolgimenti, sono meno circospetti, arrivano a dire lo stesso. E bisogna ben riconoscere che l’idea viva della divozione trabocca da ogni parte, per confermare questa formula del cuore come emblema d’amore, e va a ricercare nel cuore di Gesù tutta la vita intima di Dio fatto uomo, tutte le ricchezze nascoste nella sua umanità e, per parlare come i Sulpliziani, tutto « l’interiore di Gesù ». Si leggano le litanie del sacro Cuore e vi si troverà conferma di ciò. E fu così fin dal principio. Ecco come si esprime il P. de la Colombière nella sua spiegazione « della offerta al sacro Cuore di Gesù ». « Quest’offerta, egli dice, si fa per onorare questo Cuore divino, la sede di tutte le virtù, la sorgente d’ogni benedizione, il rifugio di tutte le anime sante. Le principali virtù che si vogliono onorare in lui sono: in primo luogo, un amore ardentissimo per Iddio, suo Padre, unito con un profondissimo rispetto e con la .più grande umiltà che fosse mai; in secondo luogo, una pazienza infinita; e, in terzo luogo, una compassione sensibilissima per le nostre miserie, ecc. ». « Questo Cuore è sempre animato, per quanto gli è conveniente di esserlo, dagli stessi sentimenti, e soprattutto sempre infiammato d’amore per gli uomini ». Si potrebbero citare mille pagine dello stesso genere nella beata Margherita Maria. Come spiegasi questa anomalia, questa specie di sproporzione fra la definizione e l’uso, fra la teoria e la realtà? Senza porsi di fronte esplicitamente alla questione, gli autori la risolvevano praticamente in due sensi. Dapprima cercando di riferire tutto all’amore intimo di Gesù. La sua vita affettiva, non è forse tutta amore? E le varietà di questa vita affettiva, che cosa sono se non lo stesso amore, diversificato secondo le condizioni dell’oggetto?  È quello che già aveva detto sant’Agostino; quello che hanno ripetuto san Tommaso, Bossuet e tutti i discepoli di questi grandi maestri. Quello che non è amore in Gesù, è però sempre sotto l’influenza dell’amore. Perché i suoi dolori? Egli ha amato. Che cosa sono i suoi miracoli? Effetti della sua bontà e del suo amore. Se san Tommaso concepisce tutti gli atti buoni dell’uomo retto come prodotti sotto l’impero dell’amore (egli intende però l’amore per Iddio), non si potrebbe forse dire che tutta la vita di Gesù si compendia nell’amore di Dio e nell’amore del prossimo? Tutta la sua vita non è stata forse per il prossimo, come per Iddio? Questo ci dà certo una bella idea della divozione al sacro Cuore. Bisogna convenire, pertanto, che questa idea non esaurisce tutte le ricchezze della divozione, come la troviamo negli scritti del P. Galliffet, (potrei ben dire in tutti quelli della beata Margherita Maria) e come pur la constatiamo nella pratica dei fedeli. – Pur essendo essenzialmente quale lo abbiamo definito, il culto del sacro Cuore va ancor più lungi. Si può e si deve concepirlo come la divozione all’amore del sacro Cuore per noi. Perché ne è ben questa la sostanza secondo la parola già citata di Pio VI. Ma va anche più lungi; essa è la divozione al cuore vivente di Gesù, perché considera il cuore di Gesù secondo le condizioni in cui ci troviamo a riguardo del cuore umano. – Il cuore è soprattutto l’emblema d’amore. Ma il cuore vivo e vero non è solo questo. Di qui viene che la divozione al cuore vivo e vero di Gesù non vi onora solamente l’amore. Tutta la nostra vita intima e profonda ha i suoi rapporti col cuore; i nostri sentimenti vi si ripercuotono; tutta la nostra vita affettiva vi trova come un centro di consonanza per il quale ci si manifesta sensibilmente (Si sa che l’amore di volontà, come tutti gli atti della vita spirituale, non ha organo materiale per parlare propriamente. Ma qui non si fa questione d’organo o di principio, si tratta di concorso e di risonanza. Ora si sa bene che anche l’amore spirituale, quando è veramente e primamente un amore umano, si riversa sulla parte sensibile dell’uomo; ha il suo contraccolpo nell’organismo). – Ora, la nostra vita affettiva e la nostra vita morale, sono strettamente unite, tanto da non potersi dire se sono distinte l’una dall’altra. Così il linguaggio corrente, che è espressione delle realtà profondamente sentite, collega col cuore tutta la vita morale e affettiva dell’uomo; le virtù come i sentimenti, il primo impulso all’azione e i moventi intimi. Non si arriva perfino a dire che i grandi pensieri vengono dal cuore, e che il cuore ha delle ragioni che la ragione stessa non conosce? Non è forse vero che, quando Pascal parla di « Dio sensibile al cuore », traduce una realtà profonda e che « Dio sensibile al cuore » è altra cosa che la conoscenza puramente astratta e fredda del filosofo? Gesù stesso non si è forse rivelato a noi come dolce e umile di cuore e non vediamo noi forse, in ciò, una manifestazione del suo sacro Cuore? Ma, si dirà, non si tratta forse qui del « cuore metaforico » contro il quale ci si metteva in guardia, allorché si definiva la divozione al sacro Cuore? No. È al cuore reale che va il nostro pensiero. E non solamente come simbolo dell’amore, come un’eco interna che rivela coi suoi palpiti la vita affettiva, ma in quel modo che l’uso popolare, fondato su di una esperienza vaga ma sicura, riferisce al cuore la nostra vita intima, di cui vediamo in esso il simbolo e l’espressione, nello stesso tempo che scorgiamo la ripercussione del nostro stato affettivo e delle nostre divozioni morali. – Prima estensione della nostra divozione. Estensione, come si vede, legittima e naturale non appena si concepisce la divozione come riferentesi al cuore vivo e vero di Gesù, per onorare in esso tutto quello che è, tutto quello che fa, tutto quello che ricorda e rappresenta allo spirito. Considerata da questo punto di vista la divozione al sacro Cuore, non è solo la divozione all’amore del Cuore di Gesù, ma essa diviene la divozione a tutta la vita interiore del Salvatore, in quanto che quanta vita ha nel cuore vivente un centro di ripercussione, un simbolo o un segno di richiamo. – Vi è pure un’altra idea della divozione, idea ugualmente naturale e consacrata del pari dall’uso e fondata sul linguaggio corrente. È il passaggio dal cuore alla intera persona.

VIII.

OGGETTO PER ESTENSIONE: LA PERSONA DI GESÙ

Nuova estensione del culto. — Come e in qual senso il cuore significa e riassume la persona.

È sempre la persona che si onora quando si onora il cuore; come è la persona che si onora quando le si bacia rispettosamenté la mano. È la condizione del culto; né v’ha bisogno d’insistervi qui. Pio VI ha fatto giustizia delle accuse formulate a questo riguardo dal Giansenismo, come se i fedeli, onorando il sacro Cuore di Gesù, l’onorassero facendo astrazione della sacra Persona del Verbo incarnato. Sino dai primi giorni della divozione, la dottrina fu molto chiara a questo riguardo. Abbiamo già veduto il P. Galliffet insistere sempre più sull’unione del cuore alla persona divina del culto del sacro Cuore. Si può, diceva egli, rivolgere a questo Cuore divino delle preghiere, degli atti, degli affetti, delle lodi, in una parola tutto quello che si può rivolgere alla persona stessa, poiché infatti è la persona unita al cuore che lo riceve realmente. – Margherita Maria aveva già detto, con una perfetta chiarezza, che Gesù si compiaceva molto di essere onorato sotto la figura di questo cuore di carne. Il culto, in questo caso non è d’altronde puramente relativo, come quello che si rende a una immagine, come quello, pur anco, che si rende alla vera croce; perché il cuore fa parte della persona e ha in sé la dignità della persona di cui fa parte. Basta ricordare queste nozioni, perché non vi ha nulla in questo che sia proprio al culto che esaminiamo. La stessa cosa si applica in special modo al culto delle cinque piaghe, di cui una ci riconduce al cuor di Gesù. Che cosa è infatti, diceva il cardinale Gerdil (Animadversiones, § I, Opere t. V, p. 174, Napoli 1855), che cosa è la piaga del cuore, senonché il cuore piagato? Ma nella divozione al sacro Cuore, così come è accettata nella Chiesa, si trova un passaggio speciale dal cuore alla persona, che merita attenzione. Col trascurare di farne oggetto di nota: si confondono qualche volta le nozioni, e non si sa più come spiegare né il linguaggio della beata Margherita Maria, né il movimento del culto. Nel linguaggio abituale, la parola cuore è usata spesso per una figura che i grammatici chiamano sinedoche per disegnare una persona si dice: « È un gran cuore, è un buon cuore », per dire: È una grande, è una bell’anima. E quando diciamo: « Che cuore »! è la persona che designiamo direttamente, non è già il suo cuore. Ciò avviene, naturalmente, nella divozione al sacro Cuore. Margherita dice: Questo sacro Cuore, come direbbe: Gesù. Nei due casi, ella ha in vista direttamente la persona. E l’uso è divenuto ormai familiare di designare Gesù col nome di sacro Cuore. Non già, notiamole bene, che i due nomi siano sinonimi. Non si può dire, indifferentemente Gesù o sacro Cuore. Non si designa sempre la persona per il suo cuore. Per farlo bisogna avere in vista la persona nella sua vita affettiva e morale, nel suo intimo, nel suo carattere, nei principi della sua condotta. L’idea del cuore non sparisce, ma domina la frase; il cuore non designa la persona che sotto gli aspetti rappresentati dal cuore. Ma questo passaggio dal cuore alla persona, questo riguardar la persona nel cuore, dà alla divozione un andamento più libero, una importanza maggiore. Di qui segue che il sacro Cuore mi ricorda Gesù in tutta la sua vita affettiva e morale, l’interiore di Gesù, amabile e amante, Gesù modello e virtù. La vita di Nostro Signore può così concentrarsi tutta sul cuore: in tutti i suoi stati posso studiare quanto vi ha di più profondo, di più intimo, di più personale. Gesù si riassume tutto e si esprime nel sacro Cuore, attirando sotto questo simbolo espressivo il nostro sguardo e il nostro cuore sul suo Cuore e sulla sua amabilità. Gesù non è forse, in tutto e per tutto, amantissimo e amabilissimo? E Gesù non è forse tutto cuore? Eravamo già arrivati a constatare ciò per altra via, per quella del simbolo e della cooperazione del cuore alla vita affettiva di Gesù. Ma ora ci troviamo più a nostro agio nella divozione, grazie a questa specie di comunicazione d’idiomi fra ciò che conviene al cuore e quel che conviene alla persona stessa di Gesù riguardata in ciò che ha di più profondo e di più personale. Che cosa è per noi una statua del sacro Cuore ? Una statua nella quale Gesù, mostrandoci il suo cuore, cerca tradurre ai nostri sguardi tutta la sua vita intima, la sua amabilità e soprattutto il suo amore. – Grazie a questa nuova estensione, possiamo descrivere la divozione al sacro Cuore come la divozione a Gesù che si rivela a noi rivelandoci il suo cuore, nella sua vita intima e nei suoi sentimenti più personali, che, infine, non ci ripetono che amore e amabilità. Questa divozione, se così posso esprimermi, ci scopre il fondo di Gesù. Non è già che il cuore sparisca in questa nuova accettazione. È la persona stessa di Gesù che ce la dischiude, ripetendoci, come già alla beata Margherita Maria: « Ecco questo cuore ». E noi riguardando il cuore che ci viene dischiuso dinanzi, impariamo a conoscere la persona nel suo fondo. Così tutto Gesù si riassume nel sacro Cuore, come tutto il resto, secondo i divini disegni, si riassume in Gesù (Cf. RENÉ DU BOUAYS DE LA BÉGASSIÈRE, Notre culte catholique français du sacre Cœur, p. 7, Lyon 1901).

IX.

UN CARATTERE DISTINTIVO. L’AMORE MISCONOSCIUTO

L’idea dell’amore misconosciuto e oltraggiato. — Il suo posto nella divozione.

La divozione al sacro Cuore è dunque soprattutto la divozione all’amore, all’amabilità di Gesù, la divozione a Gesù così amabile e così amante. Si può ben dire che tutto è là, e che tutto viene di là. Ma vi è un tratto che la divozione mette in tal special rilievo e che le dà il suo carattere particolarmente commovente. Gesù non si accontenta di mostrare il suo cuore ferito d’amore, con la sua tenerezza squisita, con la sua generosità, che va « sino a esaurirsi e consumarsi per dimostrar loro (agli uomini) il suo amore ». Ci mostra pure questo amore misconosciuto, oltraggiato da quelli stessi da cui aveva maggior diritto di aspettarsi la corrispondenza e che per vocazione avrebbero dovuto amarlo di più. Dopo aver detto: « Ecco questo cuore che ha tanto amato gli uomini ». aggiunse: « E per riconoscenza, non ricevo, dalla maggior parte, che della ingratitudine, e con le loro irriverenze e i loro sacrilegi, con la freddezza, il disprezzo che hanno per me in questo sacramento d’amore. Ma quello che mi è ancor più sensibile, è che vi siano dei cuori a me consacrati che agiscon così » (Mémoire nella Vìe et Oeuvres, t. II, p. 355, 2.» edizione, p. 413; G. n. 92, p. 102). Commentando queste parole il P. Galliffet scrive: « Bisogna osservare ancora un punto essenziale della natura della nostra divozione, ed è che l’amore da cui è infiammato il suo divin Cuore deve essere considerato come un amore disprezzato e offeso dall’ingratitudine degli uomini…. Il Cuore di Gesù Cristo deve esser dunque considerato qui sotto due rapporti: da una parte come infiammato d’amore per gli uomini; dall’altra come offeso crudelmente dall’ingratitudine di questi uomini stessi. Questi due motivi, uniti insieme, devono produrre in noi due sentimenti ugualmente essenziali alla divozione verso questo sacro Cuore: cioè, un amore che risponda al suo e un dolore che ci muova a riparare le ingiurie che si son fatte dalla durezza degli uomini » (T. I, cap. IV, P . 43). Il primo grido della divozione al sacro Cuore è: Quale amore! Il secondo : L’amore non è amato! È  questo che spiegano a lungo i postulatori del 1765: « Bisogna notare, dicono essi, che il sacro Cuore deve essere considerato sotto due aspetti; dapprima come traboccante d’amore per gli uomini…. ; poi come crudelmente ferito dall’ingratitudine degli uomini, satollato d’oltraggi e reso degno così non solo del nostro amore, ma della nostra compassione pur anco » ( Memorie n. 34, 38; NILLSE, t. I, p. 117, 120). – Gesù non soffre più; non può più soffrire, ma l’oltraggio, da parte degli uomini, non è meno reale; essi farebbero tutto quello che dipenderebbe da loro per farlo soffrire, se per la sua condizione attuale non fosse al sicuro dei loro colpi! V ha ancor di più ; tutti questi oltraggi piombarono veramente sul suo cuore ; Egli ne soffrì, quant’era possibile soffrire. Nella sua passione, non risenti solo le ingiurie dei Giudei e dei Romani; non seppe solo dell’ingratitudine dei suoi concittadini e dell’abbandono dei suoi amici. L’avvenire e il passato ebbero il contraccolpo nei suoi dolori e vi si concentrarono. Se dunque Gesù non soffre più nel presente, ha però sofferto del presente; e i fedeli non hanno torto di rappresentarselo sofferente, perché ha veramente sofferto per le offese del presente. Senza contare che ci è sempre permesso di trasportarci nel passato per compatire Gesù, poiché l’avvenire d’allora è il presente d’oggi. È possibile che qualche volta il modo di esprimere di tutto ciò non sia rigorosamente esatto. Ma è ben certo che l’esattezza dell’espressione potrebbe correggersi senza toglier nulla alla verità profonda delle cose e all’impressione che devono produrre. È sempre vero, in ogni modo, che la beata Margherita Maria ha veduto il sacro Cuore coronato di spine e sormontato dalla croce, e lo ha spiegato molto bene vedendovi il segno di una grande realtà: « Era circondato, il sacro Cuore da una corona di spine, a significare le punture che i nostri peccati gli facevano, e aveva una croce al disopra a significare che, non appena questo sacro Cuore fu formato, vi fu piantata la croce » (Lettres inédites, IV, p. 141; riveduto su G. CXXXIII, p. 567). La Chiesa conosce bene queste maniere psicologiche di sopprimere il tempo e lo spazio; la sua liturgia è piena di questi riflessi della eternità divina proiettati sul nostro mondo passeggiero e incostante. – Queste spiegazioni erano necessarie per far comprendere come la divozione al sacro Cuore può rappresentarci Gesù oltraggiato. Ma questo rapporto del presente con la passione non è la sola, né  probabilmente la principale ragione dello stretto rapporto che esiste tra la devozione al sacro Cuore e il ricordo dei dolori di Gesù.