TEMPO DELL’EPIFANIA

TEMPO DELL’EPIFANIA

Dal 14 Gennaio alla Domenica di Settuagesima.

I . Commento Dogmatico.

Il ciclo di Natale è come un dramma grandioso in tre atti, che ha il fine di rappresentare in tre modi distinti l’Incarnazione del Verbo e la divinizzazione dell’uomo.

Il primo atto del ciclo di Natale si svolge durante le quattro settimane dell’Avvento. Ci rivela, con figure e parole profetiche, il grande dogma di un Dio fatto uomo e ci prepara a partecipare a questo grande mistero.

Il secondo atto, che comprende, con il Tempo di Natale, tutti i misteri della fanciullezza di Gesù ci fa « vedere con i nostri occhi e toccare con le nostre mani il Verbo di vita che era nel seno del Padre, e che ci è apparso, perché possiamo entrare in comunione con il Padre, e con il Figlio Gesù Cristo, e perché la nostra gioia sia perfetta (S. Giov. I, 4)

Il terzo atto, che si svolge durante il Tempo dopo l’Epifania, è la continuazione del Tempo di Natale. La divinità di Gesù continua ad affermarsi. Non sono più gli Angeli del « Gloria in excelsis », né la stella dei Magi, e neppure la voce di Dio Padre e l’apparizione dello Spirito Santo, come al Battesimo di nostro Signore, ma è il Cristo stesso che agisce e parla come Dio. Egli vorrà, come vedremo nel ciclo di Pasqua, la sottomissione del nostro spirito e del nostro cuore al suo insegnamento e alla regola di condotta ch’Egli ci detta; bisogna dunque che prima di tutto le sue parole e i suoi atti manifestino la sua autorità divina. Cosi, i Vangeli della 2a 3a e 4a Domenica dopo l’Epifania, sono tratti dalla serie di miracoli che San Matteo riferisce, e quelli della 5a e 6a domenica dalle parabole chi lo stesso Evangelista riporta per dimostrare che Gesù è il Messia: Gesù comanda alle malattie, al mare, al vento, cambia l’acqua in vino, guarisce a distanza, o con un semplice gesto. Egli è dunque Dio. Gesù parla anche come solo un Dio può farlo. Questo Tempo dopo l’Epifania è, come tutto il ciclo di Natale, il tempo consacrato all’Epifania, o manifestazioni della divinità di Gesù.

Le parole di Cristo, sono l’espressione diretta e sensibile dei pensiero di Dio. « Le cose che Io dico, le dico come il Padre me le ha dette » (S. Giov., XII, 50). E come le Sante Specie, che sono l’oggetto della nostra adorazione, perché contengono la divinità, la dottrina di Gesù esige da parte nostra fede e rispetto, perché è una piccola parte della verità eterna. « Colui che riceve con indifferenza la santa parola, non è meno colpevole di colui che lascia cadere a terra il Corpo del Figlio di Dio » (S. Cesano, Appendice opere S. Agostino, Sermo CCC, 2). Ciò che S. Paolo dice dell’Eucarestia: « Colui che mangia indegnamente il Corpo del Signore, mangia la propria condanna ». (I ai Corinti, XI, 29). Gesù l’ha detto con la sua parola sacra: « Colui che non riceve le mie parole, ha chi lo giudica: la parola annunciata da me, questa sarà suo giudice nel giorno estremo » (S. Giov., XII, 48). Perché restringerla, è respingere il Verbo che si manifesta a noi sotto questa forma. Ma Gesù non ha soltanto « detto la verità » (id. VII, 40), secondo la sua bella espressione, egli ha « fatto la verità » (id. III, 21). Possedendo la natura del Padre, ne possiede non solo la dottrina, ma anche l’Onnipotenza. – Il Figlio non può far niente da sé, se non quello che vede fare dal Padre, perché tutto ciò che il Padre fa, il Figlio lo fa egualmente (id. V, 19); E allora, come le sue parole, cosi i suoi miracoli sono una manifestazione della sua divinità. « Le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste rendono testimonianza di me (id. X, 25). Un uomo non saprebbe parlare e agire come Gesù, se non fosse Dio; così Egli aggiunge: « Se Io non fossi venuto e non avessi parlato loro, essi non avrebbero peccato, ma ora essi non hanno scuse per i loro peccati. « Se io non avessi fatto fra loro opere tali, che nessun altro mai fece, sarebbero senza colpa » (id. XV, 22-24). Queste due frasi riassumono, in rapporto a Gesù, tutto il Tempo dopo l’Epifania. E, quanto a noi, dobbiamo cercare nelle Epistole tratte dalle lettere di S. Paolo ai Romani, quale sia lo Spirito di questo stesso Tempo. Non soltanto Dio, fedele alla sua promessa, invita i Giudei ad entrare nel regno di cui il suo Figlio è re, ma pieno di misericordia, chiama tutti i Gentili a far parte di queste regno, in modo che, divenuti anche noi a nostra volta membri del Corpo mistico di Cristo, dobbiamo amarci l’un l’altro come fratelli in Gesù Cristo e sottometterci in tutta umiltà al Figlio di Dio, che è nostro Re.

II. Commento storico

Al tempo di nostro Signore, la Palestina era divisa in Quattro ProvincieAd Est del Giordano, la Perea; ad Ovest ed a Sud laGiudea; al centro, la Samaria; al Nord, la Galilea.In questa ultima regione, dove furono un tempo le tribù di Aser di Neftali,, di Zàbulon, di Issachar, si svolsero gli avvenimenti narrati nei Vangeli delle Domeniche dopo l’Epifania. A Cana Gesù fece il suo primo miracolo (2° Dpm. Dopo l’Epifania). Poi nella Sinagoga di Nazaret, tornando nella Galilea, predicò la sua sublime dottrina, « che rapiva tutti coloro che l’ascoltavano » (Comm. delle Dom. 4°, 5°, 6° dopo l’Epifania). Ancora in Galilea Gesù guarì il lebbroso(Vang 3a Dom. dopo l’Epifania). Ma a Cafarnao soprattutto,a una giornata di cammino da Nazareth, per una stradache discende attraverso le collinedi Zàbulon, Gesù predicò la suadottrina ed operò i suoi miracoli.Dopo il discorso della montagna, che alcune tradizioni diconcofosse quella di Kùrum Hattin, al Nord-Ovest di Tiberiade, Crist:odiscese a Cafarnao dove guari il servitore del centurione (Vang. 3aDom. dopo l’Epifania). Sopra una barca presso la riva del Iago, chedeve il suo nome di Genezaret, o valle dei fiori, ai prati fioriti, checircondano le sue sponde, Gesù narrò la parabola del seminatore (Ev. 5a Dom. dopo l’Ep.). Le fertili colline che si stendono da Cafarnao a Chorozain gliene offrirono gli elementi. Quanto alle parabole delle quali ci parla il Vangelo della 6 a Dom. dopo l’Epifania, furono dette poco dopo. Alla fine di questa continuata predicazione, una sera, il Salvatore, non potendo riposare, volle attraversare il lago di Tiberiade, formato dalle acque del Giordano, il quale è sovente sconvolto da frequenti e forti uragani. Qui Gesù calmò miracolosamente la tempesta e mostrò ancora una volta agli Apostoli di essere Dio (Vang. 4″ Dom. dopo l’Ep.).

III. — Commento Liturgico.

Il Tempo dopo l’Epifania comincia il domani dell’Ottava di questa festa e va per il Ciclo del Tempo fino al tempo di Settuagesima e per il Ciclo dei Santi, fino al 2 febbraio, Festa della Purificazione. Mentre le feste del Natale e dell’Epifania che cadono sempre il 25 dicembre e il 6 gennaio danno al Ciclo di Natale un carattere di stabilità, il Ciclo di Pasqua che si svolge in gran parte sotto la luna pasquale, è necessariamente mobile. Cosi, quando la festa della Risurrezione, che può cadere tra il 22 marzo e il 25 aprile, cade presto, la 9a Domenica che precede e cioè quella di Settuagesima, viene ad occupare il tempo dopo l’Epifania, il quale mentre conta normalmente 6 domeniche è talvolta ridotto a una o due domeniche (ved. p. 271). Il color verde, simbolo della speranza, è quello del Tempo dopo l’Epifania, come sarà quello del Tempo dopo la Pentecoste. Il verde è infatti il colore che predomina nella natura. San Paolo dice che colui che scava il solco, deve farlo con le speranza di raccogliere i frutti. Allo stesso modo in questo Tempo dopo l’Epifania, il campo della Chiesa, seminato con la dottrina e con le opere, di Gesù, si copre di verdi steli, promessa di abbondante raccolto. Facendo eco a quello di Natale, questo Tempo ha dunque la caratteristica di una santa gioia; la gioia di possedere nella persona di Cristo, un Dio « potente in opere ed in parole » (S Luca, XXIV, 79); la gioia anche di far parte del suo regno sulla terra in attesa che al suo ritorno ci faccia partecipi per sempre del regno eterno.

LO SCUDO DELLA FEDE (94)

Paolo SEGNERI S. J.:

L’INCREDULO SENZA SCUSA –

Tipogr. e libr. Salesiana, TORINO, 1884 (5)

CAPO V.

Il mondo non poté essere da se stesso.

I. A voler corre la rosa, convien procedere sempre con tal destrezza, che non si punga al tempo stesso la mano tra mille spine noiose che la circondano. Dacché però, a voler conseguire la verità da cercarsi in questo capitolo, non si possono tutte schivare appieno quelle contenzioni scolastiche che sono le più spinose, vediamo almanco di trattarle di modo che non ci pungano, come ci avran forse punti nel precedente.

I.

II. Ditemi dunque (prima che diamo un urto al mondo, e il gettiamo a forza di ragion viva giù da quel trono in cui l’han collocato i suoi stolidi adulatori, qual nume sommo), chi ha detto a voi che il mondo non avesse incominciamento? Aristotile, fra quei problemi dialettici che dan luogo di tenzonare verisimilmente per l’una e per l’altra parte, ripose questo, dell’essere, o non essere il mondo eterno (Qui giova distinguere due questioni, che l’autore sembra abbia insieme confuse. Altro è il domandare, se il inondo esista da tutta l’eternità per virtù propria, ed altro il chiudere, se non possa essere stato creato da Dio da tutta l’eternità, anziché aver cominciato ad esistere nel tempo. L’autore non vide, che fra queste due proposizioni, 1° il mondo esiste ab eterno per virtù sua propria, 2° il mondo cominciò ad esistere nel tempo, intermedia quest’altra: il mondo fu creato da Dio fin dall’eternità): Utrum mundus sit æternus (L. 1. Top. c. 9 ). E sebbene egli mostrò di tenero tale, tuttavia, dove ne trattò di professione, provò bensì non sussistere quelle vie che gli antichi filosofi avean battute a dargli principio, ma non ne scoperse delle sussistenti a negarglielo (S. Th. 1. p. q. 46. art. 1. in c.). Piuttosto confessò dappertutto, che il parere universale degli uomini favoriva la produzione del mondo in tempo: Omnes quidem mundum generant (De cœlo 1. 1. text. 10): tanto ella è più conforme al giudizio della ragione.

III. E vaglia la verità: quanto di violenza conviene che vi facciate a stimar piuttosto che il mondo non cominciasse? Se fosse eterno, par pure che egli non avrebbe dovuto indugiar tanti secoli a farsi dotto. Gli arabi vantano di essere stati i primi fra tutti i popoli ad osservare i movimenti do’ cieli. Gli Egiziani i primi a insegnare la medicina. I Greci i primi a introdurre la marinaresca, i Cartaginesi i primi a trovar la mercatanzia (V. Polib. Virg.) . E i tempi a noi men remoti non ci hanno parimente donato l’uso della calamita, degli archibugi, delle artiglierie, e della stampa, sì ignote per lungo tratto a’ nostri antenati ‘i Rerum natura sacra sua non simul tradit, diceva Seneca (Natur. q. 1. ult.). Se il mondo però fosse stato eterno, sarebbe pure preceduto negli uomini un eterno studio ed un’eterna esperienza. E però, come può credersi, che non fosse bastata un’eternità a rinvenir quelle industrie, per cui è bastato lo spazio di seimila anni? Forsa il mondo è stato sempre fanciullo, e solamente da pochi secoli in qua egli è pervenuto all’età della discrezione?

II.

IV. Direte per avventura, che tutte queste arti fiorirono a un tempo al mondo, ma che a poco a poco declinarono tanto, che se ne venne anche a perdere la perizia. Sia ciò che dite. Ma come almanco non ne venne a restare la rimembranza? Questo è ciò che non può credersi senza stento. Conciossiachè quale lima possiamo noi divisare nella natura, la quale giungesse a radere mai dagli animi sì altamente ogni sentore di ciò che giovava tanto al comun genere umano? Miriamo che gli uomini hanno innestato nel cuore un desiderio di gloria insaziabilissimo. Onde non solo le Provincie più illustri, ma infino le più volgari vanno ostentando ciò che tra loro abbia vanto di singolare: e per mezzo o di pitture, o di intagli, o d’iscrizioni, o di libri, o almen della voce viva, sogliono tramandar di padre in figliuolo ciò che fu per loro inventato di memorabile. E pure non abbiamo memoria alcuna di questa eternità posseduta da veruna arte, per inclita che ella sia: né i secoli più vetusti hanno mai trasmessa ai novelli alcuna contezza di quelle scienze, di cui noi gli abbiam sempre stimati privi. 1 più antico storico di cui ragioni la fama, fu Beroso Caldeo (Joseph contra Apionem 1. 1). E pure egli non seppe ordire le sue narrazioni da altro, che dal diluvio sì celebre di Noè. E le più antiche poesie sono gli eccidi, o di Troia, o di Tebe, città notissime, non solo per la morte di ambedue loro, ma per i natali (Lucretius l. 5). – Se dunque il mondo è sì vecchio, che è sino eterno, come sono sì giovani i suoi scrittori?

V. So che voi qui ricorrete agli iterati diluvi che, ad ora ad ora sommergendo la terra, abbiano, con le vite degli uomini, estinta ancora ogni ricordanza delle loro imprese più belle. Ma vi ricorrerete a piacere. Nella natura non v’è questa forza immensa di sopraffar tutti i monti con piene tali, che allaghino l’universo: attesoché non ha ella altri pozzi onde attingere l’acque che di poi versa su la terra e sul mare, che i seni stessi della terra e del mare su cui la versa; che però il diluvio di Noè, che poc’anzi io rammemorai, fu per virtù della giustizia divina montata in ira, non fu per congiungimento di costellazioni piovose che allor corressero, potendo bensì queste eccitare qualche diluvio particolare, quale fu quello che sotto Deucalione allagò tutta la Tessaglia, ma non potendo eccitarne (come il Filosofo mostra), un universale.

VI. Oltre a ciò passo ad interrogarvi : O noi poniamo, che per tali diluvi, replicati ogni volta che le stelle concorressero in un tal posto determinato, venissero a perir sempre tutti i viventi, o che ne campasse qualcuno: si qualcuno ne scampò, come dunque non lasciò egli a’ suoi posteri questo sì grande avviso del mondo naufrago; in quella guisa che chi campò per sorte fortunatissima nella rotta di qualche famoso esercito fatto in pezzi, ne reca ad altri la funesta novella, ed ama di comparir tanto più felice nella comune felicità, quanto fu più solo? Se poi si ponga che tutti i viventi rimanessero morti, chi dunque tornò a generarli di nuovo? chi gli allattò? chi gli allevò, chi li provvide di necessario ristoro su quei primi anni? chi insegnò loro il ben vivere, noto a niuno, se non lo apprende? Dopo il diluvio particolare di Ogige che affogò l’Attica, sappiamo che dugento anni stette quella provincia a riabitarsi (Perer. in Gen. t. 1.1. 2. dis. 14). Che non avrebbero dunque operato di danno al mondo questi iterati diluvi sì universali, ove non fossero favole? Se dopo quel di Noè la terra in breve tempo restò abitabile da’ figliuoli di lui, salvati nell’arca, noi diciamo che ciò seguì a forza di quel vento miracoloso che Dio svegliò a disseccarla fuor di ogni legge. Ma qual miracolo può mai vantare ancor egli chi neghi Dio? La natura può ben talora operare sotto la sua virtù, con produrre i mostri; ma sopra la sua virtù non

può mai far nulla: tanto da sé è limitata.

III.

VII. Piuttosto dunque da quei diluvi piccoli, ma veraci, che sovente accadono al mondo, io dietro l’orme di più uomini dotti, vi argomento contra, e vi pruovo ch’è fatto in tempo. Noi da un lato veggiamo nella natura una tal cagione, che a poco a poco va ognora più diminuendoci i monti (Cabeus 1. 1. Meteorol. text. 72). E questa è la pioggia rovinosa che cala dalle loro sommità, sempre torbida e sempre terrea, per lo mescolamento di quel terreno che porta seco, quasi di rapina, alle valli. E dall’altro lato non veggiamo nella stessa natura cagion veruna, la qual faccia mai la dovuta restituzione, con riportare e riporre il terren caduto sulle medesime sommità. Adunque i monti non sono stati ab æterno; altrimenti a quest’ora sarebbonsi già appianati infinite volte, non che abbassati. Però conviene di necessità agli ateisti, o confessare che il mondo fu fatto in tempo, come io dicevo; o quando vogliano mantener con perfidia che egli fu eterno, convien che trovino una cagion più possente nell’operare, di quel che sia la natura, la quale abbia di tempo in tempo rialzate queste gran moli, per la  lunghezza degli anni prostese al suolo: da che il ricorrere che fanno alcuni a’ tremuoti, per ripararsi dal colpo di questa ragion sì forte, non è bastevole, mentre per quanti tremuoti abbiano finora scossa la terra con forza orribile, sappiamo bone, essersi profondato molte città, ma non sappiamo essersi eretto né anche un piccolo colle, non che un argine invitto di monti simili agli Appennini ed all’Alpi. E se è così, le tante piogge non favolose, ma certe, venute al mondo, dimostrano ch’egli nacque a un parto col tempo, e che per conseguente ebbe artefice che il cavò dal seno del nulla.

IV.

VIII. Poi, scendendo anche più dall’universale al particolare, convien che io chieggavi, che intendiate per mondo, quando mi state a dire che egli fu eterno? Intendete voi le generazioni degli uomini? No di certo, perchè, come abbiamo veduto, queste dovevano a forza sortir principio. E però né anche potete intender per mondo le generazioni de’ bruti, nascenti all’istessa guisa. Conviene adunque, che voi per mondo vi riduciate ad intendere, non gli abitanti, ma solo l’abitazione, cioè il globo celeste che n’è la volta, ed il terrestre che n’è come il suolo, circondato dall’acque, e adorno in terra ferma di piante, di pietre, di metalli, e di tanti diversi misti che l’abbelliscono a meraviglia (L’autore piglia qui il vocabolo mondo in senso troppo ristretto, mentre va adoperato a significare il complesso di tutti gli esseri, siano terreni o celesti, corporali o spirituali, di cui nessuno ha la sua ragion di essere in se medesimo. Di che si inferisce, che il mondo per ciò appunto che è contingente nel suo insieme, non può essere eterno. In quella vece preso il mondo nel senso ristretto dell’autore, quand’anche dimostrato temporaneo, rimarrebbe pur sempre di provare, che anche gli altri esseri mondiali hanno tutti avuto un principio).

IX. Ma piano un poco, perché è manifestissimo a tutti i saggi, che la fabbrica mondiale èfatta unicamente in grazia dell’uomo, il quale, se ben si pondera è quegli che ne raccoglie un frutto incomparabilmente maggiore di quel che traggane qualunque altro vivente, valendosi egli di tutte le creature, o per cibo, o por difesa, o per diporto, o per medicina, o se non altro per quello che è proprio suo, che è per acquisto di scienza. A che avrebbe dunque servito così gran fabbrica, se, come in casa vacante, fossero preceduti infiniti secoli ad introdurvi quel nobile abitatore per cui fu fatta ? Forse doveva sì gran palazzo concedersi ai bruti soli? Ma primieramente di questi non mi potete più far menzione: altrimenti di nuovo io vi chiederei, come nascessero i bruti per via di continuate generazioni fino ab æterno, se da voi si pone, che manchi la cagion prima? Di poi soggiungo, come poteva la natura amarli di tanto, mentre non sono essi capaci di verace amicizia, la quale consiste nella scambievole corrispondenza degli animi, e comunicazion degli arcani, propria delle pure creature intellettuali? E poi quante opere belle sarebbero per una eternità state inutili senza l’uomo? A che produrre tanta varietà di fragranze delicatissime, se non v’era chi ne potesse godere un saggio? Le bestie altro odoro non curano, che quell’uno il quale le scorge ai due loro diletti sommi, appartenenti al pascersi e al propagarsi. A che l’armonia di tanti uccelli canori, se non v’erano orecchie di lei curanti? A che le scene de’ boschi, de’ prati, delle pianure, de’ monti, e quel che è più, di tante stelle che adornano il firmamento, se non v’era occhio capace di vagheggiarle per tutta un’eternità? Senzaché tornerebbe a risorgere l’argomento addotto di sopra. Chi fu il primo a far comparire gli uomini in questo palco, dopo un’eternità (se così vogliamo chiamarla) di scena vuota? Spuntarono forse eglino dalla terra, come ne spuntano i funghi, o nacquero dalla polvere, come i rospi e come i ranocchi: se puro è vero, che i ranocchi stessi e che i rospi non abbiano miglior madre (Questa osservazione vale contro la strana opinione della generazione spontanea, di cui menano tanto scalpore i materialisti dei giorni nostri, senza mai essersi degnati di confortare di una soda ragione la loro asserzione. Quasicché possa darsi un effetto maggiore della sua cagione!) ? Strano intelletto conviene che sia pertanto cotesto vostro, se voi provate minor pena ad ammettere il mondo eterno fra tanti assurdi che vi conviene divorar come se foste uno struzzolo, di quella che senza niuno provereste ad ammetterlo fatto in tempo, cioè fitto quando più piacque al sovrano architetto di fabbricarlo.

V.

X. E ciò sia detto a pura soprabbondanza di verità. Nel rimanente qual necessità ho io di stare a contendere su questo punto con esso voi, quasiché da ciò penda il tutto? Passi per concesso quel che non solamente non è di fatto, ma per mio parere non è né anche possibile, cioè che il mondo sia stato senza principio: per questo gli ateisti han vinta la causa? Lascerò a voi il giudicarlo.

XI. Vorrebbono essi deluderci, se potessero, con porci innanzi, come fece già Totila, uno scudiere travestito da re. Ma quanto vanno ingannati! Diremo all’universo anche noi, come disse a quello scudiere il gran Benedetto, che ponga giù dagli omeri gli ori e gli ostri che non son suoi: Depone, fili, depone quod geris, nam tuum non est. E una maschera il vanto che questi iniqui ti vogliono attribuire di divinità: e il tuo capo, per gonfio che egli si sia, troppo è minore di quell’ampia corona che costoro ti offrono, come a nume: Mundum numen credi par est, æternum, immensum, ncque genitum, ncque interiturum unquam {Pl. 1. 1. c. 2).Furono deliri di filosofia frenetica, non fondata. Veggiamo ciò con chiarezza, spogliando il mondo, quale nume illegittimo, a parte a parte, di ogni suo mentito ornamento.

XII. Questo tutto visibile al guardo umano si può dividere in due ragioni di cose. Alcune son corruttibili, e così nascono e muoiono ad ogni tratto: l’altre sono incorruttibili, e duran sempre. Or quanto alle corruttibili, è indubitato, che hanno la cagion loro, né sono a se medesime la sorgente d’ogni lor essere, mentre han bisogno di mendicarlo di fuori, nascendo dall’altrui morte: Corruptio unius est generatio alterius. Rimane dunque, che possano forse più verisimilmente pretendere una tal gloria le incorruttibili, cioè a dire pretenderla i cieli, pretenderla gli elementi. Ma no: va tutto all’opposjto: queste l’hanno a pretendere ancora meno. Conciossiachè chi può mai persuadersi, che gli elementi, o che i cieli posti nell’infimo grado dell’essere, tutti corporei, e quel ch’è peggio, privi affatto di vita, possano in sé possedere tanto di bene, quanto è non dovere il suo essere a verun altro fuor di sé, che è l’istesso che 1’essere il sommo bene? Il sole che siede in cielo, quasi re nel suo trono eccelso, è nondimeno più imperfetto di una formicola: e questa bcstioluccia  sì vile, se fosse atta ad eleggere, avrebbe in sé tanto senno di non cambiare la sua povera sorte con quel pianeta: e riputerebbe a ragione che l’essere lei capace di sperimentare il suo bene proprio, e di compiacersene, valesse più che non vale tutto quell’oro che la natura ha tanto liberalmente versato in seno al vasto corpo solare privo di senso. Se però da sé  non può essere la formicola, che possiede un grado di essere più perfetto che non ha il sole, molto men dunque potrà essere il sole, che non arriva a tal grado. E se è così, non fu stoltezza, volerlo spacciar per Dio? Troppo male sarebbe collocato questo tesoro della divinità in un fondo sì cupo, dove il padrone non potesse mai giungere a rinvenirlo per la sua cecità: troppo male dimorerebbe il dominio delle cose in un re sempre addormentato, anzi inabile a risvegliarsi; e le redini del governo troppo male starebbono in mano ad uno che in tanta luce non solamente non può conoscere alcuno de’ suoi vassalli, ma neppur sé. Che se il sole non è quel Dio che si cerca, in qual altro de’ cieli egli sarà mai? In Marte, inMercurio, o nelle stelle, che, per alte che sieno sul firmamento, conviene alfine che cedano anch’esse al sole?

VI.

XIII. E pure io non ho dotto il meglio. Chi è da sé, è quale si conviene che sia chi è Dio, cioè tutto per sé medesimo: e siccome egli non ha cagione sufficiente dell’esser proprio, così né anche può avere cagion finale. Conciossiachè l’esser destinato ad un fine, qualunque siasi, dimostra chiaro un essere avventicelo, cioè imprestato da un altro agente maggiore che sopr’intende a quel fine. E pure tutti i cieli hanno un fine notissimo fuor di sé, né son fine di se medesimi, essendo eglino da una parte inabili a dilettarsi di ogni lor bene, e correndo dall’altra incessantemente a benefizio di altrui, senza perfezionarsi mai di vantaggio co’ loro moti, e senza assaporare una stilla di quel profitto o di quel piacere che piovono assiduamente sopra di tante creature inferiori ad essi di sito, ma non di prezio.

XIV. Più. Chi ha l’essere da sé, convien di necessità che sia stato sempre; e se fu sempre, fu egli prima altresì di ogni suo contrario, cioè prima di ogni suo nulla: ond’è che l’ha vinto affatto, tenendolo eternamente da sé lontano. Ma se egli è tale, come può dunque racchiudere alcuna spezie d’imperfezione? Chi ha vinto da se medesimo il maggior nulla, che è quel che si oppone all’essere, molto più debbo aver vinto ancora il minore, che è quello che si oppone al mero ben essere. Pertanto non può capirsi, come chi non è cagionato da verun altro, sia punto limitato in alcun suo vanto: non apparendo possibile, che verun sia cagione a sé di limitare se stesso. Chi ha l’essere da qualche altro, è quale torna bene all’altro che sia: ma chi l’ha da sé, fa d’uopo, che abbialo quale a lui torna meglio: e mentre non riconosce altra necessità che se stesso, sarebbe egli bene uno stolto a farsi lago, mentre può essere mare; a farsi ligio, mentre può esser monarca; e ad occupare quasi una striscia di bene, mentre ne può possedere l’intera pezza, che è interminabile. Ens a se, est ipsum omne, dice Aristotile (De gen. anim. c. 1), epilogandoci il molto in poco.

XV. Rendesi dunque da tutto ciò più che certo, che i cieli e le cose incorruttibili sono immensamente distanti dalla natura divina; onde non si può riconoscere mai per Dio questo nume favoloso del mondo, senza rivoltare il mondo sossopra, cioè senza abbattere il primo Artefice, per sostituirne in suo luogo una morta statua, che neppure esprime la immagine delle fattezze di lui, tanto le ha diverse. Può bene il mondo esser dunque il reame, ma non il re, e se vogliamo ritornare al primiero esempio, può ben essere il servo travestito da principe maestoso, ma non il principe. E posto ciò, replichiamogli unitamente: Depone, fili, depone quod gevis, nam tuum non est: dacché il puro lume naturale medesimo ci dà tanto, di saper discernere un Dio da scena ed un Dio da senno.

XVI. Vero è, che per questo sognato nume del mondo non è gran fatto che voi intendiate l’universo visibile, ma animato da una mente invisibile che lo informi. E se è così, che posso io dunque soggiungervi, senonché voi di ateista, passate, senza avvedervene, in idolatra, variando gli errori, per non deporli? Ma lode al cielo, che almeno voi non pigliate più il senso per unico attestator della verità, e v’inducete a confessare una mente, benché da voi non veduta, la qual vi assista. Chi sa che come la febbre sopravvegnente ha talor consumati quegli umoracci i quali generavano la vertigine, così questo nuovo fallo non vi disponga a fermar l’intelletto da vacillare con tanta instabilità?

XVII. Dunque tra gl’idolatri, Varrone, con quegli altri che furono i meno stolidi, si argomentavano , per testimonianza di un Agostino (De civ. Dei 1. 1. c. 4), che Dio fosse l’anima di questo tutto, cui diamo il nome di mondo (Questa proposizione, Dio è l’anima del mondo, può essere sanamente intesa nel senso, che tutto il creato vive in Dio, come in suo principio efficiente, giusta il detto scritturale: In Deo vivimus, movemur et sumus.); e che però a qualunque parte di esso, come a divina, stessero bene le vittime, lo adorazioni, gli altari e le proprie suppliche. Ma leggier fatica è il confondere questa sì favolosa teologia. Conciossiaché se per Dio ci conviene intendere una suprema cagione, perfettissima in ogni genere, è manifesto, che Egli non può aver l’essere, se non che nella maniera più nobile che vi sia, cioè in se medesimo, e non in altri. Poi: qual bisogno ha Egli di unirsi al mondo? Forse per operare nel mondo, o per far che si operi? Non per operare, mentre dalla materia non può Egli ricevere prò veruno; anzi ha per sua dote propria il poter fare ciò che Egli vuole, da sé, con esenzione pienissima da qualunque altra cagione, anche strumentale, che vi concorra. Non per fare che si operi, mentre a tal fine non ha Egli necessità di starsi unito alle cose, qual parte di alcun composto: basta che sia loro autore. Anzi, se da sé solo egli è il tutto, è di là dal possibile, che sia parte, o che mai divenga (S. Th. contra gentil. 1. 1. c. 18 et 27).

XVIII. Ma di ciò sia detto abbastanza: dacché il mondo è oggimai divenuto sì savio, che si vergogna all’udire rammemorarsi queste così vetuste follie, benché per suo meglio.

SALMI BIBLICI: “DOMINE, DEUS SALUTIS MEÆ” (LXXXVII)

SALMO 87: DOMINE, DEUS SALUTIS MEÆ

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 87

Canticum Psalmi, filiis Core, in finem, pro Maheleth ad rispondedum. Intellectus Eman Ezrahitæ.

 [1] Domine, Deus salutis meæ,

in die clamavi et nocte coram te.

[2] Intret in conspectu tuo oratio mea, inclina aurem tuam ad precem meam.

[3] Quia repleta est malis anima mea, et vita mea inferno appropinquavit.

[4] Æstimatus sum cum descendentibus in lacum, factus sum sicut homo sine adjutorio,

[5] inter mortuos liber; sicut vulnerati dormientes in sepulchris, quorum non es memor amplius, et ipsi de manu tua repulsi sunt.

[6] Posuerunt me in lacu inferiori, in tenebrosis, et in umbra mortis.

[7] Super me confirmatus est furor tuus, et omnes fluctus tuos induxisti super me.

[8] Longe fecisti notos meos a me, posuerunt me abominationem sibi. Traditus sum, et non egrediebar;

[9] oculi mei languerunt præ inopia. Clamavi ad te, Domine, tota die; expandi ad te manus meas.

[10] Numquid mortuis facies mirabilia? aut medici suscitabunt, et confitebuntur tibi?

[11] Numquid narrabit aliquis in sepulchro misericordiam tuam, et veritatem tuam in perditione?

[12] Numquid cognoscentur in tenebris mirabilia tua? et justitia tua in terra oblivionis?

[13] Et ego ad te, Domine, clamavi, et mane oratio mea præveniet te.

[14] Ut quid, Domine, repellis orationem meam, avertis faciem tuam a me?

[15] Pauper sum ego, et in laboribus a juventute mea; exaltatus autem, humiliatus sum et conturbatus.

[16] In me transierunt iræ tuæ, et terrores tui conturbaverunt me:

[17] circumdederunt me sicut aqua tota die; circumdederunt me simul.

[18] Elongasti a me amicum et proximum, et notos meos a miseria.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXXVII

Orazione di un uomo afflitto abbandonato dagli amici, e da’ prossimi. Conviene a Cristo.

Cantico, ovvero salmo a figliuoli di Core: per la fine: sul Maeleth: da cantarsi alternativamente. Istruzione dì Heman Ezraita.

1. Signore, Dio di mia salute, di giorno e di notte alzai le mie grida dinanzi a te.

2. Giunga al tuo cospetto la mia orazione, porgi le tue orecchio alla mia preghiera.

3. Imperocché l’anima mia è ripiena di mali, e la mia vita si avvicina al sepolcro.  

4. Sono riputato come un di quelli che scendono nella fossa, son divenuto come uomo senza soccorso, io che tra i morti son libero.

5. Come gli uccisi che dormono nei sepolcri, dei quali tu non hai più memoria, ed essi sono esclusi dalla tua cura.

6. Mi posero in una fossa profonda, in luoghi tenebrosi, e nell’ombra di morte.

7. Sopra di me si aggravò il tuo furore, e tutte le tue procelle scaricasti contro di me.

8. Allontanasti da me i miei conoscenti: mi riputaron come oggetto di abominazione.

9. Fui dato in potere altrui, ed io non avea scampo; gli occhi miei si seccarono per l’afflizione.

10. Alzai a te tutto dì le mia grida, o Signore, verso di te io stendo le mani mie.

11. Farai tu miracoli a pro dei morti? E i medici rendono loro la vita?  Perch’essi a te dieno lode?

12. Vi sarà egli forse chi nel sepolcro racconti la tua misericordia, e la tua verità nell’inferno?

13. Nelle tenebre si conoscono forse i tuoi prodigi, la tua giustizia nel paese dell’oblio?

13. Saran’elleno conosciute nelle tenebre le tue meraviglie, e la tua giustizia nella terra della dimenticanza?

14. Ma io alzai a te le grida, o Signore , e la mia orazione al mattino ti preverrà.

15. E perché, o Signore, rigetti tu la mia orazione, e rivolgi da me la tua faccia?

16. Povero son io, e in affanni fin dalla mia prima età: cresciuto poi fui umiliato, e depresso.

17. I tuoi sdegni son caduti sopra di me: e i terrori tuoi mi conturbano.

18. Tutto dì com’acqua mi inondano: tutt’insieme mi hanno sommerso.

Sommario analitico

Il Profeta, organo del Salvatore nella sua passione e sulla croce, allontanato da ogni giusto, carico di sofferenze, meno simile ad un vivente che ad un morto, effonde la sua anima davanti a Dio:

I. Descrive i tormenti della sua passione:

1° Eleva la sua anima a Dio, – a) nella speranza, indirizzandosi a Dio, della sua salvezza (1); – b) con la carità, desiderando che la sua preghiera entri alla presenza di Dio; – c) con l’umiltà, pregandolo di inclinare la sua maestà verso la sua miseria (2).

2° Enumera le sue sofferenze: – a) prima della croce: 1) la sua anima è stata ripiena di mali nell’orto degli ulivi; 2) il suo corpo, coperto di piaghe e di ferite da Caifa, Pilato ed Erode, è stato vicino alla morte (3); – b) sulla croce, 1) è stato posto dai sui nemici al rango degli scellerati; 2) è stato abbandonato e lasciato senza soccorso dai suoi amici (4); – c) nella tomba 1) è stato libero per la sua divinità tra i morti; 2) nella sua umanità, è stato come coloro che sono colpiti a morte e dormono nei sepolcri, abbandonati da Dio (5); – d) nel limbo, 1) Egli è disceso in questo lago e in questi luoghi tenebrosi coperti dall’ombra della morte (6); è stato in tutte queste circostanze, in balia della collera di Dio, ed oggetto di orrore per tutti i suoi amici ed i suoi vicini (7, 8).

II. – Chiede a Dio la sua resurrezione

1° Egli espone il modo in cui prega: con gli occhi, la voce, le sue mani tese.

2° Espone i motivi per i quali debba essere esaudito: – a) la gloria di Dio, 1) che non fa ordinariamente miracoli in favore dei morti (9); 2) che non è lodato da coloro che scendono nella tomba (10), 3) i cui divini attributi non sono né conosciuti, né lodati nel luogo della distruzione (11, 12); – b) la sua preghiera: 1) è fervente per cui innalza le sue grida verso Dio, 2) comincia con la sua passione (13), 3) è stata perseverante (14); – c) la sua miseria: 1) la miseria passata: a) è stato sempre privo di beni di fortuna; b) si è esercitato fin dall’infanzia nei lavori corporali; 2) la miseria presente: – a) è stato elevato sulla croce, – b) umiliato davanti ai suoi nemici, – c) turbato nel suo spirito (15), – d) agitato dalla tempesta (16, 17); – e) abbandonato dai suoi amici e dai suoi prossimi (18).  

Spiegazioni e Considerazioni

I. – 1-8.

ff. 1, 2. – Il salmista ci offre qui il modello di una fervente preghiera, testimonianza di una piena fiducia in Dio, che egli riconosce come Autore della sua salvezza; preghiera assidua e continua che non deve essere interrotta né di giorno né di notte quanto all’abitudine, al gusto, al desiderio di pregare. La preghiera è come un ambasciatore che noi inviamo a Dio a nome nostro. « Che la mia preghiera penetri fino a Voi. »

ff. 3-8. – Sull’esempio di Gesù-Cristo, i veri Cristiani sulla terra, sono sovraccarichi di mali e la loro vita è sempre vicino alla tomba. Oltre alle traversie che provano la santità,  oltre alle tempeste che eccitano le passioni, essi sentono che il loro soggiorno quaggiù è un esilio, e che devono sempre temere di essere esclusi per sempre dalla felice patria. Non c’è bisogno di prove per convincere un Cristiano che la sua vita è una morte continua. « Ah – esclamava Sant’Ambrogio – la nostra vita è tutta coperta di trappole: io ne vedo nel nostro corpo, nei nostri doveri, nella nostra scienza, nelle nostre passioni, in ciò che possediamo, in ciò che noi crediamo. Fuggiamo dunque da qui, aggiungeva, per passare dai malanni ai beni, dalle incertezze alla verità piena, dalla morte alla vita. » (Berthier). –  Quando commettiamo un peccato mortale, noi diamo talmente la nostra anima alla morte, ancorché Dio ci possa guarire, non di meno dal canto nostro rendiamo sia il nostro peccato che la nostra dannazione eterna, perché noi spegniamo la vita fino alla radice. Bisogna osservare ciò che fa il peccato, non ciò che fa l’Onnipotente. Chi rinuncia una volta a Dio, vi rinuncia eternamente, perché è la natura del peccato a fare, con quel che può, una separazione eterna. Ecco perché il Profeta-Re, ritenendosi in colpa, si considera come nell’inferno, a causa di questa spaventosa separazione: « Io sono – egli dice – annoverato tra coloro che discendono nella tomba; » e subito dopo: « essi mi hanno messo in un lago profondo, nelle tenebre e nell’ombra della morte. » –  E da lì viene che egli, nella sua penitenza, gridi: « Signore, io grido a voi da luoghi profondi; » e rendendo grazie per la sua liberazione continua: « Voi avete – egli dice – ritirato la mia anima dall’inferno inferiore. » Questo santo uomo aveva ben compreso che il peccato è un abisso ed una prigione, una profondità, un carcere, un inferno (Bossuet, Serm. Sur la gloire de Dieu). – Stato funesto è questo, ma troppo comune, nel quale, essendo stato ferito a morte dal peccato, si dorme piacevolmente nei sepolcri delle proprie cattive abitudini. –  Ed è allora che Dio non si ricorda più di questo peccatore, che lo rigetta dalla sua mano, che lo colma anche di una prosperità maledetta, e che gli dice queste parole spaventose: « Io ho giurato di non mettermi più in collera contro di voi. » (Duguet). – I morti, considerati come tali, dormono nel sepolcro: « Il Signore non se ne ricorda più, ed essi non sono più sotto la sua mano. Ma non è più così per le anime sante, per le anime amiche di Dio; perché se quelli sono morti allo sguardo degli uomini, « essi sono viventi per Dio, essi sono vivi sotto i suoi occhi e davanti a Lui; » ed ancora: « essi sono viventi per Lui ». Se essi hanno perso il rapporto che avevano con il loro corpo e con gli altri uomini, essi avevano un altro rapporto con Dio, che li ha fatti a sua immagine e per essere lodato. Questo rapporto non si perde; perché se il corpo si dissolve e non è più animato dall’anima, Dio, dal Quale l’anima è stata fatta e che porta la sua impronta, dimora sempre (Bossuet, Méd. D. Sem. XLI° j.). –  L’afflizione, fossa profonda è piena di tenebre e di oscurità. – La collera del Signore, nel linguaggio figurato della Scrittura, è un fuoco divoratore e  nello stesso tempo, un mare in tempesta. È nell’inferno che questo fuoco e questo mare dispiegano tutta la loro potenza, e non c’è risorsa contro questo giudizio senza misericordia. Non è da meno sulla terra: « Dio – dice Sant’Agostino – getta nella fornace la tribolazione, non per bruciare il vaso, ma per formarlo. » Egli ci inonda di flutti di tribolazione, non per sommergerci, ma per purificarci (Berthier). – Ogni genere di afflizione è annunciato in questi versetti: lontananza dagli amici e dai vicini, umiliazione profonda, privazione della libertà, gemiti continui, preghiere costanti e non esaudite. – Tale fu lo stato in cui si trovò Gesù-Cristo nella sua passione, e tale fu, sul suo esempio, la situazione di una moltitudine di Cristiani perseguitati, respinti ed abbandonati in qualche modo dal Signore stesso, che non darà loro nessuna consolazione esterna. Ma essi avevano Gesù-Cristo sotto gli occhi, e questo divino modello rendeva le sofferenze infinitamente preziose, la morte stessa sembrava loro deliziosa, perché sapevano che Gesù-Cristo aveva battuto questa strada che aveva come termine la corona meritata da Gesù-Cristo. « Bisogna – dice Sant’Ambrogio – che la morte lavori su di noi, affinché la vita consumi in noi l’opera di salvezza. » (Berthier). – L’abbandono degli amici, l’allontanamento dei prossimi, in mezzo a sì spaventose calamità, sono gli ultimi colpi che il Signore batte. La misura è colma e si resta ammirati come la testa non scoppi più, come la disperazione non si impossessi di una creatura così debole e così infelice. Una piena ed intera sottomissione alla volontà di Dio, proveniente dal fondo del cuore: non c’è altra risorsa! Si sono visti degli esempi di queste terribili prove prolungarsi fino agli ultimi giorni della vita, che sembravano raddoppiare di intensità; poi tutto ad un colpo, o bontà infinita, o saggezza adorabile, o impenetrabile provvidenza! … si vede risplendere la fede, rinascere la speranza, la riconoscenza più sentita illuminare il volto di questo eletto, infine liberato dalla sofferenza della vita (Rendu). 

II. — 9-17.

ff. 9-12. – Queste parole: « per i morti forse farete miracoli?» si applicano a coloro che erano talmente morti nel loro cuore e che i miracoli del Cristo non hanno potuto richiamare in vita. Così il Profeta non dice che i miracoli non siano stati fatti per essi, nel senso che essi non li hanno visti, non ne hanno approfittato. (S. Agost.). – Tuttavia è nei riguardi di questi morti spirituali che hanno perso la vita di grazia, che Dio fa i suoi miracoli più grandi, Egli impiega i suoi dottori, i pastori, i confessori, i predicatori per resuscitarli. Ma questi grandi dottori non possono resuscitare e guarire questi morti per virtù propria; benché i predicatori della parola siano eccellenti, con qualche miracolo che operano per insinuare la verità, nella maniera con cui trattano gli uomini i grandi medici, se questi uomini sono morti, la grazia di Dio può solo richiamarli in vita, perché possano ricevere da qualcuno dei suoi ministri le lezioni di salvezza (S. Agost.). – « Conoscerà le vostre meraviglie nelle tenebre e la vostra giustizia nella terra dell’oblio? Le tenebre significano lo stesso che la terra dell’oblio; perché gli infedeli sono designati con il termine di tenebre, ciò che fa dire all’Apostolo: « Voi un tempo eravate tenebre » (Efes. V, 8). Ugualmente la terra dell’oblio, è l’uomo che ha dimenticato Dio; perché l’anima infedele può spingersi nelle tenebre più oscure, per giungere alla follia di dire in se stessa: «Non c’è Dio. » (Ps. XIII, 1). Ecco dunque come stabilire la sequela ed il legame delle idee. « Io ho gridato a Voi, Signore, » in mezzo alle mie sofferenze; « tutto il giorno, io ho teso la mano a Voi, » cioè io non ho cessato di produrre le mie opere per glorificarvi. Perché dunque gli empi dilagano contro di me, se non perché Voi non farete miracoli per i morti? Vale a dire i miracoli non chiameranno alla fede ed i medici non resusciteranno, per glorificarvi, coloro che non sperimenteranno la segreta azione della vostra grazia, e che non saranno attirati da essa alla fede; perché nessuno può venire a me se Voi non lo attirate. Chi annunzierà in effetti la vostra misericordia nella tomba, cioè nell’anima dei morti? Chi annuncerà la vostra verità là dove si è periti, cioè in questo morto che non può né credere né sentire la misericordia, né la verità? In effetti, le vostre meraviglie e la vostra giustizia, saranno forse conosciute nelle tenebre di questa morte, cioè dall’uomo che ha perso, dimenticandovi, la luce della sua vita? (S. Agost.). Tutta la vita deve essere consacrata al servizio di Dio. Concludiamo da ciò che tutti coloro che abusano della vita per oltraggiare il Signore sono già morti. « Io vedo dei morti che ancora camminano – diceva Sant’Agostino – essi sembrano vivere, perché conversano con gli uomini; ma essi sono morti, perché Dio, che è la vita, si è separato dalla loro anima » (Berthier). –  L’occupazione degli uomini sulla terra deve essere pensare alla misericordia, alla verità, alle meraviglie ed alla giustizia di Dio. – Sarebbe sufficiente agli uomini affascinati dalle false gioie del mondo, pensare talvolta « alla terra di oblio », di cui parla il Profeta, per trovare ridicoli i desideri che agitano la loro anima. Accade a tutti i mondani l’essere dimenticati dopo la loro morte, e quando ci si ricordasse di essi, anche per vantare le loro qualità naturali o le loro grandi azioni, quale soddisfazione può questo dare loro? – Dormite il vostro sonno, ricchi della terra, e dimorate nella vostra polvere. Ah, se dopo qualche generazione, anzi dopo qualche anno voi ritornaste, uomini obliati, in mezzo al mondo, voi desiderereste rientrare nelle vostre tombe … per non vedere il vostro nome offuscato, la vostra memoria abolita, le vostre previsioni ingannate nei vostri amici, nelle vostre creature, o ancor più nei vostri eredi o nei vostri figli (Bossuet, Or. fun. de M. Le Tel.). – L’uomo giusto che muore deve contare anche sull’oblio di coloro che lascia ancora sulla terra, ma va in una regione dove non sarà più dimenticato (Berthier).

ff. 13, 14. – Quando Dio – dice S. Agostino – sembra rigettare la preghiera dei santi, è come un vento che respinge la fiamma e che illumina il fuoco sempre più: i rigori apparenti di Dio, inducono l’anima fedele a fare nuovi sforzi per avvicinarsi a Lui, per giungere a gustare le dolcezze della sua divina presenza. Non ci sono che i cuori toccati dalla bellezza di Dio che dicono, come il Profeta: Ah Signore, perché distogliete i vostri sguardi, perché rigettate la mia preghiera? Le anime che sono dedite al peccato o alla tiepidezza, sono insensibili all’allontanarsi di Dio, e quale miseria – esclamava ancora Sant’Agostino – essere lontano da Colui che è dappertutto. Ma come Colui che è dappertutto, si trova dunque lontano da noi? È – rispondeva il santo dottore – che ci manca il sentimento, è che noi siamo al suo sguardo come ciechi davanti al sole; questo astro spande dappertutto i suoi raggi, ma coloro che sono privi della vista, non ne profittano. Apriamo gli occhi della fede, lasciamoci illuminare dalla carità, e troveremo ben presto che Dio è vicino a noi. (Berthier).

ff. 15. – Queste parole – che convengono chiaramente a Gesù-Cristo – devono pure convenire ai suoi discepoli. La povertà ed i travagli devono essere la loro parte. Coloro che sono elevati alla qualità di figli di Dio e sono coeredi della gloria di suo Figlio, devono aspettarsi di avere parte alle sue umiliazioni ed alle sue sofferenze, poiché non si arriva all’elevazione se non con l’abbassarsi, ed alla pace sovrana se non con la guerra e le agitazioni. L’umiliazione non è mai più sensibile, né allo stesso tempo più necessaria, che quando essa segua ad una grande elevazione. (Duguet).

ff. 16, 17. –  Lo stato che dipinge qui il Profeta è molto doloroso, ma egli vi trova una consolazione, perché non ha parlato che di una collera di Dio « che passa », e non di quella di cui è scritto: « che dimora ». Che cos’è dunque questa collera i cui flutti sono passeggeri? Sono i mali di questa vita, è la rivolta involontaria delle passioni, è l’oscurità che si leva di tanto in tanto nell’anima di coloro che vogliono unirsi strettamente a Dio. Al contrario, la collera di Dio permanente è la riprovazione finale e definitiva; malanno senza risorse, castigo senza lenimento, vendetta di Dio senza misericordia (Berthier). –

ff. 18. – Ah! L’amicizia delle creature è ingannevole nelle sue apparenze, corrotta nelle sue adulazioni, amara nei suoi cambiamenti, travolgente nei suoi soccorsi in contro-tempo, e nei suoi inizi di costanza che rendono l’infedeltà più insopportabile. Gesù ha sofferto tutte le miserie, per farci odiare tanto i crimini che ci fa commettere l’amicizia degli uomini, con le nostre cieche compiacenze. Odiamoli, o Cristiani, questi crimini, e non abbiamo né amicizia, né fiducia di cui Dio non sia il motivo, di cui la carità non sia il principio. (Bossuet, III Serm. p. le Vendredi-Saint.) – Queste tribolazioni non hanno colpito solo la testa, esse si sono realizzate e si realizzano ancora nelle membra del Corpo di Cristo. E Dio volge il suo sguardo da coloro che Lo pregano, rifiutando di accordare loro ciò che vogliono, quando essi ignorano che l’oggetto della loro domanda non conviene loro. E la Chiesa è indigente quando, nel suo esilio, ha fame e sete di ciò che la sazierà in patria. Essa è nelle sofferenze fin dalla giovinezza; perché il Corpo stesso di Cristo dice in un altro salmo: « Essi mi hanno spesso attaccato fin dalla mia gioventù. » (Ps. CXXVIII, 1). Qualcuno dei suoi membri si sono elevati in questo mondo, ma affinché la loro umiltà divenga più profonda. E la collera di Dio scuota la debolezza dei fedeli, perché la prudenza tema tutto ciò che può arrivare, benché non sempre arrivi il dolore. E talvolta questi terrori turbano così fortemente lo spirito di colui che esamina i mali sospesi attorno a lui, che sembrano circondare da ogni lato come torrenti colui che è nel terrore e coinvolgerlo tutti insieme. E poiché i dolori non mancano mai alla Chiesa, pellegrina in questo mondo, ma le arrivano incessantemente, tanto in taluni dei suoi membri e tanto in altri, il Profeta dice: « … tutto il giorno, » volendo così esprimere la continuità del tempo fino alla fine del mondo. E spesso il terrore è causa che i santi siano abbandonati dai loro amici e dai loro prossimi, a motivo del pericolo che essi andrebbero a correre. Ma perché tutte queste tribolazioni, se non perché la preghiera di questo santo Corpo pervenga al Signore dal mattino, cioè alla luce della fede, all’uscire dalla note dell’incredulità, finché venga la salvezza che ci è già data, non ancora in realtà, ma in speranza, e che noi aspettiamo con pazienza? (Rom. VIII, 24). Quando noi vi saremo arrivati, il Signore non respingerà la nostra preghiera, perché allora non avremo più nulla da chiedere, ma da ottenere tutto quello che avremo convenientemente chiesto; Egli non volgerà da noi il suo sguardo, perché Lo vedremo così com’è (1 Giov. III, 2); noi non saremo più nell’indigenza, perché la nostra ricchezza sarà Dio stesso, tutto in tutti (I Cor. XV, 27); noi non soffriremo, perché non ci assalirà alcuna infermità; dopo essere stati elevati, non saremo né abbassati né turbati, perché in cielo non c’è più avversità; noi non dovremo più sostenere il peso della collera di Dio, anche passeggera, perché dimoreremo nella sua dolcezza permanente; i suoi terrori non ci scuotono più, perché il compiersi delle sue promesse ci renderà felici, e il terrore non allontanerà né amici, né prossimi, perché là non ci sarà più alcun nemico da temere (S. Agost.).  

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 3° Corso di Esercizi Spirituali (9)

S. S. GREGORIO XVII:IL MAGISTERO IMPEDITO:

III CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI (9)

[G. Siri: Esercizi Spirituali; Ed. Pro Civitate Christiana – Assisi, 1962]

IL NOSTRO ITINERARIO CON GESÙ CRISTO

9. Il Sacramento permanente.

Dal Sacrificio della Messa ha origine il sacramento permanente, la reale presenza di Gesù Cristo sotto le apparenze del pane e del vino. Cominciamo un po’ a discorrere di questa reale presenza per cercare di incidere delle linee precise e vere nella nostra vita. Mi pare che debba essere indiscutibile il fatto che, essendo Gesù Cristo rimasto con noi in tutti i tempi, sempre cioè e ovunque, quel fatto debba diventare caratteristico per la guida, la impostazione, la conformazione, la definizione, il tratteggio e persino le sfumature della nostra vita. Questo è lo scopo per cui ne parlo. Non si può ammettere che il Figlio di Dio fatto uomo, entrato nel nostro piccolo ordine per amore e rimasto qui sacramentalmente, sia un turista in incognito, che la sua divina presenza sia una cosa secondaria o una cosa di facile e libera elezione della quale si può fare a meno o della quale si può fare uso. No. Perché, che sia venuti per amore, che sia rimasto tra noi in un’umiltà che supera di molto quella della capanna di Betlemme non toglie che Egli sia il Verbo, il Figlio di Dio, ossia Dio, il Creatore. E pertanto se l’amore in tutto questo fatto, appare tutto avvolgere e caratterizzare, e può spingere noi ad una fiducia infinita, il fatto che si tratta di Dio deve mettere alla nostra intelligenza e alla nostra volontà dei termini di assoluto rigore. – Parliamo dunque della presenza reale di Nostro Signore Gesù Cristo nell’Eucaristia. Ecco due rilievi fondamentali dai quali bisogna partire e coi quali cominceremo insieme una digressione storica, che è utile però all’anima nostra e capirete il perché. – Primo rilievo: Gesù Cristo è presente tutto, è Lui, realmente, Corpo, Sangue, Anima e Divinità. È lo stesso che è in cielo, è lo stesso che è in quello che noi chiamiamo cielo, perché cielo indica piuttosto uno stato, un ordine; non indica certo uno strato atmosferico. È lo stesso, è Lui e basta. Siccome non sarebbe Lui se gli mancasse qualche cosa, tutto quello che è di Lui e che è Lui e per cui Lui è Lui, questo c’è. Quindi nell’Eucaristia non è presente spiritualmente come qualche volta, con gran pompa, si dice nelle commemorazioni degli uomini: Qui è presente lo spirito di Garibaldi. Gesù Cristo non è presente spiritualmente. Non si riesce a capire che cosa volesse dire il povero Berengario quando diceva che era presente spiritualmente. Dire che uno è presente spiritualmente, è dire che ci è presente con la memoria sua, se l’ha, oppure dire che ce lo mettiamo noi, con la nostra, se l’abbiamo; è una cosa sfuggente non solo dalle mani, ma dalle stesse capacità intellettuali. Gesù Cristo non è presente solo spiritualmente, per carità! E tanto meno è presente, come ha detto qualcuno, virtualmente, cioè perché c’è una virtus. Io posso capire che si dica che la virtus della centrale elettrica che dà la forza a tutta l’Umbria è anche qui; infatti se vado a toccare un filo, prendo la scossa. Ma la virtus è un’altra faccenda. No, è Lui. E basta. Che stiamo a fare tutti questi discorsi? L’ha detto Lui. Il testo grande dell’Eucaristia rimane sempre il capitolo VI di S. Giovanni. Egli non ha detto soltanto: « mangiare la mia carne e bere il mio sangue » a quei poveri sprovveduti che stavano a sentire e che avevano dato la interpretazione cosiddetta cafarnaitica, e che sono rimasti celebri per aver trovato proprio la interpretazione cafarnaitica, che è come dire cannibalesca, e stavano comprendendo male. E quando hanno fatto capire esternamente, Lui lo sapeva, che capivano male, allora ha precisato e ha detto: « Mangiate me ». – Passiamo al secondo rilievo. Gesù Cristo è presente sacramentalmente. Veramente, realmente presente. Sacramentalmente. Che cosa vuol dire sacramentalmente? Vuol dire che la presenza, la non distanza (presenza vuol dire non-distanza) è ottenuta attraverso le specie sacramentali. Perché io sono presente qui? Che cos’è che mi fa presente qui in questo momento? Per un semplice motivo: perché ho una superficie estensa, cioè sono quantitativo. La estensione è un succedaneo della quantità. E allora la superficie estensa che mette parte fuori di parte viene a combaciare con la superficie di questo corpo ambiente e il combaciamento della superficie mia con la superficie appartenente a questo corpo ambiente mi colloca qui. In altri termini il fatto della presenza locale, in loco, in ambiente, è data dal combaciamento di due superfici. È data perché esiste quindi un combaciamento di una estensione con un’altra estensione. Se manca una estensione, manca il mezzo per poter avere la presenza locale. La presenza sacramentale, che è reale, è vera, come è ottenuta da Gesù Cristo in questo punto? Perché il combaciamento non è ottenuto dalla superficie sua coartata a questo ambiente, ma il servizio glielo rendono la superficie del pane e del vino, che non ci sono più dopo la consacrazione, ma la cui superficie, cioè i cui elementi accidentali rimangono dopo la consacrazione. Ecco che cosa significa « sacramentalmente ». Si tratta quindi di presenza che è reale, di presenza che è fisica. La differenza sta in questo: che la presenza reale, invece di essere ottenuta mediante la quantità propria, è ottenuta mediante la quantità del pane e del vino che sono stati transustanziati. Ora facciamo il nostro excursus storico. Potrete avere l’impressione che ora faccia una lezione invece di una predica di Esercizi Spirituali. Può anche essere che essa abbia veramente l’aspetto di una lezione; ma occorre, perché l’effetto spirituale, questa volta, deve passare attraverso l’intelletto. È veramente un mysterium fidei, questo. Già ve ne ho parlato; e vi ho parlato anche della fede e del medio, quindi il discorso è introdotto. Ma quando ci si pensa un po’, se non si è studiato molto, si capisce che quelli che a Cafarnao hanno tenuto quel contegno così scorretto con Gesù Cristo, che hanno mormorato, sono intervenuti, hanno zittito, hanno fatto gesti di disapprovazione, se ne sono andati rumorosamente sbattendo le porte ecc. hanno fatto male. Perché hanno fatto male? Perché si sono dimenticati che poco prima Gesù aveva moltiplicato i pani e i pesci e che per via dei pani e dei pesci avrebbero potuto dire: « Non capiamo niente, come S. Pietro, ma se lo dice Lui, dato il fatto dei pani e dei pesci moltiplicati, deve essere così ». Questa è la logica. Hanno fatto male perché hanno dimenticato i pani e i pesci e tante altre cose che certamente avranno viste operate da Gesù, per cui avevano una documentazione in mano che li poteva rendere bene edotti del valore delle parole dette da Nostro Signore, anche se per loro incomprensibili. Ma se non vi fossero stati i pani e i pesci e tutto ciò che rassomiglia al fatto dei pani e dei pesci, non avrebbero avuto torto del tutto. Perché… è un bel mistero da accettare, questo. Non è una cosa facile. Ora che Gesù Cristo è risuscitato da morte e ha dato prova di sé stesso, allora si può accettare, anzi si deve accettare, e abbiamo razionalmente e pienamente i motivi per accettare tutto quello che ha detto; e tutto quello che poi Egli ha disteso per il mondo e tutto quello di cui è animata la storia diventa l’attestazione di Lui. Ma la cosa era difficile. Quello che commuove è questo: che nella prima età hanno adorato, hanno creduto e per tanto tempo senza capire niente. Senza capire niente. Come l’Eucaristia la vivessero e la sentissero, noi lo riscontriamo dai documenti del I secolo. Guardate bene il racconto che fa S. Paolo nella prima Lettera ai Corinti. Lo racconta, ma ripete una cosa che tutti sanno, la celebrazione eucaristica. E la ritroviamo anche quando Paolo è a Troade (Atti cap. XX). È l’ultimo giorno della settimana, la vigilia della domenica, e passano la notte in preghiera e in catechesi. Fu la volta famosa in cui fece un discorso talmente lungo che, anche lui fece addormentare, e un ragazzo per essersi addormentato cadde dalla finestra, e lui poi lo ha risuscitato; e all’alba noi abbiamo la « fractio panis ». Per due secoli il nome più comune della Messa fu « fractio panis ». Noi vediamo la celebrazione eucaristica dappertutto nell’epoca apostolica. Ed è commovente tutto questo. Il primo documenta della letteratura apostolica, redatto in Antiochia mentre vivono ancora alcuni degli Apostoli, la Didaché, riporta tutta la celebrazione, tutta la dottrina, lo schema della Messa — lo schema generale è quello di oggi — e l’adorazione eucaristica è il centro della Didaché. Notate che la Didaché aveva lo scopo di essere come un piccolo catechismo riassuntivo per le chiese della Siria e dell’Oriente. La Messa al centro! Siamo al I secolo. Non dimenticatevi che Antiochia fu per 7 anni la sede del Papa, perché Pietro fu vescovo di Antiochia, è Pietro che ha aperto la sede di Antiochia, poi l’ha lasciata e ha portato la sede a Roma. È commovente: questi secoli che hanno adorato, amato, creduto, così, comprendendo poco o niente, sapendo solo che lì c’era il Signore, che il pane e il vino non c’erano più, perché lo dicono: questo non è più il pane e il vino. Quel vescovo di Gerapoli, nella Frigia, alla fine del I secolo, Abercio, discepolo di scuola apostolica, che si fa la tomba e nella tomba scrive non le date e tanto meno i propri elogi, ma scrive quello che ha animato la sua vita, l’ideale della sua vita. E gli ideali sono due. Notate bene, siamo a Gerapoli nella Frigia. La stele è stata donata a Leone XIII dal califfo di Costantinopoli in occasione del suo giubileo e oggi sta al Museo Lateranense. E questo Vescovo del I secolo, discepolo degli Apostoli, ha due idee in testa e le mette nella sua pietra tombale: la prima è l’Eucaristia, la seconda è Roma che tiene il sacro impero del mondo. Non Roma imperiale, no, non quella dei consoli, l’altra, quella che tiene il sigillo di Cristo e col sigillo di Cristo tiene l’impero del mondo ossia il primato di Pietro. Il lavoro per rendere accessibile, dove è possibile, il mistero eucaristico è cominciato al II secolo, perché nell’epoca degli Apologeti di cui rimangono le opere noi vediamo già il lavoro di approfondimento, di indagine, cioè il lavoro di penetrazione intellettuale del mistero creduto, adorato e amato. E quel lavoro, per poter arrivare a una certa chiarezza — non a risolvere il mistero, nessuno può pretendere che i misteri divini si risolvano, ma si può chiedere che vengano portati a una certa intelligenza e anche alla risoluzione di talune difficoltà — è durato mille anni. E per mille anni tutto questo popolo si è salvato sempre attorno alla Messa, all’Eucaristia. Ha creduto, ha amato, ha adorato. Vi prego di tener presente che per diversi secoli, i secoli di ferro, la predicazione è stata minima, anche per il decadimento dell’istruzione, e a un certo momento anche per il decadimento del clero. E per secoli il popolo ha ricevuto tutto dalla Messa, che era insieme il Sacrificio, che portava il Sacramento, che raccoglieva la vita e che dava la catechesi, cioè la istruzione con quello che nella Messa si faceva e nella Messa si leggeva. Notate che nel secolo X si poteva ritenere la catechesi pressoché morta, salvo che nei monasteri. Le ultime conseguenze del grande cataclisma barbarico, lo sfilacciamento della vita sociale, la mancanza delle scuole. Ma la Messa e tutta l’ufficiatura intorno alla Messa resiste, e quella, si può dire, pressoché da sola ha vinto. Guardate se non si sente storicamente la irradiazione dell’Eucaristia, la si tocca con mano. – E intanto gli altri, i pochi, continuavano a studiare. Mille anni. Ci sono stati dei momenti di diatribe e zuffe accesissime come tra chi vuol entrare per primo nella cella del tesoro. E una zuffa furiosa successe nel secolo IX: Rabano Mauro da una parte, Pascasio dall’altra, Scoto Errugesa in mezzo. Han detto anche degli strafalcioni, nel cercare, nel voler spiegare delle verità nel voler salire; si sono strappati tutti gli abiti come accade quando si hanno i camici lunghi. Poi, a qualcuno è arrivata una legnata sulla testa: un Concilio che ha condannato uno, che ha tirato su l’altro. Poi si è fatto silenzio. Ma era rimasto il fermento della ricerca. E forse il fermento della maggiore ricerca l’ha aiutato un eresiarca dell’XI secolo: Berengario, che ha negato la transustanziazione. Fu  eresiarca più per superbia che per altro. Disse e disdisse un sacco di volte e pare che sia morto bene in un’isola della Loira nel 1099. La figura che ha fatto è stata poco buona, però la funzione di questo eresiarca è stata quella di riagitare veramente tutti. Si sono mossi tutti in seguito a Berengario. A parte i legati papali che di tanto in tanto gli han dato qualche bastonata in testa, soprattutto Ildebrando, colui che sarebbe diventato poi uno dei più grandi uomini della storia: S. Gregorio VII. Ma si misero in moto tutti. Quelli dell’Abbazia di Le Bec, che era il centro in quel momento, per opera di Lanfranco e poi di Anselmo d’Aosta, forse il più grande di Normandia. E allora botte e risposte di ribelli contro ribelli, succede una zuffa che se ne riempie il secolo XI, mentre Enrico IV sta a litigare, mentre Gregorio VII depone tutti i vescovi simoniaci, i concubinari e addirittura dà licenza al popolo di cacciare via i propri vescovi che non fossero stati secondo Dio. Mentre succedono tutte queste cose, là si azzuffano; Berengario condannato in un sinodo in Francia, a Piacenza, a Roma. Vedete com’è la storia? Intanto si rianima lo studio, l’ultimo grande sforzo di ricerca. Viene poi la scuola dei Vittorini, nella celebre Abbazia di S. Vittore, e si arriva ad Alberto Magno. Gli elementi indigesti e forse per allora indigeribili sono raccolti. Si arriva a S. Tommaso d’Aquino. Guardate che su questo punto il mondo si è fermato, a S. Tommaso d’Aquino, e nessuno l’ha mai sorpassato. In questo, come in altri punti del resto, è una di quelle rupi che le alluvioni non possono portare via, una delle poche rupi che resistono alle alluvioni. Si è arrivati a S. Tommaso d’Aquino. Poi si è continuato in parte allo stesso modo, perché non è detto che S. Tommaso l’abbiano studiato tutti e l’abbiano capito, non è cosa tanto facile. Eppure si va avanti. Guardate che cosa si muove quando ci sono dei Congressi Eucaristici. Il mondo si ferma, si direbbe. Che cosa è successo a Monaco in quella Germania che vide la bestemmia di Lutero e dei suoi seguaci contro l’Eucaristia? Si è arrivati a Tommaso d’Aquino. Permettete che vi dia un brevissimo riassunto, ridotto al midollo, di questo grande iter intellettuale per cercare di capire la verità dell’Eucaristia. E non dico questo per cambiare una predica in una lezione, ma perché sono convinto che la predica qui viene soltanto attraverso l’intelletto che vede. Il fondamento di tutto sta nella distinzione tra la sostanza delle cose materiali e gli accidenti delle cose materiali, soprattutto nella distinzione che è obiettiva tra la sostanza e la quantità: i due grandi attori in questa vicenda. Sostanza e quantità sono due cose diverse, tanto è vero che si può mutare l’una senza mutare l’altra. Se mutando l’una non muta l’altra, vuol dire che sono diverse. Allora due ordini connotano questi due elementi, che noi non possiamo separare, ma che, essendo obiettivamente diversi, Dio può separare, perché non esiste contraddizione nella cosa e pertanto entra nella possibilità di Dio. Questi due elementi connotano due ordini completamente diversi: l’ordine e il comportamento delle sostanze, l’ordine e il comportamento delle quantità. A noi sembra facile dire questo. Già, ma sono stati necessari mille anni. Allora, come viene presente Gesù Cristo? Transustanziazione. È la conversione della sostanza del pane nella sostanza del Corpo di Cristo. Il punto caratteristico è che qui è solo la sostanza che si converte nel Corpo di Gesù Cristo, e pertanto tutto avviene secondo l’ordine delle sostanze e niente avviene secondo l’ordine delle quantità. Come si comporta il mondo delle sostanze da solo, senza quantità? Si comporta rinnegando tutte quelle caratteristiche che sono proprie dell’ordine della quantità: la distanza, la moltiplicazione, la divisione, la passibilità di fronte agli agenti esterni che suppongono la superficie estensa per ricevere la passione. Qui la questione delle distanze non esiste più, la questione della moltiplicazione non esiste più, la questione della divisione non esiste più, la questione della passibilità non esiste più. Ecco perché è lo stesso Gesù che è in cielo, lo stesso, non un duplicato, ecco perché è qui e in tutto il mondo, perché la vicenda avviene secondo il modo proprio delle sostanze e non secondo il modo proprio delle quantità. E allora che cos’è che lo rende presente qui? La sostanza che s’è convertita nella sostanza, e pertanto non c’è stato alcun moto locale ma moto soltanto ontologico, lascia lì, sostentati direttamente dalla onnipotenza di Dio, gli accidenti, cioè la quantità del pane e del vino; e gli accidenti del pane e del vino, sostentati tutti dalla quantità, che è il primo degli accidenti della materia, rendono al Corpo di Gesù Cristo, nel quale il pane è stato convertito, lo stesso servizio che rendevano alla sostanza del pane. Si è moltiplicato il legame, danno a lui il legame con l’ambiente esterno che crea la presenza locale. Moltiplicati i legami, si moltiplicano le presenze; non si moltiplica Gesù Cristo. Vi ho riassunto in poche parole il lavoro che è stato elaborato attraverso mille anni. È ovvio che per spiegarsi meglio occorrerebbe lungo tempo. Ma ho voluto farvene il riassunto perché io sto parlando di questo fatto, di questo mondo cristiano che è sempre vissuto intorno all’Eucaristia e ha creduto, ha amato, ha adorato perché aveva la fede anche prima che potessero arrivare quelle penetrazioni che, se non rivelano il mistero, danno quiete all’intelletto, e che sono arrivate a dimostrare come nella Eucaristia non ci sono molti miracoli, come talvolta si sente dire, ce n’è uno solo, che è la conversione della sostanza in sostanza, con tutte le sue conseguenze, cioè la transustanziazione. E tutto diventa di una semplicità straordinaria, e tutte quelle cose che potevano sembrare accettabili solo con una deglutizione molto difficile, pur rimanendo il mistero, diventano di una deglutizione facile. E così hanno continuato ad adorare. La sentite allora la irradiazione divina che c’è stata, senza spettacolarità, perché è come l’aria che agisce anche se non la vediamo. È come la luce del sole che pare dia soltanto di vedere le cose perché prendano forma e colore e invece produce infinite altre cose. Come la luce del sole, che dappertutto crea la vita perché la funzione clorofilliana cambia l’energia contenuta nella luce del sole in materia. E questo spiega perché tanta erba e tanti muschi riescano ad andare avanti anche dove c’è così poca terra e così poco umore. Allora noi sentiamo la storia della Chiesa, la storia di tutte le cose che sono state pure, efficienti, vittoriose, che hanno concluso qualche cosa nella Chiesa; la sentiamo tutta intrisa di questa reale presenza di Nostro Signore Gesù Cristo, che dell’ordine naturale non ha sconvolto niente. Perché la cosa stupenda è che non si sconvolge niente. Se fosse sottratto qualche cosa al nostro cosmo, si potrebbe avere uno squilibrio universale, ma siccome nel cosmo tutto è quantitativo e tutto avviene attraverso l’accidens quantitatis — la quantità del pane rimane — non si scombina niente nel nostro cosmo, la quantità rimane: è tutto a posto. Questa presenza silenziosa di una divina dinamica, questa presenza modesta, come sono modeste le apparenze del pane, ma che è incredibilmente irradiante e attiva. E che cosa dobbiamo noi, nella nostra vita, all’Eucaristia, anche se non ci siamo accorti, anche se non abbiamo sentito, anche se la nostra fede è stata o dormiente od opaca e non ha lasciato filtrare, perché era debole? Anche se noi non ci siamo accorti, che cosa mai è entrato in noi di questa divina presenza? Sentite dove sta l’anima vivente della Chiesa in terra e dove sta la robustezza di tutte le costruzioni e di tutte le cose che si fanno? Il sole è lì, e tutto quello che verdeggia, verdeggia perché prende da questo sole, la divina presenza. – Ora veniamo alle conseguenze della presenza, perché, se ci siamo fermati sulla storia, è stato per lasciarci edificare e per costatare che, ad onta del mysterium fidei, dell’arduità del mistero, della tardività con la quale si è potuti arrivare a talune spiegazioni teologiche che potevano quietare meglio l’intelletto, la fede è stata piena ed è stata operante e concludente e ha rappresentato il passaggio di età in età e ha fatto il legame dei secoli come ha fatto il legame degli atti nelle singole anime e come ha legato le anime alla loro eterna salute. – Prima conseguenza di questa presenza di Nostro Signore Gesù Cristo nel Sacramento è, direi, la sentite? è la consacrazione dell’ambiente in cui noi viviamo. È una realtà che dobbiamo custodire nell’anima nostra: la consacrazione dell’ambiente in cui viviamo. Guardate in Assisi, contate quante chiese e cappelle ci sono, con la presenza reale. Pensate a quella irradiazione che, essendo senza rumore, come quella del sole, avviene. Dite se noi non abbiamo la sensazione di muoverci in un ambiente che non perderà mai qualche cosa di sacro! Qualunque paese: il suo campanile, la chiesa, il tabernacolo, una lampada, e nel tabernacolo c’è Gesù Cristo. È l’ambiente che lo sentirà. Vedete, noi viviamo in un ambiente che ha una certa universale consacrazione, ed è per questo che noi, che abbiamo la fede, che la dobbiamo avere piena, che dobbiamo servire Gesù Cristo ed essere con Lui, camminare con Lui, dobbiamo in tutta la vita mantenere una tonalità di elevatezza in tutto, di educazione, di spiritualità, come se tutta la vita fosse una divina liturgia. Non è possibile ragionare diversamente, quando si pensa che il mondo è punteggiato dappertutto di essa, della reale presenza di Nostro Signore Gesù Cristo. Non è possibile pensare in altro modo. E avere profondo il concetto di questa sacralità di tutte le cose, perché noi possiamo fare le cose più laiche che vogliamo, le cose più civili, civili in quanto si oppongono ad ecclesiastiche, cose laiche o profane in quanto si oppongono a sacre, ma questo mondo ha una consacrazione generale universale da questa divina presenza. – C’è un particolare nella spiegazione teologica, di S. Tommaso d’Aquino, della presenza reale. La passività, cioè il ricevere l’azione ab exstrinseco, è possibile, fisicamente parlando, unicamente attraverso l’accidens quantitatis. Solo attraverso l’accidens quantitatis possono agire gli agenti fisici. La trasmissione pertanto delle azioni ab exstrinseco è fatta soltanto dall’accidens quantitatis, trasmissione che può incidere sulla sostanza. Ma attenti bene. Nel caso della presenza reale, è l’accidens quantitatis, che non è proprio, che fa la presenza e pertanto collega con l’ambiente — e abbiamo la presenza fisica — ma non trasmette l’azione dell’ambiente. E pertanto il buon Dio può anche permettere che in certe sedute massoniche si oltraggi l’Eucaristia. Non c’è bisogno che mandi scintille e li folgori tutti. No. L’azione si arresta alle apparenze, alle specie, non può andare oltre. È per questo che quando si spezza l’Ostia non si spezza Gesù Cristo, si spezzano le apparenze. È l’accidens quantitatis che viene diviso. E allora nell’uno e nell’altro frammento è realmente presente Gesù Cristo. Ho sentito dire qualche volta: « Ma Dio dovrebbe fulminare subito quelli che fanno sacrilegi, che gettano via le sacre specie! ». Sì, lo può anche fare, non è detto che qualche volta non l’abbia fatto, ma così, a titolo di saggio. Non è necessario, affatto, perché c’è il mistero stesso che provvede: le azioni passive si ricevono soltanto attraverso l’accidens quantitatis quando è proprio. Qui 1′accidens quantitatis, quello che dà la indistanza, cioè che dà la colleganza con l’ambiente, ossia che lo rende localmente presente nell’ambiente, non è l’accidens quantitatis proprio di Gesù Cristo. Vedete, l’ambiente rimane sacro anche se il mondo ha tanti aspetti cattivi. Ah, noi non sappiamo che cosa succede in tante anime proprio per la irradiazione dell’Eucaristia! Non lo sappiamo. Come non sappiamo quando queste irradiazioni si condensino per dare un effetto tangibile e conclusivo. Noi non sappiamo e non possiamo mai dire di uno che è morto senza Sacramenti: « è dannato ». No, poiché non sappiamo che cosa accade al margine in cui noi non vediamo. Dio ci ha nascosto tante cose affinché la nostra vita rimanesse comune e ordinaria e la prova dell’esistenza mantenesse tutto il suo valore. Ma noi tante cose le possiamo intuire. Naturalmente, dal punto di vista giuridico, la Chiesa nega la sepoltura ecclesiastica a chi ha rifiutato i Sacramenti e ha fatto un atto decisamente contrario. Ma, e chi ve lo dice che dopo averli rifiutati non sia accaduto dell’altro? E che la coagulazione di tutte queste irradiazioni divine avvenga anche dopo quel rifiuto? Chi ve lo dice? C’è stata una causa di beatificazione che è stata interrotta per questo. Il servo di Dio, del quale si trattava, aveva una volta assistito un condannato a morte ghigliottinato. Non era riuscito a convertirlo, fino all’ultimo ha avuto la ripulsa. Addolorato, atterrito da questo, ebbe un impeto di zelo. Quando cadde la testa, la prese per i capelli, l’alzò e poi disse: « Questa è la testa di un dannato ». La Chiesa ha sospeso il processo. Così mi è stato raccontato. – L’Eucaristia non vediamola confinata soltanto in un tabernacolo; sentiamo che la presenza di un tabernacolo consacra l’ambiente e sappia ricordarcelo non solo per educazione, non solo per lo splendore del culto, non solo per lo splendore della divina liturgia, ma per trasformare tutta la vita in una divina liturgia.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 3° Corso di Esercizi Spirituali (8)

S. S. GREGORIO XVII:IL MAGISTERO IMPEDITO:

III CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI (8)

[G. Siri: Esercizi Spirituali; Ed. Pro Civitate Christiana – Assisi, 1962]

IL NOSTRO ITINERARIO CON GESÙ’ CRISTO

8. La S. Messa

Discorriamo della S. Messa. Veniamo così più direttamente al tema eucaristico. L’Eucaristia nasce nel Sacrificio e dal Sacrificio. Notate che questa è una affermazione importante. E perché? Perché la presenza reale di Nostro Signore sotto le apparenze del pane e del vino si attua nel momento in cui si offre il Sacrificio. La consacrazione costituisce il Sacrificio, perché la Messa è un sacrificio. Perché il mistero eucaristico della consacrazione e di quanto vi è connesso è un sacrificio? Perché Gesù Cristo consacrando nell’Ultima Cena ha usato parole sacrificali, indicative del Sacrificio. Perché S. Paolo, ripetendo la narrazione dell’istituzione nel cap. XI della prima Lettera ai Corinti, ha usato parole che indicano il Sacrificio. Perché la divina Tradizione, fin dall’inizio, come ne fanno fede i testi che arrivano fino all’età apostolica, ha ritenuto sempre Sacrificio la S. Messa. È un sacrificio. Questo vuole dire che, siccome è in quel momento che Gesù Cristo diventa presente, quando si offre e si consuma il santo Sacrificio, l’Eucaristia nasce dal Sacrificio. Questo basti a farvi intendere che non si può separare assolutamente, mai, l’Eucaristia dal carattere sacrificale. – Ecco perché la più perfetta orazione che sia stata mai scritta a proposito dell’ Eucaristia — fu scritta da S. Tommaso d’Aquino, e ritengo non ci possano più essere dubbi oggi — è l’orazione che si canta sempre dopo il Tantum Ergo prima della Benedizione col SS. Sacramento: « Deus, qui nobis sub sacramento mirabili passionis tuæ memoriam reliquisti…», il che basta a stabilire che per ragione nativa, originaria, costitutiva, l’Eucaristia parla e parlerà sempre del Sacrificio della croce. Come si attua questo Sacrificio? Che lo è, è una verità di fede, il come appartiene alla spiegazione teologica. A noi interessa che lo è, il come è cosa secondaria. Tuttavia possiamo dirne qualche cosa. Tenendo conto del fatto che è un Sacrificio rappresentativo e commemorativo della croce, come ha detto Gesù stesso al momento della istituzione, quindi tenuto conto che vi deve essere un rapporto tra quello che si vede esternamente e quello che fu il Sacrificio della croce, la migliore spiegazione teologica parrebbe quella di ritenere che il fatto della costituzione sotto le due specie separate, che evidentemente rappresentano la separazione tra il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo avvenuta in croce, fatto esterno ma dimostrativo della consumazione del sacrificio, verifichi la ragione del Sacrificio. Ma ritorno al punto di partenza, perché è quello il peso dell’argomento di questa meditazione: la S. Messa è un sacrificio, l’Eucaristia pertanto nasce dal Sacrificio. – Veniamo a un secondo punto. La S. Messa e Sacrificio legato al Sacrificio della croce. Vediamo  come è legato. Lo ha detto N. S. Gesù Cristo: è memoria del Sacrificio della croce, quindi ha carattere rappresentativo, raffigurativo, commemorativo, per le parole stesse del Divin Salvatore che si ripetono sempre nella consacrazione. Il Sacrificio della Messa quindi è stato, non certo per spiegazione teologica ma per divina parola, indicativa, chiara e netta, rapportato al sacrificio della croce. Come è rapportato? È rapportato in modo per cui non abbiamo due Sacrifici ma uno. L’unità del Sacrificio è chiaramente affermata da S. Paolo nella Lettera agli Ebrei, insieme con il carattere eterno di quel primo sacrificio, del quale dice: « Cristo è entrato col suo sangue nel tabernacolo, avendoci procurato una redenzione eterna ». Ne abbiamo abbastanza per capire la unità del Sacrificio, la unità cioè che esiste tra il Sacrificio dell’altare e il Sacrificio della croce. E siccome è quello della croce che tutto ha consumato, tutto ha ottenuto, tutto ha redento il mondo, e su questo punto la S. Scrittura è ben netta, specialmente nella Lettera agli Ebrei, dobbiamo ritenere che il Sacrificio della Messa, che costituisce un solo Sacrificio col Sacrificio del Calvario, non solo è rappresentativo e commemorativo di quello, ma è rinnovativo e applicativo di quello. A questo punto noi possiamo domandarci in che modo è applicativo e rinnovativo di quello. E allora la spiegazione migliore che, tutto sommato, è possibile dare, sembrerebbe essere questa: il fatto solo di diventare Gesù Cristo presente sull’altare sotto le apparenze diverse del pane e del vino, separazione del Corpo dal Sangue, figurativamente parlando perché Gesù Cristo è vivo sotto l’una e sotto l’altra specie, per divina deputazione, per divina volontà esprime l’offerta indefinitamente fatta al Padre del primo sacrificio della croce. Con questo rimane la unità del sacrificio che è affermata nella Sacra Scrittura, rimane il carattere dirimente affermato nella Sacra Scrittura del Sacrificio della croce; e poiché rimane, ecco la logica della continuazione, il carattere rappresentativo e figurativo. Notate bene che Gesù fece l’istituzione della Eucaristia la sera prima del sacrificio della croce. È evidente che la consumazione del sacrificio ha avuto una anticipazione; ma anche quella offerta fatta prima della consumazione stessa del sacrificio della croce diventava anteposizione, nel tempo, commemorativa dello stesso Sacrificio della croce. Sono di quelle trasposizioni che chi vive nell’eternità, Dio, facilmente fa nel tempo. Ora, posto e così concluso questo secondo punto, che è importantissimo, e cioè che la S. Messa si rapporta del tutto al sacrificio della croce e rinnova la stessa offerta che di sé sulla croce ha fatto Gesù Cristo al Padre, dobbiamo guardare al Sacrificio della croce. Perché è quella maestà, se volete è quel dolore, è quella superna redenzione che entra in pieno, solennemente, nella celebrazione del divin Sacrificio. Il Sacrificio della croce ha risolto la questione del mondo. Qual era la questione del mondo, la questione che subordinava tutte le altre questioni? Era questa. Il mondo, a cominciare dal suo primo disgraziato progenitore, ha peccato. Il peccato dell’uomo supera l’uomo, non perché una causa minore possa produrre un effetto maggiore, ma perché il peccato fatto dall’uomo è diretto contro Dio, è sempre una negazione di Dio, sottrazione alla legge di Dio, quindi negazione di Dio. La ragione dell’altissimo oggetto, in ragione dell’altissimo corrispondente, che è Dio, il peccato supera l‘uomo. Non in ragione di quello che parte dall’uomo, ma in ragione di quello che esso è colpendo — mi sia lecito dir così anche se la parola è assolutamente impropria — Iddio che è eterno, che è infinito. Il peccato dell’uomo supera l’uomo, e appunto perché supera l’uomo, l’uomo non ha mai potuto pagarlo. Mai. Lo può commettere, non lo può redimere. Infatti la sensazione più diffusa che noi abbiamo in tutte le forme mitiche anche cosmogoniche della storia umana e che noi andiamo rivangando ora dalla preistoria presenta sempre i caratteri di questa ineluttabilità. Quando dalle forme puramente mitiche e primitive si è passati alle forme di cultura ha cominciato a imperare, terribile, il senso della nemesi. Tutta la mentalità greca, e soprattutto la tragedia greca nella espressione più sublime, porta, anzi è intrisa del senso della nemesi, la vendetta terribile. Il peccato, la colpa, il crimine non può essere pagato, e pertanto indefinitamente viene ripresentato, viene colpito, e i crimini passano dai padri ai figli e dai figli ai nipoti, ai pronipoti e così via. È il terribile senso della nemesi. L’umanità realmente, in quelle poche volte che ha un po’ pensato, come tale, si è sempre trovata innanzi a questa stanca costatazione che noi possiamo con parole riassuntive riprodurre così: gli uomini hanno avuto coscienza che potevano fare il male, ma non se ne potevano liberare. Gli atti ci seguono. Questo era il dramma del mondo, e pertanto era necessaria una riparazione in giustizia, ma una riparazione il cui valore superasse l’uomo, cioè appartenesse all’ordine divino. Senza una riparazione che superasse l’uomo e appartenesse pertanto all’ordine divino, non era possibile che si rifacesse l’equilibrio e che l’uomo, dopo aver commesso il suo peccato, potesse liberarsi dal medesimo. E questo fa capire la ragione dell’Incarnazione del Verbo, perché nell’Incarnazione del Verbo le cose sono poste così: che la natura umana assunta dal Verbo Figlio di Dio sussiste nella Persona divina. Il soggetto delle azioni compiute da questa natura umana diventa Iddio, perché il soggetto dell’azione è la persona, lo strumento è la natura. E allora queste azioni, attivamente o passivamente compiute attraverso la natura umana, avendo per soggetto Iddio, diventavano azioni divine e potevano essere pertanto di valore infinito, capaci, se capaci di riparazione, di riparare veramente e di riportare tutto all’equilibrio, cioè salvare, risolvendo il dramma del mondo. Tutte le vicende dell’umanità sono guidate da questo fatto: dall’esercizio della libertà dell’uomo e dall’atteggiamento morale conseguente all’uso della libertà dell’uomo e pertanto dall’impotenza dell’uomo che segue e rimane dopo l’abuso della libertà, cioè dopo il peccato. E in tutte le azioni questa maledizione, e in tutte le cose questo peso, e in tutte le vicende questo rotolare verso un abisso, ineluttabilmente. La storia ha un significato solo: la prova dell’uomo libero. La storia ha un riassunto solo: l’epilogo dell’uso della libertà. La storia ha una linea sola: la ricerca di uno sbocco di questo uso o cattivo uso della libertà. Tutte le azioni, assolutamente tutte, risentono di questo grande filone che le domina. E allora voi vedete come soltanto il Figlio di Dio fatto uomo poteva riparare e come la storia ha un significato solo, una soluzione sola, ed è Gesù Cristo in croce. La storia è là. L’unico fatto che si allontana da questa linea, da questa monotonia nella variazione, e da questa variazione nella monotonia, è l’Incarnazione del Verbo e la morte del Nostro Signore Gesù Cristo in croce, perché la finalità della Incarnazione del Verbo era in quel Sacrificio. Ecco ciò che sta al centro. Ecco perché dappertutto c’è la Croce, ecco perché dappertutto c’è il Crocifisso, ecco perché, immaginativamente, le braccia del Crocifisso non si sono mai schiodate. Rimangono così, aperte, come per abbracciare senza fine l’umanità che pecca. Tutto è là, tutto. Ogni attimo di vita di ogni uomo, ogni senso della vita d’ogni uomo — perché essa ha pure, voglia o non voglia, una direzione — prende il suo colorito di là. Ogni cosa, bella o brutta, dell’umana esperienza si rapporta là. Ogni giudizio, ogni verità, ogni conquista ha il suo termine di criterio ultimo e risolutivo soltanto nella Passione di Nostro Signore Gesù Cristo. – La storia è fatta di tre elementi. Il primo, quello che troviamo sul proscenio, è l’uomo libero, che fa quello che vuole, bene o male. Il secondo è dato dalla natura che, guidata da leggi determinate, fisse e impreteribili, fa il suo cammino e intreccia pertanto l’elemento determinato suo con l’elemento libero dell’uomo che cammina in mezzo ad essa, dando il risultato per noi più sorprendente di non essere mai disturbata nella determinatezza delle sue leggi dalla libertà dell’uomo e di non disturbare mai con la determinatezza delle sue leggi la stessa libertà dell’uomo. È il secondo elemento. L’intreccio di questi due elementi e di tanti elementi crea la cosiddetta causalità. Ma c’è un terzo che è al di fuori, un terzo elemento che è misterioso, che cammina accanto all’uomo, che cammina accanto alla natura, che non è né l’uomo né la natura, che sta al di sopra di essi e che viene rivelato da un disegno, che viene rivelato dai cicli, dalle rispondenze, che viene rivelato dai risentimenti morali e dal fatto di un legame quanto mai indicatore che esiste tra colpa e dolore, tra peccato e disgrazia. E il terzo elemento misterioso è il reparto dove agisce soltanto Iddio, la Divina Provvidenza. È dall’incontro di questi tre elementi che si fa la storia. Ma di questi tre elementi nei quali l’uomo fa la figura che voi sapete, il quadro che voi conoscete, il vertice si chiama Gesù Cristo e Gesù Cristo nella sua Passione, il Verbo di Dio fatto uomo che immola sé stesso perché gli uomini trovino la via della loro giustizia e della eterna pace. Questo bisognava richiamare, perché la S. Messa è questo. Attenti bene. Ricapitoliamo. La Messa è un Sacrificio: l’ha detto Gesù Cristo. La Messa è Sacrificio commemorativo, rappresentativo del Sacrificio della croce: l’ha detto Lui. La Messa è una cosa sola con il Sacrificio della croce, e pertanto nell’unità del Sacrificio, rinnova quello; non è un altro sacrificio. Le forme sono diverse, perché la Messa è Sacrificio incruento mentre quello della croce è stato cruento, ma questo si rapporta a quello, talché rientra nella unità del Sacrificio della croce. E pertanto rinnova quello, anche se le forme sono specificamente distinte. Rinnova quello, ed è in questo senso che si parla di unità: ripresenta, ripropone quello. L’atto offerente di quello ritorna a ogni consacrazione, ossia ritorna a ogni consacrazione la risoluzione del dramma del mondo, la sorgente di tutto. È per questo che la S. Messa ha un valore infinito. Sacrificio, Sacerdote eterno. Vittima: tutto sta inserito in quel soggetto divino che, essendo la persona del Verbo, comunica a quanto è predicato di Lui, in proprio, il carattere dell’infinito. – I frutti della Messa sono applicati limitatamente, però indefinitamente aumentabili. E questa è la ragione per cui la S. Messa può essere ripetuta indefinitamente, e l’applicazione dei frutti avviene in modo finito per quanto indefinitamente aumentabile. Allora, quando si celebra la Messa, che cosa si vive? Tutto il mondo, tutta la storia, tutta la salvezza. Ma non la si vive con la memoria, riandando a un passato: è un presente. Non è ima ricostruzione soltanto commemorativa, è rinnovazione; quel fatto è ontologicamente vivente e ritorna tutto. – Badate bene che il mondo ha, per la sua forma e per il suo spazio, una maestà che ci sopravanza tanto. Badate bene che tutta la storia, della quale il mondo è il quadro materiale, è una maestà che si ammanta di tutta la luce di questo cosmo. Badate bene che tutti gli uomini che furono e sono e saranno sono soltanto attori, in parte, di questa storia. Ma tutto questo ritorna quando si celebra la Messa. Ritorna nelle sue supreme ragioni, supreme sue esigenze di giustizia, suprema corrispondenza di giustizia, perché il Sacrificio è la corrispondenza di giustizia, è una soluzione di giustizia, ritorna col suo tema obiettivo attuato di eterna redenzione e di eterna salvezza, dal quale tutto rifulse. C’è tutto nella S. Messa. Noi possiamo riflettervi per tutta la vita, possiamo consumare le nostre capacità intellettive per tutta la esistenza, ma non arriveremo mai a capire bene, a esaurire l’argomento della S. Messa. Ora provatevi voi a vedere se esiste una cosa più grande, se ne esista una che possa essere anteposta alla S. Messa, se esista un atto che possa, più della S. Messa, acquisire le nostre attrattive e le nostre preferenze. Dite voi se esiste un momento più sublime di quello nel quale si celebra, si ascolta, ci si unisce alla S. Messa. Allora si arriva a un vertice, e da quel vertice si sente che si maneggia il mondo e l’eternità, perché il valore di questo Sacrificio non è soltanto per i vivi, nella soluzione del loro grande dramma di fronte all’eternità, ma s’estende al di là delle barriere della morte e diventa anche suffragio e soluzione per coloro che attendono ancora la purificazione definitiva, per quanto già siano certi dell’eterna salvezza. – Si arriva allora al crinale fra tempo ed eternità. E quell’altezza è vertiginosa, e il grande contrasto è che l’abitudine tende a ricoprirlo, a intasarlo, a renderlo opaco, comune. E allora la lotta di tutta la vita sarà contro questa abitudine che tenterà di imbozzolarci, di chiuderci perché noi non vediamo, non sentiamo e non proviamo, mentre sempre soltanto nel balzo vigoroso della fede, che chiama in causa tutto quello che c’è di attuale in noi, possiamo rompere la grande tentazione dell’oscurità e del crepuscolo col quale le cose della vita tenterebbero di avvolgere il S. Sacrificio. È tutto. È tutto. – Alcuni anni fa andai al sanatorio di Arco per compiere uno dei miei doveri. Trovai là un sacerdote, un missionario tubercoloso. Era pressappoco morente. Si capiva che avrebbe potuto tirare avanti giorni, settimane, un mese, poco più. Era disfatto quell’uomo. Lo ricordo. Aveva anche altri mali, per cui era veramente un crocifisso. Mi disse: « Chiedo una grazia sola. Vede, il mio sangue è marcio — era vero — tutto è marcio in me. Ma chieda lei al Papa la grazia di poter dire, così, perché non posso più reggermi, la Messa, una volta, una volta sola! Non chiedo altro. Sono felice di offrire la mia vita per la Chiesa, per il Papa, sono contento di morire, ma domando una cosa sola: mi si lasci dire ancora una volta la Messa; perché mi occorre una dispensa, lei capisce, una dispensa da tutto ». Gli dissi: « Va bene, non so se riuscirò ». Dopo alcuni giorni andai da Pio XII. A un certo punto dell’udienza, alla fine di ciò di cui si doveva trattare, gli raccontai la cosa. Gli dissi: « Padre Santo, me lo faccia questo dono. Almeno una volta! Se vado a chiederlo alla Congregazione dei Riti mi fanno aspettare un anno, e quello muore. E poi non me lo concedono, perché quest’uomo è ridotto a un gomitolo, non potrà indossare i paramenti, dovrà celebrare in letto stando arrotolato. È una Messa senza forma. Padre Santo, una volta sola! ». Io vidi una lacrima negli occhi del Papa. Stentò a parlare. Dopo un po’ disse : « Una volta sola? Poveretto! Fin che vivrà ». Cari, vale la pena di vivere tutta una vita per sentire una Messa sola! – Il popolo ebreo peregrinò 40 anni nel deserto e non arrivò al monte di Sion. Quelli della prima uscita hanno dovuto morire tutti; e lo stesso Mosè ha dovuto morire sul Monte Nebo guardando da lontano la terra Promessa, perché aveva avuto un atto di esitazione nella sua fede. Vale la pena di vivere tutta una vita per sentire anche una sola volta la Messa; camminare trascinandosi da un polo all’altro per sentire una sola volta la Messa. Ora guardate questa moltitudine, che non si cura neppure di andare a Messa alla domenica. Ne abbiamo da fare, è vero? Perché il farcela andare, vedete, Dio l’ha lasciato affare nostro. Lui ci aiuta e muove tutte le cose nel senso in cui lavoriamo noi, ricordatevelo, e obbliga tutto il male a servire al bene, perché Cristo ha redento il mondo, e, pertanto anche il male ha avuto questo smacco: deve sempre servire al bene. Ma portarcela, questa gente, l’ha lasciato affare nostro. Comunque una vita sarebbe bene spesa quando fosse spesa, se non altro, che per dire o ascoltare una Messa.

SALMI BIBLICI: “FUMDAMENTA EJUS IN MONTIBUS SANCTIS” (LXXXVI)

SALMO 86: “FUNDAMENTA EJUS IN MONTIBUS SANCTIS”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS -LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 86

Filiis Core. Psalmus cantici.

[1] Fundamenta ejus in montibus sanctis; (1)

[2] diligit Dominus portas Sion super omnia tabernacula Jacob.

[3] Gloriosa dicta sunt de te, civitas Dei!

[4] Memor ero Rahab et Babylonis, scientium me; ecce alienigenæ, et Tyrus, et populus Æthiopum, hi fuerunt illic.

[5] Numquid Sion dicet: Homo et homo natus est in ea, et ipse fundavit eam Altissimus?

[6] Dominus narrabit in scripturis populorum et principum, horum qui fuerunt in ea.

[7] Sicut lætantium omnium habitatio est in te.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXXVI

Sionne, vale a dire la Chiesa, sommamente gloriosa. Il numero de suoi cittadini sarà innumerabile, e questi saranno felici

A figliuoli di Core. Salmo, ovver cantico:

  1. Le fondamenta di lei sopra i monti santi, ama il Signore, le porte di Sion più che tutti i tabernacoli di Giacobbe. (1)

2. Grandi cose sono state dette di te, o citta di Dio.

3. Io mi ricorderò di Rahab e di Babilonia, genti che mi conoscono.

4 Ecco, che li stranieri, e Tiro, e il popolo degli Etiopi, tutti questi vi avran loro stanza.

5. Non sarà egli detto rìguardo a Sionne: uomini, e uomini in lei son noti, e lo stesso Altissimo è quegli, che ha fondata?

6. Il Signore nella lista dei popoli e de’ principi dirà di quelli, che in lei sono stati,

7. E come quelli, che abitano in te sono tutti nell’allegrezza. (2)

(1). Il pronome ejus è maschile nell’ebraico e nei Settanta. Se dunque si riferisce a Dio, occorre, come esige l’insieme del Salmo, che il senso di questo versetto sia: Fundamenta quæ posuit Deus sunt in montibus sanctis.

(2). Gerusalemme era costruita su tre montagne, gli appoggi della Chiesa sono gli Apostoli ed i loro successori. Dio scriverà sul registro dei popoli, cioè sul grande libro ove Egli scrive i popoli e tutti ciò che li riguarda.  

Sommario analitico

Il Profeta, contemplando la Chiesa della terra e del cielo sotto la figura di Sion, descrive:

I. – I suoi fondamenti stabiliti sulle sante montagne, sulla dottrina degli Apostoli (1);

II. – Le sue porte, vale a dire i Sacramenti, oggetto particolare dell’amore di Dio (2);

III. – Le sue mura, le sue case, i suoi palazzi degni di ogni lode (3);

IV. – La moltitudine dei suoi abitanti, radunati da tutte le nazioni (4);

V. – Il suo Re e suo fondatore, Gesù-Cristo (5);

VI. – Il numero e la dignità dei suoi proseliti (6);

VII. – La gioia eterna dei suoi abitanti (7).

Spiegazioni e Considerazioni

I. e II.— 1, 2.

ff. 1, 2. – Questo Salmo è breve per numero di versetti, ma considerevole per il peso dei pensieri che racchiude … Il Profeta canta e celebra una città di cui noi siamo i cittadini, nella nostra qualità di Cristiani; lontano da essa noi siamo esiliati fin quando restiamo in questa vita mortale, e verso la quale tendiamo per una via che si trova interamente ostruita da rovi e spine, fino al momento in cui il Re di questa città si è fatto Egli stesso nostra via, affinché potessimo giungere in questa città (S. Agost.). – Il salmista non ha ancora parlato di questa città; tuttavia egli comincia in questi termini: « i suoi fondamenti sono sulle sante montagne ». I fondamenti di cosa? Non c’è dubbio che i fondamenti, soprattutto sopra delle montagne, non siano quelle di qualche città. Pieno di Spirito-Santo, il cittadino di questa città rivolta nel suo spirito tutti i suoi pensieri d’amore e di desiderio di essa, e uscendo in qualche modo da una meditazione più estesa, esclama subito: « … I suoi fondamenti sono sulle sante montagne », come se avesse detto già qualcosa di questa città. E come in effetti, non avrebbe detto ancora niente, lui che non ne ha mai cessato di parlarne nel suo cuore? (S. Agost.). – Questa città è la Chiesa, la vera Gerusalemme, fondata sulle alte montagne da cui è esposta alla vista di tutta la terra, e sulla Pietra angolare che è Gesù-Cristo. « Nessun altro fondamento che questo » (I Cor. III, 11). Ogni edificio elevato su di un altro, sarà distrutto. – Dio ama più di ogni altra cosa la porta di questo edificio, che è ancora Gesù-Cristo, il solo per il Quale si possa entrare; o piuttosto Egli non ama che Gesù-Cristo e la Chiesa stessa, e coloro che essa racchiude non sono anime di Dio se non in rapporto a Gesù-Cristo (Duguet). – La Chiesa è in questo mondo tutto ciò che i Profeti avevano annunziato che essa fosse: « un segno posto in mezzo alla nazioni; (Isai. XI, 12); la montagna preparata sulla sommità dei monti può essere il convegno dei popoli (ibid. II, 2); la città di Dio ha i suoi fondamenti sulle montagne sante; la saggezza che si fa intendere da lontano su tutte le sommità, lungo tutti i sentieri, parlando vicino alle porte della città e alle soglie stesse delle case » (Prov. I, 21, VIII, 1, 2, 3). Essa invita, chiama a sé coloro che non hanno ancora la felicità di credere; essa conferma e consolida la fede dei sensi; essa testimonia, afferma, dimostra, spiega; essa offre delle garanzie, fornisce dei salari, fonda delle certezze, pone nelle anime dei principi assoluti, e pone a sedere le stesse anime sui fondamenti che nessuna potenza umana o infernale possiede il segreto per distruggerli (Mons. Pie, Discours, etc. t. VII, p. 235). – Se si trattasse qui unicamente – dice S. Agostino – della Sion terrestre, non si potrebbe dire che Dio la preferisca a tutti i padiglioni di Giacobbe, perché infine questa città era uno dei bastioni di Giacobbe, perché abitato dai discendenti di questo Patriarca. – Tutto ciò che si opera nella Chiesa, sia per il suo stabilirsi, sia per la sua costruzione, sia per il suo consumo, deve così operarsi in un’anima fedele. Essa è poggiata su Gesù-Cristo, che unicamente essa ama; essa è pure fondata sugli Apostoli, i cui insegnamenti servono a formarla ed istruirla, a farle mostrare il rango che deve tenere nella celeste Gerusalemme. Essa è l’oggetto delle compiacenze del Signore, quando è attenta nell’ascoltarlo e nel piacergli (Berthier). – Perché gli Apostoli ed i Profeti sono i fondamenti di questa città che è la Chiesa? Perché la loro autorità sostiene la nostra debolezza. Perché sono pure gli Apostoli di Sion? Perché noi entriamo grazie ad essi nel regno di Dio; essi sono per noi i predicatori della salvezza; e quando noi entriamo attraverso di essi nelle città, vi entriamo grazie al Cristo, perché Egli stesso è la porta (S. Agost.).  

III. — 3.

ff. 3. – Si, certo, i Profeti e gli Apostoli hanno detto delle cose gloriose di questa città di Dio, della Chiesa di Dio sulla terra, ma soprattutto della Chiesa del cielo. Uno di essi ci ha detto tutto quando ha detto che non poteva dire niente: « … ciò che occhio non ha visto, ed orecchio ascoltato, ciò che il cuore dell’uomo non ha mai conosciuto ». (I Sap. II, 7). O divina patria! « mi si raccontava delle vostre felicità e delle vostre glorie; » la fede mi parlava delle vostre gioie, delle vostre ebbrezze, delle vostre estasi, di tutte queste cose che non mi lascia mai vedere, gustare, possedere; che hanno sempre lo stesso splendore, la stessa pienezza, e che per di più, sono immortali. Io ammiravo, non osavo sperare. Io sognavo di voi come di un’isola incantata che si intravvede dalla riva e che un fiume impraticabile separa da noi. Questo sogno era splendido ma doloroso! Io mi dicevo: tutto là è divino, ma niente di tutto ciò è per me. Ora io posso pensare a voi senza dolore: perché io so che non siete straniero. Santa patria delle anime, io ho gioito per ciò che mi è stato detto da un Dio. «… noi andremo nella casa del Signore » (De Place, Carême 2^  Dimanche).

IV. — 4 e 5.

ff. 4, 5. – Quando anche si trattasse degli abitanti di Rahab, di Babilonia, che rappresentano qui le nazioni pagane, io me ne ricorderei dal momento che mi conosceranno per la fede e la carità (S Girol.). La maggior gloria di Gerusalemme è di essere stata la fonte dalla quale è venuto il Messia. Gesù-Cristo non è nato in questa città, ma Bethléem era così vicina che si può ben dire che Gerusalemme fosse la patria di questo Uomo-Dio. – In un altro senso, è una felice nuova da pubblicare: che una moltitudine di uomini di ogni tipo di contrada, stato o condizione, prendono nascita nel seno della Chiesa. Ma per qual motivo esserne sorpresi poiché l’Altissimo stesso l’ha fondata? – « E tu dirai nel tuo cuore: chi mi ha dato questi figli, a me che ero sterile e non partorivo? Io ero cacciato dal mio paese e prigioniero: chi li ha nutriti? Io ero solo, abbandonato, da dove sono venuti? » (Isa. XLIX, 21). – Rahab è questa cortigiana di Gerico che ricevette le spie dei Giudei e le fece fuggire da una strada secondaria. Per questo ella fu salvata, e fu figura della Chiesa dei Gentili. Ecco perché il Salvatore dice ai Farisei che si inorgoglivano: « In verità, in verità io vi dico, i pubblicani e le donne di cattiva vita vi precederanno nel regno dei cieli » (S. Matth. XXI, 31). Essi vi entrano per primi perché se ne impossessano con l’aiuto della violenza; essi ne forzano l’entrata per la loro fede, tutto cede alla loro fede, e nessuno può resistervi, ed è così che coloro che fanno violenza al cielo lo rapiscono (S. Agost.).

ff. 6. – Le Scritture ci parlano spesso del registro della vita, del libro dove devono essere iscritti gli amici di Dio. Sulla terra, noi non abbiamo altro monumento che possa portare questo nome, se non la raccolta degli oracoli sacri di cui la Chiesa è depositaria. Nel cielo, questo libro è la conoscenza eterna di Dio; è tutto l’ordine dei suoi decreti sui figli degli uomini; è lo stato che questa Intelligenza superiore in tutti i tempi tiene di tutto ciò che arriva o arriverà nel succedersi dei secoli. Il primo di questi libri è la nostra guida, ed il secondo il nostro giudice, il primo sarà prodotto come testimone a favore o contro di noi, ed il secondo fisserà i nostri destini per l’eternità (Berthier). – Tutti i popoli e tutti gli individui che compongono questi popoli sono sempre ed in ogni istante presenti davanti a Dio. L’Intelligenza divina, eterna, immensa, infinita, è come un grande libro ove è scritto in anticipo tutto ciò che è passato, tutto ciò che passa, tutto ciò che passerà nell’ordine temporale e nell’ordine spirituale. Dio conosce tutti gli avvenimenti di tutti gli uomini con una conoscenza intima e completa. Egli vede tutto, ma guarda con attenzione particolare coloro che nascono, che vivono e che muoiono nella sua Chiesa, in questa Santa e gloriosa città che il suo Figlio prediletto ha conquistato al prezzo di tutto il suo sangue (Rendu).    

VII. – 7.

ff. 7. – La montagna di Sion è fondata con la gioia di tutta la terra (Ps. XLVII, 3). « Voi vi rallegrate e sarete nella gioia per l’eternità; io sto per rendere Gerusalemme una città di allegrezze, ed il suo popolo, un popolo di gioia.» (Isai. LXV, 18). – Durante il nostro pellegrinaggio su questa terra, noi siamo costantemente nell’oppressione; la nostra abitazione non sarà il soggiorno che della gioia. Non più pene, non più lamenti; le suppliche sono cessate, sono succeduti i canti di lode. La città di Dio sarà dunque l’abitazione di coloro che si rallegrano; non ci sarà più colà il gemito del desiderio, ma la gioia della felicità … « l’abitazione di tutti coloro che si trovano come nella gioia, è in voi ». cosa significa questo “come”? perché “come” nella gioia. Perché là ci sarà una gioia che noi qui non conosciamo. Io vedo qui delle gioie: Molti gioiscono nella vita del secolo, gli uni di una cosa, gli altri di  un’altra; ma io non ho una gioia che si possa comparare a questa gioia dell’eternità, che non sia che “come” una gioia; perché se dico che è una gioia, lo spirito dell’uomo lo rassomiglierà ben presto a qualche gioia che ha costume di provare tra i godimenti della terra … prepariamoci dunque ad un nuovo tipo di gioia, perché noi non troviamo quaggiù se non qualche cosa che ci sembra simile, ma non lo è (S. Agost.). – Questa città di Dio è, per così dire, interamente costituita di gioia e di felicità; la gioia è la base sulla quale essa è fondata. « la montagna di Sion è fondata sugli applausi di tutta la terra; » (Ps. XLVII, 3). Gli elementi che entrano nella sua struttura sono degli elementi di gioia: « rallegratevi, siate nella gioia per l’eternità, di ciò che sto per fare: Io voglio rendere Gerusalemme una città di allegrezza ed il suo popolo un popolo di gioia; » (Isa. LXV, 18); Tutte le sue piazze risuoneranno di grida di allegrezza, « … e si canterà in ognuno dei suoi luoghi. Alleluia ». Il Re dei cieli spanderà su di essa dei torrenti di gioia: « Il Signore consolerà Sion, riparerà le sue rovine … tutto vi respirerà la gioia e l’allegrezza; si sentiranno risuonare azioni di grazie e cantici di lode. » (Isai. LI, 3). La gioia brilla sul viso dei suoi abitanti e corona le loro fronti: « Coloro che sono stati riscattati ritorneranno al Signore, e verranno a Sion cantando i cantici di lode; una gioia eterna coronerà la loro testa; essi saranno pieni di gioia e di allegrezze, il dolore ed i lamenti si dilegueranno. » (Isai. LI, 11) Questa gioia non è solamente alla superficie del cuore, come le gioie della terra, essa lo penetra tutto intero. « E voi, ora, avete tristezza, ma io verrò di nuovo, ed il vostro cuore ne gioirà, e nessuno potrà rapire la vostra gioia.» (Giov. XVI, 22).  

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 3° Corso di Esercizi Spirituali (7)

S. S. GREGORIO XVII:IL MAGISTERO IMPEDITO:

III CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI (7)

[G. Siri: Esercizi Spirituali; Ed. Pro Civitate Christiana – Assisi, 1962]

IL NOSTRO ITINERARIO CON GESÙ CRISTO

7. Mysterium fìdei

Il discorso sul medio, cominciato a proposito della meditazione sul giudizio, continua. L’Eucaristia è il mysterium fìdei per eccellenza. Lo è tanto che, come ho già avuto modo di ricordare nell’introduzione, nell’Evangelo di Giovanni, Gesù pare premettere al discorso eucaristico il discorso più impegnativo che abbia fatto a proposito della fede. Non c’è dubbio che è veramente l’Eucaristia il mysterium fìdei. Siccome noi dobbiamo camminare con Gesù Cristo e Gesù Cristo è lì, nella forma più vicina, più tipica, più indicativa, più qualificata, noi dobbiamo pure affrontare il discorso del mysterium fidei. Perché l’Eucaristia è il mysterium fidei? Perché non si vede niente, non si sente niente. Anche il discorso sulle emozioni interiori di quando si fa la S. Comunione è un discorso che deve essere molto cauto, perché non appartiene alla via ordinaria che ci siano straordinarie emozioni o effusioni, tali cioè che interessino la sfera affettiva o emotiva. Un’anima può benissimo anche durare a fare la Comunione per anni in un modo che si possa ritenere da parte sua anche perfetto senza che abbia particolari emozioni. Perché il sentire, il provare il gusto diretto delle cose di Dio, la esperienza immediata delle cose di Dio, non appartiene alla via ordinaria in questo mondo. Quindi, anche quando non avviene, non bisogna impressionarsi. L’importante, quando si fa la Comunione, è che si mantenga tutto l’affetto possibile, quello che diamo a Dio con la grazia sua, tutta l’attenzione, tutta la diligenza, tutta la concentrazione, e si dia a tutto questo la preparazione necessaria, anzi sovrabbondante, e la sequela non solo necessaria ma sovrabbondante. Se poi Dio permette che si provi qualche cosa, tanto meglio. Se non si prova qualche cosa, eh, pazienza, si aspetterà. Quando mancasse, non traiamo dal mancare conclusioni che non sarebbero né vere né utili né convenienti. Comunque rimane vero che è il sacramentum fidei. Perché che cosa si vede? Un po’ di pane e un po’ di vino. Che cosa si sente? Niente. Ecco, e allora si deve raggiungere la realtà con un’altra potenza, che non è degli occhi, delle orecchie, del tatto: è l’anima che crede, che sa con certezza esserci sotto le apparenze del pane e del vino Gesù Cristo. Ecco il mysterium fidei. E perché si accetta questo mysterium fidei? Lo si accetta per una cosa sola: sulla sua parola, lo ha detto lui. Sulla sua parola. Quella sua parola, voi sapete donde poteva trarre valore dinanzi alla mente degli uomini raziocinanti che chiedono dimostrazioni. Voi sapete che quella sua parola è stata accompagnata dall’avveramento delle profezie messianiche e sapete che quella sua parola è stata accompagnata dal fatto più grande della storia umana, che è la risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo, fatto storico, fatto certo, fatto documentabile. Voi sapete che quella sua parola è stata accompagnata dall’esercizio di una potenza imperante sopra tutte quante le leggi di natura, al di là e al di fuori di tutte le leggi di natura, che denotava in lui con evidenza l’esercizio di una potenza e di una autorità divina. Voi sapete la singolare introduzione che ha fatto Gesù al discorso eucaristico del capitolo VI di San Giovanni. È una introduzione singolare; credo che nessun oratore mai abbia potuto fare un prologo al proprio discorso come lo ha fatto Gesù Cristo. Il prologo del discorso eucaristico è stato questo: c’era una folla che, a computare anche le donne e i bambini, poteva essere calcolata di 10.000 persone; e questa folla l’aveva seguito a nord del lago di Cafarnao, oltre la palude di Meron, e si trovava in una regione assolutamente deserta, lontana da paesi, da centri di rifornimento, e l’aveva seguito talmente affamata di cose spirituali da dimenticarsi di quelle materiali. A un certo momento si sono trovati tutti presi dalla fame e vuote completamente le bisacce, cioè senza niente. E Gesù dice: Questa povera gente muore di fame. Ma sì, e dove si va a prendere tanto pane per dar loro da mangiare a quest’ora? Gesù domanda: C’è qualcheduno che ha qualche cosa? Beh, hanno due pani e pochi pesci. Portateli qui. Li benedice, rende grazie e comincia la distribuzione. La distribuzione continua e i pani non vengono mai meno e i pesci neppure. E tutta quella gente si sazia in modo tale che quando egli dice: “Andate a raccogliere i frammenti”, se ne raccolgono dodici sporte. – Il prologo del discorso eucaristico di Cafarnao è stato il miracolo della moltiplicazione dei pani. C’era anche un collegamento di simbolo tra il miracolo e quello di cui avrebbe parlato Gesù. Ma certo era una introduzione molto efficiente e molto convincente, perché Egli stava per dire una cosa che aveva dell’incredibile, e notate bene che sulla sua reale manducazione ritorna quattro volte, e sul fatto della realtà della sua presenza nove volte: ripete, incalza. Il discorso di Cafarnao è un dialogo serrato, in cui l’interlocutore non parla altro che alla fine del discorso ma la cui voce o il cui gesto rumoreggiante e polemico e contraddicente lo si sente a ogni rincalzo. Perché, se Gesù Cristo ripete le due stesse cose una per quattro e una per nove volte, è segno che ci sono state altrettante manifestazioni e contrarietà da parte della folla, che diceva: queste sono robe da matti. Ma, capite, aveva fatto quel prologo, Lui, aveva dimostrato che era padrone delle cose. E aveva moltiplicato i pani e anche i pesci. Aveva fatto questo, e la cosa era stata di immediata costatazione perché avevano mangiato e si erano saziati. E siccome da molto non mangiavano, il loro mangiare non era stato poco; poi a quell’aria fresca e a quei tempi in cui le folle che andavano dietro a Nostro Signore non avevano poi tante delicatezze, mangiavano di santa ragione. Gesù ha dato loro quella prova, come a dire: Ora vi dirò una cosa che forse per voi va fuori dall’ immaginazione, ma badate che non va fuori dall’immaginazione più di quanto non vada fuori il fatto che con pochi pani e due pesci si sia dato da mangiare a 10.000 persone. È la stessa cosa. Occorre la stessa potenza per l’uno e per l’altro e, manco a farlo apposta, guardate bene, qui c’era un oltraggio, si sarebbe detto, alla legge dell’estensione e della quantità. – Quello che rende il sacramento della Eucaristia « mysterium fidei » è la stessa cosa, è la stessa cosa tutta a rovescio. Cioè non è l’oltraggio, ma è la eccezione fatta a tutte le leggi della quantità, come forse avremo occasione di spiegare più dettagliatamente in una nostra conversazione seguente. Pertanto aveva fatto un discorso introduttorio molto imbarazzante N. S. Gesù Cristo. E badate bene che la potenza del discorso, imbarazzante per i negatori e consolante invece per coloro che lasciavano aperte le porte alla ragionevolezza, la si sente in quel che viene dopo, perché al termine del discorso la folla esplode, i malevoli fanno un anticomizio e dicono: « Ma che cosa sono queste parole? Chi può stare a sentire discorsi di questo genere? Chi può mai accettare parole come queste? ». E se ne vanno, se ne vanno. I capi, il solito gruppo dei Farisei, degli Scribi, gente arrabbiata, gente verde dalla bile che aveva contro Gesù Cristo, se ne vanno. E così comincia a scemare la folla intorno a lui, L’aria si è cambiata, c’è senso di rivolta. E Lui si volse anche ai discepoli che gli stavano vicini, quelli non avevano ancora cominciato ad allontanarsi: « Volete andarvene anche voi? Andate ». È allora che Pietro parla e dà una risposta stupenda: « Signore, e dove andremo noi? Tu solo hai parole di vita eterna ». Grande logica nelle parole di Pietro, perché tradotte in parole povere vogliono dire questo: Signore, veramente anche noi non abbiamo capito niente, proprio niente — e non c’è da meravigliarsi che non avessero capito niente — però abbiamo vagamente intuito che quelle che tu dici sono parole di vita eterna, appartengono a un altro piano. Comunque, qualunque cosa Tu dica —  egli si ricordava dei pani e dei pesci — noi non andremo da nessun altro, noi non possiamo, da nessuno. Tu solo hai parole di vita eterna. – Nostro Signore ha affermato la verità dell’Eucaristia. Come vedete, l’ha afferma: in modo polemico, in modo incalzante, davanti a una folla che non se ne stava lì quieta, tranquilla, ma che ha rumoreggiato, che ha dato tutte le manifestazioni della sedizione, della rivolta, del dispetto, della rabbia, provocando tutto quell’insorgere di affermazioni successive. Qui — ed è stata l’unica volta in tutto il tempo del Vangelo — Nostro Signore ha posto la questione di fiducia ai discepoli : « Volete andarvene anche voi? Andate ». O

accettate e rimanete; o non accettate e potete andare. – Naturalmente noi crediamo alla presenza reale di Gesù Cristo nell’Eucaristia e ci crediamo sulla parola di Lui. Questa parola ha avuto una grandissima documentazione e ha continuato ad averla nel tempo, perché Dio ha fatto tante cose singolari intorno all’Eucaristia e ha tante volte infranto le leggi della natura, ha tante volte infranto tutti quelli che potevano sembrare i calcoli umani; li ha superati, li ha trascesi. Anche quando dal secolo scorso a Lourdes si è aperta una vena di soprannaturale singolarissimo che dura tuttora, voi sapete che la parte, e forse la parte maggiore delle manifestazioni soprannaturali avvengono al passaggio del SS. Sacramento. Ma c’è tutto il resto, perché c’è un fatto che dura da duemila anni ed è come il fatto del sole. Il sole sorge il mattino, tramonta la sera. Del sole che cosa si dice? Fa chiaro; qualche volta si dice: fa anche caldo. D’inverno lo si dice meno. È un fenomeno al quale, in fondo, non si fa gran caso perché è talmente abituale. Ma non si fa caso all’altro fenomeno: questo sole permea la vita, è la ragione di tutta quanta la vita che è sulla terra. Noi fino a pochi anni fa lo sapevamo in modo assolutamente vago, non conoscevamo una funzione clorofilliana, una funzione che rendeva ragione di tutto il mondo vegetale e attraverso il mondo vegetale dello stesso mondo animale il quale finisce poi, in ultima analisi, con l’appoggiarsi sul mondo vegetale. C’è tutta un’azione del sole, per cui si vede la vita che ha rigoglio. Dove il sole non arriva con certa potenza del suo raggio, certe piante non osano spuntare fuori dalla terra, non potrebbero, certi frutti non possono maturare. Dove c’è il sole e dove il sole raggiunge una certa intensità, dove c’è l’incidenza del raggio e a un certo modo, noi vediamo crescere i datteri, le banane, i frutti dei climi più caldi, i frutti più ricchi, più saporosi. È tutta una immensa influenza che l’astro del cielo esercita e del quale noi non seguiamo la vicenda, del quale noi raccogliamo soltanto i frutti. – Ora, la presenza di Nostro Signore nella storia della Chiesa ha avuto lo stesso identico andamento, ma con altro ritmo e con altro frutto. Guardate che tutto è cresciuto intorno all’Eucaristia. Senza di quella, le anime non si sarebbero mai rassodate, senza di quella i martiri non avrebbero mai trovato la loro forza, senza di quella non sarebbe nato niente, nessuna istituzione sarebbe mai riuscita. La numerosità, la varietà, la funzionalità di certe fondazioni sono nella Chiesa Cattolica, e solo nella Chiesa Cattolica, notate bene. La vera flora, nel fatto umano, si è avuta soltanto nella Chiesa Cattolica. Questo è un fatto evidente, è un fatto che è quadrato, è ben netto, è circostanziato, è palmare, è documentabile. Perché? Perché ? Anche qui succede come nell’ordine fisico, che certi frutti attecchiscono e maturano solo in certe regioni, perché qui c’è l’incidenza del sole a un certo modo. –  Se si studia la storia della Chiesa, si vede che i  momenti più grandi hanno affondato le radici nei momenti peggiori. Basta pensare che questo scattare della Chiesa, dopo la pace di Costantino, ha affondato le radici in un periodo di tre secoli di persecuzioni all’esterno e di eresie all’interno. E le eresie sono state una cosa ben peggiore, per la Chiesa primitiva, che non le persecuzioni degli imperatori romani. Notate bene che quel rinvigorimento incredibile che noi abbiamo alla fine del XII secolo e al principio del XIII, in una civiltà che è cristiana, che è la più cristiana che abbia conosciuto tutta la parabola della nostra fede, viene dopo il periodo più oscuro, che ha portato all’acme le grandi lotte per la liberazione della Chiesa dalla corruzione del suo stesso Sacerdozio e persino, in una parte dell’Europa, dell’Episcopato. Badate che la grandissima fioritura, la più grande fioritura di fondazioni religiose che si sia verificata nella Chiesa, non come numero ma come qualità, varietà, funzionalità e adattamento sociale, è venuta dopo la rivoluzione francese e dopo le conseguenze della rivoluzione francese. I santi e la maggior parte delle istituzioni missionarie e non missionarie del secolo scorso, provengono o o da uomini che sono germinati sotto il terrore e al tempo del terrore. È allora che si sente la potenza della germinazione e di questo sole che è Lui, Gesù Cristo nell’Eucaristia. – L’atto di fede è l’atto col quale il nostro intelletto accetta aderendo o aderisce accettando, il che è lo stesso, delle proposizioni e verità, e le accetta e vi aderisce unicamente basandosi sulla autorità di Dio che le ha rivelate; in parole più semplici, unicamente basandosi su questo: Gesù Cristo l’ha detto, basta. Pertanto due sono le cose fondamentali da osservare nell’atto di fede. La prima è che si tratta di un atto essenzialmente intellettuale, da non confondersi con atti che non sono intellettuali. La seconda è che il motivo di questa accettazione, di questo piegarsi dell’intelletto, di questo dire: Amen, aderisco, il motivo non è la evidenza intrinseca della verità che si accetta ma è la parola di Dio, è il fatto che l’ha detto Gesù Cristo. Soltanto per questo motivo di autorità divina si ha l’atto di fede. Perché là dove l’adesione a una verità avvenisse per visione diretta, cioè per diretta evidenza, noi non avremmo più l’atto di fede, ma avremmo un atto di scienza. Tanto è vero che, quanto alla esistenza di Dio, alla quale possiamo arrivare argomentando dalle cose create con vera e propria dimostrazione, con la più grande dimostrazione che meriti tal nome tra le cose terrene, se a Dio arriviamo per il fatto che l’abbiamo dimostrato, noi non facciamo un

atto di fede. Noi lo facciamo quando diciamo: Aderiamo perché l’ha detto Lui che c’è. Ora, salvo talune verità che sono insieme oggetto di scienza e oggetto di fede a seconda del motivo per il quale si ammettono, le altre, in sé stesse, sono verità che trascendono, non sono dimostrabili. Non solo, ma di esse i cosiddetti misteri non sono neppure del tutto raggiungibili; intelligibili sì, cioè in essi l’intelligenza può entrare fino a un certo punto, ma a un certo punto si trova davanti l’infinito e la capacità nostra che è finita non può adeguarvisi. Pertanto verità che sono intelligibili rimangono incomprensibili, se per comprensibile s’intende la cosa che è intelletta fino in fondo, perché il comprendere dice il prendere tutto. – Ma c’è l’autorità di Dio che dice: questo è vero; e se lo dice Dio, noi non abbiamo niente da dire, perché Egli è verità, non può ingannare; è perfezione, è verità che non inganna, è infinita perfezione e pertanto non può ingannare: se lo dice Iddio, basta, abbiamo la massima certezza. I nostri occhi possono essere passibili di difetto, sono passibili d’inganno, gli strumenti della nostra evidenza immediata possono essere passibili talvolta d’inganno, e di fatto lo sono, e questo mette noi in cautela anche quando si tratta di sperimentazioni scientifiche; ma quando l’oggetto e il mezzo per poter venire in contatto con la verità è Iddio stesso che interviene, che attesta, Dio attestante, la parola di Dio, allora il mezzo per raggiungere la verità è infinitamente maggiore e più sicuro e certo di quello che noi abbiamo dai nostri occhi o dagli strumenti ordinari della nostra sperimentazione diretta di evidenza. – Sicché, guardate qui nuovamente le due cose: nella fede noi abbiamo il mistero sull’oggetto, cioè su quello che si accetta, e invece abbiamo la chiarezza sul motivo per cui si accetta, perché il fatto dell’attestazione divina è un fatto storico, è un fatto che appartiene al nostro ordine, è un fatto le cui cause sono state poste e vengono poste continuamente nel nostro ordine, e pertanto la dimostrazione della divina rivelazione può essere data, è data, è raggiungibile, è raggiunta, è palmare, è data seguendo vie scientifiche, soddisfacendo tutta quanta la razionalità, le esigenze della razionalità umana; sicché, mentre il velo rimane calato sopra l’oggetto della fede — in questo caso, poniamo, la reale presenza — il velo non è calato affatto, anzi è alzato tutto sull’altro punto, sul fatto dell’attestazione divina, cioè sul motivo della fede. L’oscurità per l’uno, la chiarezza per l’altro. Il motivum fidei può essere dimostrato, il motivum fidei porta la nostra intelligenza su un altro fatto, perché il motivum fidei non è l’Eucaristia,è il fatto della rivelazione divina in sé stesso storicamentestudiato, con tutti i suoi postumi checontinuano attraverso il tempo e continuerannofino alla fine dei tempi a dare la dimostrazionedella verità di quello che ha detto Gesù Cristo,della realtà della autorità sua di attestante divino.Oscurità sulla Eucaristia, chiarezza invece sull’attestazionedivina in favore dell’Eucaristia.Quest’anno la vostra associazione ha guidato il pellegrinaggio degli studenti a Orvieto. A Orvieto c’è un corporale che porta le macchie del sangue di Gesù Cristo. Secolo XIII: era il tempo in cui la Corte papale era in dubbio se cedere a pressioni che venivano dal Belgio: si trattava della Beata Giuliana di Liegi e indirettamente di S. Lutgarda per istituire la festa speciale del Corpus Domini. Il Papa era un francese, Urbano IV. Conosceva bene l’area dalla quale venivano queste sollecitazioni, ma era in dubbio. Il Papa stava a Orvieto, e a una quindicina di chilometri di distanza, a Bolsena, un sacerdote stava dicendo Messa. Quelsacerdote aveva dei dubbi sulla verità della realepresenza. Un movimento inconsulto gli fece versareil calice. Uscì del Sangue. Videro tutti. Chi aveva autorità a Bolsena ebbe il buon senso di far recingere l’altare in modo che nessuno si vicinasse e toccasse perché potesse rimanere laprova intatta. Il Papa che stava a Orvieto andòpersonalmente a fare la costatazione a Bolsena. Prese il corporale bagnato del Sangue di GesùCristo e se lo portò a Orvieto e rimasecome attraverso i tempi la documentazione chedimostra Dio attestante, la verità della divina parola, cioè che si tratta di quella divina parola, di una attestazione divina, continua.Ho sentito dire che quest’anno la vostra associazione dirigerà il pellegrinaggio degli studenti a Siena. A Siena, nella grande basilica di S. Francesco, si conservano 223 particole consacrate. Furono rubate il 24 agosto 1730, furto sacrilego; poi forse il rimorso le ha fatte riportare in un’altra chiesa, nella cassetta delle elemosine, e sono state trovate lì dopo tre giorni. Le leggi di natura, la umidità dell’aria e tante altre cause che sono pure leggi di natura non permettono al semplice pane di restare intatto oltre un certo tempo; ammuffisce, si altera e si decompone come tutte le cose. Quelle particole invece hanno fatto eccezione. Sono rimaste intatte per oltre due secoli, dove tutti gli agenti de componenti avrebbero potuto agire. Quando le hanno ritrovate hanno capito che la cosa era straordinaria, e le hanno conservate, non le hanno consumate. Stanno là, e da qualche secolo perseverano intatte. Le leggi che toccano tutto e non fanno mai eccezione per nulla si sono arrestate dinanzi al sacro tesoro della chiesa di S. Francesco a Siena. Tutta la storia della Chiesa è costellata di fatti del genere. Ecco come stanno le cose. Sull’oggetto c’è il mistero. Gesù Cristo non lo si vede, ma sul motivum fidei c’è stata, ci fu, ci sarà la chiarezza. E non solo i cosiddetti miracoli autenticati, ma ci sarebbe tutta un’altra storia da studiare della quale qui non ho tempo di parlare, è una storia che è fatta dal ritmo che prendono le cose nella loro caducità e dall’inversione di ritmo che hanno quelle stesse cose quando incontrano GesùCristo.La conclusione qual è? Sarebbe comodo, è vero, per taluni — io, da teologo, ritengo che sarebbe terribilmente scomodo — vedere direttamente Gesù Cristo e parlare con Lui, così, con la bocca, come si fa con gli altri. Potrebbe sembrare comodo. No. Con Lui si parla attraverso questo medio; è l’atto di fede, è il motivum fidei, che in sé stesso può essere chiarissimo. Ho accennato che sarebbe molto scomodo se Gesù Cristo lo vedessimo direttamente. Contrariamente a quel che pare, è stato piissimo il nostro dolce Salvatore a far le cose a questo modo. Guardate bene, questi Santi che qualche volta rimescolano un po’ nelle faccende mistiche e vanno un po’ di là, pare che si scottino tutti lemani. Intanto, per prima cosa, non stanno in piedi,e a un certo punto muoiono perché non riescono a portare la costatazione, non dico delle cose divine ma di qualche cosa che è di pertinenza dell’ordine divino, fatta attraverso il nostro fragile corpo; non è portabile dal nostro corpo. S. Caterina da Genova, che fu una delle più grandi mistiche che abbia avuto la Chiesa, colei che hascritto il Trattato sull’amore di Dio, negli ultimi giorni della sua vita era arrivata a una tale elevazione mistica, aveva cioè la visione delle cose eterne in un modo, che a noi non è dato, per cui negli ultimi giorni a tenere in mano una tazza d’argento piena d’acqua fredda — gliela mettevano in mano per cercare di diminuire gli ardori della febbre —a tenerla in mano, faceva bollire l’acqua. Gliela mettevano in mano perché la raffreddasse e la sentivano bruciare. Essa era con la mente lassù, il corpo qui era ancora attaccato alla terra. Stava lì, col corpo, che è rimasto incorrotto. Quelli là le mettevano la tazza in mano con dentro acqua gelata per darle un ristoro, e quella la faceva bollire. Farla bollire voleva dire — poiché Genova è a 0° sul mare (ammettiamo pure che la casa dovestava fosse a 15, 16 m. s.l.m.) — voleva dire che era necessario che la temperatura che aveva nelle mani quella Santa fosse tale da poter dare il calore a 100°, per bollire. Se pensiamo che quando il corporaggiunge i 41°, ammettiamo anche i 42°, si muore, e quella arrivava a far bollire l’acqua — e notate che tutto è documentato — voleva dire che nella mano aveva una temperatura di 100°. E non moriva! Ma alla fine Iddio permise che questo fuoco, che aveva un’origine ben diversa da qualunque forma patologica e dalle altre malattie, la uccidesse, e così passò tra i Santi. Vedete, noi non potremmo sostenere la visione diretta delle cose divine. Il popolo d’Israele, quando vide quella specie di luminaria e sparatoria, quei fuochi d’artificio sul Sinai, disse a Mose: « Di’ che quelle cose Iddio le dica solo a te ». Immaginate se noi avessimo la visione delle cose divine! Ma ora qual è la conclusione? La conclusione è questa: se non c’è una grande fede, oh! l’Eucaristia si fa distante dalla vita dei fedeli. La fede, la certezza della fede si raggiunge razionalmente, ma lo splendore della fede è legato a tutte le cose che danno a noi splendore di grazia. Ma una cosa è chiara: noi avremo Gesù Cristo vicino, noi realizzeremo l’iter con Gesù Cristo nella stessa misura in cui ci sarà in noi una grandissima vita di fede. – Dio domanda che la volontà si pieghi nel dire « amen » non solo dinanzi al mistero dell’Eucaristia, ma anche dinanzi al mistero del mondo, che ha cose orribili, le quali debbono essere interpretate col metro della Provvidenza per non essere dei manichei. La tentazione della materia va superata continuamente: Iddio ci domanda continuamente un atto di fede. Ma il momento massimo della fede ce lo chiede qui. Lo vedete il medio? Con Dio siamo uniti in una intimità, in una familiarità stupenda, ma le nostre mani lo debbono palpare attraverso un sipario, sempre. Dio non viene a comandare in persona: è per questo che l’obbedienza vale, è per questo che l’umiltà vale. E se non passa attraverso i fratelli, anche l’amore diventa sospetto e forse talmente fragile da rompersi. C’è sempre il medio. Siamo qui in una prigione, che è il nostro corpo, il gran medio, mentre aneliamo alla felicità senza confini, al mare della pace. Ma finché non viene la morte a liberarci, dobbiamo intendercela col medio.

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 3° Corso di Esercizi Spirituali (6)

S. S. GREGORIO XVII:IL MAGISTERO IMPEDITO:

III CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI (6)

[G. Siri: Esercizi Spirituali; Ed. Pro Civitate Christiana – Assisi, 1962]

IL NOSTRO ITINERARIO CON GESÙ CRISTO

6. L’Inferno

Dobbiamo fare la meditazione sull’inferno, perché « initium sapientiæ timor Domini ». È una verità fondamentale, è un punto di riferimento costante l’inferno, perché è da evitare a qualunque costo, con qualunque sacrificio, con qualunque accettazione. – Non dimentichiamoci il tono generale dei nostri Esercizi. Noi parliamo dell’iter cum Christo, sapendo bene che il filone di questo iter è la SS. Eucaristia. – Ci sono due proposizioni che debbono dare la tonalità alla serietà delle riflessioni nostre. La prima. Dite un po’: vi andremo o non vi andremo? È la domanda più grave che io possa rivolgere a me stesso e che possa rivolgere a voi. C’è qualcheduno che è sicuro di non andarci? Non c’è nessuno che sia sicuro di non andarci. È terribile. Nessuno può dirlo. « Si quis dixerit se esse infallibiter certum de propria æterna salute, nisi hoc privata revelatione didicerit, anathema sit » (Concilio di Trento). Ma ci pensate? Badate che ci possiamo andare. Ci posso andare io, e ho più facilità di andarci di voi. Quando mi annunziarono l’Episcopato, la prima parola che dissi fu questa: « Ma io ho paura di andare all’inferno ». Quel gran Papa che fu Pio XII, mi pare che fossero gli ultimi mesi della sua vita, disse a una persona di sua confidenza che lo riferiva a me: « Io veramente alle volte sono preso da una gran paura di dover finire all’inferno ». Ed era un santo. Io ho avuto l’onore e la fortuna di conoscerlo bene, molto intimamente, e di servirlo. Posso dire che era un santo. Eppure…. Vi rendete conto del valore di questa domanda? Perché quello che abbacina non è tanto la dottrina sull’inferno, è l’esistenza, ed è il fatto che rappresenta un punto al quale noi possiamo arrivare e rimanere per sempre. Perché l’inferno è eterno, come comporta la legge di ordinarietà dell’altra vita e di stato di termine; e questo vuol dire che non si danno più mutazioni. Ma c’è la seconda proposizione. Nostro Signore ci ha amato, è venuto tra gli uomini, si è fatto come uno di noi, è nato a Betlemme, ha vissuto come uno di noi, ha lavorato povero più di noi, ha patito tutto. Non si è mai servito della sua potenza divina per allontanare dalla sua santissima umanità qualunque fastidio o per rendere più facile la propria strada. Non ha usato neppure il suo potere divino per far capire tutto ai discepoli nel tempo in cui li ha avuti con sé e li ha educati, lasciando che a tanti effetti crescessero e maturassero come avrebbero potuto maturare e crescere accanto a un altro uomo, tanto è vero che lo stesso giorno dell’Ascensione si è sentito rivolgere da taluni di loro certe domande che avrebbero fatto scappare la pazienza a chiunque. Eppure è stato al giuoco dell’umanità fino in fondo. E poi t’ha inventato questo: l’Eucaristia ha inventato. E così è rimasto con noi, e non per essere con noi per avere soltanto una indistanza, quella che ci può essere tra noi e un tabernacolo, ma è rimasto con noi perché noi dobbiamo mangiare l’Eucaristia. Egli viene dentro di noi e realizza veramente quello che è stato il suo sogno, tanto ci ha amati : « Io in voi, voi in me ». E rimane così. E la S. Messa si può dire su tutti gli altari del mondo, continuamente. Se ci sono delle ore in cui il diritto canonico impone che non si celebri la Messa, siccome la terra è rotonda, e le ore buone si alternano nella rotazione della terra, il Santo Sacrificio è da centinaia di migliaia di sacerdoti offerto ogni giorno, in ogni ora, secondo la profezia di Malachia. E in tutte le chiese. Ci sono quattro persone che vanno a stare su un monte, ed ecco spunta fuori una cappella; la Chiesa, materna, arriva con la parrocchia. Fin dove può, arriva anche il sacerdote che starà lì ad assistere quella poca gente, e l’altare è animato dalla presenza dell’Eucaristia, e la fiammella arde dappertutto, sempre. Il popolo, questo povero tappeto di tutte le ambizioni sul quale tanti giuocano, chi l’ha amato veramente non è stato che uno, Gesù Cristo. E allora, a pensare a tutto questo, deve essere facile, deve essere possibile, deve essere straordinariamente possibile appendersi al braccio di Gesù Cristo e farsi portare via dalle porte dell’inferno. Dal di dentro no, eh! Perché dal di dentro non porta più via, ma dal di fuori sì. Vedete le due proposizioni: creano un contrasto che è un dramma incredibile. Si direbbe che la mente non ci capisce più nulla, perché da una parte ciascheduno deve dire a sé stesso: tu puoi andare all’inferno; dall’altra: ma se è così, ecco, bisogna diventare proprio stupidi per andare all’inferno; questa è la conclusione ragionevole: bisogna diventare proprio stupidi, accettare la stupidità come una gloria. Con Lui che, dopo essersi incarnato, fatto uomo e dopo esser stato al giuoco dell’umanità fino in fondo — badate il trattato De Verbo Incarnato è stupendo, osservate la unità diquesta logica — stando al giuoco fino in fondo:se Gesù Cristo è stato uomo, deve essere possibilesalvarsi. È così vicino, così amabile, così infinitamente caro, così affettuoso, così tenero, cosìfermo ma così pieno di misericordia! E a emblemasuo ha permesso che fosse elevato ben piùalto, specialmente negli ultimi secoli, il suo Cuore,di cui l’Eucaristia è il documento. Le capite ledue proposizioni che cozzano dentro alla nostratesta? Da una parte possiamo andarci, all’inferno,nessuno di noi è sicuro d’evitarlo; dall’altra c’è questo spettacolo che riempie il cielo e la terra, il tempo e l’eternità, che si conforma come unaarra di tranquillità, di sicurezza e di pace. Dunqueper non diventare stupidi continuiamo a pensareche ci possiamo andare, e per continuare anon essere stupidi continuiamo a pensare che siamo con Lui. Le due proposizioni cozzano nella testa, fanno un po’ l’effetto di due pattini da sci acquatico, dei quali uno va un po’ su e l’altro va un po’ giù, e si deve correre dietro a questo motoscafo che corre pazzamente e noi siamo su questi due pattini. La meditazione dell’inferno a che cosa serve? A farci attaccare a un tabernacolo come se ci fosse nelle nostre mani un peso che ce le trattiene, e protese per accompagnare un atto di eterna adorazione e di eterno amore dell’anima.Allora mettiamoci un po’ a guardare dalla parte dell’inferno. Voi sapete che l’inferno consta della pœna damni e della pœna sensus. Anche qui c’è un binomio. La pœna damni è la vera sostanza dell’inferno, quella che basta da sola a farlo; se anche l’altra non ci fosse, l’inferno rimarrebbe, e consiste nella privazione di Dio. La poena sensus consiste in una pena aggiunta, non privazione ma aggiunta, pena positiva, dove entra un agente materiale per noi d’ignota natura. Poiché la nostra anima è stata unita al corpo, il ritmo della giustizia si propaga anche agli inferi, e il ritmo di questo binomio — anima e corpo — si propaga anche là secondo che è stata la situazione normale e comune della nostra esistenza. Ma la pœna sensus è la cosa minore, è il ristabilimento della giustizia lesa dal malo uso delle creature, lesa allora instato di libertà, lesa con chiara percezione di sovvertire un ordine e sovvertire quella strumentalità di tutte le cose di cui abbiamo parlato a proposito della morte, la strumentalità di tutte le cose che è quella che riproporziona, riaggiusta, riequilibra assolutamente tutto. Ora lasciamo stare la pœna sensus e recliniamoci un po’ nella pœna damni. La pœna damni sta in questo: Non Dio. Senza Dio. Ricordo che in un altro Corso di Esercizi, svolgendo il tema dell’inferno, vi ho fatto tutta la meditazione su questo punto: come viene a trovarsi l’anima appena staccata dal corpo. È una cosa terribile. Noi non abbiamo una percezione immediata della pœna damni e tanto meno ne abbiamo l’esperienza, ma per deduzione razionale possiamo avere una pallida idea di quello che viene a cessare al momento della morte e della situazione dell’anima, delle sue facoltà conoscitive e operative, indipendentemente dai sensi e pertanto al di fuori di qualsiasi rapporto col mondo che fino a quel momento l’ha accompagnata. Perché il punto di contatto col mondo lo si ha con l’accidens quantitatis che allora viene a cessare, perché l’anima è fuori dalla quantitas, essendo spirituale; anzi che è spirituale ce ne accorgiamo proprio perché è fuori dalla quantitas. Io non voglio ora ripetere quello che dissi allora. Posso supporre che una parte dei miei ascoltatori ricordino bene quella esposizione terrificante. E allora vado avanti con una serie di considerazioni che mi debbono poi riportare a Gesù Cristo, all’iter. Senza Iddio. Quaggiù, in questo mondo, Dio ha ritratto sé stesso in infinite cose, ed ecco perché tutte le cose portano qualche elemento di bellezza e di bene. Tutto quello che è, è bene. E tutto quello che è — lasciamo stare la discussione scolastica se ens et pulchrum convertuntur — se anche tutto quello che è non è necessariamente bello, certo ha la nota positiva appunto perché è per concorrere a realizzare il bello. E allora Iddio ha ritratto in infiniti modi il suo bene, la sua bellezza, per ogni dove e per ogni cosa. Nel fondo di ogni anima gli elementi della bellezza si contano assai più che se noi dovessimo affondare le mani in immensi forzieri ripieni distupende perle e di scintillanti pietre. Nel fondo delle anime, e in tutte le cose così, allo stesso modo, tanto più che tutte le cose si accendono quando una certa rifrazione d’intelligenza, anche quella riflessa dall’intelletto divino, riverbera su di loro una qualche luce. E il giuoco delle luci, di quelle intellettuali e anche di quelle materiali, per prendere le più espressive, è certamente mirabile, ricchissimo. E quaggiù si possono sostituire le cose. Viene a chiudersi un capitolo, se ne apre un altro. Passa una stagione col suo incanto, ne viene un’altra con un altro incanto. E tutto è surrogabile qui, perché la rifrazione dell’infinito Bene e dell’infinita Bellezza di Dio non ha praticamente limiti per noi. Poi è la fine. Là dove non c’è Dio, per noi non c’è più alcuna rifrazione, ossia non c’è più nulla nell’essere che accolga la rifrazione di Dio e la possa riverberare. È la fine, nella tremenda lucidità di unavita e di una intelligenza che non si può spegnere in eterno.Vedete, le grandezze dell’amore di Dio sono un controluce nell’inferno. Mi spiego con una immagine. Voi sapete che cosa sono gli iceberg. La legge degli iceberg è questa: che nella media stanno unterzo fuori dell’acqua, due terzi in acqua. Poi vene sono di quelli che stanno anche soltanto undecimo fuori dell’acqua, a seconda della loro conformazione, ma la media è un terzo fuori, dueterzi in acqua. Dell’iceberg si vede la parte minore: quello che s’affonda nei vortici del mare è pauroso. È pauroso: la montagna a rovescio. La figura riflessa nell’acqua è a rovescio. Ora tutte queste grandezze sono degli iceberg, la montagna che pende a rovescio. Sono le immagini ritrattenell’acqua che, anche quelle, pendono a rovescio. Dio mio! Ma che cosa dev’essere l’essere senza Dio quando Iddio, la parte che sta dritta, è arrivato a questo punto? A questo punto! Noi maneggiamo il Corpo del Signore. In questo pomeriggio qualcuno l’ha tirato fuori, l’ha maneggiato, l’ha infilato in un ostensorio, l’ha messo là sopra. E lui ha lasciato fare. Se qualcheduno l’avesse preso e scagliato per terra — Dio ce ne liberi — avrebbe lasciato fare! Perché ordinariamente Dio non fa miracoli per salvaguardare la tutela delle sacre specie; è rarissimo che il Signore abbia fatto miracoli; ne ha fatti, ma rarissimi. Poiché le specie sono ancora quelle del pane, che non c’è più, non si rompono le ossa a Gesù Cristo! Avrebbe lasciato fare anche quello. Come lascia fare talvolta a certi sacrileghi che sottraggono le sacre specie e le portano a sedute orrende, orrende, dominate dall’odium Dei. Perché è vero, è vero questo, accade qualche volta. Egli lascia fare. Questa è l’immagine dritta. Adesso prendetela, questa immagine, e rovesciatela nell’acqua. L’iceberg: la montagna che pesca a rovescio. Dopo aver avuto una vita con Gesù Cristo accanto, nell’inferno è Gesù Cristo a rovescio. È la montagna che pende in giù. È l’amore divino ma a rovescio, è l’immagine dello splendore, ma riflessa a rovescio; tutto quello che è grande, che è modulazione di misericordia, di grandezza, di gioia, di speranza, di attrazione, di elevazione eterna, tutto a rovescio.Vi immaginate la Messa a rovescio, la Passione di Gesù Cristo a rovescio, la Redenzione a rovescio, la parola di Dio a rovescio, la verità a rovescio, il Bene, l’Amore, tutto a rovescio? L’iceberg. Figura paurosa ma, direi, per noi simbolo rivelatore. E tutte le volte che guarderete uno specchio d’acqua e vedrete delle immagini riflesse, a rovescio, vi prego di ricordarvi quello che vi ho detto. E allora attacchiamoci a Lui; perché se noi non ci attacchiamo a Lui, che cosa faremo? La prima delle due proposizioni che ho enunciato iniziando la meditazione: io posso andare all’inferno, è troppo terribile, pencola troppo sul nostro destino. Attacchiamoci a Lui. Questo iter, fosse anche lastricato di tutti i dolori, percorriamolo attaccati a Lui, con Lui, in divina compagnia. La riflessione a rovescio di tutte le grandezze, in cui sia una obbiettiva considerazione per raggiungere qualche cosa del concetto dell’inferno, ci aiuti ad amare questo iter comunque piaccia al buon Dio di lastricarlo. E se qualche volta saremo noi stessi a cospargerlo di spine e di rovi, sarà tanto di guadagnato, sarà tanto più sicuro, e tanto più certa sarà la speranza che l’essere attaccati al braccio di Gesù Cristo non si rallenti mai più. Perché la certezza ci manca ma la speranza no: è una virtù teologale, la speranza; se noi siamo fuori dalla speranza, siamo nel peccato, perché anche la disperazione è un peccato orrendo. Vi dicevo che noi siamo esattamente come su due pattini da sciacquatico dei quali uno un po’ va giù, a seconda di come è la pressione che noi facciamo con le gambe, a seconda del moto dell’onda, a seconda del tipo di sterzare del motomezzo che ci trascina. Va un po’ su, va un po’ giù…. Ma, in fin dei conti, abbiamo una corda in mano. Quella, non lasciamola scappare, è un filo conduttore, è l’iter con Gesù Cristo. S. Agostino concludeva: « Descendamus in infernum viventes ne descendamus morientes ». È meglio discendervi da vivi che da morti : « Hic combure, hic seca, dummodo in æternum non comburas ». È meglio trovarci un po’ di pauretta di qua che andare non a trovare paura ma a subire l’orrore per definizione, l’orrore per definizione che è l’anti-Dio. Ricordiamoci di queste cose quandola terra ci scotta sotto i piedi, quando sale la mosca al naso, tutte le mosche al naso, tutte, nessuna esclusa, quando ci sono gli istinti che si mettono a girare e a fare una tregenda. Ricordiamocene allora. I rovi, le penitenze, anche le più aspre, come quelle del Santo Curato d’Ars, sono cose che paiono niente. Prendiamo tutto, utilizziamo tutto; ma, attenti bene, non distacchiamoci mai dall’iter con Gesù Cristo, perché la sicurezza — tanto il chiodo è lì — non l’abbiamo ma la speranza sì. Vedete, il mondo ci dà oggi una certa descrizione dell’inferno. La cultura moderna, messa bene tutta insieme, dà una certa impressione dell’inferno. E forse Iddio lo permette perché gli uomini, che potrebbero essere sereni e giocondi, anche nella croce e sulla croce, di qua non ne vogliono sentir parlare e hanno quel che si meritano. Guardate bene che l’inferno è la negazione, la negazione totale, perché è: non Dio, pœna damni.Tutto ciò che è meramente negativo è infernale; è parente del diavolo tutto ciò che è meramente negativo. Aprite gli occhi. Non valgono ragioni d’arte, perché non esistono, e non valgono ragioni di cultura, perché non esistono in subiecta materia. Il negativo è negativo e pertanto non esiste, non ha concretezza. Non valgono, dico, le ragioni d’arte o supposte d’arte, o le ragioni di cultura o supposte di cultura, per accettare come un bello scherzo, come un amabile passatempo quello che il mondo moderno propina di meramente negativo nella sua, qualche volta si direbbe sagace, che invece è satanica opera con la quale morde e riduce alla negatività le cose splendenti della vita. Guardate il tratteggio dell’inferno che hanno fatto gli ultimi quattro secoli, proprio perché hanno la linea della negatività. Da quando, precedute da un certo naturalismo panteistico, poi da tante altre storture delle quali non è ora il caso diparlare, Lutero ha innalzato la bandiera della rivolta contro la Chiesa e contro la divina tradizione dell’Evangelo, la divina tradizione, pur tenendo in mano la Bibbia, guardate bene il tratteggio della negatività: al posto dell’oggetto è andato il soggetto e si è capovolto tutto. Conseguenza logica, immediata, razionalissima di questo capovolgimento, la perdita del criterio di verità e della certezza della verità, perduta come un bene rimpianto da gran parte della cultura moderna; perduta la certezza della cognizione, affogata questa cultura nel suo agnosticismo, del quale tenta satanicamente di bearsi a rovescio soffrendone — perché il suo bearsi è il soffrire —e costruendo così, con irrompente audacia, i sogni stupidi e più rovesciati che in tutti i tempi siano mai usciti fuori dalla mente umana, costruendo pertanto un mondo a rovescio. Cose a rovescio. La negatività è l’essere a rovescio. Non è rimasto più niente, per tanta gente, della sicurezza della verità, della obiettività delle cognizioni. E alla fine, come debole, ingenua e disgraziata reazione a questo, l’esistenzialismo: consolarsi con l’angoscia. L’atto dell’esistenza, dopo aver rifiutato l’atto dell’intelligenza che conquista la verità, l’atto dell’esistenza va inteso soltanto in quel momento, come se fossero — la vedete la negatività? — le cose a rovescio. Soltanto quando si è nell’angoscia: lo vedete l’iceberg, la montagna che pende a rovescio, tutta la cultura, che, pur avendo aspetti anche grandiosi, in realtà nel suo insieme pare seguire il tratteggio della negatività. La montagna a rovescio, l’iceberg, quello contro il quale, se la nave sperona, si fracassa ed è il disastro, il naufragio. Ecco ciò che è dato a noi di vedere. Questo mondo, quando voi lo considererete; quando, distaccandovi un po’ dal particolare e prendendo, nel silenzio dell’anima, la distanza sufficiente per coglierne le grandi linee architetturali, le guarderete, osservate bene e vedrete la montagna a rovescio che pesca nell’acqua. L’immagine fatta tutta a rovescio. Come se gli uomini, trastullandosi con la loro vita e con tutti i beni della vita, per via del loro peccato, si divertissero anche a fare il carnevale dell’inferno a questo mondo. E noi stiamo assistendo al carnevale dell’inferno. E tutte queste cose vi servano. Dante si è giuocato un po’ di un mio concittadino, Branca Doria, trovandolo all’inferno e definendolo « col corpo ancor vivo ancor di sopra ». Povero Branca Doria! Chissà che dispetti gli avesse fatto? Ma guardate che di Branca Doria ce ne sono tanti, perché molti in questo mondo hanno la disperazione della negatività di tutte le cose: della negatività dell’aria che respirano, della vita che portano, dell’amore che è senso e nient’altro, come schiatta fuori da una parte notevole ormai della letteratura e degli spettacoli che si danno sulle scene d’Italia. Oggi, badate che molti dei nostri simili, poveretti, sono come Branca Doria. Non c’è verso, si dimenano in tuttii modi e non riescono a godere niente, ad avere piacere di niente, ad avere certezza di niente. Hanno rifiutato la fede, non hanno voluto dire amen a Gesù Cristo e dicono amen a tutto e lo dicono a rovescio. La montagna rovesciata, e la immagine riflessa nell’acqua tutta a rovescio. Povera gente! Però la considerazione architetturale del nostro mondo che sta facendo della negatività, elemento infernale, un suo segno caratteristico, ci richiami costantemente all’« initium sapientiae timor Domini ». Attacchiamoci, nel nostro iter, a questo nostro Salvatore dolcissimo, col quale possiamo parlare tutti i giorni e tutto il giorno, col quale possiamo vivere, lavorare e soffrire, col quale possiamo andare innanzi nella vita e col quale serenamente possiamo aspettare il tramonto. Attacchiamoci. E se qualche volta il sonno prende, facciamo come S. Carlo che teneva in mano una palla di metallo perché, se si addormentava, gli cadesse sui piedi e glieli schiacciasse e lo svegliasse. Anche noi teniamo questa palla continuamente perché sempre ci ricordi le cose dette in questa meditazione, questa palla che, ove il primo accenno dell’assopimento si avanzi, rotoli giù, ci schiacci qualche cosa, ci svegli, sicché « descendamus in infernum viventes » sempre, tutti i giorni,« ne descendamus morientes ». A forza di pensare alla morte tutti i giorni, si muore bene e sereni. E a forza di discendere all’inferno tutti i giorni, penso che, forse, ce la caveremo.

https://www.exsurgatdeus.org/2020/01/15/gregorio-xvii-il-magistero-impedito-3-corso-di-esercizi-spirituali-7/

SALMI BIBLICI: “INCLINA, DOMINE, AUREM TUAM” (LXXXV)

Salmo 85: “Inclina, Domine, aurem tuam”

CHAINE D’OR SUR LES PSAUMES

ou LES PSAUMES TRADUITS, ANALYSÉS, INTERPRÉTÉS ET MÉDITÉS A L’AIDE D’EXPLICATIONS ET DE CONSIDÉRATIONS SUIVIES, TIRÉES TEXTUELLEMENT DES SAINTS PÈRES, DES ORATEURS ET DES ÉCRIVAINS CATHOLIQUES LES PLUS RENOMMÉS.

[I Salmi tradotti, analizzati, interpretati e meditati con l’aiuto delle spiegazioni e delle considerazioni seguite, tratte testualmente dai santi Padri, dagli oratori e dagli scrittori cattolici più rinomati da …]

Par M. l’Abbé J.-M. PÉRONNE,

CHANOINE TITULAIRE DE L’ÉGLISE DE SOISSONS, Ancien Professeur d’Écriture sainte et d’Éloquence sacrée.

[Canonico titolare della Chiesa di Soissons, Professore emerito di Scrittura santa e sacra Eloquenza]

TOME DEUXIÈME.

PARIS – LOUIS VIVES, LIBRAIRE-ÉDITEUR 13, RUE DELAMMIE, 1878

IMPRIM.

Soissons, le 18 août 1878.

f ODON, Evêque de Soissons et Laon.

Salmo 85

Oratio ipsi David.

[1] Inclina, Domine, aurem tuam

et exaudi me, quoniam inops et pauper sum ego.

[2] Custodi animam meam, quoniam sanctus sum; salvum fac servum tuum, Deus meus, sperantem in te.

[3] Miserere mei, Domine, quoniam ad te clamavi tota die;

[4] lætifica animam servi tui, quoniam ad te, Domine, animam meam levavi.

[5] Quoniam tu, Domine, suavis et mitis, et multæ misericordiæ omnibus invocantibus te.

[6] Auribus percipe, Domine, orationem meam, et intende voci deprecationis meæ .

[7] In die tribulationis meæ clamavi ad te, quia exaudisti me.

[8] Non est similis tui in diis, Domine, et non est secundum opera tua.

[9] Omnes gentes quascumque fecisti venient, et adorabunt coram te, Domine, et glorificabunt nomen tuum.

[10] Quoniam magnus es tu, et faciens mirabilia; tu es Deus solus.

[11] Deduc me, Domine, in via tua, et ingrediar in veritate tua; lætetur cor meum, ut timeat nomen tuum.

[12] Confitebor tibi, Domine Deus meus, in toto corde meo, et glorificabo nomen tuum in æternum;

[13] quia misericordia tua magna est super me, et eruisti animam meam ex inferno inferiori.

[14] Deus, iniqui insurrexerunt super me, et synagoga potentium quæsierunt animam meam, et non proposuerunt te in conspectu suo.

[15] Et tu, Domine Deus, miserator et misericors; patiens, et multae misericordiæ, et verax.

[16] Respice in me, et miserere mei; da imperium tuum puero tuo, et salvum fac filium ancillæ tuæ.

[17] Fac mecum signum in bonum, ut videant qui oderunt me, et confundantur, quoniam tu, Domine, adjuvisti me, et consolatus es me.

[Vecchio Testamento Secondo la Volgata Tradotto in lingua italiana da mons. ANTONIO MARTINI Arciv. Di Firenze etc.

Vol. XI

Venezia, Girol. Tasso ed. MDCCCXXXI]

SALMO LXXXV.

Davide nelle varie tribolazioni ricorre a Dio, fonte di vera consolazione, con umile preghiera.

Orazione dello stesso David.

1. Porgi, o Signore, le tue orecchie, ed esaudiscimi; perocché afflitto son io e in povertà.

2. Custodisci l’anima mia, perché io sono a te consacrata, salva il tuo servo, o Dio il quale in te spera.

3. Abbi pietà di me, o Signore, perché tutto il giorno ho alzate a te le mie grida:

4. consola l’anima del tuo servo, perché a te, o Signore, ho innalzata l’anima mia.

5. Perocchè soave se’ tu, o Signore, e benigno e di molti misericordia per quei che t’invocano.

6. Odi propizio, o Dio, la mia orazione, e presta attenzione alta voce delle mie suppliche.

7. A te alzai le mie grida nel giorno di mia tribolazione, perché tu mi esaudisci.

8. Niuno è simile a te tra gli dei, o Signore, e niuno, che imitar possa le opere tue.

9. Le nazioni tutte, quante ne sono state fatte da te,  varranno, e te adoreranno, o Signore, e daran gloria al nome tuo.

10. Perché tu se’ grande, e fai opere meravigliose; tu solo se’ Dio.

11. Conducimi nella tua via, o Signore, e io camminerò nella tua verità si rallegri il mio cuore in temendo il tuo nome.

12. A te io darò laude, o Signore Dio mio, con tutto il mio cuore: e in eterno glorificherò il nome tuo;

13. Perocchè grande ell’è la misericordia tua sopra di me, e l’anima mia hai tratta fuori dell’inferno profondo.

14. O Dio, gl’iniqui han cospirato contro di me, e una turba di potenti ha assalito l’anima mia, ed eglino non si figurano, che tu sii ad essi presente.

15. Ma tu, Signore Dio buono, e benefico, e paziente, e di molta misericordia, e verace.

16. Volgi il tuo sguardo a me, e abbi di me pietà, dà il tuo impero al tuo servo, e salva il figliuolo di tua ancella.

17. Fa un segno buono per me, affinché color che mi odiano, veggano per loro come tu, o Signore, mi hai dato aiuto, e mi hai consolato.

Sommario analitico

Davide, perseguitato da Saul, rappresenta qui Gesù-Cristo che parla tanto nel suo Nome, che a nome del suo Corpo mistico, il giusto che si mette sotto la protezione del cielo, soprattutto in tempi di avversità.

I. Egli domanda a Dio di esaudire la sua preghiera.

1° Il primo motivo è tratto da se stesso: a) egli è sprovvisto dei beni di fortuna (1); b) è compartecipe dei beni dell’anima, la grazia, una ferma speranza, il fervore e la costanza della preghiera, un’anima elevata al di sopra di tutte le cose della terra (2-4); 2° Il secondo motivo è tratto da Dio, a) la cui clemenza è piena di dolcezza e di bontà e la cui misericordia è grande su tutti coloro che Lo invocano nella tribolazione (5-7); b) la cui eccellenza è incomparabile. – Egli sorpassa tutti gli esseri con la sua essenza. – Nessuno può essere a Lui comparato per potenza. – Egli è mirabile per la conversione di tutte le nazioni, grande per maestà, incomparabile per potenza, ed è il sovrano Padrone e Signore dell’universo (8-10).

II. – Egli fa conoscere l’oggetto della sua preghiera; chiede a Dio:

1° di condurlo e dirigerlo nella sua via, dargli la gioia del cuore e il timore del suo nome; promette di rendere grazie a Dio con tutto il suo cuore, e di glorificare eternamente il suo Nome a causa della misericordia che gli ha fatto sentire in tutte le circostanze della sua vita e dopo la sua morte (12, 13);

2° di aiutarlo e sostenerlo nel momento della morte, a) a causa dei suoi nemici che si levano ingiustamente contro di lui cercando di togliergli la vita e nella loro malizia allontanarlo dagli occhi di Dio (14); b) a causa della misericordia e la veracità di Dio (15);

3° di glorificarlo dopo la sua morte, a) dandogli la potenza e l’impero (16); b) colpendo con il terrore i suoi nemici con lo spettacolo della sua resurrezione e confondendoli con il potente soccorso che gli ha dato (17). 

Spiegazioni e Considerazioni

I. — 1-9.

ff. 1. – Il Profeta comincia la sua preghiera presentando la grandezza di Dio e la propria bassezza. È questa la migliore delle preghiera, « perché la preghiera di colui che si umilia, penetrerà i cieli » (Eccli. XXXIII). Dio abbasserà le sue orecchie se non alzate orgogliosamente la testa; perché Egli si avvicina a chi è nell’umiltà, e si allontana da chi è elevato. Dio abbassa dunque le sue orecchie verso di noi. In effetti, Egli è in alto e noi siamo in basso; Egli è al culmine della grandezza, noi siamo nella bassezza, ma non siamo destinati all’abbandono. Egli abbassa il suo orecchio verso il ricco; lo inclina verso il povero, verso colui che manca di tutto, vale a dire verso colui che è umile, che confessa i suoi peccati e che ha bisogno della misericordia divina; ma non si inclina verso colui che è sazio, che si eleva e si vanta come se non avesse bisogno di niente (S. Agost.).

ff. 2. – «Custodite l’anima mia, perché io sono santo ». Io non so chi potrebbe pronunciare queste parole: « … perché Io sono santo », se non chi era senza peccato nel mondo; … che non ha commesso nulla, ma che ha rimesso i peccati di tutti .. Ma se io qui riconosco la voce del Cristo, devo dunque separare la mia dalla sua? No, perché Egli parla senza che dovremmo separarla dal suo corpo, quando si esprime in questo modo. Io oserei dirvi anche: « Perché io sono santo ». Se io volessi dire santo, come potrei santificare me stesso non avendo bisogno di essere santificato, stante queste parole « … siate santo, perché Io sono santo » (Lev. XIX, 2), in questo senso il Corpo di Cristo osa dire con il suo Capo, ed alle dipendenze del suo Capo: « … perché io sono santo ». Questo Corpo ha ricevuto in effetti la grazia della santificazione, la grazia del Battesimo e della remissione dai peccati. « … Ecco ciò che siete stato », dice l’Apostolo, dopo avere enumerato diversi peccati, « ma voi siete stati lavati, siete stati santificati » (I Cor., VI, 11). Se dunque l’Apostolo dice che i fedeli sono stati santificati, ogni fedele può dire: « io sono santo ». Non è questo l’orgoglio di un uomo che si eleva, bensì la confessione di un uomo che non è ingrato (S. Agost.). 

ff. 3, 4. – Due sono le qualità principali della preghiera: l’ardore della preghiera, « Io ho gridato », e la sua perseveranza, « … tutto il giorno ». – Riempite di gioia l’anima del vostro servo, perché io l’ho elevata verso di Voi. In effetti, essa era sulla terra, e sulla terra non sentiva che amarezza. Poiché non venga a disseccarsi nella sua amarezza e perdere tutta la dolcezza della vostra grazia, rallegratevi in Voi stesso,  perché solo Voi siete gioia e dolcezza, il mondo è pieno di amarezza. Certo il Cristo ha buone ragioni nell’avvertire i suoi membri, nel tenere elevati i loro cuori. Che lo ascoltino dunque e gli obbediscano, che elevino verso di Lui tutto ciò che si soffre sulla terra; perché il cuore sulla terra non potrebbe marcire quando si elevasse verso Dio. Se avete del grano depositato a casa vostra, in qualche locale sotterraneo, per impedire che marcisca, lo farete mettere nei locali più elevati della casa. Voi cambiereste posto al vostro grano, e lascereste il vostro cuore marcire sulla terra?  Voi che mettereste il vostro grano nel locale più alto della vostra casa, elevate dunque ugualmente il vostro cuore al cielo. E come posso, vi chiederete? Quali corde, quali macchine, quali scale sarebbero sufficienti? I gradini sono i vostri sentimenti; il cammino è la vostra volontà. Con la carità voi salite, con la negligenza scendete. Restando sulla terra, voi siete in cielo se amate Dio: il cuore non si eleva allo stesso modo del corpo. Il corpo per elevarsi, cambia posto, il cuore per elevarsi, cambia volontà: « io ho elevato la mia anima a Voi ». (S. Agost.).

ff. 5. – « Perché Voi siete dolce e soave ». Oppresso dal disgusto, per così dire, in ragione dell’amarezza delle cose della terra, egli ha desiderato qualche raddolcimento, ha cercato la fonte della dolcezza e non l’ha trovata sulla terra, perché, da qualunque parte si volga, trova scandali, soggetti di terrore, afflizioni, tentazioni. – In quale uomo si può trovare una intera sicurezza? Da chi si può  ricevere una gioia certa? Ciò che non trovava in se stesso, come trovarlo in un altro? … Di conseguenza, ovunque si volga, l’uomo trova amarezza nelle cose della terra, e non c’è per lui alcun raddolcimento se non si eleva a Dio (S. Agost.). –  « Perché siete così misericordioso con coloro che vi invocano », cosa vuol dire ciò che noi leggiamo in diversi passi della Scrittura?  « … essi invocheranno ed Io non li esaudirò? » (Prov. I, 28) se non è qualcuno di coloro che invocano, ma non invocano Dio? Di essi è detto: « Essi non hanno invocato Dio » (Ps. LII, 6). Essi invocano, ma non invocano Dio. Voi invocate tutto ciò che amate; voi invocate tutto ciò che volete venga a voi. Ora, se invocate Dio perché vi arrivi una somma di denaro, una eredità, una dignità del mondo, invocate realmente questi beni che voi volete veder venire a voi, e si domanda a Dio, non di esaudire dei giusti desideri, ma di venire in aiuto alle vostre cupidigie (S. Agost.).

ff. 6. 7. – Quale ardente desiderio in questa preghiera: « Signore fate entrare profondamente la mia preghiera nelle vostre orecchie; » cioè che la preghiera mia non esca dalle vostra orecchie; fatela penetrare, sprofondatela nelle vostre orecchie. Come mai il profeta ha questo pensiero di far penetrare la sua preghiera nelle orecchie di Dio? Dio risponde e ci dica: volete che la vostra preghiera penetri nelle mie orecchie? Fate penetrare la mia legge nel vostro cuore! – La causa per la quale mi avete esaudito è che nel giorno della mia tribolazione io « ho gridato verso di voi ». Poco innanzi il profeta aveva detto: io ho gridato tutto il giorno, ho sofferto la tribolazione tutto il giorno. Che nessun Cristiano dica dunque che c’è un solo giorno nel quale non abbia subito alcuna tribolazione. « Tutto il giorno » vuol dire in ogni tempo. Tutto il giorno è nella tribolazione. Che dunque, si soffre la tribolazione anche quando tutto per noi va bene? Si, in ogni tempo, si soffre la tribolazione. Da dove viene la tribolazione? Perché « finché noi siamo sottomessi al nostro corpo, noi siamo esiliati lontano da Dio … » Colui al quale l’esilio è dolce, non ama la sua patria: se la patria gli è dolce, l’esilio gli è amaro, e se l’esilio gli è amaro, egli è tutto il giorno nella tribolazione (S. Agost.).

ff. 8. – Qualunque cosa l’uomo possa inventare, ciò che è stato fatto non è simile a colui che l’ha fatto. Ora, eccetto Io, tutto ciò che esiste in natura è stata fatta da Dio. E chi potrà mai concepire la distanza tra il Creatore e ciò che ha creato? Dio è ineffabile; noi diremmo più facilmente ciò che non è, che ciò che è … Voi domandate ciò che è? … E ciò che l’occhio non vede, ciò che l’orecchio non ha inteso, ciò che non è salito nel cuore dell’uomo (I Cor. II, 9), – (S. Agost.).

ff. 9, 10. – Questa è la predizione che annuncia la fondazione della Chiesa; tal predizione è in parte compiuta, e continua a compiersi tutti i giorni, con la conversione alla fede delle Nazioni più remote. – Le Nazioni convertite « renderanno grazie al nome di Dio » mentre Cristiani pervertiti disonorano questo santo nome con le loro empietà e bestemmie (Aug.).

II. — 11-17.

ff. 11, 12. – Il Profeta chiede di essere condotto nella via di Dio e non nella propria via, nella verità di Dio e non nelle illusioni del proprio spirito. – « Conducetemi Signore, nella vostra via. » Io già sono nella vostra via, ma ho bisogno di essere condotto da Voi. « Ed io camminerò nella vostra verità. » se Voi mi condurrete io non errerò più, se Voi mi abbandonerete a me stesso, io sarò indotto in errore. Pregatelo dunque di non abbandonarvi, ma al contrario, di condurvi al fine, avvertendovi costantemente e dandovi costantemente la mano. Perché Dio, dando il suo Cristo, dà la sua mano, e dando la sua mano, dà il suo Cristo. Egli conduce fino alla via che conduce al suo Cristo, Egli conduce alla sua via, conducendo al suo Cristo. Ora il Cristo è la verità. « Che il mio cuore sia colmo di gioia perché teme il vostro Nome. » Il timore è dunque compatibile con la gioia. E come v’è gioia se vi è timore? Il timore ordinariamente è qualcosa che si ama? Verrà un giorno in cui la gioia sarà esente dal timore, ma ora la gioia è mescolata al timore. In effetti sulla terra non c’è ancora piena sicurezza, né gioia perfetta. Se non abbiamo alcuna gioia, cadiamo nel fallimento; se la nostra sicurezza è intera, tutti ci diamo a funesti trasporti. Dio espanda dunque la sua gioia su di noi e ci ispiri il suo timore al fine di condurci con la dolcezza della gioia, al giorno della sicurezza. Dandoci il timore, preverrà ogni trasporto cattivo ed ogni allontanamento dalle via (S. Agost.). – « Il timore del Signore è la sua gloria, ed il trionfo, una fonte di gioia ed una corona di allegria. Il timore del Signore farà gioire il cuore, esso darà la gioia, l’allegria  e la lunghezza dei giorni » (Eccli, I, 12). Alla domanda si fa succedere l’azione di grazia, perché nulla è più utile per ottenere nuovi benefici, che si mostrino riconoscenti  coloro che li hanno ricevuti.

ff. 13. – Tale è la misericordia divina che noi dobbiamo misurare con la distesa dei mali dell’inferno dai quali essa ci libera, e con la grandezza dei beni eterni ai quali essa ci prepara. – Se un riprovato venisse tratto fuori dall’inferno e ristabilito nella via delle buone opere e del merito, con quel sentimento si occuperebbe di questo versetto, in cui il Profeta dice che la misericordia del Signore è infinita al suo riguardo, perché lo ha tratto dal fondo dell’inferno! Io non posso dire e neanche concepire ciò che farebbe per testimoniare a Dio la sua riconoscenza. È da presumere che la sua vita non sarebbe che un tessuto di azioni di grazie, e che niente potrebbe distrarlo da questo santo esercizio. Perché? Perché egli avrebbe sperimentato il più grande dei mali, che è la riprovazione; perché si ricorderebbe perpetuamente delle fiamme divoranti da cui sarebbe stato liberato. Quando l’uomo ha meritato l’inferno, e che, per effetto della misericordia divina, e stato ristabilito nella grazia, non dovrebbe dire anche come il Profeta: Signore, io vi renderò eterne azioni di grazie, perché la vostra misericordia mi ha liberato dall’abisso in cui i miei crimini mi avevano sprofondato? Occorre dunque che la nostra fede imperi nel nostro spirito più  di quanto non sarebbe con la prova della dannazione? Siamo sicuri dell’esistenza del luogo di tormenti più di quanto non lo fossero il ricco epulone o l’apostolo traditore? La parola di Gesù-Cristo non è sufficiente a convincerci? (Berthier).  

ff. 14, 15. – È sufficiente essere giusto per avere i malvagi contro di sé. Basta levarsi contro il vizio, perché coloro che lo amano si levano contro il giusto. – Ma soprattutto, attaccare il vizio nei potenti, è dar loro l’occasione di cercare di perderci. Di cosa non è capace colui che non ha il timore di Dio davanti agli occhi? In questo versetto, il salmista oppone gli attributi di Dio alla malvagità dei persecutori, per accelerare il soccorso di cui ha bisogno. Secondo la forza del testo, il primo di questi attributi è la tenerezza, il secondo la benevolenza, il terzo la lentezza nel punire, il quarto è la misericordia, il quinto è la fedeltà.

ff. 16. – La prova di questa dolcezza, di questa longanimità, è soprattutto la pazienza di Dio nel tollerare preghiere così imperfette come le nostre. San Agostino stabilisce qui un dialogo pieno di fiducia da una parte, ed una tenerezza misericordiosa dall’altra, tra l’anima ed il Signore. – « … Mio Dio, siate la mia gioia, perché mi sono elevato a Voi finché ho potuto, per quanto mi avete dato di forza, per quanto ho potuto conservare le mie fuggitive potenze. » – Ma voi avete dimenticato, riprende il Signore, quante volte nelle vostre preghiere, siete stato distratto da mille pensieri vani e superflui? Forse appena una volta la vostra preghiera è stata fissa e stabile. E l’anima continua: … è vero o mio Dio, ma Voi siete soave e dolce: la vostra dolcezza mi tollera. Io sono malato e fluisco come l’acqua, guaritemi, ed io sarò fermo e stabile; e nell’attesa, Voi mi tollerate perché siete soave e dolce, e pieno di misericordia. Voi non avete solo misericordia, ne siete pieno, i nostri peccati si moltiplicano, e le vostre misericordie si moltiplicano nello stesso tempo.

ff. 17. – Nessuno cerca consolazione se non è nella miseria. Voi non volete consolazione? Dite che siete felice. Allora voi ascolterete queste parole: « … il mio popolo, coloro che dicono che voi siete felici, vi inducono in errore e turbano i sentieri ove camminano i vostri piedi. » (Isaia III, 12). L’Apostolo S. Giacomo usa lo stesso linguaggio: « Gemete – egli dice – e piangete; che il vostro riso si muti in lutto » (Giac. IV, 9). Le Scrittore parlerebbero senza sicurezza? Ma questa regione è quella degli scandali, delle tentazioni e di tutte le miserie, affinché noi gemiamo quaggiù, mentre noi meritiamo di rallegrarci in cielo e dire: « Voi avete liberato i miei occhi dalle lacrime ed i miei piedi dalla caduta; camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi (Ps. CXIV, 8, 9). Questa regione è quella dei morti. La regione dei morti passa; la regione dei vivi arriva (S. Agost.).

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 3° Corso di Esercizi Spirituali (5)

S. S. GREGORIO XVII:IL MAGISTERO IMPEDITO:

III CORSO DI ESERCIZI SPIRITUALI (5)

[G. Siri: Esercizi Spirituali; Ed. Pro Civitate Christiana – Assisi, 1962]

IL NOSTRO ITINERARIO CON GESÙ’ CRISTO

5. Il Giudizio di Dio

È necessario parlare del giudizio di Dio. Abbiamo due giudizi: quello particolare, che segue alla morte di ciascun uomo, e quello universale, che riprende il giudizio di tutti gli uomini, di tutti i singoli, e lo riprende sul piano dell’umana famiglia e della storia. Siccome a noi interessa piuttosto conoscere il criterio del giudizio del Signore e siccome questo è lo stesso, sia che si tratti del giudizio particolare sia che si tratti del giudizio universale, possiamo porre la nostra attenzione piuttosto a questo. E così ci incontreremo un’altra volta con Gesù Cristo. – Prendiamo il cap. XXV dell’Evangelo di S. Matteo, versetto 31 e seguenti, dove si parla del giudizio universale. Gesù prospetta la scena ai suoi uditori: « Dio separerà i buoni dai cattivi come un pastore separa i capri dalle pecore. Metterà questi a sinistra e gli altri a destra, disposizione reale e disposizione simbolica. Dirà a quelli che sono a destra: Io ebbi fame e mi avete dato da mangiare; ebbi sete e mi avete dato da bere; fui ignudo e mi avete ricoperto; fui infermo, carcerato, e mi avete visitato. Quelli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo dato da mangiare, da bere, ricoperto, visitato? Risponderà il giudice: Quello che avete fatto a ciascuno di questi piccoli lo avete fatto a me! ». Queste ultime parole sono rivelatrici perché anzitutto rivelano il fine cristologico della carità. La si fa per Lui. E qui ritroviamo nuovamente l’asse, il filone dei nostri Esercizi. Vediamo le due leggi che ci vengono rivelate da questo tratto che riguarda il giudizio universale, ma che rivela un criterio valevole tanto per il giudizio universale come per il giudizio particolare. La prima legge è quella dell’alterità, ossia: Dio chiede agli uomini che si ricordino bene di non essere soli, e pertanto l’impegno della loro vita è perfettamente errato se pensano soltanto a sé stessi. Notate bene che il modo col quale si esprime N. S. Gesù Cristo nel giudizio universale, e che riflette pure quello del giudizio particolare, è quello di fare una selezione. Egli avrebbe potuto dire: Perché non siete stati chiari con voi stessi? Non è che Egli non voglia che non si sia chiari con noi stessi. Perché non siete stati sinceri con gli altri? Non è che Egli non voglia che non si sia sinceri con gli altri. Ha scelto questo punto, il che vuol dire che lo ritiene discriminante ed equilibrante l’uomo. È la legge dell’alterità: ci sono gli altri; e si sbaglia tutto quando si crede di essere soli e quando si agisce come se si fosse soli; e quando ci si diporta come se noi non dovessimo nulla agli altri. Agli altri si deve tutto. Gesù aveva detto, e più di una volta: « Ama il tuo prossimo come te stesso ». Gli altri pertanto, nel pensiero di N. S. Gesù Cristo, compaiono tanto quanto compariamo noi, cioè ciascun uomo sa che nella vita gli altri non hanno meno peso di quello che lui stesso ha di fronte a sé stesso. Questa è la legge. – Vi prego di osservare questa divina armonia della legge. L’uomo non si è creato da sé, l’ha creato Iddio. Ed ecco la prima alterità, fondamentale di tutto. Pertanto non ha niente di cui possa dire: questo è soltanto mio. No, in un senso proprio, definitivo e originale, non lo può dire. Creato da Dio, messo in questo mondo, lasciando sempre al di sopra delle cause seconde la causa prima, l’uomo ha ricevuto tutto: la vita da suo padre e da sua madre, e poi riceve continuamente tutto dalla società. Guardate. Ma ci vuol tanto a capire certe cose? Credo che nessuno di noi abbia coltivato le materie prime delle quali è vestito, abbia filato i tessuti dei quali è ricoperto. Capisco: ci può essere qualche lavoro fatto così, da mani femminili, ma si tratta di qualche cosa di secondario. Nessuno di noi che siamo qui dentro va a seminare il grano per farsi il pane, nessuno di noi va a coltivare le uve dalle quali viene spremuto il vino. E così in tutto. Nessuno di noi è stato l’autore dei libri e degli altri strumenti di cultura coi quali si è fatto meno ignorante o addirittura sapiente. Abbiamo ricevuto da tutti. E questa legge dell’alteritas è tanto evidente, è talmente quotidiana, è talmente grande e universale, si afferma talmente in tutto, che non la vediamo più. Ecco, succede di questa legge quello che succede un po’ del cielo che, siccome l’abbiamo sopra la testa, è abituale, ai più non dice niente. E così questa legge, proprio perché è universale. Ma essa ricorda a noi che se nella vita nostra non facciamo posto agli altri, tanto quanto almeno ne facciamo a noi stessi, noi sbagliamo tutto. Ecco la prima legge sulla quale Nostro Signore Gesù Cristo dice chiaro che saremo giudicati. – Poi c’è l’altra legge che viene rivelata da queste parole, specialmente le ultime: « Quello che avete fatto a uno di questi piccoli, l’avete fatto a me ». E l’altra legge consiste nel carattere medio che rispetto a Dio assumono tutte le cose. Carattere medio che ha infinite e universali conseguenze. Osserviamo bene. Gesù Cristo cosa dice qui? Cerchiamo di tradurre in modo meno stringato e più accessibile alla nostra povera intelligenza. Gesù Cristo dice questo: guardate che per amare me, voi dovete amare gli altri. Il vostro amore per me non è autentico, anzi sostanzialmente finisce col non esistere, se voi non amate gli altri. Questo è quanto dice Gesù Cristo. E mentre dice questo, fa intendere un’altra cosa: che amando gli altri, noi possiamo ottenere per questa via quello che altrimenti non potremmo mai ottenere, perché a Dio noi non possiamo dare nulla. Invece arrivando all’amore di Dio amando gli altri, i nostri fratelli, è come se noi a Dio potessimo dare tutto: in effetti è la stessa cosa. Cioè a Dio bisogna arrivare attraverso gli altri. È qui che si ha la spiegazione vera delle parole di Gesù: « Il massimo comandamento è questo: ama Dio con tutta la tua anima, con tutta la tua mente, con tutte le tue forze; e il secondo è simile al primo: ama il tuo prossimo come te stesso ». È  qui che si capisce perché Egli abbia sempre insistentemente, sistematicamente unito i due oggetti dello stesso amore: Dio e il prossimo. Vi prego di riflettere: che cosa noi potremmo dare a Dio direttamente, che a lui serva? Nulla. perché Dio è perfetto, è infinito, non patisce d’aggiunte, non è passivo, e pertanto non riceve. Essendoci tra noi e Lui i fratelli, noi possiamo dare a Dio tutto, ed è veramente come se lo avessimo fatto; a Lui. Perché è come se l’avessimo veramente fatto a Lui? Perché sono sue creature e, possiamo aggiungere, sono suoi redenti, ricomprati, creati una seconda volta, sono suoi, Egli li ama. E allora quello che è fatto a loro, per il rapporto di creazione e di redenzione, è fatto a Lui. Succede anche in questo mondo: chi fa bene ai nostri amici, fa bene a noi; chi fa bene ai figli, fa bene ai genitori e viceversa. Ma questi rapporti, che hanno un carattere certo sostanziale ma in termini umani, tra gli uomini, e che danno un certo carattere almedio, questi rapporti sono infinitamente più grandi quando c’entra come termine Iddio. E allora qui la funzione del medio che hanno le creature rispetto a Lui, per noi è chiaro che viene enormemente innalzata e rafforzata. E così in tutto. Ma vedete come le ragioni si allungano e vanno all’infinito! È facile amare Iddio quando non ci sono le complicazioni di qualcheduno che sta in mezzo. Sarà, non dico facile ma necessario, quando lo vedremo, Dio, perché quando noi saremo con Dio un giorno nell’eternità, lo dovremo amare di necessità. Lo ameremo liberamente ma nello stesso tempo ne saremo necessitati, perché non si può non amare Iddio. Quaggiù lo si può dimenticare: di là non lo potremo dimenticare, perché non ci saranno le cose distraenti, e allora potremo veramente dare forza al nostro atto d’amore. Questa legge è costante: guardate com’è costante questa legge del medio e che spiega tante cose dell’essere e della vita, la obbedienza per esempio. Che carattere ha la obbedienza? Chi di noi si sentirebbe di disobbedire a Dio, se Dio venisse a comandare? Questo non ci passerebbe neppure per l’anticamera del cervello; non ci se ne affaccerebbe neppure la più lontana ipotesi. Ma quanto fosse esclusa la ipotesi del poter non obbedire, altrettanto diminuirebbe il merito. Il merito dell’obbedienza è questo: che si obbedisce a Dio mentre Dio non lo si vede, mentre dinanzi a noi abbiamo la faccia degli altri, bella o brutta, simpatica o antipatica che sia, meritevole o immeritevole che sia, ragguardevole o non ragguardevole che sia, non ha importanza; sta in questo: che noi obbediamo a messaggeri che non portano affatto sul volto il suggello divino perché, nella migliore delle ipotesi, sono uomini come noi. Oppure saranno leggi, ma le leggi sono emanazione degli uomini, saranno leggi scritte, regolamenti, non ha importanza. Se non ci fosse questo medio, a che cosa varrebbe la nostra obbedienza? – Quelli che pretendono di obbedire soltanto agli ordini di Dio, non hanno capito nulla. Dio ha messo tutte queste cose in mezzo come si aumenta l’avvolgibile per aumentare la resistenza, per moltiplicare la capacità delle nostre azioni. Lo capite che cosa ci sta a fare il medio, legge fondamentale della vita? Vedete come ritorna a proposito del giudizio, sia particolare che universale. Rispettare Iddio: già! Bel merito trovarsi al cospetto dell’Eterno e fargli una riverenza. Ma bisogna rispettare tutto in questo mondo per rispettare Iddio. È la legge del medio cui honor = amor. Voi vedete che c ‘è un certo vento, che spira dal deserto, vento inaridente, che pare voglia bruciare autorità, distinzioni, superiorità, tutto! Voi capite che è contro Dio questo vento, perché distrugge il medio. Bella pretesa: ci sono io e poi c’è Iddio. No! Per te Iddio non c’è, se non c’è quello che sta in mezzo. Ce l’ha messo Iddio. Voi capite la ragione per cui la Chiesa ha sempre condannato sistematicamente tutti questi movimenti misticoidi. Siamo in Assisi e ad Assisi si può ricordare la prima origine della storia di coloro che diventarono poi i Fraticelli, che finirono col fare alleanza anche col diavolo, non solo con l’Imperatore contro il Papa, con Filippo il Bello contro il Papa, ma perfino col diavolo. E oggi ci sono dei movimenti risorgenti. Mettiamoci subito in rapporto con Dio, dicono i Pentecostali, come se avessero il filo diretto. No! È la legge del medio, che è affermata da Gesù Cristo. Qui Egli lo dice per il giudizio. Egli accetta, ma quello che è andato sul medio. È per questo che Gesù Cristo ha messo la Chiesa tra noi e Lui. Molti non la vogliono, ma è legge di tutto. O si passa di là, o non si arriva a Lui. Ecco la radice per cui la Chiesa est societas necessaria. – Comodo, vero, aver da fare soltanto col Perfettissimo, con l’Eterno, con l’Infinito, che non ha nessun lineamento di antipatia sulla faccia, perché è il principio della Verità, è il principio del Bene, è il principio della Bellezza, come è il principio dell’Essere e di ogni distinzione. È comodo. No, appunto perché è comodo, vale poco, appunto perché sarebbe facilissimo, appunto perché priverebbe noi, poveri uomini, del valore di essere qualche cosa, appunto perché non ci sarebbe più il merito. La legge del medio la vedete riflessa nel giudizio universale? Non stiamo a badare a questo vento che spira dal deserto, vento che brucia, che fa disseccare tutta la vegetazione, vento che non dà alcun respiro alle erbe, alle piante, agli alberi, che liscia anche le pietre e le lascia, esse sole, così aride, bruciate, brucianti, abbaglianti, e fa il deserto. Stiamoci attenti! C’è la legge del medio. Bisogna accettarla, perché così vuole Iddio. E’ facile — e qui s’introduce il discorso alla fede e alla fede nell’Eucaristia — è facile aderire a Dio quando lo si vede. Ma la grandezza sta nell’aderire a Lui quando non lo si vede, ossia quando c’è il medio. La vedete la legge del medio che entra a dare la ragione della fede. Sarebbe facile tendere le mani verso di Lui quando — lasciatemi parlare antropomorficamente — lo si potesse palpare. Dio non è materia, non si palperà mai con le mani, ma per esprimerci diciamo così. Invece è grande quando si aderisce a Lui e non lo si può palpare. È il medio quello che aumenta tutto. Il medio è come l’esponente nei numeri, è quello che alza di potenza. Questa è la legge che ci viene rivelata. È quella che ci spiega perché dobbiamo essere umili coi nostri fratelli. Tutti capiscono che bisogna essere umili con Dio. Siamo fatti in modo tale che se qualcheduno fa paura, ci precipitiamo tutti nella polvere o quasi tutti; immaginatevi che cosa costerebbe essere umili davanti a Dio! Se c’è qualche manifestazione esterna, piccolissima dinanzi all’Eterno, grandissima per noi — come quella che ebbe il popolo d’Israele quando Dio promulgò la legge sul monte Sinai, che si pigliarono una tale paura da dire: « Per carità, Signore, non manifestarti mai più, altrimenti moriamo tutti » — è facile essere umili con Dio quando si è direttamente con Lui. Ma lo capite che l’umiltà acquista concretezza e valore quando è dinanzi agli altri? Dinanzi a coloro che non la meritano, questo è il bello! Allora si capisce perché si debbano amare coloro che non lo meritano, non soltanto coloro che lo meritano. Gesù un giorno l’ha detto chiaro e tondo: « Se salutate soltanto quelli che vi salutano, che cosa fate di diverso dai pagani? ». Allora si capisce perché a nessuno di coloro ai quali dobbiamo umiltà, rispetto, obbedienza, noi dobbiamo chiedere il loro valore, perché non è per il loro valore che noi facciamo questo. È perché essi sono un medio tra noi e Dio. Ed ecco come tutta la vita si dispiega con chiarezza. La legge del medio guardate come ci riporta all’Eucaristia! Perché ci spiega come mai, rimanendo Gesù qui in Corpo Sangue Anima e Divinità, noi non lo possiamo vedere con gli occhi. È per fortuna nostra che non lo possiamo vedere con gli occhi. Intanto se vedessimo qualche cosa con gli occhi, moriremmo subito. E sarebbe finita col rimanente ogni possibilità di merito, perché noi siamo adeguati a quest’ordine, per cui anche nel campo puramente materiale, tridimensionale, non siamo in grado di sopportare nulla che lo ecceda. Si rimarrebbe immediatamente schiacciati sotto. Tutti i fenomeni della mistica, fenomeni autentici e reali, non dei matti o degli isterici, parlo della mistica vera, stanno a dare la dimostrazione, che del resto non è neanche necessaria perché troppo ovvia la ragione, che se qualche cosa supera, schiaccia. Allora noi proprio qui, mentre stiamo discorrendo del giudizio di Dio e ci si rivela in questo giudizio di Dio la legge del medio, comprendiamo perché ci sono i veli eucaristici. Sono un atto d’amore anch’essi per noi. Quando Gesù fu in terra vestì sé stesso con l’umanità e un’umanità come la nostra, assunse i cosiddetti difetti comuni dell’umanità, cioè quelli della natura, quelli legati al divenire biologico, al metabolismo, quelli legati alla situazione strutturale della psiche umana, e di questi evitò soltanto quello che era antecedente o conseguente al peccato, nient’altro. Egli vestì sé stesso di tutta questa realtà, che era la realtà della terra, la realtà della storia, la realtà della psicologia comune, e pertanto poté passare, per molti, come un uomo assolutamente comune, persino come un nemico. E per altri poté passare come Colui che, a tratti, rivelava qualche cosa dallo sguardo, dall’atteggiamento, dal comportamento, dalla vibrazione della voce. Quella volta in cui Gesù Cristo lasciò trasparire qualche cosa di più, e fu sul Monte Tabor, quei tre che erano con Lui non andarono lungi dal perdere anche l’uso della ragione. Capite la legge del medio che vien fuori, e come questa legge serva a riflettere una luce sull’Eucaristia? Però ritorniamo al punto da cui siamo partiti. E per il momento finiamo la nostra meditazione. Voi, amando loro, avete amato me. La ragione finalistica della carità è amare Dio in Cristo, perché Dio lo troviamo in Cristo. Voi vedete che qui non c’è posto per un amore cerebrale del genere umano, com’è quello proclamato dagli umanitaristi. Basta arrivare alla corruzione della tomba per capire che scappa tutta la poesia per amare gli uomini per sé soli, se non c’è una ragione che sta al di là degli uomini. Basta arrivare alla costatazione di un atto d’egoismo da parte degli altri perché, ancora una volta, scappi tutta la poesia per amare gli uomini. Difatti, se non è per il motivo divino, non si resiste ad amare nessuno. Sì, gli impulsi del sangue. Certo. Ma gli impulsi del sangue mandano spesso una buona parte dei genitori al ricovero. Eccovelo, l’impulso del sangue. No. È Lui il motivo, Gesù Cristo. Guardate bene quali sono i motivi dominanti di tutte le cose. Noi li vediamo nel criterio che ci è stato rivelato per il giudizio di Dio.

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